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Title: Storia degli Italiani, vol. 7 (di 15)
Author: Cantù, Cesare
Language: Italian
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*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 7 (di 15)" ***
(DI 15) ***


                                 STORIA
                             DEGLI ITALIANI


                                  PER
                              CESARE CANTÙ


                           EDIZIONE POPOLARE
         RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI

                               TOMO VII.



                                 TORINO
                      UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
                                  1876



LIBRO NONO



CAPITOLO XCIV.

L’Italia dopo caduti gli Hohenstaufen. I Feudatarj. Torriani e Visconti.


Abbiamo dunque veduta l’Italia andare spartita a misura delle labarde
vincitrici, fra’ capi de’ varj eserciti longobardi, franchi, tedeschi,
normanni, in quella feudalità che all’accentramento soverchio delle
società antiche surrogava un soverchio sminuzzamento, sicchè, mancata
ogni idea di nazione o di Stato, quella soltanto sopraviveva d’un
signore e d’una terra. A fianco di questa società, tutta di nobili
possessori, viene alzandosene un’altra cittadina, di artigiani, di
liberi uomini, di studiosi, e progredisce tanto da costituirsi in un
Comune, che o si associa con quello dei nobili, o gli fa contrappeso.
Ne rimaneva ancora escluso il basso popolo, e questo pure cominciò a
sentire di sè; e quantunque non avesse importanza propria, l’acquistava
coll’accostarsi ai nobili od ai Comuni, e così darvi prevalenza.

Di unità, di patria estesa non s’aveva concetto, e dire Italiani
era poco diverso dal dire oggi Europei, non avendo nè origine nè
ordinamenti comuni: le loro guerre erano funeste, non fratricide più
che quelle del Francese contro il Tedesco: la libertà rimaneva un
privilegio, giacchè se la città era de’ cittadini, l’Italia era dello
straniero, e si direbbe che i nostri preferissero essere liberi con
apparenze di servitù, che liberi di nome e servi di fatto.

Il titolo d’imperatore de’ Romani fece accettare la supremazia de’
re forestieri: ma questi, non paghi di quell’augusta sovranità sui
tanti signori scomunati, nè del patronato sui Comuni reggentisi a
popolo, aspirarono a un dominio diretto ed efficiente, quale negli
ultimi Romani. Alla pretensione posero argine i Comuni, e le due
Leghe Lombarde chiarirono come i deboli coll’unione possano resistere
ai prepotenti. La prima riuscì ad assodare repubbliche; la seconda
invece spianò il calle alle tirannidi. Dalla pace di Costanza si era
ottenuta una libertà sparpagliata, varia da città a città; ora queste
vanno raccogliendosi in grossi Stati, sovente sottomessi a un capo: da
quella pace la sovranità imperiale restava consolidata a fianco della
libertà; ora la si trasforma in tutt’altra guisa da quella che era
stata concepita al tempo di Carlo Magno e nel grande concetto della
repubblica cristiana.

Imperciocchè l’Impero altercando coi papi avea smarrita la sua impronta
di santità; altercando coi popoli cessò di sembrar tutore della libertà
de’ nuovi cittadini romani; ostinandosi nel conquistare l’Italia, non
potè raccogliere la Germania in robusta unità, ma lasciolla ridursi
ad un regno simile agli altri, ove da un lato i capi s’industriavano
a render retaggio di famiglia una dignità che per essenza era elettiva
e destinata ai migliori, dall’altro i principotti se ne disputavano i
brani, in una dipendenza sempre scemante, in una confederazione sempre
meno determinata. Discussa poi la dignità del capo durante il Grande
Interregno, rivalse in ogni dove il diritto del pugno, e la guerra di
tutti contro tutti ammaccò il glorioso scettro di Carlo Magno, e finì
coll’assicurare a un migliajo di baroni la sovranità territoriale, cioè
che ciascuno fosse indipendente con mero e misto imperio nel proprio
possesso, per quanto angusto.

Ingelositi delle eroiche famiglie che aveano dato una serie di grandi
imperatori, i Tedeschi andarono a cercarne uno nei cinquanta conti
tra cui si era spartita l’Elvezia. Un Rodolfo, conte di Habsburg
nell’Argovia, aveva menato in Italia una banda d’uomini di Uri, Schwitz
e Unterwald, coi quali mettevasi a stipendio di chi bisognasse di
braccia: servì Federico II (1240) all’assedio di Faenza, poi accettò
soldo da’ Fiorentini: chiuso in Bologna, tolse a prestito alquante lire
per tornare in patria, lasciando statichi dodici Tedeschi, studenti
su quella università[1]. Scomunicato per aver arso un monastero di
Basilea, ne fece ammenda, e trovando una volta un curato che, portando
il santo viatico, dovea guadar un torrente, gli cedette la propria
montura, nè più volle restituisse il cavallo che avea sostenuto il
Signore del mondo. L’arcivescovo di Magonza viaggiando a Roma, si
fece da lui scortare per le vie mal sicure: e quando si trattava di
eleggere un imperatore (1273), si risovvenne di Rodolfo e lo propose: —
È signore di poco Stato, perciò non potrà soperchiare; è vedovo e con
molta figliolanza, perciò gli elettori potranno seco imparentarsi».
Ebbe in fatto i voti; alla coronazione mancando lo scettro, egli
impugnò una croce, e — Ben ne terrà vece questo segno che salvò il
mondo».

Conosceva il suo tempo costui. Professandosi affatto tedesco, in altra
lingua non volea parlare, nè in altra dettar le leggi; rattoppava
egli stesso la propria casacca; mangiava rape nel campo; e tal fama
godea di onestà, che lo chiamavano la legge vivente. Ben presto diede
a conoscere di voler rispettata la corona. Vinto il suo competitore
Ottocaro II re di Boemia, che avea occupato pure i paesi tra il Danubio
e l’Italia, del ducato d’Austria a lui tolto investì il proprio
figliuolo Alberto (1282), mettendo le basi alla grandezza di sua
famiglia, alla quale trovò modo d’infeudar la Carintia, la marca dei
Vendi e Pordenone, cioè una delle porte d’Italia.

Rodolfo non riceveva un’avita tradizione di risse e puntigli coi papi,
nè, come gli Ottoni e i Federichi, smaniava per la civiltà romana
risorgente in Italia; vedea di dover assicurare il primato in Germania,
anzichè pericolosamente disputarlo in questa Italia, ch’egli paragonava
alla caverna del leone infermo, dove la volpe vedeva tutte le pedate
dirette in dentro, nessuna di ritorno. Non pensò dunque mai a venire
per la corona, pago d’intitolarsi re dei Romani, e confermò ai papi
quanto pretendeano (t. VI, p. 505), i quali così furono assodati nel
temporale dominio, ed ebbero resa l’Italia indipendente dai Tedeschi,
ponendovi anche un robusto contrappeso nella dominazione meridionale
degli Angioini. Per sessant’anni i paesi della Lega Lombarda non
sentirono calcagno d’imperatori, che, cessato d’essere conquistatori,
e perdendo l’influenza esterna perchè in paese mancavano di quiete,
negligevano il _giardin dell’Impero_, come Dante se ne lagnava[2];
nè fino ai miseri tempi di Carlo V non pensarono mai seriamente a far
conquiste di qua dai monti. Rodolfo, poco geloso di diritti nominali
in paese forestiero, vendeva privilegi e libertà a qualunque città
avesse denaro da comperarli; a Lucca per dodicimila scudi; per metà
tanti a Genova, Bologna, Firenze: bella opportunità di legalizzare e
consolidare le libere costituzioni.

Queste erano nate, non dirò dal fondersi, ma dallo accostarsi degli
elementi indigeni con quelli della conquista, e sviluppate col
sottrarre la giurisdizione dai conti e dai vescovi, poi difenderla
contro delle armi tedesche e delle indigene ambizioni. Costretti a
trionfare d’un potere guerresco, por freno ad un’autorità illimitata,
restringere le immunità del clero e i privilegi dei nobili, sbalzare
antiche famiglie dai possessi o dai dominj, emancipare gli schiavi,
costruire l’edifizio nuovo con rovine impastate di sangue, i Comuni
doveano di necessità passare per le tempeste, che sgomentano le anime
paurose, ma che offrono nobile spettacolo a chi nella storia ama vedere
gli uomini in contingenze che agitano il loro spirito, esaltano le loro
passioni.

Chi scorresse il bel paese, lo trovava diviso in una infinità di Comuni
erettisi in repubblica, e frammezzati da signorie militari. Quasi
guardiano, il conte di Savoja teneva i due pendii dell’alpi Cozie e
Graje, al meridionale de’ quali si appoggiavano i marchesi di Saluzzo e
del Monferrato. Piemonte si diceva propriamente il paese fra le Alpi,
il Sangone e il Po, cui terra principale Pinerolo. Sulla sinistra del
Po Torino, già suddita de’ proprj vescovi, che nel 1169 ebbero dal
Barbarossa l’immunità pel circuito d’un miglio[3], era superata ancora
per traffici e attività da Chieri, per potenza da Ivrea ed Asti[4].
Vercelli dominava la destra della Sesia[5]; tra il qual fiume, il
Ticino e l’Alpi che chinano al lago Maggiore prosperava il Novarese.

Nelle pingui pianure fra il Ticino, l’Adda e il lago Maggiore, Milano
primeggiava tra altre città minori eppure indipendenti, quali Como
che dominava la maggior parte del suo lago e di quel di Lugano, e
addentrava nelle valli di Chiavenna fino alla Spluga, della Leventina
fin al Sangotardo, della Valtellina fin allo Stelvio; Lodi, rinnovatasi
in riva all’Adda inferiore; Crema sul basso Serio; Pavia che dal Ticino
si allargava oltre il Po, fra i dominj di Vercelli, Novara, Tortona
e il Monferrato; Bergamo, donna delle romantiche valli da cui colano
l’Imagna, l’Oglio, il Serio, il Brembo; Brescia, estesa dall’Oglio fin
ad Asola e al lago di Garda, in pericoloso contatto colla ghibellina
Cremona, che estendevasi da Cassano a Guastalla, da Mozzànica a
Bòzzolo, sull’isola Fulcheria, sullo Stato Pelavicino fra Parma e
Piacenza, possedendo trecento ville e parrocchie.

Di là del Po, Alessandria, al confluente della Bormida e del Tànaro,
rammentava sempre le proprie origini; sulla Scrivia fioriva Tortona;
sulle due rive del Mincio e del Po da Asola fin alla Mirandola sanavasi
per via di argini e di colmate il territorio di Mantova, allora più
bella che forte. Verona fu sempre tenuta in gran conto dai dominatori
forestieri, perchè signoriando dal territorio di Roveredo fin nel
Polesine di Rovigo, schiudeva i passi dalle gole Trentine fino alla
pianura circumpadana. Allo sbocco delle valli Alpine e tra l’Adige,
il Piave, il Tagliamento[6] cresceano Bassano, Treviso, Vicenza,
Padova: a Udine il patriarca, signore del Friuli e dell’Istria, colla
sua potenza, non seconda che al papa, aveva impedito si formassero i
Comuni, stabilendo invece una feudalità ecclesiastica con parlamento,
cioè riunendo le forze sociali che altrove restavano spicciolate.

L’antica Gallia Cispadana, fra il Po, gli Appennini, la Trebbia e il
Reno, era divisa tra Piacenza sulla Trebbia, Parma, Reggio, Modena
che si spingeva fin presso al piccol Reno. A Ferrara si aggregava
gran parte de’ paesi abbracciati dai varj rami pei quali il gran
fiume pigramente scende all’Adriatico. Tante città, e l’una accosto
all’altra! eppure all’aura della legale e consentita libertà seppero
compiere imprese, cui appena basterebbero estesi principati.

Dappertutto, ma singolarmente ne’ territorj montuosi, eransi conservati
o sorti castellani, signori assoluti ciascuno nella propria terra, e
amici, nemici, alleati fra loro o colle città vicine come con Stati
indipendenti. A piè dell’alpi Cozie prepoteano i Saluzzo, i Masino,
i Balbo in mezzo alle repubbliche d’Asti e di Chieri, e una serie di
castellotti annidava i signori della val d’Aosta. Nelle Retiche, a
Trento sedeva un duca longobardo, che dominava a settentrione fin a
Mezzolombardo, segnando il confine germanico Mezzotedesco che gli sta
a fronte; a mezzogiorno abbracciava la val Lagarina, ma val Sugana
restava annessa al distretto di Feltre. Sotto i Carolingi or formò
contado distinto, or parve unito a Verona: ma gl’imperatori alemanni
procurarono toglierlo all’Italia, investendone i vescovi, e unendone
così le sorti a quelle di Bolzano, sede d’un _graf_ tedesco. I vescovi
ebbero dipendenti ma spesso contumaci i conti del castello Tirolo,
che poi diede nome a tutto il paese: e dopo che Federico II mandò a
tiranneggiar Trento il podestà Lazzaro da Lucca e l’odiato Rodegerio
da Tito, il vescovo Engone sollevò le giudicarie, e lunga guerra ne
seguì tra i guelfi di Lizzana, Madruzzo, Vigolo, Brenta, e i ghibellini
d’Arco, Pergine, Campo, Levico: Trento era sbranata fra i partiti,
e ne ingrandirono i conti di Tirolo, imparentati cogli Svevi e cogli
Absburghesi, i quali infine ne divennero signori[7].

Essi conti, che dominarono la Rezia e la val Venosta, capitanavano
i piccoli dinasti della val d’Adige contro i conti d’Eppan; ai quali
poi prevalsero i conti di Gorizia, che molti secoli padroneggiarono le
valli dell’Inn e dell’Eisack e il Tirolo settentrionale. Gli Andecks
di Merano, segnalati nelle crociate e nelle guerre degli imperatori in
Italia, fondarono Innspruck, furono duchi di Croazia e di Dalmazia, e
terminarono nel 1248. I Castelbarco, che pretendeano derivare dai re di
Boemia, tennero colla Lega Lombarda contro i vescovi di Trento, finchè
questi si pacificarono con Verona, e investirono a quella famiglia
Castel Pratalia e Castel Barco; la quale poi, parteggiando or cogli
oltramontani ora coi Milanesi e i Veneti, crebbe a insigne grandezza.

Gli emulavano i conti d’Arco, che vantavansi stirpe di re Desiderio,
e che possedettero Penede, Drena, Restoro, Spineto, Castellino, quasi
a riva del lago di Garda. Vassalli del principe vescovo di Trento, da
Federico II ebbero il mero e misto imperio; privilegio anteriore ad
ogn’altro di famiglie tirolesi, non esclusa la absburgese. Eppure si
avversarono all’imperatore, e come il resto del Tirolo italiano ebbero
a soffrire dall’invasione di Ezelino: più tardi contesero coi signori
di Madruzzo e coi Sejani di Lodrone pei possessi delle giudicarie
interiori e di gran parte delle esteriori. Anche i signori di Lodrone
riportano fin al XII secolo i dominj che li posero tra i grandi
feudatarj del vescovado di Trento sin al perire de’ governi dinastici.

Al varco delle alpi Carniche i Porcia, i Brugnera, i signori di Prata,
di Valvassone, di Spilimbergo divideansi col patriarca d’Aquileja
il dominio del Friuli. Fra i deliziosi laghi di Como e di Lugano i
Rusca estesero talvolta il dominio fin oltre il Montecenere ed alla
robusta Bellinzona, dove incontravano i signori di Sax, padroni della
retica valle Mesolcina. La consorteria dei Visconti, suddivisa in più
rami, muniva di rôcche le due sponde del lago Maggiore. I Venosta, i
Lavizzari, gli Avvocati, i Capitanei, i Quadrio di Valtellina erano
spesso alle prese coi Lambertenghi, i Vitani, i Castelli, i Malagrida
del Lario, e coi Torriani della Valsàssina, e coi Càrcano, i Vimercati,
i Mandelli, i Pirovano, i Giussani, i Perego, i Parravicini, i Sirtori,
gli Annoni, i Sacchi, i Riboldi, ed altri capitanei della Brianza.
Nelle deliziose pendici vergenti al lago d’Iseo primeggiavano i Calepj,
i Suardi, i Calini, i Martinengo, i Fenaroli: nel Pavese i Langoschi,
i Gambarana, i Lomellini, i Beccaria: nel Lodigiano i Vignati, i
Vestarini, gli Averganghi, i Sommariva: sul Milanese gli Airoldi, i
Medici, i Crivelli, i Meiosi, i Pusterla, i Bianchi, i D’Adda, i Litta,
gli Oldradi, gli Arconati, i Bossi, i Castiglioni ed altri signori
delle castellanze varesine: in quel di Parma i Rossi verso l’Appennino;
in quel di Piacenza i Pelavicini, i Landi, gli Anguissola, gli Scotti;
sul Reggiano i Correggio, i Pico, i Fogliani, i Carpineti; sul Modenese
i Montecuccoli; sul Mantovano i Bonacolsa e i Gonzaga; nel Cremonese i
Pelavicini, i Barbò e i Secchi, che s’imparentarono fin cogl’imperiali
Comneno; nel Padovano gli Estensi e i Carrara; nel Vicentino e nella
Marca Trevisana i Collalto, i Camino, i da Romano, i Camposampiero; nel
Veronese i Montecchi, gli Scaligeri, i Sanbonifazio.

Ai due corni di questa che chiameremmo Italia continentale,
sviluppavano una libertà d’origine più antica e differente Genova e
Venezia. Questa saviamente non erasi ancora dilatata sul continente
italiano; e attenta al mare, oltre le estesissime colonie di Levante,
aveva sottomesse Capodistria, Pola e le altre città di quella costa, e
in Dalmazia Salona, Sebenico, Spàlatro, Narenta, finchè gli Ungheresi
non gliele tolsero, eccetto Zara: e semicerchiava l’Adriatico, fin
a pretenderne il dominio esclusivo. Genova teneva alta signoria
sulla riviera a levante e a ponente del suo golfo, e su porzione
della Corsica e della Sardegna: ma sulla costa e fra le balze della
Liguria avevano conservato giurisdizioni feudali i Doria, gli Spínola,
i Fieschi, i Grimaldi, gli Usodimare, i Zaccarìa; i marchesi del
Carretto o del Finale prestavano omaggio all’Impero. Di là procedendo
sulla riviera di Levante negli Appennini occorrevano le signorie dei
Malaspina, poi fra le montagne lucchesi i Porcari, nella Versilia
i nobili di Corvaja e Valecchia, nel Pisano i Segalari e quei della
Gherardesca.

Lucca sulle due rive del Serchio e della Lima contendeva da libera
con Pisa, la quale dominava il litorale toscano, le vicine isole
Montecristo e Gorgona, fin dal VI secolo popolate da monaci Basiliani
venuti d’Oriente, e quelle di Giglio, Elba, Pianosa e porzione della
Sardegna; e cencinquantamila abitanti potea mantenere col prospero
commercio. Ma a scapito di essa cresceva Firenze, il cui dominio
si stendeva dalle alture che separano l’Elsa dall’Era affluenti
dell’Arno, sin alla pendice degli Appennini in Romagna, e dalla valle
superiore del Reno sin a mezzogiorno di Colle. Da colle a Montepulciano
signoreggiava Siena, e fra le tre era chiuso il territorio di
Volterra; paesi che, non ancora diffamati dalla mal’aria, fiorivano di
agricoltura, di popoli, di castelli. E Siena e Arezzo a greco di essa,
e Pistoja a maestro di Firenze, vedremo poc’a poco da questa ridursi
alleate, poi suddite; infine Pisa stessa.

Molti castellani aveva accomunati Firenze; pure gli Uberti e i Pazzi
fra le gibbosità del Valdarno superiore «non cessarono di fare contro
al Comune di Firenze» (COPPO STEFANI); gli Ubaldini dominavano il
Mugello; ad occidente i Certaldi e i Capraja; nel Sienese gli Ardenghi
a ponente, gli Scalenghi a levante, i Giulieschi a settentrione;
negli Appennini fra la Toscana e Bologna gli Ubaldini, gli Ubertini,
i Tarlati; i Cadolinghi a Fucecchio, nella Maremma i Pannochieschi,
in val di Cornia gli Orlandi, in val di Fiora gli Aldobrandeschi.
I moltissimi rami de’ conti Guido conservavano possessi in tutte
le contrade di Toscana, ma specialmente nelle montagne di Pistoja
e d’Arezzo, e i castelli d’Elci, di Gavornano, di Monterotondo ed
altri nella maremma; altri a Spoleto e nella Romagna: sicchè questi
e i tanti castellani fra cui era spicciolata la Garfagnana, tenevano
circonvallate le repubbliche toscane; ma discosti dalle città, non
pensavano o non riuscivano a formarvi partiti e ottenere preponderanza
(Cap. XCV).

La Chiesa principava sulla Romagna, sulle marche d’Ancona e Spoleto,
l’Etruria meridionale, la Sabina, il Lazio fin a Terracina e Fondi.
Incontaminate le più da dominazione di Barbari, quelle regioni aveano
molto conservato degli antichi ordini municipali, di maniera che
ogni villaggio pretendeva l’autocrazia. Le città di diretto dominio
pontifizio eleggevano i proprj magistrati, che esercitavano la
giurisdizione civile e la criminale, quando fossero approvati dal papa
e gli avessero giurato fedeltà; il qual giuramento prestavasi pure
dai cittadini ogni dieci anni. Al papa rendevansi i consueti servizj
feudali dai vassalli e le regalie; e ogni Comune gli tributava a
proporzione delle teste, eccettuandone gli ecclesiastici, i militi,
i giudici, gli avvocati, i notaj, e quelli che non avessero alcuna
proprietà tassabile. Sotto Innocenzo III questa imposta gravava di
nove denari ogni fumante; ma spesso i Comuni la traduceano in una
contribuzione fissa[8]. Il conte di Romagna era nominato dal papa, e
dipendente dal legato; ma ciò non impediva che vi crescessero i Comuni.

Però molti signori, sciorinando bandiera imperiale, si erano sottratti
alla santa Sede, e fatti tiranni delle città; altri derivavano
dall’indigena nobiltà romana o ravennate, o dalle capitanerie
forestiere, o da parentela coi papi. Così tiranneggiavano a Bologna i
Pèpoli e i Bentivoglio, a Ravenna e Cervia i Polenta, a Rimini e Cesena
i Malatesta, a Fermo i Migliorati, ad Urbino i Montefeltro, a Camerino
i Varano, ad Imola i Manfredi e gli Alidosi, a Foligno i Trinci, a
Forlì gli Ordelaffi.

Sebbene dunque, per la cessione di Rodolfo imperatore, i diritti
maestatici cessassero d’esservi divisi fra i papi e gl’imperatori o i
loro vicarj e conti, pure la pontifizia riducevasi a poco meglio di una
primazia di dignità, la quale di poco restringeva sia le repubbliche
sia le signorie comprese in quel tratto; e continuavano a condursi
come indipendenti, talvolta anche nemiche alla santa Sede, senza legame
tra loro, nè differendo dall’altre d’Italia se non pel partecipare che
faceano alle vicende della Chiesa.

Alcune famiglie tenevansi ritte in faccia al papa, come i Colonna
ad occidente di Preneste, gli Orsini tra le montagne a mattina del
Teverone, i Savelli nell’antico Lazio verso Monte Albano, i Frangipani
dalla parte di Anzio a settentrione delle paludi Pontine, i Farnesi
ad occidente del lago di Bolsena, gli Aldobrandini a scirocco della
Toscana. Che più? in Roma stessa il Governo e il suo capo trovavansi
aggirati e sovversi dalle prevalenti famiglie dei Colonna, Orsini,
Savelli; e il trionfare de’ Guelfi o dei Ghibellini nel resto d’Italia
aumentava o diminuiva la potenza dei papi, costretti sovente a cercarsi
appoggio coll’eleggere a senatori i re che venissero in Italia, od
altri caporioni; amici pericolosi. E quantunque Innocenzo III avesse
tratta al pontefice la conferma del senatore, e Nicola III stanziasse
non poter quello essere uno straniero o un potente, nè sedere oltre
un anno, pure dovettero spesso ritirarsi fuori di Roma, e massime a
Viterbo od Orvieto.

Fra l’altre repubbliche segnalavasi Bologna, ricca e ingloriata dal suo
studio. Ivi i consoli de’ mercanti sin da principio aveano entrata nel
grande e nel piccolo consiglio; poi le arti e i mestieri v’ottennero
rappresentanza nel 1228, quando pretesero, non solo esser partecipi al
governo, ma indipendenti, e che dei loro interessi decidessero capi
proprj, escludendo gli altri membri del consiglio. I macellaj a viva
forza fecero passare questo partito; onde la repubblica si compose di
due stati, il Comune e le arti, con suggello e assemblee distinte.
Il podestà della prima e il capitano delle altre venivano perciò a
continui conflitti, sinchè le arti prevalse istituirono un gonfaloniere
di giustizia che durava un mese, e doveva eleggersi per turno da
ciascun’arte, con due aggiunti dei mestieri ed uno del Comune, cioè
della nobiltà.

Bologna avea ridotte a sua giurisdizione Imola, Cervia, Faenza,
Forlì, Forlimpopoli, Bagnacavallo, mandando i suoi podestà alla più
parte della Romagna; disputava a Modena i castelli del Frignano, e
dal podestà facea giurare di recuperare il territorio fino al Panàro,
concessole (asseriva) dall’imperatore Teodosio II.

Quant’è da Ascoli sul Tronto e da Terracina sul golfo di Gaeta
fin all’estremità d’Italia formava il regno di Napoli, eccettuato
Benevento, che alla venuta degli Angioini era tornato ai papi. Le
provincie in cui era diviso, derivavano dai gastaldiati e contadi
introdotti da Longobardi, detti poi _giustizierati_ dai Normanni, sotto
dei quali pare cominciassero anche le nuove denominazioni di Terra di
Lavoro, che è quella fra il Silaro, il Garigliano, l’Appennino e il
mar Tirreno; di Principato citra e ultra, detto così da che il duca
di Benevento prese il titolo di principe sull’antico Piceno di qua e
sul Sannio di là dell’Appennino; di Basilicata, nome di greca origine,
come la Capitanata dai Catapan; di Calabria citra e ultra, al paese
che dall’Appennino scende al mar Jonio presso Strómboli, e al Tirreno
presso al golfo Ipponiate; di Terra di Bari, già Puglia Peucezia; e
d’Otranto, già Japigia, all’estremità d’una delle code dell’Appennino;
di contado di Molise; dei due Abruzzi, di qua e di là del fiume
Pescàra.

La feudalità, seminatavi dai Normanni, radicata dagli Svevi, non si
spense sotto gli Angioini, e i baroni ebbero sempre grand’entratura
nel reggimento del paese. Principali erano i Sanseverino, che tenevano
la miglior parte della Basilicata, Amalfi col ducato suo, le contee di
Sanseverino e di Marsico nel Principato, di Bassignano in Calabria, di
Matera nella provincia di Taranto; i Pipino, che dominavano su largo
tratto della Capitanata e sul montuoso del principato di Bari; i Balzi
nelle regioni occidentali del principato di Taranto, e nelle orientali
della Basilicata; i Ruffo sulla falda a greco del Bruzio; i Cantelmi
sul piovente occidentale dell’Appennino dal lago Fúcino a Venafro.
Negli Abruzzi i contadi di Tagliacozzo e Manupella erano investiti agli
Orsini di Roma, conti anche di Nola, principi di Salerno, e che poi
successero ai Sanseverino, ai Ruffo, ai Balzi; sulla costa gli Aquaviva
tenevano il contado d’Atria, gli Avalos il marchesato di Pescara;
nell’interno i Gambalesa comandavano alla contea di Montorio, i Savelli
a quella di Celano: in Terra di Lavoro i Gaetani al contado di Fondi,
i Marsano al ducato di Sessa: nel Principato i Tôcco al contado di
Marino, i Sanframondo a quel di Cerreto, i Sovrano a quel d’Aviano: in
Calabria gli Origlia a quel di Nicastro, i Caraccioli a quel di Gerace,
e così via.

Altrettante suddivisioni si novererebbero nei tre valli di Sicilia:
ma sembra che la popolazione ivi stesse ristretta in grosse città e
borgate, giacchè, mentre la sola Capitanata contava cencinquanta paesi,
altrettanti appena ne sono attribuiti all’intera isola in un diploma
del 1276[9].

Nelle repubbliche ai feudi era stata tolta la politica importanza,
restringendoli ad una forma privilegiata di possesso: ma nel Piemonte
e nelle Sicilie conservarono il mero e misto imperio, e lo attestavano
colle forche erette davanti ai castelli, nell’elevatezza delle quali si
pose tale emulazione che la legge dovette moderarla.

Il titolo di marchese non ebbe fra noi significazione dinastica come in
Germania, ma indicò nobili aventi diritti di conte sopra dominj proprj,
a differenza dei conti ch’erano funzionarj del re o dei vescovi. Di
marchese e conte di Milano è dato il titolo ad Azzo d’Este nel 1097;
e Federico I lo rinnovò ad Obizzo suo nipote il 1184, aggiungendovi
la marca di Genova[10]: il che (essendo già libere quelle città)
equivaleva a costituirnelo vicario per sostenervi i diritti imperiali.
Obizzo stesso era vassallo del vescovo di Genova; vassallo d’essa città
era suo figlio Moruello; e confederati coi signori di Lunigiana, coi
conti di Lavagna, con altri.

Principali avversarj agli Estensi erano gli Ezelini, de’ quali vedemmo
le origini, e come si facessero primarj rinfianchi alla dominazione
di Federico II (t. VI, p. 440). Col titolo di vicario di questo,
Ezelino IV consideravasi signore indipendente nel Padovano, Trevisano e
Bassanese; strozzava ogni voce che s’elevasse contro al suo sanguinario
dominio; facea colpe di morte non solo l’antichità della stirpe,
l’opulenza, il valore, la chierica, ma persino la pietà e la bellezza,
e tutto ciò che rendesse un uomo riverito e perciò temuto. Entro
orribili carceri a Padova lasciava morire e imputridire i suoi nemici,
o ne li traeva perchè, a schiere mandati al capestro, insegnassero ad
obbedire.

Uscite vane le ripetute ammonizioni, il pontefice Alessandro IV
intimò una crociata (1256) in nome di Dio contro questo nemico degli
uomini. Gran gente vi accorse; frati d’ogni colore gridavano all’armi;
Giovanni da Schio, l’apostolo della pace, uscito dall’oscurità
dov’era ricaduto dopo lo spettacoloso ma effimero trionfo di Paquara,
ricomparve a capo degli armati, che le città guelfe, spalleggiate da
Venezia, mandavano col titolo di Crociati, e preceduti dal vessillo
romano. Essi a forza ritolsero Padova ad Ezelino, gli ribellarono
altre città: ma il tiranno sbuffando vendetta, con truppe saracine e
tedesche, sostegno predisposto d’ogni tirannia, ricuperò Padova, e la
corse a viva chi vince: doppia ruina dell’insigne città. Alleato col
fratello Alberico signore di Treviso, con Buoso da Dovara cremonese,
e col marchese Oberto Pelavicino, egli trovavasi sotto mano tutte le
forze dei Ghibellini di Lombardia, e di conserva presero e guastarono
Brescia, nodo de’ Guelfi. Ma ad Ezelino non bastava la signoria divisa,
e mentre adoprava il valore contro i nemici, tesseva artifizj per
iscemare il potere del marchese e del Dovara; e quando essi credeano
avere stabilito un triumvirato, egli si pianta despoto di Brescia,
donde corre a recuperare un dopo uno i castelli toltigli dai Crociati,
sbranandoli col fuoco, col sacco, col macello.

Sempre invalse che dell’alta Italia non potesse considerarsi padrone
chi non tenesse Milano, la quale estendeva il dominio sopra alcune
città vicine, l’influenza su tutte. La lunga guerra coi Federichi ne
aveva esauste le finanze. Tentò risanguarle Beno de’ Gozzadini (1256)
bolognese, che chiamato podestà, gravò di nuove imposte l’estimo per
ispegnere un prestito ch’erasi fatto in bisogno di guerre: e vi arrivò;
ma poi suggerì di prolungare quella imposta onde finire il Naviglio
che traeva fin a Milano le acque del Ticino. La plebe, grata a chi la
liscia più che a chi la giova, sorse a furore, e trucidatolo, il buttò
in quel canale che forma la ricchezza del Milanese e la gloria di lui.

Memore di Federico Barbarossa, Milano tenevasi corifea della parte
guelfa: alla ghibellina invece propendevano i castellani del vicinato;
di che s’invelenivano le ire fra nobili e plebei, e riotte intestine,
e alterni scacciamenti e disastri della città e della campagna, e
trascuranza del pubblico bene. E già potea dirsi sciolto il Comune,
poichè i varj ordini dello Stato ne formavano altrettanti, con governo
distinto, e due o tre podestà, e consoli opposti a consoli, assemblee
ad assemblee, impaccio ad ogni buona provvisione.

Accennammo come vi allignassero gli eretici Patarini, alcuni de’ quali
fecero ammazzare frà Pietro da Verona inquisitore (t. VI, p. 351).
Il Carino, uccisore di lui, fu côlto e messo in mano del podestà; ma
presto fuggì: e il vulgo, credendo connivente il podestà, prese questo,
e ne saccheggiò il palazzo; impedì ai nobili di dare la signoria a
Leon da Perego arcivescovo, e domandò che anche plebei potessero esser
canonici della metropolitana, privilegio delle maggiori famiglie, per
modo che l’arcivescovo da loro eletto era sempre dei primi patrizj.
Sostenuti da questo, dai proprj vassalli e dipendenti, e dall’uso delle
armi, i nobili sormontavano la _motta_ popolare, sino a voler ridestare
un’antica legge de’ tempi feudali, per cui potessero dell’uccisione
d’un plebeo riscattarsi per sette lire e dodici soldi di terzuoli
(lire 114). Un popolano, scontrato il nobile Guglielmo da Landriano,
lo sollecita a pagargli un antico debito, e questi l’uccide: il popolo
insorge a furia, respinge i nobili, che con Leon da Perego alla testa
ricovrano ne’ castelli del contado del Seprio, donde, alleati con
Novaresi e Comaschi, poteano recidere il commercio e i viveri alla
città.

La plebe vedevasi costretta o a stipendiare qualche capitano forestiero
che la proteggesse anche coll’armi, o a cercare fra’ castellani un
capo cui l’aura popolare piacesse più che l’arroganza patrizia. Quando
i Milanesi ritiravansi in rotta da Cortenova (1257) abbandonando il
carroccio a Federico II, furono raccolti e pasciuti da Pagano della
Torre, signore della Valsassina, il quale perciò era divenuto idolo
dei popolani, ch’egli sosteneva a spada tratta, fosse virtù o quella
affettazione di generosità con cui i nobili demagoghi velano spesso
l’egoismo. Fatto è che il popolo, volendo un magistrato proprio che lo
schermisse dalla prepotenza de’ nobili, elesse lui a capitano (1242),
finchè si calmarono le ire. Scoppiate di nuovo, fu sortito a quel
grado il suo discendente Martino (1257), il quale represse i nobili,
diè mano a riformare gli ordini sottraendo le maestranze dal dipendere
dall’arcivescovo, e così montò in istato di vero signore. Tolto a
stipendio il marchese Manfredi Lancia con mille cavalli, trasse fuori
il carroccio, e cominciava la guerra civile contro i nobili fuorusciti;
se non che persone prudenti rabbonacciarono, e condussero la _pace di
Sant’Ambrogio_.

In essa da una parte i nobili e valvassori, dall’altra la motta,
credenza e popolo, stabilirono che ogni singolar lite, causa, discordia
e controversia tra le parti avessero a ridursi a pace perpetua:
ogni ingiuria si rimettesse, eccetto se alcuno fosse ingiustamente
possessore di qualche bene: gli elettori, il consiglio, il Governo,
i consoli del Comune o della giustizia, e tutti gli altri uffiziali
ordinarj e straordinarj, emendatori dello statuto, ambasciadori, metà
dovessero essere del Comune, e metà di valvassori e capitanei: tre
trombetti per il popolo potessero eleggere gli altri tre per la parte
de’ capitanei: tutti gli sbanditi a titolo di Stato fossero riammessi,
e i beni mobili ed immobili restituiti a loro od agli eredi. Seguivano
concessioni e convenzioni speciali per gli abitanti di Como, di Varese,
di Cantù, d’Angera e pei capitanei d’Arsago: e per riparare i danni
fatti, il podestà spenderebbe ogni anno in granaglia lire seimila del
Comune di Milano; e i Comuni, borghi, luoghi e cascine consegnerebbero
le biade a Milano, secondo il consueto: ciaschedun cittadino fosse
obbligato far condurre a Milano due moggia di mistura per ogni
centinajo di libbre del valsente suo, e chiunque non fosse in estimo
potesse condurre ed estrarre grani da Milano: in tempo di carestia
si potesse cercarne anche ne’ solaj degli ecclesiastici, e quel che
sovrabbondava al viver loro, tradurlo a Milano. Si tenessero riparate
le strade; non si riscotessero dazj o gabelle più dell’usato; i pretori
farebbero soddisfare all’offeso delle ruberie sofferte intorno a
Milano a quattro miglia. Martin della Torre e suoi agnati, e tutti
i capitanei e valvassori collegati col popolo, potessero a volontà
ritornare alla parte de’ capitanei e valvassori, senz’altro carico che
di pagare i foderi passati e presenti. I castelli di singole persone
non fossero molestati dal Comune, se non per decreto del consiglio. Ne’
borghi e nelle ville le persone maggiori di vent’anni avessero facoltà
di eleggere il proprio rettore per un anno quando non fossero per
consuetudine sottoposti al podestà di Milano[11].

Particolareggiammo questa famosa pace per mostrare come la politica
non fosse la predominante nelle transazioni d’allora, e sempre vi si
mescolassero ordinamenti civili ed economici, che poi si registravano
negli statuti. Sanciva essa l’eguaglianza civile fra nobili e plebei,
e intitolavasi perpetua: ma non seppero nè le famiglie chetarvisi, nè
i popolani usarne con dignità; e ben presto ecco i nobili costretti
a fuoruscire di nuovo, e cercare ajuto da Como, ove la loro parte
prevaleva: più volte vennero alle prese con avvicendata fortuna, e
Filippo arcivescovo di Ravenna legato pontifizio, accorso a pacare,
mandò in esiglio il Torriano e Guglielmo da Soresina, l’uno capo de’
popolani, l’altro de’ nobili. Ma quegli tornò, e prevalse: i nobili,
perduta la patria, accolsero il furioso partito di darla ad Ezelino.
Secondo la segreta pratica tenuta con loro, costui mosse in fatti
alla sorda da Brescia per sorprendere Milano, e già varcata l’Adda,
difilavasi battendo per Monza e Vimercato sopra la metropoli della
Lombardia, quando Martino, avutone spia, radunò a stormo l’esercito
plebeo, e gli girò alle spalle, sollevando i popoli. Onde non vedersi
intercetta la ritirata, Ezelino diè volta verso l’Adda; ma al ponte
di Cassano si trovò a fronte i nostri (1259), e costretto a battaglia,
cadde ferito, e poco poi spirò da disperato in Soncino. Fu una medesima
esultanza per tutta la Lombardia e la Marca; città e castella già
sue si rendettero o furono prese; suo fratello Alberico, assediato
nella rôcca di San Zenone, e costretto darsi a discrezione (1260),
fu coll’innocente famiglia mandato agli orribili strazj con cui si
manifestano le vendette popolari; e il grido di libertà sonò con
entusiasmo per tutta la valle padana.

Ma troppo spesso i popoli liberati da un padrone non hanno maggior
premura che di trovarsene un altro; e al cadere degli Ezelini supremò
la Casa d’Este. Questa, avversata da Federico II perchè stretta parente
dei Guelfi di Baviera suoi emuli, oltre il castello e la borgata da
cui traeva il titolo, possedeva il marchesato di Ancona, e come feudi
imperiali Rovigo, Calaone, Monselice, Montagnana, Adria, Aviano,
la signoria di Gavello, e un’infinità di masserie, giurisdizioni,
avocherie su quel di Padova, Vicenza, Ferrara, Brescia, Cremona, Parma,
nel Polesine meridionale, nella Lunigiana e ne’ monti toscani, poi
nel Modenese e Piacentino, spingendosi fin verso Tortona a confinare
coi marchesi di Monferrato. Alcuni erano liberi allodj, altri feudi
militari o benefizj ecclesiastici, e ne domandavano la conferma dai
papi e dagli imperatori: ma la potenza cui erano sorti, dava arbitrio
agli Estensi di considerarli come beni proprj. Ferrara, tiranneggiata
da Salinguerra, vecchione indomito e in fatti d’armi famoso, aveva
esibito il primo esempio di sottomettersi a un principe (1208),
attribuendo ad Azzo d’Este arbitrio di far e disfare il giusto e
l’ingiusto[12]. Anche Modena, straziata da discordie, elesse signore
Obizzo d’Este: sette anni dopo, Reggio la imitò, indi Comacchio,
Treviso, Feltre, Belluno obbedivano direttamente o indirettamente ai
Da Camino. I Veronesi si diedero in signoria a Mastin della Scala, che
cacciò i conti di Sanbonifazio, i quali per sessant’anni non poterono
rientrare in una città dove aveano signoreggiato. Mastino, ucciso nel
1277, trasmise il dominio al fratello, e questo ai figliuoli.

I Cremonesi, smaniosi di vendicare la sconfitta tocca nel 1248 sotto
Parma, elessero podestà il marchese Oberto Pelavicino, ghibellino
affocato; il quale, secondato da fuorusciti, li menò contro Parma
(1250), ed entratovi, ne tolse il Gajardo, carroccio cremonese, e molti
prigionieri, che furono poi spediti a casa sbracati. Da questa, che i
Parmigiani intitolarono la _Mala Giobia_, cominciò la grandezza di quel
marchese, che già signore di Cremona, nel 1252 ottenne d’essere gridato
signore perpetuo di Piacenza, e sarebbe stato anche di Parma se un _vil
sartore_ non fosse sorto a persuadere quanto valesse meglio la libertà.

La vittoria sopra Ezelino crebbe in Milano oltre misura il credito
di Martin Torriano, il quale, inseguendo i nobili che, fallito il
tradimento concertato, s’erano rifuggiti presso la famiglia Sommariva
di Lodi (1259), sottomise anche questa città. Novecento nobili,
afforzatisi nel castello di Tabiago in Brianza, vi furono presi e
tradotti a Milano (1261), con insulti d’ogni peggior maniera: però
Martino impedì fossero trucidati, e sempre si astenne dal sangue,
dicendo: — Poichè non ho potuto dar la vita a nessuno, non soffrirò di
torla a chichessia». E veramente egli seppe temperarsi nell’ambizione;
e vedendo che la milizia plebea non bastava a tener testa ai nobili,
non esitò a lasciar nominare capitano generale il Pelavicino, che così
tenne in signoria quella città, cui Ezelino aveva indarno aspirato.

Forte di tale appoggio, la fazione popolare cercò incremento col
portare arcivescovo Raimondo, parente di Martino. Si opposero con
ogni lor possa i nobili, proclamando Uberto da Settala; onde, per
riparare allo scisma, Urbano IV nominò a quella sede il canonico
Ottone Visconti, che coll’appoggio de’ nobili suoi pari tenne la
campagna, ed occupò molti castelli, massime nelle parti del lago
Maggiore, dove erano i feudi di sua famiglia. I Torriani presero
e spianarono i castelli di Arona, d’Angera, di Brebbia, occuparono
altre terre dell’arcivescovo; lo perchè essi e la città furono posti
all’interdetto, e bandita contro loro la croce.

Amareggiato da ciò, Martino moriva immaturo (1263), e Filippo suo
fratello otteneva l’autorità di esso e la tutelava coll’armi. Como,
per insinuazione de’ Vitani, davasi a lui; per forza la Valtellina,
e così Lodi, Novara, Vercelli, Bergamo: ed egli dissimulava il suo
ingrandimento, tanto che della signoria fece investire Carlo d’Angiò.
Napoleone gli succedette (1265) col titolo d’anziano perpetuo,
quasi ereditario tramandandosi il dominio, benchè i Torriani non ne
cercassero il titolo.

A differenza degli altri tiranni, stavano essi coi Guelfi, onde
prosperarono per le vittorie degli Angioini. Accampava coi Ghibellini
il Pelavicino, che avea sottoposte anche Pavia e Brescia: ma questa,
all’udire la morte di Manfredi, trucidò i soldati di esso, e invocò i
Torriani, che, accolti a rami d’ulivo, vi rimpatriarono i Guelfi, e ne
furono gridati signori. Un altro Torriano era governatore di Vercelli,
ma i Ghibellini milanesi fuorusciti il sorpresero ed uccisero. Emberra
del Balzo, podestà di Milano per re Carlo, consigliò a trucidare
cinquantadue parenti degli assassini; della quale atrocità piansero
tutti i buoni, e Napoleone sclamò: — Il sangue di questi innocenti
ricadrà su’ figli miei». Quando poi, al comparire di Corradino, quei
che erano a parte d’impero rialzarono il capo, e Oberto Pelavicino e
Buoso da Dovara minacciarono rinnovare i tempi di Federico e d’Ezelino,
Milano incalorì le città, e con Vercelli, Novara, Como, Ferrara,
Mantova, Parma, Vicenza, Padova, Bergamo, Lodi, Brescia, Cremona,
Piacenza ritessè la Lega Lombarda (1267), unendosi col marchese d’Este
e con quel di Monferrato, il quale fu nominato capitano.

Allora Cremona e Piacenza, buon o malgrado, indussero il Pelavicino
ad abdicarsi della signoria, ond’egli si ritirò ne’ suoi castelli di
Gusaliggio, Busseto, Scipione, Borgo San Donnino, e morì lasciando
la sua famiglia ricca ma non sovrana. Il Dovara, di cui il legato
pontifizio erasi valso per snidare il predetto, sperava rimanere
signor di Cremona; ma ne fu egli pure cacciato, abbattute le sue case,
assediata la sua rocchetta sull’Oglio, e poichè la vide capitolare ed
essere rasa, ricoverò fra’ monti a morire senza dovizie nè potenza.

Al contrario, Napoleone continuava da signore in Milano, sostenuto
anche dal cugino Raimondo, ch’era stato fatto patriarca di Aquileja,
e che, andando alla sua sede (1274), menò seco sessanta nobili
garzoni milanesi per scudieri, riccamente divisati con arme e cavalli
bellissimi; cinquanta cavalieri aurati, ciascuno con quattro cavalli e
uno scudiere; sessanta militi con due cavalli ciascuno, e cento uomini
d’arme cremonesi (CORIO). Tanto era ricca quella casa. Napoleone,
assoldate truppe, tenne la lancia alle reni dei nobili, e più volte ne
uscì vittorioso; tutto guelfo ch’egli era, si fece costituire vicario
dall’imperatore Rodolfo d’Habsburg; e senza lasciarsi lusingare da
favori nè atterrire da scomuniche, resisteva al papa e all’arcivescovo
Ottone Visconti.

Men costante di lui, il marchese di Monferrato mutossi capitano della
parte ghibellina, con sè traendo Pavia, Asti, Como e i fuorusciti di
Milano. Questi ultimi aveano per centro Como e per capo il Visconti,
che, escluso sempre dall’arcivescovado, menava fazioni e battaglie
nelle pianure e sui laghi che fanno deliziosa l’alta Lombardia.
I nobili, disperati d’altro soccorso, riduconsi a Pavia (1276), e
inducono Gotifredo conte di Langosco a farsi loro capo e aspirare così
alla signoria del Milanese: di fatto egli campeggiò sul lago Maggiore,
e prese Arona e Angera; ma Cassone della Torre, avuto una smannata
di Tedeschi da Rodolfo, prese lo stesso conte con molti nobili, a
trentaquattro de’ quali fe’ mozzare la testa in Gallarate. Era fra
essi Teobaldo Visconti padre di Matteo; onde l’arcivescovo Ottone si
incalorì alla vendetta: da’ Canobiesi fece allestire una flottiglia,
comandata da Simone di Locarno, famoso prode, il quale, ito a Como,
resuscitò la parte de’ Visconti. Quivi attestatisi, e soccorsi da
Pavesi e Novaresi guidati da Ricardo conte di Lomello (1277), i
Visconti ripresero Lecco, Civate ed altre rôcche, e attraverso alla
Martesana procedeano sopra Milano. I Torriani stavano a malaguardia
in Desio, dove furono sorpresi e messi in isbaraglio: Napoleone co’
suoi parenti Mosca, Guido, Rocco, Lombardo, Carnevale furono chiusi in
gabbie nel castel Baradello di Como: Cassone ebbe tempo di fuggire a
Milano, ma solo per vedere il popolo saccheggiare i palazzi de’ suoi,
onde ricoverò presso Raimondo patriarca, col cui appoggio alimentò a
lungo la guerra; finchè, spintosi co’ suoi sin alle porte di Milano
(1281), a Vaprio fu interamente sconfitto.

A Ottone si fece incontro il popolo gridando _Pace, pace_, ed egli
la diede; proibì ogni persecuzione o vendetta, e tolse per capitano
Guglielmo marchese di Monferrato, al quale allora obbedivano Pavia,
Novara, Asti, Torino, Alba, Ivrea, Alessandria, Tortona, Casale.
Costui, sentendosi forte, facea da padrone; onde l’arcivescovo si
guadagnò le case Carcano, Castiglioni, Mandello, Pusterla ed altre
caporali; e côlto il destro che colui stava fuor di città, occupò
il Broletto, chiuse le porte in faccia al marchese, e restato unico
padrone, fecesi proclamare signore perpetuo. Il popolo sotto i Torriani
erasi già avvezzo a un padrone; i nobili, da questi abbattuti e spinti
in esiglio, non sentivansi forza a resistere: talchè senza molti
ostacoli la maggiore repubblica dell’antica Lega Lombarda diveniva un
principato.

L’arte e la fortuna giovarono i Visconti a renderlo ereditario ed
abbracciarvi tutta Lombardia, spodestando o ereditando de’ principotti
insignoritisi di ciascuna città.

E l’un dopo l’altro tutti i paesi che erano usciti repubblicani dalla
pace di Costanza, si restringeano a signoria di un solo, e invece di
giovarsi dell’interregno per consolidare le proprie costituzioni, si
disperdevano in superbie iraconde; invece della ragionevole soggezione
per cui gli Stati fioriscono, riottavano nell’anarchia, che fa parer
desiderabile la servitù. Tutti gli uomini si erano dati a una fazione,
e le fazioni sempre si danno a un uomo, il quale trovasi padrone di
quanti ad essa si addissero, e che non gli domandano se non di farla
trionfare; trionfato, attribuivano i poteri ad un capitano o difensore
del popolo, e glieli prorogavano per tre, cinque, dieci anni, abituando
lui a principare, sè ad obbedire. E poichè il popolo vincitore
sentivasi inetto a governare, se ne rimetteva a qualche signore,
nobile per lo più, eppure destinato a reprimere i nobili. Così nella
moderna Inghilterra si ebbe sempre bisogno di un lord, anche per far
provvedimenti contro i lord.

Consueto effetto delle rivoluzioni, non si esitava a sagrificare la
libertà ad un nome vano, alla passione del momento, diritti smisurati
commettendo ad un’assemblea o ad un magistrato. Milano nel 1301 al
capitano del popolo, al giudice della credenza di Sant’Ambrogio e al
priore degli anziani del popolo concedeva la podestà più preziosa,
quella di far leggi. I popolani fiorentini riusciti vincitori, «a ser
Lando da Gubbio puosono uno gonfalone di giustizia in mano, e diengli
imperio sopra chi attentasse contro li Guelfi e lo presente stato;
il quale bargello avea balìa niuna solennità servare, ma di fatto
senza condannazione procedere in avere e in persona». Nel 1380 fecero
riformagione che gli otto di _balìa_ potessero spendere diecimila
fiorini, senza darne conto segreto o palese, in perseguire e far morire
i ribelli del Comune in ogni forma e via e modo che a loro meglio
paresse[13]. Altrove le balìe, i _cinque dell’arbitrio_ o simili
riceveano mandati temporarj, che intepidivano la gelosa cura della
libertà e spianavano il calle alla tirannide.

Rimosso il pericolo della dominazione forestiera e cresciute le
dovizie e gli agi del vivere, i cittadini si applicarono all’industria
smettendo le armi. Ne crebbero d’importanza i nobili, i quali dalla
fanciullezza si educavano agli esercizj e a portare un’armadura di
ferro a tutta botta, sotto la quale invulnerabili dalle picche della
milizia cittadina, trionfavano quasi senza pericolo; la sicurezza
del vincere crescea baldanza di osare, e facilmente argomentavansi di
dominare sopra gente ch’era invalida a resistere. Più lo fecero quando
i capitani di ventura posero il valore a servizio di chi pagava, e
patteggiavano coi tirannelli per sostenersi, o aspiravano essi medesimi
al primo grado.

Il tempestare cittadino aveva indotto stanchezza, e sempre è il
benvenuto chi, all’estremo d’una rivoluzione, giunge a ricompor le
cose, quand’anche al tumulto sostituisca l’abjezione e il letargo.
Voi che vedeste i Romani, repubblicani affocati, acconciarsi alla
stemperata tirannia degl’imperadori, non istupirete che di nuovo i
ridesti Italiani soffrissero i duri sproni de’ tirannelli. Del cadere
sotto un signore soffrivano i grandi, impediti dai loro arbitrj e dagli
sfrenati appetiti d’una più o men ristretta oligarchia: ma la plebe si
trovava giovata del non esser più esposta alle ire di tutta una parte,
e al soperchiare d’ogni emulo e d’ogni avversario; e dell’obbedire,
anzichè a molti, ad un signore solo e lontano, il quale non avrebbe
passione d’offendere gl’individui, anzi interesse di procacciare il
fiore di tutti: e ne sperava quella giustizia e quella sicurezza che,
se non un compenso, sono un ristoro alla privazione della libertà.
Contenta della quiete interna, del freno posto agli oligarchi, degli
spettacoli e delle pompe, ne voleva bene ai principi; e contro quegli
stessi che ci sono dipinti pei peggio ribaldi, rado o non mai la
vedremo insorgere, benchè non mai cessassero quelle congiure di pochi,
che fallendo rinfiancano la potenza che aveano inteso demolire. I
letterati e i leggisti, dei quali crescevano il numero e l’importanza,
attingevano dal diritto romano canoni di servilità, e sempre aveansi
in pronto una diceria, colla quale alle assemblee popolari persuadere
i vantaggi della tirannide. I nobili, a cui danno cadeva questa
rivoluzione, ribramando il passato e invidiando gli uomini nuovi, pur
non sapevano affratellarsi nè ai Comuni nè tra sè in quell’accordo,
che in altri paesi li ridusse opportuno contrappeso alla monarchia
nascente: pertanto poneansi a corteggiare il signore onde ottenere
qualche brano di autorità, di godimenti, di arroganza; o gittavansi
a macchinazioni, che porgeano a quello buona ragione di sterminarli
o comprimerli. Insomma mancava a tutti il sentimento della legalità,
fosse per assodare le repubbliche, fosse per temperare i principati.

E le repubbliche a breve andare mutavansi in signorie senza
avvedersene, come senza avvedersene erano salite alla libertà. I
tiranni (tal nome i nostri, al modo greco[14], davano a coloro, buoni o
malvagi, che usurpavano dominio in libera terra) aveano cura di farsi
decretare solennemente, dagli anziani o dalle assemblee popolari, il
titolo e i poteri di signori generali per tempo limitato, e ricevere
l’investitura colla tradizione dello stendardo e del carroccio.
Faceasi dunque mostra di rispettare la sovranità del popolo; sicchè,
al governo monarchico innestando forme costituzionali, pareva dovesse
impedirsi il despotismo, le magistrature popolari moderare i signori,
che di rimpatto resterebbero protetti dalle leggi e dalla nazionale
garanzia. Ma come in Roma gl’imperatori dominarono assoluti perchè
rappresentavano il popolo sovrano, così questi tirannelli nessun limite
legale trovavano ad un potere che dal popolo era attribuito.

Non era dunque necessario frutto della democrazia la tirannide,
bensì conseguenza aristocratica, giacchè ogni oligarchia è gelosa ed
esclusiva, e chiede ingrandire a scapito degli altri. La tirannide
poi serviva effettivamente gl’interessi popolari, elevando gli infimi
contro i prischi prevalenti: per modo che, quand’anche fosse cacciato
il tiranno, rimaneva la gente nuova ed estrania, da lui assisa sui
beni confiscati. Allora i primi spogliati s’affacciavano alla riscossa,
cacciavano la gente nuova, faceano nuovo spartimento, e quella vicenda
irrequieta non lasciava tampoco il riposo, che erasi sperato compenso
alla servitù.

Le rivolte non erano impeti di libertà; voleasi cangiare di signoria,
ma il governo restava pur sempre militare e dispotico, giacchè
ai disuniti bisognavano capi assoluti; s’applaudiva ai giudici
che castigassero i caduti dominatori, per quanto eccedessero; i
partigiani dei nuovi pretendeano franchigie e indipendenza; i vinti
fuoruscivano, istituendo un governo tirannico perchè indipendente dalla
pubblica volontà, e che pretendeva dal di fuori governare la patria,
sovvertirla, mutarla; il nuovo padrone secondava le proprie passioni,
e conoscendosi vacillante, si reggea con politica subdola e giustizia
inumana, gettando a spalle ogni moderazione e generosità.

Il dominio che una città aveva già acquistato sopra altre, diveniva
una signoria, che gli ambiziosi attendevano ad ampliare; onde l’Italia
settentrionale, che alla pace di Costanza trovavasi sminuzzata in tante
repubbliche quante città, queste vide aggregarsi attorno ad alcuni
centri, e formare gli Stati nuovi, la cui storia così varia è ribelle
a quel procedimento sistematico che si rivela dove un signore unico
determina o almeno dirige gli avvenimenti d’un paese.



CAPITOLO XCV.

Toscana.


La salda dominazione degli antichi marchesi Bonifazj aveva impedito
alla Toscana di ridursi libera come le città lombarde ma estinti quelli
colla contessa Matilde (1115), le dispute che intorno alla costei
eredità si agitarono fra i pontefici e gl’imperatori, offrirono ai
Comuni il destro d’emanciparsi, e agli uni o agli altri appoggiandosi
acquistar privilegi, o nella lotta usurparli[15]. Federico II, erede
dell’ultimo duca di Svevia fratello del Barbarossa, vi tenne de’
vicarj, ma ognora più scadenti d’autorità, e ricoverati in qualche
terra castellata, come Sanminiato, che perciò fu detto al Tedesco.

Del territorio rimanevano in dominio signori forestieri; o longobardi,
come i marchesi di Lunigiana, i conti Guido, quei della Gherardesca;
o franchi, come i marchesi Oberto, quei del Monte Santa Maria, i conti
Aldobrandeschi, gli Scialenga, i Pannochieschi, gli Alberti del Vernio,
della Bevardenga, dell’Ardenghesca, e così via.

Fiesole, avanzo delle città onde gli Etruschi aveano coronato le alture
italiche, già da Cicerone notata per gran lusso e spese d’imbandigione,
deliziosi poderi, fabbriche suntuose, mutati i tempi, avea ridotto
a battistero un bellissimo avanzo di antichità pagana; eretto il
duomo, ove nel 1028 il vescovo Jacopo Bavaro trasportò le reliquie
di san Romolo patrono della città; e di lassù le famiglie patrizie
minacciavano gli uomini del piano. Ma era giunto il tempo che questi
a quelle prevalessero; e Firenze, inferiore per postura a Fiesole come
a Pisa per opportunità di commercio, maturava la libertà, che a lungo
dovea poi custodire e sempre amare. La prima adunanza generale di
popolo vi si tenne il 1105 per istanza del vescovo Ranieri: la prima
impresa che se ne rammenti è la spedizione del 1113 contro Ruperto
vicario imperiale, il quale, postato a Montecáscioli, bicocca dei conti
Cadolingi, molestava i Fiorentini, finchè essi non l’ebbero scovato e
ucciso, e spianata la sua rôcca.

Trascinata da Pisa nella briga contro Lucca, Firenze conosce le proprie
forze, e le usa a sottomettere i castellani; «perocchè in tutte le
terre sono molti nobili uomini, conti e cattani, i quali l’amano più
in discordia che in pace, e ubbidisconla più per paura che per amore»
(DINO COMPAGNI); abbatte i castelli, che impacciano il traffico e
ricoverano i prepotenti; obbliga le famiglie antiche a scendere dalla
minacciosa Fiesole[16], e i popoletti ad accettare le sue leggi,
come fece coi cattani di Montorlandi e con quei di Chiavello, che,
riscattatisi dai conti Guido, s’erano collocati in un bel _prato_ sul
Bisenzio, donde prese nome la lieta città che vi fabbricarono[17].
Dai Buondelmonti, che nel castello di Montebuono esigeano pedaggi
da chiunque passasse, non potendo ottener ragione, Firenze li vinse
(1143), ed obbligò a venire in città. Dal conte Uggero volle promessa
di non far male ad alcun Fiorentino, anzi ajutarli, esser con loro
in guerra, abitare tre mesi in città, dando in pegno i castelli di
Collenuovo, Sillano, Trémali. I signori di Pogna, che non posavano di
molestare il Valdelsa, furono domi coll’arme, e demolite quella e le
torri di Certaldo e quante n’erano sin a Firenze, che che strepitasse
il Barbarossa di questa che a lui pareva lesione del potere imperiale.
Nel 1197 comprava il castello di Montegrossoli in Chianti: nel 99
squarciava quel di Frondigliano, poi con lungo assedio Semifonti e il
castello di Combiata, riottosi al Comune: nel 1220 disfece Mortenana
castello degli Squarcialupi, e in appresso quelli di Montaja, di
Tizzano, di Figline, di Poggibonzi, di Vernia, di Mangona: abbattè
le famiglie dinastiche dei Cadolinghi di Capraja, degli Ubaldini di
Mugello, degli Ubertini di Gaville, dei Buondelmonti nel Valdambria:
fabbricò una terra dove potessero rifuggire quelli di Castiglion
Alberti, della badia d’Agnano, della pieve di Prisciano, di Campannoli,
di San Leolino, di Monteluci, di Cacciano, di Cornia, ville signorili
che così restavano deserte.

Più poderosi di tutti erano gli Alberti; ma essendosi divisi per
stipiti, poterono dalla città essere sottomessi a patti o a forza. Nel
1184 il conte di Capraja di quella famiglia colla moglie e i figliuoli
si dava in accomandigia alla Repubblica fiorentina, obbligandosi
consegnare ai consoli di essa una delle torri di Capraja, da custodire
o distruggere a voglia; e subito troviamo i membri di quella famiglia
rettori e consoli nella città. Ma poi guastatisi con essa, malmenavano
i passeggieri e i villani, sicchè i Fiorentini v’andarono a oste,
e distrutto il loro castello di Malborghetto, costruirono quel di
Montelupo per tenerli in freno. Invano il conte Guido Borgognone
cercò opporsi istigando a guerra i Pistojesi, cui erasi giurato
fedele (1204): vinto, dovette co’ suoi figli e cogli uomini di Capraja
prestare omaggio al Comune di Firenze, sottoponendogli quella terra,
pagando ventisei denari per ogni focolare, e promettendo far guerra a
volontà de’ consoli contro chiunque, eccetto i Lucchesi per tre anni,
e l’imperatore per sempre: i consoli di Firenze a vicenda prometteano
difenderli dai Pistojesi e da ogni altro nemico, e non diroccare il
castello di Capraja[18]. Non però quei conti stettero così ai patti,
che Firenze non fosse costretta più volte osteggiarli: certo rimasero
potenti a segno, che molti ajuti poterono dare ai Pisani per ricuperare
l’isola di Sardegna.

Nel 1273 il consiglio generale dei Trecento e lo speciale dei Novanta
approvavano si comprasse dal conte Guido Salvatico gli uomini, le
terre, i castelli di Montemurlo, di Montevarchi, Empoli, Monterappoli,
Vinci, Cerreto, Collegonzi, Musignano, Colledipietra, pagando ottomila
fiorini piccoli; la qual somma verrebbe somministrata dai Comuni
redenti a proporzione della lira, cioè dell’estimo[19].

Alcuni signori mantennero negli aviti castelli una sovranità locale,
come i Pazzi nel Valdarno, i Ricásoli nel Chianti. Una consorteria
di Longobardi o Lambardi padroneggiava la Versilia, cioè la valle di
Seravezza. Gli Ubaldini diramavansi in tanta parentela, da dominare
quasi un principato[20]. I Pulci, i Nerli, i Gangalandi, i Giandonati,
i Della Bella avevano inquartato alle loro armi quella d’Ugo di
Brandeburgo, marchese di Toscana al tempo di Ottone III, dal quale
aveano ricevuto la nobiltà; e il giorno di san Tommaso festeggiavano
nella badìa di San Settimo il nome di quel barone[21]. Altri casati
si elevarono in città pel traffico, come i Cerchi, i Mozzi, i Bardi,
i Frescobaldi, poi gli Albizzi e i Medici; e talora vennero assaliti
nelle proprie case, come i vassalli nelle rôcche.

Aggiungansi le signorie ecclesiastiche; perocchè, siccome i monaci
Santambrosiani a Milano, così gli abati di Agnano, di Montamiata, del
Trivio, di Passignano, di Monteverde erano principi sui loro beni;
massime quelli di Sant’Àntimo in val d’Orcia, cui Lodovico Pio avea
concesso quasi tutto il territorio fra l’Ombrone, l’Orcia e l’Asso,
tanto che sopra il patrimonio d’essa badìa Lotario II assegnò mille
mansi per regalo nuziale ad Adelaide. Gli abati dell’Isola presso
Staggia nel Volterrano furono baroni su tutta l’isola e sul popolo di
Borgonuovo; e Castelnuovo dell’abate, Gello dell’abate, Vico dell’abate
e tant’altri nomi consimili ricorrenti segnano villaggi nati per opera
di questi monaci toparchi.

Eguale avviamento, chi cercasse, troverebbe in tutti i Comuni della
Toscana. Montegémoli dei conti Guido si sottoponeva al monastero di
Monteverde, da cui fu ceduto a Volterra il 1208; e così Querceto
e Castelnuovo da Montagna. Nel 1221 i conti Aldobrandeschi si
accomandavano ai Sanesi, dando in pegno i castelli di Radicóndoli
e Belforte; altrettanto i signori di Montorsajo e i Cacciaconti
di Montisi, e varie famiglie nobili di Chiusdino. Agli abati di
Sant’Antimo fu tolto Montalcino, paese cominciato s’un colle vestito di
elci, e allora cinto di mura.

Siena combattè gli Scalenghi; nel 1212 comprava le appartenenze di
Asciano; fin poi dal 1151 Palteniero Forteguerra le aveva sottomesso
le sue castella, fra cui San Giovanni d’Asso. Così le si sottomisero i
Salimbeni di Belcaro, i visconti di Campagnatico ed altri. Ma Omberto
di Campagnatico verso il 1250 aggrediva sulla strada quanti erano amici
a Siena, finchè alcuni Senesi travestiti da frati s’introdussero nel
suo cassero e l’uccisero. Anche gli Ubaldini molestarono lungamente
le valli del Santerno e della Sieve: i Pannochieschi continuavano a
dominare Montemassi, che Castruccio nel 1328 fece ribellare a’ Senesi,
i quali pertanto coll’armi e la fame lo vinsero e fecero distruggere,
e tal fatto dipingere nel palazzo del concistoro da Simone Memmi.
I Salimbeni, perchè decapitato uno e imprigionati altri di loro
consorteria, nel 1374 mossero guerra al Comune di Siena, e ripresero
Montemassi: ne nacque guerra; infine si compromise la cosa nella
Signoria di Firenze, e la rôcca rifabbricata fu resa a quel Comune[22].

I castelli del Chianti furono incentivo di guerre fra Siena e Firenze,
che ivi confinano; e Montepulciano, di cui s’ignora l’origine, ma già
si trova mentovato nel 715, si collocò a devozione de’ Fiorentini,
promettendo non imporre gabelle alle merci di questi, e offrire pel san
Giovanni un cero di cinquanta libbre, e l’annuo tributo di cinquanta
marche d’argento. I Senesi ne mossero richiamo davanti un congresso
di nobili del vicinato e di rappresentanti delle città; e dall’esame
apparve che da quaranta e più anni non apparteneva al distretto di
Siena, ma era dominato da alcuni conti teutonici. Non vi s’accontentò
Siena, e più volte ritentò sommettere colle armi Montepulciano, che fu
distrutto e rifabbricato, e dopo molte vicende si accomandò a Siena,
promettendo avere gli stessi amici e nemici, non levar dazj o gabelle
sui Senesi, offrire, il giorno di Maria Assunta, un cero fiorito di
cinquanta libbre, ad ogni richiesta mandare due cittadini al parlamento
in Siena, eleggere fra i cittadini di quella il podestà e capitano col
salario di quattrocento lire ogni semestre, i quali però governassero
secondo gli statuti di Montepulciano.

Grosseto, centro della valle del basso Ombrone senese, nacque attorno
al Mille, e fu città quando Innocenzo II nel 1138 vi trasferì la sede
vescovile di Roselle, antica città etrusca, allora caduta ed esposta
alle infestazioni dei ladri. Stette a signoria degli Aldobrandeschi
di Sovana, i quali poi s’accomandarono alla Repubblica di Siena, a
cui i Grossetani stessi giurarono sommessione, e il tributo di lire
quarantotto annue e cinquanta libbre di cera; come il vescovo tributava
venticinque lire e un cero di libbre dodici. La sommessione però fu
sempre irrequieta, e più volte scossa.

Pistoja, venuta su dopo asciugati i suoi paduli nel 500, ebbe ricche
famiglie, tra cui i progenitori dei conti Guido e anche dei Cadolingi;
fu governata dal vescovo, dal conte, dal gastaldo; e dopo morta la
contessa Matilde si emancipò. I suoi statuti sono i più antichi che
si conservino: nel 1150 già aveva podestà e consiglieri, a’ quali il
cardinale Ugo, legato pontificio e discepolo di san Bernardo, scriveva
perchè cassassero l’illecito giuramento che faceano, entrando in
carica, di non far mai bene agli Spedalinghi nè in vita nè in morte.
Quel Comune sottopose i vassalli vescovili di Lamporecchio, i conti
Guido di Montemurlo, i conti di Capraja, i conti Alberti di val
Bisenzio, i popoli di Artimino e Carmignano.

Cortona componeva il suo Comune di consoli, nobiltà (_majores
milites_), capi mestieri, con un camerlingo e cancelliere: il consiglio
di credenza constava di venti nobili; il generale di cento cittadini
e artieri. Nel 1213 gli Alfieri le cedettero il castello di Poggioni,
promettendo che almeno un di loro terrebbe famiglia in città; i
Bandinucci Montemaggio, i Balducchini Castelgherardi, i Mancini
Ruffignano, i Bostoli Cignano, i Baldelli Peciana, i Venuti Cigliolo,
i Tommasi Cintoja, i Boni Fusigliano, i Cappi Ossaja, i Pancrazj
Ronzano, i Serducci Danciano, i Melli Borghetto e Malalbergo sul lago
Trasimeno, i Passerini Montalla. Sottopose pure i marchesi di Petrella,
di Pierle, di Mercatale, gli Alticozzi, i Semini, i Rodolfini, i
Vagnucci, i Camaldolesi del priorato di Sant’Egidio, facendoli entrare
in città, sicchè nel 1219 ampliò le mura a chiuder anche il sobborgo di
San Vincenzo. Amicizie e guerre avvicendò cogli Aretini, che nel 1269
sorpresala, la saccheggiarono e smantellarono, obbligandola a prender
sempre per podestà un Aretino. Alfine v’acquistarono dominio i Casati,
fatti vicarj dell’Impero fin quando la repubblica fiorentina non la
sottomise.

Ai paesani liberati le città apprestavano nuovi borghi, e se gli
amicavano colle franchigie (t. VI, p. 53, 54). Firenze univa al proprio
_contado_ tutti quelli datisi spontanei, facendoli partecipi al diritto
di cittadinanza, e dividendoli in quartieri; mentre quelli sottoposti
a forza o acquistati a denaro formavano il _distretto_, ciascuno
con patti e condizioni particolari. Comunelli, pievi, popoli aveano
stretto leghe per difendersi dalle violenze, obbligandosi a sbrattare
il proprio territorio da malfattori e banditi, tener sicure le strade,
rifare del danno chi ne soffrisse, avendo all’uopo uffiziali e spese
comuni.

Essa Firenze, venuta a libertà più tardi de’ Comuni lombardi, ebbe men
lunga lotta e più pronto sviluppo di civiltà, d’arti, di commercio;
evitò le guerre col Barbarossa, e potè far senno dell’esperienza
altrui. La postura sua e l’indole degli abitanti contribuirono a
conservarvi que’ costumi semplici e schietti, de’ quali una descrizione
ci è data dal più immaginoso poeta e fedele cronista de’ mezzi tempi,
Dante, che canta come, a’ giorni dell’atavo suo Cacciaguida, Firenze,
ancora dentro angusto ricinto, si stesse in pace sobria e pudica; non
i soverchi ornamenti femminili più che la persona stessa attiravano lo
sguardo; non faceva ancora, sin dal nascere, paura la figlia al padre,
che pensava già al tempo immaturo e alla grossa dote dei maritaggi;
Bellincion Berti[23] ed altri illustri cittadini portavano cintura di
cuojo, e stavano contenti a veste di pelle scoverta; le loro donne non
si partivano lisciate dallo specchio, ma attendendo al fuso ed alla
conocchia, vegliavano a studio della culla, consolando i bambini con
quel mozzo parlare che trastulla da prima i genitori; e traendo la
chioma alla rocca, colla famiglia ragionavano non di vanità e fole, ma
de’ Trojani, di Fiesole, di Roma.

Ai quali versi, che tutti hanno a memoria, commenta il buon Giovanni
Villani: — In quel tempo (cioè del 1250) i cittadini di Firenze viveano
sobrj e di grosse vivande e con piccole spese, e di molti costumi
grossi e rudi; e di grossi drappi vestivano le loro donne; e molti
portavano pelli scoperte senza panno, con berrette in capo, e tutti con
usatti in piedi; e le donne della comune foggia vestivano d’un grosso
verde di cambrasio per lo simile modo; ed usavano di dar dote cento
lire la comun gente, e quelle che davano alla maggioranza, ducento; e
in trecento lire era tenuta sfolgorata; e il più delle pulzelle che
andavano a marito avevano venti anni o più. E di così fatto abito
e costume e grosso modo erano allora i Fiorentini con loro leale
animo e tra loro fedeli». E Benvenuto da Imola: — Le fornaje allora
non portavano perle nei calzari, come ora fanno ivi ed a Genova e
Venezia..... Semplice e parco è il vitto de’ Fiorentini, ma con mirabil
mondizia e pulitezza: le genti basse vanno alle taverne, ove sentono
si mescia buon vino, senza darsi pensiero, mentre i mercanti servano
mediocrità».

Queste descrizioni, esagerate forse, ma sopra un fondo di vero,
compiremo col rammentare come, dovendo i Pisani procedere a impresa
sopra le isole Baleari, Firenze si esibì di vegliare frattanto alla
sicurezza della loro città; poi, offertole un premio, chiese due
colonne di porfido. Il fatto e il guiderdone dicono assai di quell’età.

Così Firenze cresceva in riposato vivere di cittadini, quando la
privata nimicizia di due case l’appestò colle fazioni de’ Guelfi e
Ghibellini. Buondelmonte de’ Buondelmonti, già signori di Montebuono
nel val d’Arno, avea fidanzata una figliuola di Oderigo Giantrufetti
degli Amedei (1215). Ora cavalcando egli un giorno davanti la casa
de’ Donati, Aldruda donna di questi gli fece motto, e mostrandogli
la sua figliuola, bellissima e unica ereditiera di lauto patrimonio,
gli disse: — Io l’avevo cresciuta e serbata per te». Buondelmonte ne
restò invaghito, e ruppe le nozze coll’altra. Vivo sdegno ne concepì
Oderigo, ed affiatatosi co’ parenti suoi, Uberti, Fifanti, Lamberti,
Gangalandi, deliberarono batterlo e fargli vergogna; ma Mosca de’
Lamberti proferì la mala parola: _Cosa fatta capo ha_, quasi a dire —
Freddiamolo, chè dopo il fatto si rattoppa»; e il giorno che, vestito
nobilmente di nuovo di veste bianca in su un bianco palafreno, menava
moglie, a piè del Ponte Vecchio l’uccisero. Il popolo diede addosso
agli uccisori, e ne cominciarono gravi nimicizie fra i cittadini,
ciascuno parteggiando per questo o per quello sotto il nome di Guelfi
o di Ghibellini, sicchè la città ebbe sembianza di due campi nemici.
A San Pier Scheraggio stavano le case degli Uberti, che seguiti dai
Fifanti, Infangati, Amedei, Malespini, combattevano i Bagnesi, i Pulci,
i Guidalotti, i Gherardini, i Foraboschi, i Sacchetti, i Manieri,
i Cavalcanti, d’intenzione guelfa. Al duomo attorno alla torre dei
Lancia restringeansi Barucci, Agolanti, Brunelleschi, contendendo con
Tosinghi, Agli, Sizi, Arrigucci. A porta San Pietro i Tedaldini coi
Caponsacchi, Elisei, Abati, Galigaj contrastavano i guelfi Donati,
Visdomini, Pazzi, Adimari, Della Bella, Cerchi, Ardinghi. La torre
dello Scarafaggio de’ Soldanieri in San Pancrazio spiegava la bandiera
ghibellina, sostenuta dai Lamberti, Cipriani, Toschi, Migliorelli,
Amieri, Pigli, contro Tornaquinci, Vecchietti, Bostichi. Così ne’
restanti sestieri; e anche in Borgo i Buondelmonti guerreggiavano
gli Scolari, stando con quelli i Giandonati, Gianfigliazzi, Scali,
Gualterotti, Importuni guelfi, con questi i Guidi, Galli, Capiardi,
Soldanieri; e oltr’Arno i Gangalandi, Ubriachi, Mannelli ghibellini,
guelfi i Nerli, i Frescobaldi, i Bardi, i Mozi: ed a vicenda si
cacciavano, e chiedeano alleanza nelle altre città e dai castellani di
loro amistade.

Al tempo di Federico II i Ghibellini prevalsero, e fra essi gli Uberti
(1249) impacciavano il commercio di Firenze, e invitato uno stuolo di
Tedeschi con Federico d’Antiochia figlio dell’imperatore, snidarono
dalla città i Guelfi. Nella mischia era perito Rustico Marignolli,
caporione di questa parte; e i suoi, per non lasciarlo all’insulto de’
nemici, tornarono indietro senza curar di pericolo, e portando i ceri
e la bara da una mano, dall’altra armi ferocissime, gli fecero esequie
singolari. I Ghibellini trionfanti abbatterono le torri de’ nemici,
e tentarono fin diroccare San Giovanni dove teneano loro adunanze,
li perseguirono pel contado e ne’ castelli di Capraja, Figline,
Montevarchi, e avutine alcuni prigioni, li consegnarono a Federico II,
che gli uccise, accecò o tenne carcerati.

Rimasti senza competitori, i Ghibellini istituirono in città un governo
aristocratico, tutto in aggravio della plebe e dei liberi borghesi.
Ma questi presero riscossa, e rivendicatisi da quelle estorsioni e
prepotenze, tennero parlamento in piazza Santa Croce (1250 — 20 8bre),
e formarono una confederazione col nome di _popolo_, vie più lodevoli
perchè seppero temperarsi dalle riazioni. Abolito il podestà de’
nobili, surrogaronvi un capitano che fosse «guelfo e della parte guelfa
zelante, fedele e divoto della sacrosanta Chiesa romana, e non ligio
ad alcun re, principe, signore o barone avverso a quella»; assistito da
una signoria bimensile di dodici anziani, due per sestiere; e divisero
la cittadinanza in venti gonfaloni, che costituivano altrettante
compagnie di milizia, la campagna in novantasei pivieri. Ad un cenno
del capitano e ai rintocchi della _martinella_, la milizia doveva
raccogliersi attorno al carroccio del gonfalone bianco e vermiglio, e
in tal guisa più volte corsero addosso ai grandi. Ai quali non fu tolto
se non il poter sopraffare, mozzando delle loro torri quanto sorpassava
le cinquanta braccia, e colle pietre munendo il sestiere dell’Arno per
aver la forza che francheggia la libertà: a foggia pur di fortezza
fabbricossi il palazzo del podestà, dove risedessero i membri del
Governo.

Con questa nuova forma di stato popolare, Firenze passò dieci anni
memorabili per grandi fatti. Appena la morte dell’imperatore Federico
l’alleggerì della paura, rimpatriò i Guelfi esigliati, costrinse i
nobili delle due fazioni a segnar la pace, obbligò Pistoja, Arezzo,
Siena a mutarsi dalla bandiera imperiale alla sua: battè Poggibonzi
e Volterra, le cui mura etrusche riparavano i Ghibellini; presso
Pontedera sconfisse i Pisani[24]; e in memoria di quest’_anno delle
vittorie_ coniò la nuova moneta d’oro di ventiquattro carati e d’un
ottavo d’oncia d’oro, detta il _fiorino_ perchè portava il fiore,
simbolo parlante di essa città.

Gli anni successivi continuarono le prosperità; ma i Ghibellini fecero
trama di ricuperare il sopravvento, e citati a giustificarsi, presero
le armi ed eressero barricate. Il popolo gli attaccò, alcuno uccise,
gli altri via. Guidati da Farinata degli Uberti, essi ricoverarono
a Siena; e poichè questa avea reciproco patto con Firenze di non
accogliere i profughi, le fu intimato guerra. Firenze era stata
posta all’interdetto per aver fatto sulla pubblica piazza _segar la
gorgiera_ a un Beccaria pavese abate di Vallombrosa, imputato di trame
coi fuorusciti, sicchè la guerra vestiva anche apparenze religiose;
e i Ghibellini (1258) non si fecero coscienza di chiedere tedeschi
ajuti a re Manfredi, che già era stato gridato signore di Siena. Se
ne promettevano un esercito, ed egli mandò soli cento uomini; di che
i Ghibellini stavano sconfortati: ma l’accorto Farinata disse loro: —
Basta ch’ei mandi la sua insegna, e noi la metteremo in sì fatto luogo,
che, senz’altro pregare, egli ci darà maggiori ajuti». Ubriacati, li
spinse addosso ai Guelfi, di cui fecero strage: ma questi, rannoditisi,
li sconfissero ed uccisero fin ad uno. La bandiera dell’aquila nera
in campo d’argento fu trascinata pel fango sin a Firenze, dove furono
decretate dieci lire a chiunque avesse fatto prigione un cavaliero,
metà per un fante cittadino, e tre lire se mercenario, stabilendo
simile compenso anche per l’avvenire[25].

Come Farinata avea previsto, Manfredi conobbe impegnato l’onor suo;
e spinto anche da ventimila fiorini speditigli, inviò milleottocento
cavalieri tedeschi, comandati da suo nipote Giordano d’Anglano; coi
quali e coi Senesi e i fuorusciti mise in campo ventimila uomini. Due
bugiardi frati promisero ai Fiorentini che i Guelfi senesi aprirebbero
loro la città: laonde, per quanto i prudenti sconsigliassero
dall’impigliarsi sul territorio nemico, mentre aspettando vedrebbero i
Tedeschi ben presto sparpagliati per mancanza di paghe, prevalsero gli
esagerati che codardia chiamano l’attendere l’opportunità: un cavaliero
che suggeriva questo partito, fu multato; a un altro imposto silenzio,
pena cento lire, ed esso vi s’assoggettò per parlare; raddoppiata la
multa, esso non tacque; nè quando fu portata a quattrocento lire, e
sinchè non fu minacciato della testa.

Risoluta la spedizione (1260), non vi ebbe famiglia che non mandasse
alcuno a piedi o a cavallo. Nella marcia faceano d’antiguardo gli
arcieri e balestrieri della città e del contado; seguiva la cavalleria
e il popolo di tre sestieri della città, indi la cavalleria e i
fanti degli altri; formavano il retroguardo i confederati a piedi
o a cavallo. Con loro andavano genti di Bologna, Lucca, Pistoja,
Sanminiato, San Geminiano, Volterra, Perugia, Orvieto e molti
mercenarj; in tutto più di trentamila combattenti. La battaglia datasi
ne’ colli di Monteaperti (4 7bre) sull’Arbia, a sei miglia da Siena,
è de’ fatti più celebri nell’età eroica delle nostre Repubbliche. I
Senesi vi si prepararono colle divozioni, «e quasi tutta la notte la
gente attendevano a confessarsi e a fare paci l’uno coll’altro. Chi
maggiore ingiuria avea ricevuta, quello bene andava cercando il suo
nemico per baciarlo in bocca e perdonargli. In questo si consumò la
maggior parte della notte»[26]. Avviaronsi poi le schiere: e «quelle
valenti donne, che erano rimaste in Siena insieme con messere lo
vescovo e con quelli cherici, incominciarono lo venerdì mattina per
tempo una solenne processione con tutte le reliquie che erano in duomo
e in tutte le chiese di Siena. Così andavano visitando per effetto,
sempre i cherici cantando salmi divini, litanie e orazioni: le donne
tutte scalze con assai vili vestimenti andavano pregando sempre Iddio
che rimandasse chi loro padre, chi loro figliuolo, chi loro fratelli,
chi loro mariti; e tutti con grandi lacrime e pianti andavano ad
essa processione, sempre chiamando la Vergine Maria. Così andarono
tutto il venerdì, e tutto quello dì aveano digiunato. Quando venne la
sera, la processione tornò al duomo, e ivi tutti s’inginocchiarono,
e tanto stettero fermi, che fur dette le litanie con molte orazioni.
Discendendo dal poggio si fecero al piano, e ivi si fe innanzi a tutti
il franco cavaliere maestro Arrigo d’Astimbergo, e fe riverenza al
capitano e a tutti gli altri, dicendo: _Tutti quelli di casa nostra
siamo dal sacro imperio privilegiati, che in ogni battaglia che noi ci
troviamo, doviamo essere i primi servidori. Pertanto a me tocca avere
l’onore di casa nostra; e di ciò vi prego che siate contenti._ E gli fu
conceduto, come di ragione si doveva.

«Stando così la gente de’ Senesi, fu veduto per la maggior parte della
gente (fiorentina) uno mantello bianchissimo, il quale copriva tutto
il campo de’ Senesi e la città di Siena..... Alquanti diceano che loro
parea il mantello della nostra Vergine Maria, la quale guarda e difende
il popolo di Siena..... In questo essendo veduto il mantello nel campo
de’ Senesi e sopra alla città di Siena, come alluminati da Dio si
inginocchiarono in terra con lacrime invocando la Vergine gloriosa. E
tutti dicevano: _Questo è un grande miracolo; questo è per li preghi
dello nostro vescovo e de’ santi religiosi_»[27].

I Ghibellini erano in numero inferiori, ma meglio disciplinati
e concordi; e Bocca degli Abbati ed altri, loro fautori secreti,
disertarono dai Fiorentini, che ne rimasero scompigliati: la martinella
cessò di rintoccare; i primi cavalieri fuggirono e così rimasero salvi,
ma de’ pedoni forse tremila furono morti, assaissimi prigionieri; il
carroccio preso, e con grandi feste trascinato a ritroso; e sovra
un asino e colle mani al dosso un araldo che i Fiorentini, creduli
all’intelligenza, aveano spedito a domandare le porte di Siena; e il
popolo dietro gridava: — Or venite ed occupate la città, e fabbricatevi
un forte»[28]. Il vessillo di re Manfredi sventolava innanzi ai
Tedeschi, che con frondi nell’elmo inneggiavano nella lingua del lor
paese la vittoria sul nostro. Dal carroccio senese magnificamente
addobbato sventolava il gonfalone del Comune, dietro a cui i
prigionieri, satolli d’oltraggi: de’ quali non fanno parsimonia neppure
i cronisti, che raccontano come fu permesso ai privati di ricevere
il riscatto de’ prigioni, ma i magistrati vollero s’aggiungesse un
capro per testa, col sangue de’ quali s’impastò la calce per ristorare
una fontana che conservò il nome _dei Becchi_. Anche una chiesa fu
eretta a memoria e in onore di san Giorgio, con festa anniversaria; e
Margaritone dipinse per Farinata un crocifisso al modo bisantino. Molte
famiglie di Firenze sgomentate mutaronsi a Lucca, dove anche i Guelfi
di Prato, Pistoja, Volterra, San Geminiano e di altri luoghi.

Ripresa superiorità, i Ghibellini congregati ad Empoli posero
il partito di distruggere Firenze, nido degli avversarj: solo il
magnanimo Farinata dichiarò esser venuto in quella confederazione,
non per disfare la città, sì per conservarla vincitrice[29]. Siffatta
proposizione v’accenna il furore della parte ghibellina, la quale punì,
taglieggiò e riformò lo Stato a modo imperiale, levando i privilegi
plebei e le gravezze contro gli aristocratici. Il conte Guido Novello,
fatto vicario di re Manfredi in Toscana, assalì Lucca, ricovero de’
Guelfi, la quale, invano mandato ad invitare Corradino, non potè
salvarsi se non col respingere i rifuggiti, cui non rimase più luogo in
Toscana. Malgrado la vittoria di Carlo d’Angiò, Guido potè conservare
Firenze ai Ghibellini, e a due frati Gaudenti di Bologna diede incarico
di metterli in pace co’ Guelfi, nominandoli podestà con trentasei savj
(1266). Con questi, essi distribuirono le arti in dodici corporazioni,
parte dette maggiori, parte minori; e ciascuna avea consoli, capitani,
stendardo. Di qui principia il vero governo popolare; laonde ben
dice il Villani che «d’allora innanzi non vi fu niuno grande», cioè
superiore alla legge.

L’unione è sempre funesta alla tirannide; e ben presto il popolo
insorse contro il conte Guido, che stimò bene ritirarsi; e la città
si riformò a bandiera guelfa, commettendo la signoria a Carlo d’Angiò
per dieci anni. Egli combattè i Ghibellini a Poggibonzi, che resistè
quattro mesi, e pigliò molti castelli del Pisano. Il papa avea mandato
la bandiera coll’aquila vermiglia in campo bianco e sotto un serpente
verde, la quale rimase poi sempre insegna della _massa guelfa_, come
si chiamò un magistrato stabilito per amministrare i beni confiscati
ai Ghibellini contumaci a vantaggio de’ Guelfi[30]. Indipendente
dalla Signoria, essa eleggeva da sè i proprj uffizj e consigli,
faceva ordini e leggi, riceveva e spacciava lettere ad altri Stati con
proprio suggello, e vigilava che ad onori o benefizj del Comune non si
ammettesse verun Ghibellino: perciò fu di gran peso negli avvenimenti,
e sopravissuta alla libertà come amministrazione economica, restò
abolita soltanto il 1769.

Quegli avvicendamenti moltiplicavano i rancori, le confische, i
patimenti, ma insieme la vita e l’ardimento delle grandi cose. «La
città di Firenze è posta di sua natura in luogo salvatico e sterile,
che non potrebbe con tutta la fatica dare da vivere agli abitanti...
e per questo sono usciti fuori di loro terreno a cercare altre terre
e provincie e paesi, dove uno e altro ha veduto da potersi avanzare
un tempo, e fare tesoro, e tornare a casa: e andando a questo modo per
tutti i regni del mondo e cristiani e infedeli, hanno veduto il costume
delle altre nazioni... e l’uno ha fatto venire volontà all’altro,
intanto che, chi non è mercatante e che abbia cerco il mondo e veduto
le strane nazioni delle genti e tornato alla patria con avere, non è
riputato da niente... ed è tanto il numero, che vanno per lo mondo in
loro giovinezza, e guadagnano e acquistano pratica e virtù e costumi
e tesoro, che tutti insieme fanno una comunità di sì grande numero
di valenti e ricchi uomini, che non ha pari al mondo»[31]. Spesso
i mercanti si trovavano soli a sostenere le pubbliche gravezze, e
prestavano denaro ai nobili per grandeggiare, alla plebe per comprarsi
derrate. Presero dunque animo non solo a voler parte nel Governo,
ma ad escludere i possessori; e fu stabilita la _signoria_ di sei
priori, obbligati a convivere in palazzo senza uscirne pe’ due mesi
che duravano; e che uniti ai consigli delle arti maggiori, eleggevano
i successori. Doveano appartenere ad un’arte, e perciò vi si faceano
immatricolare anche i nobili e le casate di messeri che aspirassero al
Governo; onde il Comune non si considerava che di artigiani e popolo.
Ai priori presiedeva un gonfaloniere; ed erano serviti da tre grandi
uffiziali forestieri, il podestà, il capitano del popolo, l’esecutore
degli ordinamenti di giustizia.

Tratto tratto i Fiorentini armavano per far prevalere la fazione
guelfa, o si mescolavano nelle controversie di Lucca, Siena, Pistoja,
Cortona, dove aveano luogo gli stessi avvicendamenti, nelle più
prevalendo la democrazia. A Siena i Nove, difensori bimensili della
comunità e del popolo, doveano essere mercanti: e così a Pistoja gli
anziani, esclusi i nobili antichi e quelli che per alcuna colpa fossero
registrati fra i nobili. Ad Arezzo s’erano ridotti i Ghibellini da
tutta Toscana, sicchè la parte nobile erasi rialzata sotto il vescovo
Guglielmo degli Ubertini. I Guelfi di Firenze vollero reprimerli,
e avendo tutta Toscana preso parte di qua o di là, scontraronsi a
Campaldino presso Bibiena (1289 — 11 giugno). Sul venire alla mischia,
solevansi designare dodici paladini, che s’avventassero come perduti
contro i nemici a capo della cavalleria, incorandola col loro esempio.
A tale impresa il fiorentino Vieri de’ Cerchi, benchè infermiccio,
nominò se stesso, poi suo figlio, indi non volle nominar altri; ma
tanto bastò perchè a furia si volesse esser del numero, e cencinquanta
domandarono d’entrare paladini.

«Il vescovo (d’Arezzo), ch’avea corta vista, domandò: _Quelle che
mura sono?_ Fugli risposto: _I palvesi dei nemici_. Messer Barone
de’ Mangiadori da Sanminiato, franco ed esperto cavaliere in fatti
d’arme, raunati gli uomini d’arme, disse loro: _Signori, le guerre di
Toscana soleansi vincere per bene assalire, e non duravano, e pochi
uomini vi moriano, chè non era in uso l’ucciderli... Ora è mutata
moda, e vinconsi per istar bene fermi: il perchè io vi consiglio che
voi siate forti, e lasciateli assalire_. E così disposono di fare. Gli
Aretini assalirono il campo sì vigorosamente e con tanta forza, che
la schiera de’ Fiorentini forte rinculò. La battaglia fu molto aspra e
dura. Cavalieri novelli vi s’erano fatti dall’una parte e dall’altra.
Messer Corso Donati colla brigata de’ Pistoiesi ferì i nemici per
costa, onde erano scoperti: l’aria era coperta di nuvoli, la polvere
era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i
ventri dei cavalli colle coltella in mano, e sbudellavangli, e de’ loro
feritori trascorsono tanto che nel mezzo della schiera furono morti
molti di ciascuna parte. Molti quel dì furono vili, ch’erano stimati di
grande prodezza; e molti di cui non si parlava, furono stimati»[32].

I Fiorentini ebbero trionfo, ma nè per questo posarono dai tumulti.

I nobili, confidenti nella pratica delle armi, mal sapeano piegarsi
al freno della legge, soprusavano ai popolani, e quando alcuno avea
commesso un delitto, tutta la sua famiglia compariva coll’armi allato,
per sottrarlo alla giustizia. Il gonfaloniere vedeasi allora costretto
armar la gioventù per punire a forza il delinquente. — Molti ne furono
puniti secondo la legge, e i primi che vi caddero, furono i Galigaj;
chè alcuno di loro fe un malificio in Francia in due figliuoli d’un
mercatante, Ugolino Benivieni, che vennero a parole insieme, per le
quali l’uno de’ detti fratelli fu ferito da quello de’ Galigaj, che
ne morì. E io Dino Compagni (così racconta questo bravo cronista)
ritrovandomi gonfaloniere di giustizia nel 1293, andai alle loro case
e dai loro consorti, e quelle feci disfare secondo le leggi. Di questo
principio seguitò agli altri gonfalonieri un malo uso, perchè, se
disfacevano secondo le leggi, il popolo dicea che erano crudeli; che
erano vili, se non disfaceano affatto: e molti sformavano la giustizia
per tema del popolo».

Giano della Bella, nobile eppure fattosi capo de’ popolani (1293),
de’ quali personificò i risentimenti, «uomo virile e di grand’animo,
che difendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che
altri taceva», ebbe il coraggio che mancava alle società popolari
per reprimere i grandi, e persuase a scegliere un gonfaloniere di
giustizia con mille fanti, acciocchè coll’insegna popolare della croce
rossa in campo bianco reprimesse vigorosamente i prepotenti. Sortito
egli stesso a quell’illimitato uffizio, e giovandosi dell’essere i
nobili in guerra gli uni cogli altri, proclamò ordinanze in costoro
aggravio, «ed a vera e perpetuale concordia, unitade e conservamento e
accrescimento del pacifico e riposevole stato degli artefici e delle
arti e di tutti i popolani, e di tutto il comune e de la cittade e
del distretto di Firenze». Fece escludere per sempre dagli uffizj
cittadini trentasette casate magnatizie, e alla Signoria diede arbitrio
di aggiungervi qualunque famiglia nobile demeritasse; e la legge
prefiggeva si potesse arrolare fra i nobili soltanto _pro homicidio,
pro veneno, pro rapina seu robaria, pro furtu, pro incestu_. Chi era
così notato, dovea dare duemila lire per cauzione dei suoi portamenti,
non uscire in tempi di tumulto, non possedere casa vicino a un ponte
o ad una porta della città, non appellarsi da’ giudizj criminali, non
accusare un plebeo, salvo per delitto contro la persona sua o di uno di
sua famiglia; non testimoniare contro un popolano senza consenso de’
priori: ed i suoi parenti fino al quarto grado erano tenuti in solido
delle multe impostegli. I borghesi furono divisi in venti compagnie
da cinquanta uomini, poi da ducento, affinchè prontamente accorressero
alla chiamata dell’armi. Si affezionò il popolo a tali _ordinamenti di
giustizia_[33], col dare ne’ consigli generali qualche autorità alle
_capitudini_, cioè ai consoli delle maestranze.

Al tempo stesso la Repubblica estendeva la sua giurisdizione su
Poggibonzi, Certaldo, Gambussi, Catignano; ritoglieva quelle che alcuni
conti e cattanei teneano da antico, o aveano di fresco ricuperate. I
nobili, sdegnatine, tanto più che consideravano Giano qual disertore,
ricorsero ad ogni via di perderlo. Non osando l’assassinio per tema del
popolo, gli opposero un signore che allegava diplomi dell’imperatore o
del papa; ma meglio profittarono d’un artifizio non più disimparato, e
pur testè da patrioti nostri non solo messo in pratica, ma insegnato
a stampa, qual è di gettare sull’avversario politico la calunnia,
affinchè coll’onore gli sia tolta credenza. Posero dunque Giano in
sospetto al popolo, la sua severità imputando a tirannide; e poichè
nel punire i malvagi (1295) egli volle proteggere il podestà contro
un’insurrezione di piazza, fu espulso; e confiscatigli i beni, morì in
esiglio.

Non per questo rivalsero i nobili, e trovandosi messi dissotto della
legge, ritiravansi dalla città, usando da tirannetti ne’ loro castelli.
Per reprimere le due trapotenti famiglie dei Pazzi e degli Ubertini
nel Valdarno superiore, i Fiorentini fabbricarono le tre fortezze di
Terranuova, San Giovanni e Castelfranco, a lato ai coloro tenimenti,
concedendo tante franchigie, che i sudditi di quelli e dei Ricàsoli e
dei Conti e d’altri baroncelli vicini accorsero a farsi terrazzani di
que’ castelli, per ciò prontamente cresciuti. Egualmente contro gli
Ubaldini furono fabbricate Casaglia, Scarperia o Castel San Barnaba,
Firenzuola, Barberino, assolto per dieci anni da imposizioni, e colla
privativa ai magnati di potervi fare acquisti.



CAPITOLO XCVI.

Le Repubbliche marittime. Costituzione di Venezia.


Firenze i Guelfi, Pisa capitanava i Ghibellini di Toscana. Il terreno
che, abbandonato dall’acque, formò via via quella vasta pianura ed
allontanò la città dal mare, diventava proprietà dei re d’Italia,
i quali ne faceano larghezza alla chiesa o all’arcivescovo di Pisa,
venuto perciò di ricchezza famosa e anche di estesa giurisdizione. Già
la vedemmo «in grande e nobile stato di grandi e possenti cittadini de’
più d’Italia, ed erano in accordo ed unità, e manteneano grande stato,
imperò che v’era cittadino il giudice di Gallura, il conte Ugolino, il
conte Fazio, il conte Nieri, il conte Anselmo e ’l giudice d’Arborea;
e ciascuno per sè tenea gran corte, e con molti cittadini e cavalieri
a fiate cavalcavano ciascuno per la terra; e per la loro grandezza e
gentilezza erano signori di Sardegna, di Corsica e d’Elba, onde aveano
grandissime rendite in proprio e per lo Comune, e quasi dominavano il
mare con loro legni e mercanzie» (VILLANI).

Tra le famiglie pisane che dominavano in Sardegna, prepolleva quella
de’ Visconti; agli Alberti obbediva la Capraja: altri, come i giudici
d’Arborèa e i varj consorti della famiglia Gherardesca, aveano
palazzo, corte, masnada propria nella città. Al modo poi che Genova
sulle riviere, e Venezia sulla costa illirica, Pisa teneva possessi
nella Toscana; ed Enrico VI le concesse tutti i diritti regj nella
città e un territorio ricco di sessantaquattro borgate e castelli. Con
Genova e Lucca disputava il possesso della Lunigiana, ed occupati i
feudi dei vescovi e conti di Luni, vi rinnovò le cave del marmo, già
anticamente conosciute, onde trarne per la cattedrale sua e per quella
di Carrara[34].

Costante alla fede imperiale, vantaggiò della grandezza degli Svevi,
soffrì dei loro disastri. Da Firenze obbligata a rivocare i Guelfi
esigliati, questi colle loro ricchezze la risanguarono. Avendo i Pisani
preso a protezione il giudice di Ginerca in Corsica (1282), predone
che era stato battuto dai Genovesi, si esacerbarono le ire antiche fra
le due repubbliche, agitate ne’ mari e negli scali del Levante. Nè
vuolsi tacere come le due emule, affinchè non si dicesse aver l’una
soverchiato l’altra di sorpresa, teneano un notaro ciascuna nella
nemica, che informasse i suoi di quanto vi si preparava[35].

Dopo lungo manovrare, Nicolò Spinola si presentò colla flotta
ligure alle foci dell’Arno; Rosso Buzzaccherini gli menò incontro
la pisana; e settanta vascelli genovesi, e sessantaquattro pisani
(numero portentoso!) si diedero la caccia con diversa fortuna. Pisa
si trovò esausta dalle spese, ma vi sopperirono le illustri famiglie:
i Lanfranchi armarono undici galee, sei i Gualandi, Lei, Gaetani,
tre i Sismondi, quattro gli Orlandi, cinque gli Upezzenghi, tre i
Visconti, due i Moschi; onde una flotta di centotre galee si accostò
al porto di Genova scoccandovi freccie d’argento. Centosette galee
salparono da Genova tra le benedizioni dell’arcivescovo e gli augurj
patriotici, e scontrata la nemica alla Melòria (1284 — 6 agosto), banco
rimpetto al colmato seno di Porto Pisano, la fracassò, prendendo anche
l’ammiraglio Morosini e lo stendardo e il sigillo del Comune. Diecimila
Pisani furono tenuti prigionieri a Genova sedici anni, non uccidendoli
acciocchè le donne loro non potessero, rimaritandosi, di nuova prole
risarcire la patria. Diceasi pertanto, chi voleva veder Pisa andasse
a Genova; donde essi regolavano le sorti della patria; nuovi Regoli,
la sconsigliavano dal cambiarli con Castro di Sardegna, fortezza
fabbricata dagli avi e difesa con tanto costo; e giuravano, se a questo
prezzo fossero redenti, si chiarirebbero nemici a que’ pusillanimi che
avevano sagrificato l’onor nazionale al bene privato.

Questo tracollo di Pisa lasciò in vantaggio i Guelfi di Toscana,
i quali si congiurarono contro l’unica ghibellina sino a che fosse
distrutta. Ed essa avrebbe avuto l’ultimo tuffo, se Ugolino conte
della Gherardesca (terra montana lungo il mare tra Livorno e Piombino)
non fosse colla sua abilità riuscito a scomporre la lega e riparare
e munire Porto Pisano. Conservando dieci anni il dominio della
patria, ottenne pace dai Lucchesi e Fiorentini; ma collo sbandire
le famiglie ghibelline e demolirne i palazzi si attirò acerbissimi
nemici e principalmente Nino di Gallura (1288). Rivangando antichi
fatti, costoro diedero voce che alla Meloria, dov’egli era uno de’
capitani, avesse cospirato a perdere la battaglia per indebolire la
patria; aggiungevano avesse compra la pace col tradire ai nemici le
castella, ed ora impedisse ogni accordo coi Genovesi per timore non
ripagassero i prigionieri. Anche l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini,
caldo ghibellino, gli si era avversato, pretendendo divider seco la
dominazione: ed Ugolino, cinto da nemici e malcontenti, raddoppiava
l’oppressione e cresceva l’odio. Un nipote osò dirgli quel che niun
altro, cioè l’indignazione che eccitava l’eccesso delle imposte;
e Ugolino gli s’avventò con un pugnale. Parò il colpo un nipote
dell’arcivescovo, amico dell’altro; e Ugolino si svelenì su questo
trucidandolo. Ruggeri prese accordo coi Gualandi, Sismondi, Lanfranchi,
Ripafratta, e assalito il conte, lo chiusero nella torre de’ Gualandi
alle Sette vie, con Gaddo e Uguccione figli suoi, e con Nino e
Anselmuccio, figli d’altri suoi figliuoli, e quivi li lasciarono morir
di fame. Ruggeri supremo allora in Pisa, e affidate le armi al conte
Guido di Montefeltro, la Repubblica riprese gli antichi confini.

A danno di Pisa armò novamente Genova (1290), che conquistò l’isola
d’Elba, e con ventiduemila combattenti, di cui cinquemila aveano
corazze bianche come la neve (CAFARO), distrusse Porto Pisano, ove
entrò spezzando le catene, che pendettero in quella città, sciagurato
monumento di fraterne guerre anche dopo strappati i trofei e i frutti
della libertà. Alla pace Pisa rinunziò ai diritti sopra la Corsica e a
Sassari di Sardegna.

Genova sin da’ primordj erasi regolata come una società mercantile
per via delle _compagnie_, che si costituivano all’uopo di mettere
insieme una flotta o condurre un’azienda per due, sei, venti anni; e i
consoli di queste erano spesso anche consoli del Comune. Imparaticcio
di governo, e che pure compì tante imprese quante vedemmo, acquistò le
Riviere e i possessi in Levante e prevalenza nelle vicende italiane.
Allora l’amministrazione della città non potè più confondersi con
quella d’interessi particolari, e fu affidata a capi annuali distinti,
benchè eletti ancora dalle otto Compagnie, che partecipavano del
governo in eguale porzione, e che sussistettero sempre, e divennero
quasi il mezzo per cui i cittadini potevano nello Stato. Formata una
di esse, chi si presentasse a darvi il nome fra undici giorni rimaneva
abile ad impieghi pubblici; se no, non poteva comparire in giudizio
fuorchè convenuto, nè alcun membro della Compagnia dovea servirlo
sulle galee o patrocinarlo avanti i tribunali. Di ogni Compagnia un
nobile veniva eletto a costituire il consiglio de’ Clavigeri, custodi
e amministratori del tesoro, presto saliti a grande importanza. Al
consiglio generale, che adunavasi in San Lorenzo, non sembra assistesse
tutto il popolo, bensì i meglio considerati fra le Compagnie; il
popolo era rappresentato dal cintraco o pubblico banditore, non per
deliberare, ma per persuadere. I quattro consoli eletti dal popolo
sovrano giuravano non fare guerra o pace senza consenso di questo, non
permettere merci forestiere, eccetto il legname di costruzione e le
munizioni navali, e rendere esatta giustizia. Questi consoli nel 1121
divennero annuali, e nel 30 furono distinti da quelli dei placiti,
vale a dire il potere amministrativo si separò dal giudiziale; e fra
essi consoli e il parlamento s’interpose il consiglio di Credenza
(_silentiarii_) o senato, che riceveva le ambascierie, i ricorsi de’
paesi soggetti, ponderava gli affari più rilevanti.

Dell’antica immunità vescovile rimanea vestigio nella _decima del
mare_, che l’arcivescovo riscoteva su tutte le navi che approdassero
con grano o sale; inoltre nel palazzo arcivescovile risedevano i
consoli dello Stato e quelli de’ placiti, il senato, i consigli;
i trattati si faceano in nome del vescovo e dei consoli, e molti
feudatarj prestavano il giuramento prima a lui, poi al Comune; egli poi
dominava in San Remo, sui marchesi Malaspina e su molti cittadini.

Verso il mezzo di quel secolo, anche gli altri paesi della Liguria
aspiravano ad esser detti genovesi, e i luoghi delle valli e de’ monti
vicini s’incorporavano a Genova. I feudatarj giuravano il Comune,
ed erano ascritti nel breve de’ consoli e sul libro delle famiglie
consolari; se avessero signorie lontane o titoli di conti e marchesi,
davanti al parlamento rinunziavano alla giurisdizione, chiedendo
essere ammessi in qualche compagnia; e immatricolati che fossero, erano
investiti di nuovo come vassalli dei diritti rinunziati, promettendo
tener casa aperta in città, abitarvi tre mesi, servire in guerra con
un prefisso numero di fanti, cavalli o marinaj: reciprocamente il
Comune s’obbligava a proteggerli, nei mesi d’assenza non obbligarli
a parlamenti, al trar delle navi, nè mai gravarli di maggiori
imposizioni; e consentiva che ne’ loro feudi adoprassero i calzari e il
manto purpureo.

Le comunità indipendenti promettevano assumere le guerre e le paci de’
Genovesi: non concedere asilo a verun bandito, corsaro o nemico, non
spedir navi da aprile a ottobre oltre Barcellona a ponente, nè oltre
l’isola di Sardegna a levante, senza che andata e ritorno toccassero il
porto di Genova; non molestare chi da questo o a questo veleggiasse;
contribuire in data porzione alle spese di cavalcate, o d’armamenti
navali, o di legazioni nelle parti marittime. Genova le prendeva
in protezione, ne assicurava i privilegi, e confermava i magistrati
ch’esse eleggevano[36].

Dalle guerre esterne e dal continuarsi le magistrature e le cariche
delle compagnie nelle famiglie originò una nobiltà cittadina, la quale
cagionò fazioni e brighe; e cinta di clienti, eresse torri e nutricò
battaglie interne. E poichè a reprimerle non bastavano religione nè
consoli, si ricorse qui pure ad un podestà forestiero, dandogli per
assessori otto nobili.

Attorno a Genova duravano molte piccole signorie. I Savonesi nel
1153 si resero quasi dipendenti da Genova, obbligandosi di venire
con questa agli armamenti, alle cavalcate, alle collette, osservare i
divieti posti da essa, non navigare oltre la Sardegna e Barcellona se
non movendovi dal porto genovese e tornandovi. Nel 1121 avea Genova
comprato Voltaggio dal marchese Gavi, nel 28 espugnato Montaldo,
nell’83 fondato il castello di Porto Venere. Nel 91 da Enrico VI si
fe cedere Monaco, benchè come parte della Turbìa fosse sottoposto ai
vescovi e al Comune di Nizza: ma molti glielo disputavano, e Genova
col pretendervi preparava un nido ai Grimaldi, che poi le diverrebbero
infesti.

Nizza era stata repubblica indipendente, divisa in città inferiore
e superiore, che ebbero tra sè liti e compromessi[37] finchè venne a
dominio de’ conti di Provenza, i quali altri castelli teneano in que’
dintorni. Raimondo Berengario II nel 1176 riconobbe i diritti del
comune e dei consoli di Nizza, sicchè rimanessero indipendenti, salvo
l’onore d’essi conti; e nel 1205 se ne cominciarono gli statuti[38].
Quei conti soffrivano di mal animo che Genova crescesse verso Nizza, e
impedironle sempre l’acquisto di Monaco; ma essa nel 1215 mandò Fulcone
da Castello con molti nobili sopra tre galee ed altri legni, coi quali
fondarono quattro torri, congiunte da una cortina alta trentatre palmi,
là dove poi fu il palazzo principesco. Nizza stessa in quell’anno giurò
il Comune di Genova.

Il porto che gli antichi chiamavano di Ercole Moneco, un miglio a
levante di Nizza, era stato spopolato dai Saracini, talchè non serviva
che di ricovero a pirati. Carlo II re di Provenza nel 1295 pensò
fabbricarvi un nuovo borgo, che intitolò Villafranca, trasferendovi gli
abitanti di Montolivo, colla promessa di cingerli di mura, edificarvi
una chiesa a san Michele, condurvi una fontana, tenerli franchi da’
ogni imposizione, eccetto il ripaggio e la gabella quali costumavansi
dai Nizzardi[39].

Robusti e fieri erano i conti Guerra di Ventimiglia, ne’ cui Stati San
Remo obbediva all’arcivescovo di Genova. I conti Quaranta, i signori
Casanova aveano signorie a Lingueglia e Garlenda e nel Castellani: i
marchesi Taggiaferro di Clavesana in Porto Maurizio, Diano, Andóra: i
del Carretto erano potentissimi da Capodimele ad Albissóla, e signori
di Savona[40]. Comuni distinti formavano Albenga, Savona, Noli. I
marchesi di Ponzone signoreggiavano Varazze, terra suddivisa poi tra
un’infinità di condomini. Seguivano i tenimenti dell’abbazia di San
Fruttuoso in Capodimonte. I conti di Lavagna dominavano, oltre Lavagna,
sopra Sestri, Varese, val di Taro, e fin in Pontrémoli, e a ponente
dell’Entella fino a Rapallo, e dall’altro lato fino a Brugnato e alla
Magra; confinavano coi signori di Passano, e coi Malaspina della
Lunigiana. Minori erano quei di Lagnoto e Celasco, di Rivalta, di
Vezzano, di Trebiano; infine venivano i marchesi di Massa, il Comune
di Lucca e l’emula Pisa. Più fra terra, Genova trovavasi a fianco
il Comune di Tortona, i marchesi di Parodi, di Gavi, di Bosco, che
giungeano fin al giogo di Voltri; i marchesi d’Incisa, di Ceva, di
Garessio; i signori di Pornassio, i conti di Badalucco, di Maro, di
Sospello; e più potenti quei di Monferrato e di Provenza[41].

Le due Riviere non tenevansi liete della supremazia di Genova, anzi
Savona e più spesso Ventimiglia la rinnegavano, ed appoggiavansi
all’emula Pisa. Tra la nobiltà castellana primeggiavano i Fieschi e
i Grimaldi, dediti ai Guelfi o Rampini, e i Doria e gli Spinola ai
Ghibellini o Mascherati; sommoveano la repubblica, reluttavano ai
magistrati, a vicenda portavano le loro creature a podestà, abati,
capitani della libertà; spingevano a minute guerre e spedizioni,
calando o salendo a norma degli avvenimenti generali d’Italia, pei
quali si mutava anche il governo interiore. Intanto ogni cosa andava
in baruffe intestine, che empivano di violenze e delitti la città e le
Riviere.

Talvolta sorgeva un di costoro che sanno blandire il popolo,
e a nome di esso procacciavasi suprema autorità. Allo spirare
dell’amministrazione di Filippo Torriano, il popolo levò rumore
(1257) pretendendo ch’egli avesse rubato, e che i sindacatori corrotti
l’avessero assolto; essere tempo di finire le concussioni dei nobili;
solo meritare la sua confidenza Guglielmo Boccanegra. E a spalle
portatolo sull’altare di San Siro, lo proclamano capitano del popolo;
la nobiltà cittadina è per lui, e lo vuole decenne, fin coll’arbitrio
di nominare il podestà annuale; la nobiltà feudataria gli tien testa,
ed egli la doma, eleva gente nuova, accarezza il vulgo, indi reso
ardito, abusa del potere per farsi crescere il soldo e arrogarsi nuove
prerogative, dà e toglie impieghi a capriccio, sprezza le deliberazioni
de’ consigli, cassa le sentenze de’ tribunali. Aveva ordito
d’incarcerare tutti i primani; ma questi ammutinandosi presero le porte
acciocchè non potesse chiamar la gente di campagna, e lo abbatterono,
concedendogli appena la vita per istanze dell’arcivescovo; e si tornò
all’istituzione del podestà forestiero. Però il posto del capitano del
popolo e Comune genovese fu scopo all’ambizione dei nobili, e causa di
dispute incessanti.

Parve un tratto (1262) che Roberto Spinola fosse per ciuffare il
dominio supremo; ma quello sminuzzamento di ambiziosi che cagionava
la contesa, impediva la tirannide d’un solo. Si credette ovviare le
rivalità rendendo men arbitrario il modo di formare il gran consiglio,
convenendo che ciascuna compagnia avesse ad eleggere cinquanta membri,
i quali nominassero quattro consiglieri in un’altra compagnia, e questi
trentadue destinassero i consiglieri urbani e gli otto. Le pretensioni
delle famiglie toglievano ogni accordo durevole, sinchè nel 1339 il
dominio dei nobili fu scassinato per sostituire le case popolane degli
Adorno e Fregoso: ma i nobili tennero gran parte nelle magistrature,
nell’amministrazione, sulle flotte, e collocandosi or coll’una or
coll’altra delle fazioni predominanti, producevano una instabilità che
non potea neppure risolversi in tirannia[42].

I primi stabilimenti genovesi in Corsica dimostrano piuttosto imprese
di privati o dirette alla pirateria; ma nel 1195 la Repubblica
v’acquistò San Bonifazio, riducendola a colonia con un podestà e con
larghi privilegi. Nell’isola presero piede i fuorusciti di Genova,
che poi avversavano la metropoli; tanto che il giudice Sincello di
Pisa tornò a farvi prevalere la città sua, e i Genovesi si trovarono
novamente ristretti a San Bonifazio. I vassalli pagavano una tassa
sulla cera e metà del testatico, ed esercitavano giurisdizioni
inferiori, dipendenti dal giudice: ma appoggiandosi gli uni a Pisa,
gli altri a Genova, ne derivava anarchia, fomentata dai privilegi che
quelle concedevano a gara per farseli amici.

Di maggiore importanza stabilimenti ebbe Genova nel mar Jonio e nel
Nero, e commercio estesissimo, come vedemmo e vedremo. Da cinquanta
a settanta grossi vascelli salpavano ogni anno dalle prode liguri,
portando droghe e altre merci in Sardegna, in Sicilia, in Grecia,
in Provenza; altri assai con lana e pelli: e delle lucrate dovizie
facevasi bella, comoda, forte la patria. Dal 1276 all’83 si compirono
le due darsene e la grande muraglia del molo; nel 95 il magnifico
acquedotto, traverso aspre montagne.

Venezia, a seconda dei tempi, sviluppava i germi che v’avea deposti
la sua origine. Il doge Vitale Michiel II volea reprimere la perfidia
di Manuele Comneno col portargli grossa guerra: ma il popolo, che
vedeva andarne a ruina il commercio, a tumulto l’impedì. Quando
però le navi venete tornarono trafficando in Oriente, il Comneno le
sorprese, confiscò il carico, imprigionò le ciurme. Allora il popolo
schiamazzando chiede la guerra che schiamazzando avea repulso; il doge
li seconda, ma le arti dell’imperatore rattepidiscono quell’ardore:
intanto la peste si attacca alla flotta, e periti migliaja d’uomini,
pochi legni tornano nelle lagune. Poichè nei disastri vuolsi una
vittima, viene apposta ogni colpa al doge; e la plebe, che già
n’avea veduto deposti nove, cinque accecati, altrettanti uccisi, nove
costretti abdicare, trucidò il Michiel. Sei mesi s’indugiò a dargli
un successore (1172), sentendo la necessità di porre un limite alla
potenza d’un solo.

L’estensione della città rendeva omai impossibile lo adunare tutti
i cittadini, e tanto più il sorvegliare gli atti del Governo. Si
pensò dunque a una rappresentanza, istituendo che di ciascun sestiere
ogni anno si prendessero due elettori, i quali uniti scegliessero
quattrocentottanta persone per formare un maggior consiglio, che avesse
la sovranità della repubblica e nominasse tutti gli uffizj, persino
i proprj elettori; col qual modo gli eletti riuscivano sempre delle
stesse famiglie. A mezzo il secolo XIII l’annua rinnovazione facevasi
non più da dodici elettori, ma da un collegio di quattro membri, che
annualmente nominava cento nuovi consiglieri; e da uno di tre, che
eleggeva successori a chi morisse o lasciasse altrimenti un vuoto.
Nei casi che tutti dovessero concorrere ad alcuni pesi, convocavasi
il popolo, che votava per acclamazione l’arrengo: unico resto della
primitiva sovranità.

L’elezione del doge fu attribuita a quarantun elettori con quella
complicazione di estrazioni e scrutinj che altrove esponemmo (t.
VI, p. 181); nè altra parte vi ritenne il popolo se non che egli era
presentato a’ suoi applausi, e i mastri dell’arsenale lo portavano
in sedia sulle spalle nella processione che tre volte l’anno circuiva
la piazza San Marco. Cessavano dunque i dogi d’esser eletti col voto
universale diretto; e d’allora nè essi più cospirarono per divenire
sovrani, nè il popolo li trucidò. Giuravano adempiere i loro doveri,
quali erano espressi in una _promissione_: d’obbedirli giurava il
popolo, in cui vece poi il giuramento fu prestato dal sindaco che
ciascun sestiere eleggeva ogni quattr’anni e che rispondeva dei delitti
commessi nel suo sestiere.

Il doge, personificando l’autorità tutrice della pubblica salvezza,
dovea rappresentare, non operare; veruna risoluzione prendendo senza il
concorso di sei consiglieri, annualmente scelti dal consiglio maggiore,
un per sestiere, detti poi la _signoria_. In casi pe’ quali non si
avesse esempio precedente, o concernenti il credito pubblico ed il
commercio, o qualora stimasse opportuno avere il parere o il consenso
di cittadini creduti, e farsene appoggio nell’opinione, pregava
alquanti a venire a sè: forma occasionale, che poi, dogando Jacopo
Tiepolo, divenne stabile nella costituzione coi sessanta _pregadi_ o
senatori, non più scelti dal doge, ma dal gran consiglio colle forme
consuete. In tal modo i nobili trovaronsi partecipi del governo, e
cominciò il famoso senato.

Forse dal riunire le molte corti che giudicavano a principio nelle
varie isole, venne a formarsi la corte suprema della _quarentìa_
criminale, che giudicava collegialmente, invece dell’unico podestà
adoperato dai Comuni lombardi. Essendo la quarentìa chiamata a
pronunziare negli affari di Stato, acquistò attribuzioni politiche come
collegio intermedio fra la Signoria e il maggior consiglio, e ponderava
le proposizioni di quella, prima di esporle a questo. I tre capi
della quarentìa si resero poi membri perpetui della Signoria. Preso un
partito, il maggior consiglio ne affidava l’esecuzione alla Signoria,
cioè al doge col suo consiglio di sei, ovvero ai Quaranta.

Il suggello dello Stato rimaneva presso il cancellier grande, scelto
non da case nobili ma cittadine, supremo notajo degli atti legislativi,
presente al maggior consiglio e a tutte le solennità, insigne per
onorificenze ed emolumenti, fin ottantamila ducati l’anno traendo
dalle propine; ed essendo inamovibile, restava indipendente dal doge,
al quale appena cedeva in dignità. Tre avogadori del Comune, specie
di tribuni del popolo, patrocinavano la parte pubblica nelle cause di
Stato e nelle particolari, vegliando alla legalità, alla riscossione
delle tasse, alla nomina dei magistrati, al buon ordine; tenevano i
registri di nascita dei nobili; e il loro veto sospendeva per un mese
e un giorno gli atti di qualunque magistratura, eccetto il maggior
consiglio, e tre volte potevano ripeterlo, dopo di che esponevano i
motivi della loro opposizione.

Tre volte già era stato riformato lo statuto veneto allorquando
Jacopo Tiepolo nel 1232 ne pubblicò un nuovo, detto _Promissione
del maleficio_; poi dopo dieci anni fe raccogliere le vecchie leggi,
correggerle e disporle; e furono pubblicate in cinque libri, che con
sempre nuove aggiunte formarono il codice della repubblica.

Raccontavasi che Alessandro III, quando vi venne a conferenza
col Barbarossa, donasse al doge un anello dicendo: — Il mare vi
sia sottomesso come la sposa al marito, poichè colle vittorie ne
acquistaste il dominio». Di qui la festa dell’Ascensione, quando il
doge sullo splendido bucintoro andava a sposare il mare, gettandovi un
anello, e dicendo: _Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique
dominii_. Considerandosi perciò quai signori dell’Adriatico, i
Veneziani vollero imporre una gabella a tutte le navi che ascendessero
oltre una linea tirata da Ravenna al golfo di Fiume. Era senz’esempj
questo chiudere un mare, comune ai costieri; e ne vennero guerre,
massime coi Bolognesi, che però furono ridotti a rassegnarsi. Più tardi
Giulio li pretese privarneli, e avendo detto all’ambasciadore Girolamo
Donato, mostrasse il documento che attribuiva il golfo alla repubblica,
questi rispose: — Sta scritto sul rovescio della donazione fatta da
Costantino a san Silvestro». Il qual motto accenna la franchezza che
Venezia tenne sempre a fronte della curia romana; poichè mai non lasciò
trascendere le pretensioni clericali, e conservò sempre alta mano
sopra le chiese, quantunque mostrasse spiriti religiosi, e molti dogi
abdicassero per ritirarsi in monasteri, tra’ quali Pietro Ziani lasciò
a cento chiese o luoghi pii onde facessero uffizj per l’anima sua.

Più tardi Clemente V vietò il commerciare cogl’infedeli, gravando i
trasgressori d’una multa per la camera apostolica. Non vi badavano i
Veneziani; ma molti in articolo di morte non ottenevano l’assoluzione
se non soddisfacessero a questa multa, che talora assorbiva l’intera
sostanza. Il governo però non lasciava che tal denaro uscisse, e
quando Giovanni XXII (1322) mandò due nunzj per raccorre quelle postume
penitenze, o scomunicare chi le negava, intimò loro di partire. Il papa
interdisse i contumaci, citandoli ad Avignone; ma implicato col Bàvaro,
non potè dar seguito a quest’atto, e Benedetto XII concesse dispense
per far mercato cogl’Infedeli.

Quando sorse la quistione dei Tre Capitoli, dal patriarca d’Aquileja
scismatico si staccò il patriarca di Grado, al quale obbedirono Venezia
e le terre suddite. Alla pace con Alessandro III tenne compagnia una
concordia fra i due patriarchi, rinunziando il gradense alle ragioni
sulla provincia di quello e sui tesori che avea rapiti alla sua chiesa.
Nicolò V consentì che la dignità patriarcale da Grado si trasportasse
alla cattedrale di Castello di Venezia, e san Lorenzo Giustiniani ne fu
il primo patriarca: intitolavansi anche primati della Dalmazia.

Le singole isole avevano fin dall’origine tribuni proprj, e alla greca
divideansi in iscuole di mestieri, non dipendenti una dall’altra. Dopo
che a tutte fu preposto il doge, non si alterò l’interno ordinamento, e
i tribuni, mutati in massaj o gastaldi, deliberavano ciò che convenisse
rispetto alla guerra, al commercio, all’interna amministrazione. Nelle
scuole di rado era ammesso un forestiere, sicchè restavano separati i
nuovi popolani dagli originarj, che soli avevano voce all’elezione del
doge ed al governo. Gli antichi nobili traevano vigore dall’ingerenza
loro in questi Comuni, coi quali venivano considerati identici, essendo
con essi cresciuti; e con ciò metteano forte inciampo al doge, che
perciò volgevasi piuttosto alle cose di fuori. Enrico Dandolo, robusto
d’animo e irremovibile di proposito, ampliò la potenza di Venezia,
procurando farla in Levante prevalere ai Pisani, poi acquistando
un quartiere di Costantinopoli (1204) e un quarto e mezzo del greco
impero[43]: signoria disseminata sulle coste o nelle isole, fra cui
principale era Candia.

I Veneziani accasati a Costantinopoli ricevevano dalla metropoli un
podestà, dipendente dal doge e dal maggior consiglio, ed avevano essi
pure un grande e un piccolo consiglio, sei giudici per gli affari
civili e criminali, due camerlinghi per amministrar le finanze, due
avvocati per le controversie del fisco, e un capitano della flotta,
tutti spediti da Venezia. In modo eguale o simile erano costituite le
altre colonie, e poichè i magistrati di esse dipendeano dalla Signoria,
il doge poteva esercitarvi fattività impeditagli in patria, aveva
entrate indipendenti dai cittadini, faceasi corteggiare dai nobili che
ambivano quei lucrosi impieghi, e che dai conquisti d’alcune famiglie
erano intalentati a farne di nuovi.

In effetto molte famiglie presero stanza nelle isole e sulle coste, dal
che veniva consolidamento all’aristocrazia. Ma questa non derivava,
come altrove, dalla conquista, bensì dal credersi discendenti dai
primi che dalla terraferma passarono sulle isole, e crearono il
terreno della patria; il sistema feudale e i diritti nati dal possesso
stabile ignoravansi, territorj non avendo. Altri, segnalatisi nelle
magistrature, aveano trasmesso alle famiglie il lustro personale;
altri s’erano arricchiti col commercio e con possedimenti nelle isole
e in terraferma, che non conferivano diritti politici: sicchè ne venne
una nobiltà non oziante e pericolosa, ma che poco a poco acquistava
privilegi; ben distinta da’ plebei, eppure legata a questi mediante
una specie di patronato, che contraevasi col divenirne compari, e col
prenderli in protezione quando aspirassero a far passata.

Trattando però coi cavalieri di Francia nella crociata, i nobili videro
come si potea soperchiare la plebe, spogliandola d’ogni diritto;
nei governi stranieri contraevano l’abitudine del primeggiare, onde
finivasi con prendere in dispregio gl’ignobili. Più nulla contando
il popolo nelle elezioni, il doge non dovea che blandire il maggior
consiglio, da cui era creato. D’altra parte, osservando le repubbliche
del continente straziate da fazioni e terminanti in tirannia domestica,
alcuni desideravano la sovranità si confinasse in pochi, e proposero
di non ammettere nel gran consiglio se non quelli che vi sedeano
allora, e di cui v’erano seduti il padre, l’avo e il bisavo. Il doge
Giovanni Dandolo, comunque di famiglia antichissima e insuperbita
dalle conquiste e perciò mal veduta, si oppose a tal restrizione, e
ne seguirono parteggiamenti e sangue. Lui morto, mentre i quarantun
elettori deliberavano (1289), la moltitudine, già esacerbata per un
balzello sulla macina, cominciò a gridare alle usurpazioni de’ nobili,
che del doge, magistrato del popolo, aveano formata la creatura loro, e
proclamò Jacopo Tiepolo, di cui già erano stati dogi il padre e l’avo.
Con quest’aura popolare egli avrebbe potuto divenire un tirannetto,
come gli altri d’Italia: ma o magnanimo a sagrificar l’ambizione alla
libertà della patria, o pusillanime a non affrontare i rischi d’una
rivoluzione forse da lui fomentata, andò esule volontario, e gli
oligarchi riuscirono a metter doge Pier Gradenigo, uomo ancor fresco,
incline ad umiliare il popolo e i nuovi nobili sotto una nobiltà
ereditaria, al che il tempo gli diede opportunità.

L’ingrandirsi di Venezia eccitava gelosia a Genova e a Pisa. I Genovesi
le mossero anche aperta guerra in Tolemaide, ma a loro grave costo: poi
per contrariarla favorirono i Greci, a danno degl’imperatori Franchi di
Costantinopoli; quando questa fu ripresa, molti vantaggi stipularono, e
fecero chiudere ai Veneziani le tre vie dell’Eusino, dell’Egitto, della
Siria. Ne derivò lunga nimistà, che alfine fu composta per le cure
del papa: ma scoppiata di nuovo, l’imperatore Andronico II Paleologo
ne tolse occasione di far catturare i Veneziani; e i Genovesi mossero
addosso ai prigionieri, e li trucidarono.

Per vendetta (1293) Ruggero Morosini menò sessanta galee veneziane
a saccheggiare gli stabilimenti de’ Genovesi, prese e demolì Pera,
ove teneano quartiere, ed assalse il palazzo imperiale; intanto che
un’altra flottiglia distruggeva Caffa, e per tutti i mari predava i
legni e sovvertiva le colonie di Genova. Le due flotte si scontrarono
davanti a Cùrzola (8 7bre), isola di Dalmazia; e i Genovesi, governati
da Lamba Doria, tant’erano sbaldanziti, che proposero abbandonare ai
Veneziani le navi, purchè andasse salvo l’equipaggio. Avuto il no,
assumono il coraggio della disperazione, e vincono, da diecimila nemici
uccidono, seimila fanno prigionieri, fra’ quali Marco Polo e lo stesso
Andrea Dandolo ammiraglio, che, non sapendo darsi pace della perdita
d’una battaglia attaccata contro sua voglia, diè del capo nell’antenna
nemica e finì.

Genova esultò; stabilì che ogni 8 settembre la Signoria andasse offrire
un pallio di broccato d’oro in San Matteo, dove si fabbricherebbe un
palazzo all’ammiraglio vincitore. Ma Venezia non isbigottì, anzi,
crescendo animo a misura della perdita, ebbe subito in acqua cento
altre galee, chiamò macchine e piloti da Catalogna, accolse i Guelfi
fuorusciti di Genova; e Domenico Sciavo, già illustratosi nelle guerre
di Romelìa, portò il terrore nelle flotte genovesi, entrò fin nel porto
della nemica, e su quel molo (1294) battè moneta ed eresse un monumento
di disonore. Interpostosi Matteo Visconti, fu fatta una pace perpetua,
che ciascun capitano di nave dovea giurare prima di mettere alla vela.
Questi casi diedero prevalenza all’aristocrazia.

Venezia, vascello ancorato nelle lagune, viveva tutta delle relazioni
sue coi forestieri, onde non poteva abbandonarsi alla marea popolare,
ed aveva mestieri di sguardo attento, freddo calcolo, severa e coerente
politica, di un’energia sostenuta, d’un accentramento di forze, quale
non si può ottenere dalla moltitudine. Venne dunque consolidandosi
il predominio costituzionale dell’aristocrazia, e massime in questa
guerra, di cui ad essa toccavano le spese, i comandi, la gloria; onde
con tal vento essa mandò in porto una legge tutta a suo favore. Sebbene
il maggior consiglio eleggesse i proprj membri, asserivasi che da tempo
la scelta cadeva sempre nelle stesse famiglie; onde il doge Gradenigo,
uomo fermo, superiore alle vociferazioni del popolo e avverso a questo
perchè gli negò gli applausi, propose quel che altre volte era stato
respinto: non si esaminasse più se i membri delle famiglie allora
sedenti nel gran consiglio dovessero esser rieletti, ma se meritassero
d’essere esclusi; il qual giudizio si farebbe dal primo tribunale dello
Stato. Adunque i giudici della quarentìa ballottarono un per uno quelli
che negli ultimi quattro anni avevano partecipato al consiglio; e chi
riportò dodici dei quaranta suffragi, vi era confermato per un anno;
dopo di che eleggevansi i successori alla stessa maniera; tanto per non
levare tutte le speranze, s’aggiunse una lista di supplimento con nomi
di altri cittadini (_de aliis_) da ballottare occorrendo.

L’elezione del consiglio sovrano, allora di circa cinquecento membri,
si trovò dunque trasferita dal popolo nel tribunale criminale: quando
poi si proibì di ammettervi _uomini nuovi_, restò costituita una
nobiltà privilegiata ereditaria, escludendone anche casate opulente
ed antichissime, quali i Badoero, per l’accidente che nessun di loro
sedeva in quell’anno nel consiglio. Infine fu tolta la periodica
rinnovazione di questo, ed aboliti gli elettori col deliberare che,
chi possedesse le richieste condizioni, a venticinque anni fosse dalla
quarentìa registrato, e così entrasse nel gran consiglio. Il quale,
non più riempito che di nobili, al solo vantaggio de’ nobili provvide,
senza che rimanesse nè contrappeso alla podestà loro, nè speranza
al merito: presto ammutolita anche l’opposizione degli avogadori del
Comune, l’aristocrazia restò ereditaria.

La nobiltà esclusa dal maggior consiglio si arrovellava; reclamò, e
vide i reclamanti appiccati[44]; sicchè, non avendo legittima via
d’opposizione, ricorse alle trame onde acquistare non eguaglianza
con tutti, ma privilegi con pochi. Bajamonte (1310) figlio di Jacopo
Tiepolo, personalmente avverso al doge, unito colle famiglie Querini
che pretendea discendere da Galba imperatore, Badoero che erano i
Participazj sette volte dogi, Barbaro, Maffei, Barozzi, Vendelini ed
altre, che affettarono il nome di Guelfi e la protezione della Chiesa,
congiurarono di occupare la repubblica e ripristinare l’annua elezione.
Armi molte teneva ogni casa, sì per lusso, sì per proteggere i commerci
marittimi: Padova prometteva ajuti. Ma il doge ne seppe, e li prevenne;
adunò in piazza San Marco le poche forze e gli arsenalotti; si
battagliò per le vie, e molti anche de’ principali perirono; Bajamonte,
che si sostenne alcun tempo in Rialto, ricusò il perdono offerto, e
andò a morire fra i Croati. Degli altri catturati si fece sanguinosa
giustizia; sui profughi si lanciarono taglie e sicarj; abbattuti i
palazzi e cassati i nomi dei Querini e dei Tiepolo[45]. Onde prevenire
simili attentati, s’istituì la magistratura de’ Dieci, con arbitrio
sulla vita e l’avere dei cittadini e del pubblico. Era una commissione
straordinaria; ma seppe allungare i processi e concatenare gli indizj
tanto, che fu dichiarata stabile, e «tenacissimo vincolo della pubblica
concordia».

Novità tentò pure Marin Faliero, d’una delle tre più antiche case di
Venezia. Violento uomo, stando podestà a Treviso avea schiaffeggiato
il vescovo in pubblico perchè tardava a uscire in processione; poi
fatto doge (1354), e a settantasei anni sposata una bella fanciulla,
su tal conto ricevette una beffa sanguinosa da Michele Steno, uno dei
tre capi della quarantìa; e non potendo ottenere altra soddisfazione
che di vederlo fustigato a code di volpe e sbandito per un anno, tramò.
Vecchio, arrivato al posto maggiore cui l’ambizione potesse aspirare,
per mero dispetto si collegò con persone di poco conto, con Bertuccio
Israeli ammiraglio dell’arsenale, cioè capo de’ lavoratori, e collo
scultore Filippo Calendaro, plebei molto ascoltati fra il popolo;
del quale esageravano i sofferimenti, incolpandone l’aristocrazia, ed
invogliando a scassinarla. Tutto era disposto per una sollevazione ove
trucidare tutti i nobili, quando i Dieci n’ebbero spia, e il Faliero
(1355 — 17 aprile) convinto fu decapitato là dove i dogi prestavano
il giuramento; ai complici le forche, al popolo ribadite le catene, e
stabilito che _arengo_, cioè il parlamento generale, «nè per messer lo
dose nè per altri pol esser chiamado, salvo che, creando el dose, debba
esser chiamato arengo a pubblicar la creation secondo usanza».

Era il tempo che si vedevano per tutta Italia le repubbliche soccombere
a tiranni; e questo tentativo facea temere altrettanto a Venezia. Si
moltiplicarono dunque le cautele; e al doge, da capo della Repubblica
ridotto a delegato di pochi, si legarono sempre più le mani; e
cinque _corregidor della promission dogale_ ne’ patti da imporre a
ciascun nuovo doge introduceano variazioni ed esponeano le riforme di
governo che paressero opportune; tre _inquisitori del doge morto_ ne
sindacavano gli atti a confronto del giuramento prestato. Il quale di
volta in volta restringendosi, venne ad essere una rinunzia a tutte le
antiche prerogative, e quasi anche alla personale libertà. Il consiglio
del doge non fu più scelto da lui, ma dal senato; infine lo si volle
confermato dal parlamento; i sei membri rinnovavansi metà ogni quattro
mesi, nè mai doveano esser due del cognome o del sestiere stesso;
aprivano le lettere dirette al doge, rimettendole per lo spaccio ai
diversi uffizj; facevano le proposte in senato e nel maggior consiglio,
e il doge non avea maggior voto che uno di essi.

Perchè poi la sovranità fosse invigilata dall’amministrazione, si
stanziò che i tre capi della quarantìa sedessero coi sei consiglieri
a parte de’ loro uffizj. Il doge più non potè ricevere ambascerie
o lettere da’ forestieri, nè carte da sudditi, se non presente il
suo consiglio; non rispondere tampoco sì o no senza consultato con
quello; non permettere che alcun cittadino gli piegasse il ginocchio
o baciasse la mano; non soffrire altro titolo che di _messer il
doge_; non possedere feudo, censo, livello o beni stabili fuor del
ducato, cioè delle isole e del poco litorale tra le foci del Musone
e dell’Adige; non isposare straniera, nè con stranieri ammogliare i
figli senza permissione; nessuno poteva occupare impiego finchè stesse
a’ suoi stipendj e un anno dopo. Al decorato pupillo rivedeansi ogni
mese i conti, e se dovesse ad alcuno, gli era trattenuto del soldo:
gli si prescrisse perfino di non spendere più di mille lire nel far
ricevimento di stranieri; i primi sei mesi comprasse un vestone di
broccato d’oro, nè egli nè la moglie o i figli accettassero regali.
All’elezione di Nicola Marcello (1473) fu imposto che, vivo il doge,
figli e nipoti suoi non potessero accettare uffizio, benefizio o
dignità in vita o a tempo, nè sedere in verun consiglio, salvo il
grande e i pregadi, ove pure non aveano voce; soltanto nei Dieci potea
entrare un fratello del doge.

Questa gelosia da serraglio era estesa su tutta la nobiltà, vietandole
di sposare straniere, nè coprire pubbliche funzioni fuori, o servir
principe o Stato estero in guerra o in pace, nè tampoco possedere sul
continente d’Italia: legge vissuta finchè Venezia non venne dominatrice
della terraferma. Neppure i comandi degli eserciti poteano avere; e
dopo che, nella guerra di Padova, furono affidati a Pietro de Rossi già
signore di quella città, sempre il generale fu un mercenario, vigilato
da _provedidori_ scelti fra’ patrizj.

Principalmente addosso ai nobili pesava la severità dei Dieci,
piuttosto freno all’aristocrazia che stromento di tirannide sovra il
popolo. Componevano quel consiglio il doge, sei consiglieri ducali
e i Dieci, tutti con voce deliberativa; illegale la loro adunanza
se non fosse presente un avogador del Comune. Duravano un anno, e
un anno restavano in contumacia; erano eletti pochi per volta dal
maggior consiglio, e durante quella magistratura non poteano ricevere
altro uffizio; l’accettare stipendio o premio saria costato il capo.
Le denunzie segrete v’erano ricevute, come da tutti i magistrati, ma
richiedeano esame e prove. Il 28 gennajo 1432 _andò parte_ che «se da
ora innanzi alcuno o alcuni dei nobili nostri, da sè o col mezzo di
altri, sotto alcun pretesto, colore, modo, forma o ingegno che dire
od immaginare si possa, oserà fare qualche setta, confederazione,
compagnia od altra intelligenza chiara od occulta, colle parole o
coi fatti, con giuramento o senza, per ajutarsi l’un l’altro ne’
nostri consigli, siano banditi perpetuamente; e se tornino dal bando,
condannati al carcere in vita». Simile tenore tengono le leggi dei
Dieci, tutte dirette a reprimere i nobili con procedura compendiosa:
inoltre esercitavano un’alta polizia sul popolo, sui trattati più
secreti, sui falsatori di gioje o di monete, sui giuochi, sulle
spie; qualunque affare non civile riguardasse il clero, le sei grandi
confraternite della città, le feste, i boschi, le maschere, le gondole,
era di loro competenza; ai loro decreti obbligavano il senato e fino
il gran consiglio; disponevano dell’erario, davano istruzioni ad
ambasciadori, a generali, a governatori, modificavano la promissione
ducale. In occasione del processo contro Marin Faliero chiamarono una
_giunta_ di venti gentiluomini, che poi restò permanente sino al 1582,
e fu gran rinfranco al loro potere.

Questo concentrare la direzione dello Stato e dei poteri diede estrema
autorità e forza al Governo; questa vigilanza impedì che persone
o famiglie s’arrogassero la sovranità. Ma una procedura, ove non
erano leggi conosciute nè pene prefisse, ove i testimonj non erano
confrontati nè nominati tampoco, non offriva assicurazioni alla società
o all’individuo, schiudeva il campo alla perfida delazione e al pagato
spionaggio, stabiliva il despotismo per conservare il Governo.

Non lasciamoci però sgomentare dalle declamazioni, e ricordiamo
che i Dieci dopo un anno ricadevano sotto le leggi comuni; oltre i
segretarj dell’ordine cittadino, vi assistevano da cinquanta a sessanta
persone, tolte dai principali consessi dello Stato, e l’avogador potea
sospenderne gli atti; i giudizj erano segreti, ma scritti; al convenuto
non negavasi un difensore; il gran consiglio poteva modificare quello
dei Dieci o anche spegnerlo con non rinnovare le nomine; il popolo poi
lo gradiva come salvaguardia contro i soprusi dei patrizj; questi se ne
consolavano colla speranza di arrivarvi.

Nel 1454 il consiglio dei Dieci scelse tre inquisitori di Stato, due
neri dal proprio seno, ed un rosso tra i consiglieri del doge, i quali
incoavano i processi, esercitavano un’alta polizia su qualsifosse
persona, neppur eccettuati i Dieci, e in unione con questi potevano
punire di morte secreta o pubblica, disporre della cassa senza render
conto[46].

Tale costituzione si andò sviluppando in tempi più tardi di quelli
che ora narriamo; ma noi la volemmo qui raccolta a intelligenza della
storia futura di quella grande e calunniata Repubblica. Il tempo
fe dimenticar la violenza con cui si era stabilita l’aristocrazia,
la quale consolidata, si occupava molto delle relazioni politiche,
e v’acquistava prudenza e accorgimento. Diceansi vecchie le casate
anteriori all’800, nuove le aggregate posteriormente. Sedici di queste
ultime, cioè Barbarighi, Donati, Fóscari, Grimani, Gritti, Lando,
Loredani, Malipieri, Marcelli, Mocenigo, Moro, Priúli, Trevisan, Tron,
Vendramin, Venier, nel 1450 congiurarono di non lasciar più salire doge
alcuno delle casate antiche: almeno tale opinione corse, e in realtà
nessun più ne fu eletto fin al 1612, quando inaspettatamente fu sortito
Marcantonio Memmo.

Allorchè il doge era presentato, si cessò di domandare al popolo —
Vi piace?» ma l’anziano degli elettori dicea: — So che vi piacerà»;
invece del sindaco che gli prestasse giuramento a nome del popolo,
bastò il gastaldo o, come diceasi dal vulgo, _il doge de’ Nicolotti_,
capo de’ pescatori. Pure chiunque abitava Venezia potea darsi a credere
d’aver parte alla sovranità, perchè era chiamato padrone; donde quella
riverenza verso la patria e i capi di essa, che faceva identiche la
volontà propria e la legge, e disponeva a qual si fosse sacrifizio pel
conservamento di essa.

Il popolo dapprima dividevasi in convicini e clienti, ossia ottimati
e plebei: serrato il maggior consiglio, gli esclusi formarono un
terz’ordine, detto de’ cittadini originarj, a distinzione dai cittadini
d’acquisto, i quali abitavano Venezia da meno di venticinque anni.
Ai soli originarj competeva la piena cittadinanza, e il prezioso
diritto di far commercio marittimo sotto la bandiera di San Marco, e
così l’aspirare agl’impieghi cittadineschi, il supremo dei quali era
il cancellier grande; seguivano gli altri della cancelleria dogale,
le cariche nelle maestranze e nelle numerose confraternite, alcune
legazioni ed i consolati in terra forestiera. Il commercio rimaneva
tutto a’ cittadini, escludendone i nobili perchè avrebbero potuto
soperchiare. Pura plebe restavano gli artigiani, i mercanti, i medici,
gli arsenalotti, corporazione robusta. A soli vecchi permetteasi di
fare il rivendugliolo. Nè tampoco trovavasi schiusa la via dell’armi,
giacchè queste erano affidate a mercenarj o a sudditi.

La sicurezza individuale, la prosperità assicurata al commercio,
l’adito alle magistrature, erano compensi alla nullità de’ cittadini.
Come in tutte le aristocrazie, badavasi a fare star bene il popolo;
donde quelle splendidissime istituzioni di carità, che in parte ancora
sopravivono a tante dilapidazioni; e le ricchezze dei monasteri e
delle confraternite, corpi morali che, non avendo bisogno di far
avanzi, tornavano a vantaggio della plebe. Questa tenevasi attaccata
ai patrizj, non solo col patronato della ricchezza e de’ servigi, ma
coll’avere ciascuno fra quelli il suo compare; prodigava gl’inchini
e i titoli d’eccellenza, non mettendo limiti alla sommessione nè
decoro nella riverenza; quanto l’odierna plebe di Londra, obbediva a
un semplice cenno del messer grande, bargello che, col suo berretto
segnato dallo zecchino e dalla mazza, bastava a mantener l’ordine nelle
affollatissime feste. Le quali erano nuova occasione di mescolare
ricchi e popolani, sudditi e magistrati, fosse alle sagre di Santa
Marta o del Redentore, ove si confondeano nelle cenette improvvisate,
fosse all’Assensa, dove il trionfo del gondoliere lo facea carezzare
da’ nobili, fosse quando il pescatore di Poveglia o il vetrajo
di Murano era perfino ammesso a baciare il principe. Le rivalità
fra Castellani e Nicolotti, abitanti delle due parti della città,
riduceansi il più spesso a gare di meglio valere nelle regate o alle
forze d’Ercole; e se prorompevano in risse, l’indulgenza patrizia le
perdonava, quantunque fossero costate sangue.

I sudditi d’oltremare venivano trattati come conquista, vilipesi,
immolati al monopolio della dominante; se ne fortificava il paese
quanto bastasse per tenerli in soggezione, non per garentirli dai
nemici; non vi si lasciavano tampoco le cariche municipali; e il
mandarvi il podestà e il capitano del popolo offriva un modo di
occupare i nobili, e cogl’impieghi fuori risarcirli della oppressione
che in patria cresceva. Di fatto da tali colonie venne un alteramento
alla costituzione, introducendo un’altra nobiltà, meno dipendente dalla
Signoria, e che avrebbe potuto emanciparsi se non fosse stata impedita
dalla vigilanza degli Inquisitori.

I sudditi di terraferma stipularono prerogative quando si diedero alla
repubblica; appoggiati alle quali, conservavano i prischi statuti, le
procedure, sin gli uffiziali antichi, e l’attentarvi era caso di Stato,
competente al tribunale dei Dieci. La nobiltà vi formava un corpo con
privilegio ed autorità, ma per nulla partecipe al dominio; perciò
odiava l’aristocrazia veneta, della quale trovavasi pari in grado,
suddita in diritto: e fu uno de’ maggiori sbagli del veneto Governo il
non provvedere, come Roma antica, a fondere il meglio della nobiltà
di terraferma colla imperante, col che avrebbe risanguato questa di
famiglie e di denaro, e congiunto i dominati coi dominanti.

Vi andava da Venezia un podestà, che durava sedici mesi, e a cui era
sottoposto il consiglio dei nobili, che rappresentava ciascuna città:
al capitano, pure spedito di là, era sottoposta la rappresentanza
territoriale, eletta dai diversi Comuni. Ogni città ed ogni territorio
teneva nunzj a Venezia per tutelarne gl’interessi; i luoghi minori
sovente sceglievano a patrono qualche Veneto de’ più illustri e
poderosi. Alle fortezze comandava un provveditore, dipendente dal
capitano della provincia.

Nelle città di terraferma il consiglio era composto di soli nobili: ma
alcune, come Padova, tra questi ammettevano famiglie nuove, mediante
lo sborso di cinquemila ducati; spediente finanziario che apriva un
adito alle case venute su. Generalmente ne restavano esclusi quelli
che fossero debitori verso il pubblico. A Verona il consiglio era
di cencinquantadue nobili, trenta de’ quali ogni anno restavano _in
vacanza_; dei cenventidue rimanenti, cinquanta duravano in uffizio
tutto l’anno: degli altri settantadue una muta ogni due mesi formava il
consiglio dei Dodici, che coi cinquanta interveniva al consiglio: ogni
anno i cinquanta passavano nelle mute, e quei delle mute nei cinquanta,
uscendone trenta per dar luogo a quelli in vacanza; ai morti o assenti
per carica si suppliva col trarne dei nuovi a sorte. In qualche
città ogni nobile aveva entrata al consiglio e voce negli affari di
maggior rilievo; al quale consiglio, oltre il votar le imposizioni e
amministrarle, e fare decreti pel buon ordine, competeva l’eleggere
a tutte le cariche comunali. Anche la giustizia rendeasi da collegi
paesani, e secondo statuti proprj; e lo statuto di Verona meritò venir
inserito nelle _Repubbliche_ degli Elzeviri; e vogliamo ricordare come
imponeva che le liti tra parenti fossero compromesse in arbitri, i
quali risolvessero senza strepito di giudizio e inappellabilmente.

Tenuissime le tasse, riducendosi a un lieve testatico e all’imposta
sulle macine; anzi la Dalmazia costava di gran lunga più che non
fruttasse, se non che procurava grande attività di commercio. I
magistrati erano piuttosto molli che tirannici; poteano accusarsi
di negligenza nel proteggere e punire, anzichè di prepotente
intervenzione; e qualora si dubitasse di mal governo, vi si spedivano
sindaci inquisitori.

Tutto era dunque preparato per la conservazione, e niuno Stato
sciolse più insignemente questo problema, durando per secoli senza
quasi rivoluzione, e meritando perciò le lodi de’ politici nostrali
e forestieri. Alla conservazione e all’incremento della metropoli si
dirizzavano i sentimenti e le forze, vi si sagrificava tutto, persino
la libertà; e se si ponga mente alla contentezza de’ sudditi, all’agio,
alla calma, ai soccorsi, non si potrà che lodare la Signoria. Ma è
obbligo dell’uomo e degli Stati anche il progredire, quindi non voler
infiacchire tutte le membra per sicurezza della testa, non intercidere
le vie di segnalarsi, non surrogare la ragion di Stato alla giustizia,
non volere che una classe maggioreggi a depressione delle altre, nè con
autorità violenta soffocar le passioni personali, e abbattere chiunque
si elevi dalla folla.

L’aristocrazia portava nel governo le virtù che le sono proprie, una
politica non allucinata da passione personale, una costanza che non si
frange sotto le maggiori traversie, un segreto geloso, un’economia più
savia quanto erano maggiori le ricchezze pubbliche; ma insieme mancava
degli impeti de’ popoli liberi, della generosità verso i vinti, di
quelle speranze che non si valutano a denaro: non guardò mai l’Italia
come paese fratello; e come colla Toscana si alleò per difendere
la libertà da Mastino della Scala, così si alleò coi Visconti per
acquistare signoria nella penisola.

Quando le Repubbliche perivano e fin l’indipendenza in Italia, si
compilò a Venezia il _libro d’oro_, titolo impreteribile della nobiltà;
e allora entrarono tutti i malanni dell’aristocrazia, primogeniture,
fedecommessi, esclusione de’ matrimonj men nobili; e dietro a
ciò, sprecare in lusso, in fabbriche, in ville a Murano, poi sulla
terraferma, e nel decorare la neghittosità.

Quelli che si erano assicurato la dominazione, sempre più faceano
sentire la propria superiorità ai nobili minori e alla plebe. Oltre
i nobili ricchi, ve n’avea di poveri, detti Barnabotti, non capaci di
sostenere il dispendioso onore degli impieghi; e con sovrana arroganza
reclamavano quel che oggi si chiama il diritto al lavoro, e lo Stato
dovea soddisfarvi col mantenere magistrature e cariche superflue,
de’ cui stipendj vivessero costoro. Ed erano veramente la zavorra
e il disordine della repubblica, petulanti coi popolani di cui si
ostentavano protettori, striscianti coi grandi, turcimanni d’intrighi,
di sollecitazioni e di brogli. Nel maggior consiglio, che pur rimaneva
nominalmente il vero sovrano, tutti i nobili aveano voto eguale, e
perciò vi prevaleano i poveri, che erano i più; di qui il bisogno di
carezzarli; e nobili ricchi e nobili poveri si scialacquavano inchini
sotto le procuratìe e nel brolo, dove il giovane ammesso al maggior
consiglio veniva presentato da dodici compari, e riconosciuto da quelli
nel cui novero entrava; dove chi aspirasse a dignità compariva in atto
supplichevole, togliendosi di spalla la stola per metterla sul braccio,
menandosi dietro parenti e amici nell’atto stesso, e profondendo
riverenze e baciamani.

Ripetiamo che tuttociò si riferisce a tempi posteriori; ma noi
volemmo qui ridurlo, a confronto de’ governi delle prische repubbliche
italiane, e del bene e del male che sarebbe potuto derivare dal loro
spontaneo svolgimento. Certo, per tempi nuovi d’esperienza, mirabile
era l’ordinamento di Venezia; se l’aristocrazia si fece tiranna, era
però amata dal popolo, che neppure oggi ne perdette il desiderio; si
sopracaricò di pesi, e ricordò che non lede tanto il potere, quanto il
modo ond’è esercitato. Del resto a Venezia trovavano asilo i profughi
d’ogni paese e i principi caduti; ivi maggior libertà di costumi, e poi
di stampa; e lo spionaggio, che formò l’obbrobrio della sua vecchiaja,
era piuttosto una vessazione che una tirannia, intanto che quel potere
permanente schermiva dalle popolari stravaganze e dai tumulti consueti
alle altre città.

Nelle relazioni colle repubbliche italiane Venezia tendeva ad
accaparrarsi il commercio sul Po, e trarne il grano qualvolta fosse
impedito il mar Nero o vi trovasse più favorevoli condizioni. E poichè
l’annona è di supremo rilievo in città senza terreni, nominò intendenti
a quest’uopo, e ad imitazione de’ Saraceni proibì di asportarne se non
quando fosse disceso a un dato prezzo.

Fra ciò proseguiva le conquiste, e Corfù, Modone, Corone ricevettero
conservatori da essa, la quale procurava nuove colonie coll’assegnar
feudi. Molte guerre ebbe a menare, singolarmente per tenere sottomessa
Candia, che per sessant’anni (1307-65) stette, si può dire, in uno
stato d’insurrezione, che vorrà chiamarsi o ribellione, o generosa
resistenza a un turpe mercato. Poi i Veneziani stessi ivi posti in
colonia si ammutinarono, volendo che tra essi venissero scelti venti
savj pel maggior consiglio della madre patria, non dovendo perdere
questo diritto perchè accasati altrove: ricusati, si separarono perfino
dalla Chiesa latina, e in luogo di san Marco tolsero a patrono san
Tito; uccisero chi non volesse parteggiare con loro, e ricevuti a
scherno i deputati di Venezia, si accinsero a respingerne le armi.
Luchino Dal Verme capitano di ventura portò seimila uomini su trentatre
galee contro l’isola dalle cento città, e a gran fatica la sottomise:
ma ben presto questa si rialzò, e per tenerla in soggezione furono
uccisi i capi, distrutte le città di Anapoli e Lasito e tutte le
rôcche, portatine via gli abitanti, disertato il contorno e proibito
avvicinarvisi, e tolto ogni diritto, ogni magistratura. Sono triste
pagine nella storia d’una repubblica.

Pure il Levante sarebbe dovuto essere il campo delle attività di
Venezia, che invece volle impacciarsi colle vicende d’Italia, e dopo
caduto Ezelino cominciò a porre un piede in terraferma, a suo grave
costo. Le disgrazie ed umiliazioni che essa toccò dopo serrato il gran
consiglio, non erano conseguenza di quest’atto; pure smentivano coloro
che credevano dalla concentrazione dovesse venirle robustezza.



CAPITOLO XCVII.

Prosperamento delle repubbliche in popolazione, ricchezze, istituti.


Bastano già questi cenni a chiarire che gl’inconvenienti della libertà
non impedivano l’inoltrarsi della civiltà; e a chi non sa che deplorare
quell’età burrascosa, risponde la rapida floridezza delle repubbliche.
Tutte s’allestirono d’edifizj, a comodo, a difesa, ad ornamento;
rinnovaronsi di mura, estendendole ad abbracciare i borghi e le
cattedrali; acciottolarono, lastricarono, fognarono le vie; provvidero
ponti, cloache, acquedotti, strade; nei palazzi del Comune sfoggiarono
a gara solidità e magnificenza; abbellironsi di chiese, monumenti
insieme di pietà e d’amor cittadino, considerandole come la più nobile
immagine della patria: l’uomo era richiamato alle severità della
vita, metteansi in equilibrio il pensiero e l’azione, le combinazioni
astratte dell’ideale e l’inflessibil misura del possibile.

Quale giacesse la campagna italica al cadere dell’impero romano, ci
fu veduto, e la dominazione dei Barbari non potè che peggiorarla.
Epifanio vescovo di Pavia, dirigendosi a Ravenna, ebbe a serenar molte
notti sulle rive del Po, che sotto Brescello impaludava senza più
letto. Crede il Muratori che nel 734 si fabbricasse la Cittanuova,
quattro miglia da Modena, per guardare la via Emilia dagli assassini
annidati nelle foreste di colà. Il panegirista di Pavia ci dice che
vi abbondavano le stufe, per la molta legna provveduta da tante selve
circostanti. Son nominati laghi nel Lodigiano presso Casal Lupano; se
anche è favola l’altro che si stendeva a San Floriano, Santo Stefano,
Fombio, Guardamiglio. Nel Padovano conservano tuttavia il nome di
gazzo o guizza o fratta i terreni allora boscosi. Pistoja era tutta
circuita da paludi, da cui la liberò un miracolo di san Zenone vescovo
di Verona, onde Gregorio Magno vi mandò il primo vescovo nel 594; e
frequenti vi s’incontrano ancora i nomi di pantano, piscina, padule,
acqualunga. Modena nel X secolo fu spesso ingombra, talora sommersa
dall’acqua spagliante: al vescovo di Bologna trovansi donate immense
selve e valli peschereccie a occidente di quella città: quattro o
cinque laghi son menzionati presso il Bondeno, laghi e stagni attorno
a Parma: di foreste e pescagioni abbondavano i beni della contessa
Matilde. La vita di san Giovanni Gualberto, scritta l’XI secolo,
attesta scarsissimi in Toscana i ponti.

Anche più tardi, ogni tratto s’incontravano e scopeti e boschi e fitte
e marazzi, massime dove i fiumi sfociano nel Po, e dove questo, l’Adige
e l’Arno scendono alla marina; si ha memoria della selva Merlata nel
Milanese, della Lugana nel Bresciano, della Fetontea presso Altino,
della Polaresco nel Bergamasco, a tacere i vastissimi tratti torbosi
che si riconoscono quasi a fior di terra; e nelle vendite d’allora si
aggiungeva la formola ordinaria _cum sylvis, paludibus, piscationibus_.
Infesta di lupi era la Lomellina, che re Berengario mandò ordine di
uccidere[47]. Ottone il Grande al marchese Aleramo nel 967 donava tutti
i possessi del regno che si trovano nel deserto tra il fiume Tànaro,
l’Orba e il mare, detti Gobundiasco, Balangio, Scelescedo, Sassola,
Miolia, Pulcione, Gruaglia, Pruneto, Montore, Noceto, Masionte,
Arco...[48]. Dalle tante selve restava forse irrigidito il clima,
sicchè non radi ricorrevano inverni da gelare il vino nelle botti, e il
Po da Cremona a Venezia fin a sostenere i carri[49].

Il feudalismo, restituendo alla campagna la gente e l’immediata
ispezione del signore, poteva recare qualche rimedio; ma nocevano
le servitù de’ beni, e l’essere il padrone sottoposto egli stesso
a una supremazia che dava il diritto di confisca o di decadenza, e
toglieva di spezzare il possesso, trasmetterlo a femmine, alienarlo; e
laudemj, riversibilità, diritti d’investitura dimezzavano le proprietà,
disanimando dai miglioramenti. I braccianti poi od erano servi, o
liberi condizionati, tenuti a comandite; lo perchè le opere riuscivano
meno utili, quand’anche il bisogno o l’ingordigia non portasse il
barone a gravar le taglie a segno, che il censuario abbandonava il
possesso, il quale rimaneva sodo.

Tali difetti scemarono, non disparvero sotto i Comuni: e le ripetute
guerre e il modo di condurle[50]; le rappresaglie, per cui un
forestiere danneggiato in un paese poteva spingere su questo la
vendetta de’ suoi patrioti, o almeno sui beni dell’offensore e de’
suoi consorti; il condannarsi alla sterilità i terreni degli sbanditi
e dei delinquenti, non lasciavano prosperare i campi. I vantaggi del
commercio facendo meritare il denaro fino al venti, al trenta per
cento, lo sviavano dalla terra. Improvvide ordinanze or prefiggevano
una data specie di coltura, ora il prezzo delle derrate, o di
consegnarne una parte, o di non asportarle; e i vicini o per continua
gelosia o per incidente rottura negavano di più riceverle[51]. Onde
avere cavalli per le guerre, bisognava tenere sconfinate praterie, a
scapito delle biade mangerecce[52].

I primi miglioramenti anche in ciò vennero dalla Chiesa. I monaci
per istituto abbonivano i campi; e i Cistercensi, ammonastierati
intorno a Milano, teneano sui lontani poderi una colonia di conversi
per lavorarli, mentre sui vicini si esercitavano essi medesimi con sì
evidente frutto, che spesso erano invitati a risarcire in bene i campi
altrui; e non è fuori di buona congettura che ad essi vada attribuito
quel sistema d’irrigazione, che la bassa Lombardia arricchì dei pascoli
perenni, ove più tardi si cominciò a fare i caci, tanto rinomati
col nome di Parmigiani[53]. Chi avrebbe poi avuto a vile un’arte che
vedeasi esercitata dai monaci? Frà Corneto domenicano nel 1231 indusse
per devozione un popolo di gente a portar materiali, con cui interrò
uno stagno attorno al suo convento, e subito lo sementò. Per queste
e simili guise, al luogo del giunco e della ninfea comparivano man
mano il ranuncolo, il trifoglio e i graminacei, salutifero pasto di
mandre lattose. Ai beni delle chiese e de’ monasteri si avea rispetto
nelle devastazioni e nelle taglie; laonde molti donavano ad essi le
loro proprietà, ricevendole poi in prestarìa o a livello temporario o
perpetuo.

Il livello, forma di possesso allora introdotta o estesa, metteva
assai bene ad avvicinare il capitale e il lavoro, come oggi si dice.
Vasti terreni incolti e sfruttati, a qual proprietario bastavano forze
per domesticarli? Si spicciolavano dunque tra molti coltivatori, che,
assicurati per lunghi anni, li lavorassero come proprj, retribuendo al
padrone un tenue canone: questo traeva un vantaggio di là donde prima
nessuno; il lavoratore s’accostava alla condizione di possidente sopra
un terreno che lietamente adattava alla vigna e alla semente, perchè
sicuro di trasmetterlo a’ suoi figliuoli[54].

Dacchè parve liberalismo l’attribuire il rimiglioramento d’Italia ai
Musulmani per fraudarne i frati, si asserì perfino che quelli avessero
introdotto fra noi la coltura dell’ulivo, mentre indubbiamente la
troviamo anteriore[55]: come troviamo che era più estesa d’adesso,
giacchè in Lombardia, a tacere il lago di Como ove frequentissimi sono
menzionati gli uliveti, n’erano vestiti i poggi fra Bergamo e Ponte San
Pietro, quelli di Mozzo[56]: d’uno nel Borgo Canale di Bergamo è cenno
in carta del 933, e d’altri sulle colline bresciane, donde or sono
quasi scomparsi.

Emancipati e divisi i possessi, colla libertà sottratti i paesani
alla servitù personale e all’immediata oppressura dei feudatarj,
alleggeriti i servizj di corpo e le riserve di caccia, si prese
coraggio a scassare sodaglie, popolare solitudini e boschi, fognare
pantani: _correggie, dossi, polesini_ si dissero le strisce di terra
che man mano si disseccavano; _mezzani_ le tante isole fra Lodi, Pavia,
Piacenza, cedute al continente dal recedere del fiume; _novali_ i campi
restituiti all’aratro; e ogni tratto le carte accennano che un podere
_est terra novalis et fuit nemus_; villaggi e fin città conservano il
vocabolo del Rovereto, del Saliceto, dell’Albereto a cui sottentrarono.
Le campagne prosperarono, coltivate da braccia libere, cui la speranza
era stimolo all’operosità, ed ajutate da capitali cittadini; le città
intrapresero grandiosi lavori per l’irrigazione, e provvidero con
regolamenti, non sempre opportuni, ai casi di carestia[57].

I Pisani portavano grande attenzione ai fiumi della loro pianura; e
uno statuto del 1160 ingiunge al podestà che, in principio del suo
magistero, scelga persone probe, con giuramento di esaminare gli
acquedotti antichi e nuovi delle terre domestiche e dei prati, e le
foci del Serchio, perchè ne rimanga facile il deflusso. La maremma
senese era coltivata e popolosa, nei diplomi trovandosi ogni momento
castelli, corti, terreni donati o venduti: il paese dalle creste
dei monti al mare, posseduto dai Gherardeschi, era seminato di
case e chiese, con vigne, uliveti, frutti, campi di sementa[58]. Il
Cremonese, piano di tenue pendenza deposto dalle ambagi di quattro
grossi fiumi che ne segnano quasi il confine, facilmente torna in
loro balìa appena cessino le cure dell’uomo. Tanto era avvenuto già
sul cadere dell’impero romano; e parlano d’un lago Gerundio, vasto
per quarantacinque miglia, tanto che i Cremonesi vennero ad assediare
Lodi _con apparato terrestre e navale_. Se ne procurò dunque lo
scolo; il naviglio d’Isso e Barbata raccolse le acque de’ fontanoni,
utilizzandole ad irrigare; poi trovandolo insufficiente, nel 1337 si
estrasse dall’Oglio il Naviglio civico, e dallo sbocco di questo fiume
venne arginato il Po, deviando il Delmone, e sanando così larghissimo
territorio. Crebbe allora grandemente la popolazione, e non solo la
città contava fin a ottantamila anime, ma Soncino ne aveva più di
molte città, Viadana diceasi ricca di gente e d’averi, Soresina avea
quindicimila teste, Casalmaggiore ventimila, e nelle sue campagne si
coltivava lo zafferano sin nel XV secolo, e ad una piccola Venezia
l’assomigliavano le tante navi e il vivo traffico.

Già nel secolo XI i Mantovani aveano intrapreso le _sgarbate_, fossi
allo sbocco dei fiumi per immetterli in Po; ma ricorrenti inondazioni
guastavano quelle campagne, sinchè Alberto Pitentino nel 1198
affondò il lago attorno a Mantova, con argini e sfogatoj da regolarne
l’altezza, e sostegni fino a Govérnolo, ove scarica in Po; delle cadute
poi da bacino a bacino si profittò per muovere gualchiere e mulini, che
perciò rimanevano privilegio del Comune. Altri dilagamenti straordinarj
avevano cambiato in paludi i colti là intorno, onde il vescovo Jacopo
Benfatti nel 1332 investì a Luigi Gonzaga l’isola di Révere che _erat
perita, diruta, aquatica, paludosa, piscaritia cum casis palearum ac
in totum sterilia_, unico prezzo ed obbligo imponendogli di cingerla
d’argini per frenare il fiume. Seguendo il costume della Repubblica,
quel principe suddivise in livelli _ad meliorandum_ quella contrada,
che ben presto divenne delle più opime.

Di che vedasi quanta giustizia vi sia nel ripetere che la natura fe
tutto per la Lombardia, nulla gli abitanti.

Allora sparirono gli stagni e le foreste del Bolognese e del Ravennate:
Ferrara, ch’era nata come Venezia per bisogno di difendersi dai
Barbari, e dove prima non furono che due torri, congiunte con un
argine che fu poi la strada detta ancor Ripagrande, si estese intorno
a quello, sistemò arginature che servissero anche di comunicazione,
e le paludi di cui la circondava il Po convertì in ubertose campagne:
i boschi del Modenese e del Ferrarese si disselvatichirono: a Milano
furono portate migliori razze di cavalli, e cani alani e danesi di
molta forza e grossezza; e con innesti forestieri migliorato il vino e
introdotta la vernaccia. Il riso, cagione poi di spopolamento, veniva
ancora di fuori, e si vendeva dagli speziali, cui in Milano fu imposto
di non prezzarlo più di dodici soldi imperiali la libbra[59]; nè più di
otto il mele, tanto prezioso avanti che s’introducesse lo zuccaro.

Del miglioramento fanno prova l’ampliarsi e abbellirsi delle città.
Milano occupava appena una quarta parte dell’odierna superficie, eppure
internamente avea campi, viridarj (_verzèe_), pascoli (_pasquèe_), e
l’estesissimo brolo dell’arcivescovo: le case erano ad un solo piano,
salvo poche _solariate_; alcune di mattoni, le più di graticci e creta
e paglia, col tetto pure di assicelle e di paglia: fuori poi avea
boschi, come il _nemus_ di Sant’Ambrogio fuor porta Comasina, quel
degli Olmi fuor porta Vercellina, ove fu decollato san Vittore, quello
di Caminadella fuor porta Tosa. Appena rassettatosi dall’eccidio del
Barbarossa, Milano estese il suo recinto cingendosi di una mura alta
venti braccia con sei porte di marmo, fabbricò case e palazzi, nel 1228
«il broletto nel mezzo della magnanima città» (CORIO), cioè il palazzo
comunale, e cinque anni appresso il broletto nuovo, dove accogliere
i mercanti e tutti gli uffizj. Il trovarsi discosta da ogni grosso
fiume le disagevolava il commercio, massime degli oggetti di consumo;
sicchè per trarre dalle Alpi il combustibile, le pietre e altri grossi
materiali, e al tempo stesso irrigar le pianure, divisò il Naviglio
grande, primo canale artifiziale delle nazioni moderne, che per trenta
miglia conduce le acque del lago Maggiore fin alla città. Intrapreso
nel 1179, cioè tre soli anni dopo che la città era risorta dalle
ruine del Barbarossa, fu ripigliato nel 1257, e compito in modo da
portar grosse navi. Pel canale della Muzza, cavato dall’Adda, il greto
della Geradadda e del Lodigiano divenne la campagna più frumentosa di
Lombardia.

Nel 1106 Pasquale II consacrava la cattedrale nuova di Parma: i
Modenesi toglievano a rifabbricare la loro; cinquant’anni dopo
scavarono il Panarello nuovo e il canal Chiaro, eressero il campanile,
il palazzo comunale, la ringhiera, sbrattarono e selciarono le vie e
i portici. A Cremona nel 1167 fabbricavasi il battistero, nel 1206
il palazzo comunale con porte di bronzo, nell’84 il terrazzo: e la
città divisa in vecchia e nuova secondo le fazioni, allestivasi di
mura esterne e interne. Dopo la peste del 1136 Bergamo alzava la
chiesa della Beata Vergine Assunta, architetto Fredo: nella quale
faceansi le adunanze, le paci, gl’istromenti; v’era scolpita la
misura uffiziale; e la società di Santa Maria Maggiore era una milizia
per difesa del Governo[60]. Brescia ampliava la mura, fabbricava le
chiese e i monasteri di San Barnaba, San Francesco, San Domenico, San
Giovan Battista, finiva il broletto, dilatava la piazza del duomo,
conduceva tre canali dal Chiese e dal Mella per gli opifizj, a cura
dell’insigne vescovo e signore Bernardo Maggi. Pisa si circondò di
mura nel 1157, Lucca dilatò le sue nel 1260, Reggio dal 1229 al 44 per
tremila trecento braccia, e uomini e donne, piccoli e grandi, rustici e
cittadini portavano sassi, sabbia, calce, sul proprio dorso e in pelli
varie e in sandali[61].

Padova nel 1191, podestà Guglielmo dell’Osa milanese, rendette il
Brenta navigabile fino a Monselice, e vi sovrapose un ponte; nel 1195
rinnovava la mura; nel 1219 faceva il palazzo comunale con quella
meravigliosa sala della Ragione; poi, appena redentasi da Ezelino,
dava denari a tutte le chiese e conventi perchè riparassero ai guasti
della guerra, s’ingrandissero e abbellissero; fece rinforzare la mura,
ammattonare le vie interne, migliorare quelle del contado, arginare
i fiumi e regolarli con roste e canali; e molti ponti che emulassero
quelli de’ Romani ancora conservati in città; fabbricò il palazzo degli
Anziani, finì il meraviglioso tempio del Santo, eresse Castelbaldo
sull’Adige per fronteggiare gli Estensi e gli Scaligeri, allestì il
Prato della valle per la fiera e per le corse al pallio. Agl’incendiati
dava un compenso, purchè entro un anno avessero riedificata la casa:
chi aspirasse alla cittadinanza, doveva acquistar un _garbo_, tratto di
sodaglia su cui ergevasi un’abitazione: proibì perfino di trasferire
possessi e rendite o qualsifosse diritto sopra immobili in chi non
prendesse stanza nel territorio padovano[62].

Bologna vide sorgere cento torri, fra cui quella degli Asinelli e
quella de’ Garisendi, decantate la prima per l’altezza, l’altra per
l’obliquità, si cinse d’una terza mura più ampia, rassettò tutte le
vie e i ponti, coprì l’Avesa che riceveva le immondezze, dispose il
nuovo mercato a Galliera, _opera sovra l’altre bellissima, comoda e
lodevole_, e tra molte chiese la Nunziata delle Pugliole, opera di
Marco bresciano, e quella degli Alemanni fuor porta Ravennate pei
Tedeschi che pellegrinavano a Roma; del Reno introdusse un ramo in
città a movere trentadue mulini; un altro diresse fino a Corticella
perchè le navi arrivassero a Ferrara; tirò pure in città l’acqua della
Dordogna e quella della Savena per macinare il grano, e per servizio di
tinger la seta e i panni di grana e scarlatto; compita la qual opera,
si fece tridua solennità, e fu posto un ricordo al podestà Pirovano
milanese. In breve giro d’anni vi furono fabbricati il palazzo della
biada, la croce di piazza, le nuove prigioni, i granaj del Comune,
Castel San Pietro, la chiesa di Santa Tecla; fortificate e provviste le
castella del contado; oltre le grandi spese logorate negli eserciti:
e il grano valea soldi cinque la corba, soldi sette il sale, nove il
carro delle legne grosse, sei il vino alla corba[63].

Da un milanese, podestà a Firenze, ebbe nome la cittadina di
Pietrasanta; dall’altro milanese Rubaconte di Mandello, il ponte più
ampio e spazioso di Firenze, il quale pur fece lastricare molte vie:
poi nel 1277 essa città comprava le terre fra Arno e Mugnone per porvi
il borgo Ognissanti. Siena nel 1228 innalzava San Domenico, nel 58
Sant’Agostino, nell’84 il palazzo della Signoria in quella bellissima
piazza del Campo dove undici strade sboccano, e alquanto dopo la
sveltissima torre del Mangia. Volterra nel 1206 fabbricò nuove mura e
il palazzo de’ Priori, poi da Nicola Pisano faceva erigere ed ampliar
la cattedrale. Prato nel 1284 ergeva il palazzo del Popolo, e nel 92
lastricava le strade. A San Geminiano in Valdelsa ammiravansi palazzi
pubblici e privati e chiese, fra cui bellissima la collegiata, e
fontane, e quattordici torri di bellissimo finimento, e l’altissima del
Comune, per la cui fabbrica ogni podestà doveva rilasciare parte dello
stipendio, col diritto di porvi il proprio stemma.

Che serve allungarla? visitate l’Italia, e vedendo quei porti e quei
moli stupendi, e le gran torri e le cattedrali, domandate chi le
eresse, e sempre vi si risponderà: — Il popolo, quando a popolo si
reggeva».

Stando ai computi del Cibrario, le terre di Piemonte nel secolo
XIV avrebbero avuto appena un quinto della popolazione odierna;
mille Carignano, duemila censettantacinque Ciamberì, duemila
censessantacinque Rivoli, tremila ottocentrenta Moncalieri e Pinerolo,
tremila trecento Cuneo, seimila seicensessantacinque Chieri, mentre
appena quattromila ducento ne contava la odierna capitale. Le
repubbliche invece quanto fossero divenute popolose lo attestano,
se non foss’altro, le tante guerre; Bologna mise in campo contro ai
Veneziani trentamila pedoni e duemila cavalieri; Milano, ricca di
ducentomila abitanti, esibiva diecimila guerrieri a Federico II per
la crociata, venticinquemila ne armava contro Lodi, sessantamila
contro Brescia, compresi gli alleati; da Cremona la fazione trionfante
espulse centomila persone; Ezelino ne rapì diecimila da Padova; Pavia
accampava due a tremila cavalieri e quindicimila pedoni; il territorio
bresciano dava quindicimila armati dai quindici ai sessant’anni.
Genova, che nel 1345 ampliò la sua cerchia dalla torre di San
Bartolomeo dell’Olivella sin alla punta del mare verso San Tommaso,
e nel 1291 per duemilacinquecento lire comprò l’area fra San Matteo
e San Lorenzo, dove in due anni fabbricò il palazzo del Comune, nel
1293 metteva in ordine un’armata di ducento galee e quarantacinquemila
combattenti, tutti nazionali; eppure tanti ne rimasero, da provvederne
altre quaranta, senza per questo lasciare sguarnite le riviere e la
città[64]. Ivi le fazioni dei Doria e Spinola allestivano ciascuna da
dieci a sedicimila uomini d’arme: fate ragione delle altre.

Massa, che or non arriva a duemila, contava ventimila abitanti; Savona
novemila; in Pisa più di trentamila famiglie furono in grado di pagare
il fiorino imposto a ciascuna per la fabbrica del battistero. Di Siena
si dice nella peste del 1348 esser perite ottantamila persone, che
erano quattro quinti della popolazione, la quale così sommerebbe a
centomila. A Firenze nel 1336 si contavano novantamila bocche, non
computando i forestieri, i soldati, le comunità religiose, talchè
salirebbero a centomila; ma dai battesimi[65], che erano da cinquemila
ottocento in seimila l’anno, proporzionandoli al quattro per cento, si
arguirebbero cenquarantamila abitanti.

I matrimonj si favorivano con distinzioni e con feste; a Como il
vescovo mandava (nè il rito è dismesso) agli sposi più illustri di
quell’anno la palma che riceveva la festa degli ulivi. Il senato di
Bologna ai principali spediva una cappellina di panno rosato, che lo
sposo soleva portare per otto giorni[66]. Raro il celibato, e tutti
i figliuoli ammogliandosi, formavansi famiglie numerose. Il padre di
Pier degli Albizzi ebbe cinque figliuoli, e venuta una briga civile nel
1335, si trovarono trenta cugini in età sufficiente alle armi[67].

Frequente si rinnovava la peste: e a tali disgrazie non mancarono que’
funesti delirj, da cui neppure l’età nostra può vantarsi immune; si
attribuivano a unti pestiferi o a pozzi avvelenati, e se ne imputavano
principalmente gli Ebrei, perciò perseguitati fieramente. Nel 1321 si
bucinò che i lebbrosi avessero fatto una strana congiura d’infettare
tutto il mondo: il vulgo colla feroce sua credulità accettò questa
diceria, e buttandosi addosso a quest’infelici, li trucidava, li
bruciava vivi, lasciavali morir di fame.

Le quarantene erano precauzioni sconosciute, fin quando Venezia
nel 1403 tolse agli Eremitani l’isola di Santa Maria di Nazaret
per collocarvi le persone sospette e le provenienze di Levante onde
spurgarle. Un magistrato di sanità vi fu organizzato nel 1475 come
stabile e ordinario, composto di tre provveditori nobili annui, con
podestà d’infliggere multe, carcere, galera, tortura. Questo primo
esempio imitato valse non poco a preservare l’Europa, la quale non
vorrà smettere le quarantene finchè la Turchia non sia incivilita.

Gran cura della sanità pubblica si presero gli statuti, provvedendo
alla nettezza delle vie, a disperdere le acque stagnanti e procurarne
di potabili, proibir le carni malsane e la propagazione delle
epizoozie; talora spinsero la pulitezza allo scrupolo, come quei di
Casale che alle rivendugliole di pane vietarono di filare. Federico II
dettò buoni ordini salutari pel suo regno; i cadaveri si sepellissero
quattro palmi sotterra, il lino e la canapa si macerassero un miglio
distante dall’abitato, si gittassero in mare le carogne. Trovansi pure
stipendiati medici perchè gratuitamente servissero; a Bologna nel 1214
Ugo da Lucca non dovea ricevere dai privati veruna mercede, salvo che
la legna e il fieno. La legge veneta del 24 marzo 1321 proibiva di
esercitar medicina e chirurgia se non approvato in qualche università;
ordine già prevenuto da esso Federico.

Il vivere comunale faceva si gareggiasse anche in opere di beneficenza,
volendo ciascuno avere nel proprio paese e nella propria corporazione
soccorsi a tutte le miserie. La storia degli ospedali è delle più
interessanti in quella de’ nostri municipj. La carità cristiana
aveva insegnato a prender cura de’ projetti, che Atene, Sparta, Roma
abbandonavano o uccidevano. Il primo orfanotrofio fu aperto da Dateo
arciprete di Milano nel 785, stabilendo vi fossero allevati gli esposti
fino ai sei o sette anni, dopo di che rimanessero liberi, rinunziando
cioè al diritto di tenerli per proprj servi. L’ordine dello Spirito
Santo aprì case per essi a Marsiglia, a Bergamo, a Roma, ove Innocenzo
III sistemò con generosissima carità l’ospedale di Santo Spirito (t.
VI, p. 243). Firenze aveva di tali ricoveri nel 1344, Venezia nel
1380, e così altre città. A Vercelli era fin dal 1150 un ospedale
degli Scoti pei pellegrini di Scozia e d’Irlanda, e quello del canonico
Simon di Fasana pei poveri francesi e inglesi: prova della quantità di
forestieri che vi capitavano.

Gl’incendj succedevano frequenti, in grazia delle case di legno e di
paglia. Nulla più facile che attribuire a malizia questi disastri,
che nessuno vuol confessare dovuti a propria negligenza, e perciò
severe pene si comminavano agl’incendiarj: cento lire a Moncalieri;
mille soldi a Nizza di mare, e la testa se non avessero di che
pagare; a Torino erano bruciati vivi. Di miglior senno fecero prova
il Comune di Garessio stabilendo che, qualora non si scoprisse il
reo, i danneggiati fossero rifatti dal Comune; e Siena mantenendo
spegnitori del fuoco, emendando del pubblico le case e le masserizie
danneggiate[68]. All’uopo stesso Ferrara nel 1288 prescriveva le case
non si coprissero di paglia, ma di tegoli; Casale di Monferrato, non si
facesse fuoco in casa non coperta di tegoli di buona terra; si tenevano
guardie notturne; si allontanavano i pagliaj dall’abitato, si vietava
d’accender fuoco quando tirasse vento. Firenze nel 1344 istituì i
vigili, che, avvisati da una vedetta, accorrevano al primo manifestarsi
d’un incendio[69]. Il _Breve comunis pisani_ del 1236 provvede
all’illuminazione della città, e non solo nelle strade più frequentate,
ma ne’ chiassi e vicoli, con lampioni numerati e guardie notturne.

In tutto ciò voi ravvisate quel nobile e faticoso uscire da uno stato
depresso per elevarsi a un migliore; e generalmente conservavasi
molta modestia nel vivere privato, mentre voleasi che il pubblico
prosperasse. Si aveva gran mistura di male, ma progresso; e la
ricchezza pubblica era tale in quelle _repubblichette_ così derise
dagli odierni dottrinarj, da uguagliare ciascuna i floridi regni.
Firenze nella guerra contro Mastin della Scala spese seicentomila
fiorini d’oro, tre milioni e mezzo in quella contro il conte di Virtù,
undici milioni e mezzo dal 1377 al 1406.

Meglio delle guerre ne piace rammentare le pubbliche costruzioni
e il fiore delle arti belle, deve ogni nostro Comune ardiva quel
che appena l’Inghilterra o la Francia: e le città, che pur aveano
vicinissime città altrettanto floride, compirono imprese quali neppur
si videro allorchè furono centro di vasti Stati, come Firenze o
Venezia. Gran prova che sapeano e creare le ricchezze e conservarle con
quell’economia che è prima dote di governi repubblicani, non spendendo
mai di là del ritratto, o affrettandosi a spegnere i debiti, come era
naturale in paese dove i magistrati, uscendo ogni anno o poco più,
doveano render ragione dell’operato. Sol quando i principi sottentrati
furono costretti a comprare la fedeltà e la difesa, e mantenersi
con lusso, non si fecero coscienza di compromettere l’avvenire, e
coi debiti preparavano nuovo impaccio alle finanze. A repubblica
si reggevano le terre svizzere, e in paese poverissimo riuscirono a
cumular capitali, di cui fecero poi comodità ai principi, e vennero a
vantaggiare di territorj. Berna e Friburgo aveano largamente sovvenuto
i duchi Lodovico e Amedeo IX di Savoja, singolarmente per le spese
occorse a far l’antipapa Felice e a comprare il regno di Cipro. Scaduti
i termini, e non potendo soddisfare, dopo profusi doni onde guadagnarsi
i cittadini più creduti, i duchi dovettero lasciar occupare da essi il
paese di Vaud, che cessò di appartenere alla lor casa. Così vedremo
avvenire di terre del Milanese, occupate per sempre da Svizzeri e
Grigioni.

Che se le repubbliche erano costrette ricorrere a prestanze private,
seppero convertirle in un nuovo mezzo di comodo e prosperità; e i primi
tentativi nella scienza del credito sono dovuti agl’Italiani. Fin verso
il 1156, trovandosi esausto l’erario veneto, il doge Vitale Michiel
II propose un prestito forzato sovra i megliostanti, meritandoli al
quattro per centinajo. Si formò così il primo banco di deposito, non
di emissione; i contratti si faceano e i viglietti si traevano dai
mercanti, non al corso della piazza, ma in moneta di banco, cioè in
ducati effettivi del titolo più fine. Nuova forza acquistò dacchè il
Governo introdusse di fare i suoi pagamenti in viglietti siffatti;
poi vi s’aprì partita di dare e avere, talchè i fondi depositati si
giravano da un nome all’altro, come oggi nel gran libro di Napoli,
e pagavansi cambiali per conto di privati. Da principio il banco
rifiutava i capitali di forestieri; e nel prestito del 1390 un decreto
speciale vi volle per accettare trecentomila scudi da Giovanni I di
Portogallo. Tanto credito ispirava, che si potè estrarne quasi tutto
il denaro effettivo, senza incutere sfiducia. A questo _monte vecchio_
s’aggiunse il _nuovo_ nel 1580 per sostenere la guerra di Ferrara;
infine il _nuovissimo_ nel 1610 dopo la guerra coi Turchi; indi delle
loro reliquie si costituì nel 1712 il _banco del giro_, che continuò
fin all’omicidio di quella repubblica.

Matteo Villani ci descrive partitamente le operazioni del banco de’
Fiorentini, la riduzione, la liquidazione, la redenzione[70]. A Siena
il Monte de’ Paschi fu introdotto per prevenire le usure, prestando a
soli Senesi, e sodando piuttosto sulla probità individuale, garantita
da una o più persone solide. Monumento più insigne è il banco di San
Giorgio a Genova. Questa Repubblica contrasse un debito fin dal 1148
allorchè conquistò Tortosa; lo crebbe poi nelle successive vicende,
sinchè nel 1250 fu addensato sotto il nome di _Compera del capitolo_,
descrivendo in un cartulario ventottomila luoghi, sommanti a due
milioni e ottocentomila lire d’allora, quando da un’oncia d’oro
di pajuolo tagliavansi lire tre, soldi dieci, denari tre. Così fu
consolidato il debito: ma la guerra con Carlo d’Angiò portò la compra
d’altri quattrocentoventi luoghi; d’altri l’assedio de’ Ghibellini e
le guerre d’Enrico VII e le successive; quattrocento novantacinquemila
fiorini d’oro vi aggiunse quella di Chioggia; di più l’amministrazione
del Boucicault, talchè la Repubblica era in procinto di fallire se
non si fosse trovato uno spediente. Solea Genova ai creditori dello
Stato cedere i proventi di alcuni dazj indiretti: essendo però le
varie imposte destinate ad uffizj diversi, andavano in troppa parte
assorbite dalle spese; laonde per semplificazione si ridusse ogni cosa
in un collegio di otto assessori col nome di San Giorgio, nominati dai
creditori, e obbligati a render conto soltanto a cento di questi. I
debiti anteriori di variissima forma vennero consolidati al sette per
cento: _luogo_ chiamossi ogni unità di credito, consistente in cento
lire, e che si poteva trasferire; _colonne_ un certo numero di crediti,
riuniti sopra un solo _logatario_ o creditore; _compere_ o _scritte_
la somma totale dei luoghi, equivalenti ai _monti_ di Firenze, di
Roma, di Venezia. Registravansi in otto _cartularj_, secondo gli otto
quartieri della città, rilasciando ai creditori polizzine col nome di
essi e colla firma del notajo; nè dovevasi emetterne alcuna che non
vi fosse l’equivalente valore nelle sacristie o casse; e pagavansi
a vista. Gli otto protettori formavano ogn’anno un gran consiglio di
quattrocentottanta logatarj, metà a sorte, metà a palle. I magistrati
superiori della Repubblica doveano giurare di proteggere inviolato il
banco.

Lo crebbero i molti denari depostivi da privati, e i _moltiplici_, come
chiamavansi certe disposizioni fra vivi o per testamento, mercè delle
quali i proventi d’alquanti luoghi lasciavansi accumulare onde comprare
altri luoghi, fin ad un certo termine, di là dal quale si applicavano
ad istituzioni pie o ad altro uso. Luoghi sopravanzati alla quantità
richiesta per gli annuali interessi di qualche nuova prestanza,
moltiplicavansi a pro della repubblica, e costituivano le _code di
redenzione_, che oggi diremmo fondo d’ammortizzamento; e questo operava
così efficace, che, malgrado più di sessanta prestiti fatti alla
repubblica, il banco diminuì i suoi luoghi da quattrocensettantaseimila
settecento che erano nel 1407, a quattrocentrentatremila
cinquecenquaranta, che trovavansi nel 1798, e di cui una quarta parte
erano disposti a pubblica utilità. La Repubblica, non bastando a
difendere Caffa dai Turchi, e la Corsica da re Alfonso il Magnanimo,
le cedette a San Giorgio, che così fu ad un tempo banco di commercio,
monte di rendite, appalto di contribuzioni e signoria politica.

Mentre le inesorabili fazioni rendevano impossibili in Genova e la
libertà e la tirannide, quella società, meglio consigliata, tutelava
la pace e l’ordine; continuò anche dopo mutati i modi e le vie del
commercio: dal saccheggio degli Austriaci nel 1746 risorse, soccombette
a quel dei Francesi nel 1800.

Con savie regole anche la città di Chieri nel 1415 eresse un monte,
a mezzo del quale spense il debito per cui rispondeva sin il dieci
e dodici per cento. Era costituito di diecimila genovine nè più
nè meno; cioè lire centosettantottomila, assicurati capitale e
interessi sui beni del Comune, divise in luoghi che rendeano il
cinque, poteansi vendere e permutare, e chi n’acquistasse uno diveniva
borghese di Chieri. Essi luoghi non doveano perdersi nè sequestrarsi
per qualsivoglia misfatto, neppure di maestà: i principi di Savoja
nè i loro ministri non potevano acquistarne: al Comune era dato in
qualsifosse tempo redimere quel debito[71].

In tal proposito non vogliamo preterire due istituti, dimenticati dagli
storici. Dodici nobili di Pisa nel 1053 cominciarono l’Opera della
misericordia, contribuendo venticinque libbre di grossi ciascuno, i
quali si dovessero trafficare, e del guadagno dotare povere fanciulle,
riscattare schiavi, sovvenire vergognosi: bellissima alleanza della
carità cristiana coll’industria moderna. Nel 1425 s’inventò a Firenze
un _monte delle doti_, ove mettendo cento fiorini, in capo a quindici
anni se n’avea cinquecento in dote a chi si maritasse, restavano al
monte se l’assicurato morisse o andasse religioso[72]. Dove ravvisate
quelle tontine e quelle casse di mutuo soccorso e di provvidenza, che
tanto or prosperano in Francia e in Inghilterra.



CAPITOLO XCVIII.

Costumi. — Liete usanze. — Spettacoli.


Non è mestieri che chiamiamo il lettore ad avvertire come fossero
mutati i costumi. Quel lusso corruttore, che le fatiche d’intere
provincie consumava ai godimenti e alle futili vanità di un solo,
qual vedemmo al declinare del romano impero, dovette cessare sotto i
Barbari, semplicemente rozzi.

In un placito tenuto da Adalardo in Spoleto, al principio del regno
di Lodovico Pio, ci è descritto un palazzo romano: dal _proaulio_ si
passa nel salutatorio destinato al ricevimento; segue il _concistoro_,
ove trattare i segreti; poi il _tricoro_ o _triclinio_, ove i
convitati sedevano in tre ordini di tavole, tra i profumi esalanti
dall’_epicaustorio_; ivi camere estive ed invernali, ivi terme o
bagni, ginnasio per le dispute e gli esercizj, la cucina, il colombo
o piscina da cui venivano le acque, l’ippodromo per corse di cavalli.
Evidentemente è l’avanzo d’un palazzo antico, e tale costruttura si
abbandonò coi nuovi costumi.

Delle case la maggior parte non aveano che il pian piede, alcune
erano coperte di tegoli (_cupæ_ o _cupellæ_), molte di assicelle
(_scandulæ_) o di paglia. Da ciò gl’incendj frequenti, che talvolta
distruggeano mezze le città, colpa dei quali, dice Landolfo sotto il
1106, Milano quasi più nessun muro avea di pietra o di cotto, ma solo
di paglia e graticci. Scambia egli per effetto la causa; ma è vero
che ajutava gl’incendj il mancar di camini. Gli antichi poco usavano
tale comodità, accendendo il fuoco in mezzo alla stanza, e per un
foro mandando il fumo. De’ camini colla canna innestata nel muro parla
Galvano Fiamma nel XIV secolo come di trovato recente: Andrea Gattaro
vuole che Francesco Carrara il vecchio da Roma nel 1368 ne portasse
l’uso, dapprima ignoto: vent’anni di poi il Musso notava come le case
di Piacenza fossero splendide, nitide, ben guarnite a masserizie, con
armadj, stoviglie e vasellami diversi, orti, cortili, pozzi, vasti
solaj, belle camere, alcune delle quali col camino[73]. In Roma la casa
che vulgarmente chiamano di Pilato, e che appartenne a un discendente
del console Crescenzio, è una fortezza all’uso di quel tempo, rimessa
in essere da Cola di Rienzo per difendere il ponte Rotto; pesantissima
nella sua solidità, straornata di pezzi tolti di qua di là, con
bizzarri capitelli e rozza iscrizione[74].

Nella feudalità ogni signore, fatto quasi un piccolo re, avea grandi
entrate, ma dovea spendere assai nel mantenere l’estesa famiglia,
oltrechè le sue entrate consistevano in derrate piuttosto che in
denari. Il palazzo prendeva l’aspetto, sovente anche la forza di un
castello; grosse mura, poche finestre o nessuna, torri agli angoli,
merli al tetto, una fossa intorno con ponte levatojo, che metteva alla
porta principale, difesa da balestriere e feritoje e da saracinesca
caditoja. Attorno al cortile, che serviva agli esercizi soldateschi,
erano la cucina, colla dispensa per la cera e per le spezie; ampie
scuderie, cogli altri bassi servigi; una sala d’arme, ov’erano disposte
quelle da battaglia e da caccia; il tinello, bastante non solo pei
famigli ma per gli ospiti numerosi. In quello del principe d’Acaja a
Pinerolo nel 1367 mangiavano centrentanove persone, fra cui venticinque
poveri e alquanti frati[75]. La sala da pranzare il signore, illuminata
da fiaccole portate da paggi e da grandi candelabri di ferro, alla
buona stagione rimaneva aperta ai venti, alla peggiore la schermivano
impannate di tela o di fogli oliati, quali le conservava ancora nel
1400 il ducale castello di Moncalieri. A questa mancanza di comodi
facea contrasto la suntuosità della tavola, disposta con doppieri
d’argento e fin d’oro, e trionfi artistici, e coppe d’avorio, di
tartaruga, di cristallo, o anche più fine per materia e lavoro.

La sala di ricevimento era messa ad arazzi, venuti di Fiandra o di
Damasco, e che più tardi si fecero tessere sopra disegni de’ migliori
nostri artisti. Sul pavimento si stendeva paglia fresca, qualche volta
tappeti, e più tardi le stuoje di sparto o di giunco. I sedili erano di
legno, talvolta riccamente intagliato, e coperto di drappi e di pelli
stampate, ma duri e scomodi, come gli archipanchi e le casse. Qui e qua
stipi e forzieri intarsiati e ad argento e oro, ne’ cui cassettini si
distribuivano quelle cento inutilità, di cui oggi facciamo pompa sulle
cantoniere. Non mancavano lavatoj e bacili di rame o di più nobile
metallo, e una spera metallica o di cristallo, e anche l’orologio
nella primitiva sua rozzezza; un dittico o un’immagine di santo, o il
crocifisso sopra il ginocchiatojo; di rado qualche libro. Il letto era
attorniato da un balaustro, sormontato da un cielone di drappo a nastri
e merletti, con coperte di gran valuta. Il resto della famiglia dormiva
in camere disadorne. Vi è qualche castello signorile in Piemonte e
negli Appennini toscani, da cui non disparvero questa distribuzione e
questo addobbo.

Al primo accorrere della gente dalla servile campagna nelle redente
città, si provvide solo a far abitazioni alla spiccia, con travi
frammezzate di cannicci e creta; sovente sulla porta un motto, un santo
serviva a distinguerle, invece dei numeri moderni. Delle vie, le più
erano anguste, facendosi i trasporti a spalle di somieri; tortuose
poi nè fra sè corrispondenti, perchè si fabbricava senz’accordo o
direzione; e tutt’altro che pulite quand’erano una rarità le ciottolate
e fognate, e vi griffolavano i porci, come oggi i cani.

Il popolo redentosi fece mozzar le torri, ove il signore si riparava
dalla legale punizione. Vennero poi le fazioni, e spesso la trionfante
atterrava le case dei vinti; talvolta era questo castigo decretato
dall’autorità a sfogo dell’ira plebea: una sola parte si diroccava
quando a varj padroni spettasse la casa[76]. Quel terreno restava
infamato, sicchè più non vi si poteva murare: il Palazzo Vecchio di
Firenze nel 1298 fu piantato fuor di squadra per non occupare lo spazzo
ov’eransi distrutte le case degli Uberti, che aveano voluto tradir la
patria agli stranieri; su quelle dei Quirini, complici del Tiepolo, i
Veneziani formarono il pubblico macello.

Il lusso non tardò ai privati edifizj, e Firenze, Genova, Venezia
n’ebbero di ricchissimi e maestosi. Meno però ai comodi si pensava
che alla solidità ed alla bellezza; e per tacere d’un’antica legge
lombarda, la quale proibiva il dormire più di quattordici ogni camera,
gli otto della Signoria di Firenze giacevano tutti in una sola fino a
mezzo il Quattrocento, quando Michelozzo ne fabbricò una per ciascuno.
Eppure si trattava di quella gloriosa Repubblica, i cui cittadini,
semplici nei costumi privati e nell’abito, spendevano largamente in
quadri e sculture e biblioteche e chiese, e le cui navi, spedite ad
Alessandria e Costantinopoli coi tessuti di seta, ne riportavano
manuscritti d’Omero, di Tucidide, di Platone. Nel 1270 Venezia
pubblicava una prammatica sopra agli ostieri, vietando d’alloggiar
meretrici, tenere aperta più d’una porta, nè vendere altro vino che
quel dato loro dai tre giustizieri; inoltre non avessero meno di
quaranta letti, forniti di coltri e lenzuoli: provvedimento notevole
in tempo che in Inghilterra appena si poneva paglia sopra i panconi ove
dormiva il re. Frà Buonvicino da Riva, che nel 1288 fece la statistica
di Milano, vi dà tredicimila case e seimila pozzi, quattrocento
forni, mille taverne da vino, più di cinquanta osterie ed alberghi,
sessanta coperti o loggie dinanzi alle case. Questi atrj, i chiostri
dei conventi, il palazzo pubblico, l’_arengo_, il _broletto_ servivano
per adunarsi e parlamentare: e il podestà milanese nel 1272 proibì
d’ingombrar le arcate sotto al broletto, affinchè nobili e mercatanti
potessero liberamente ronzarvi; anzi vi si collocassero panche ove
sedersi e pertiche ove posar falconi e sparvieri, che si portavano
attorno allora come dappoi i cani.

Grossolano era il mangiare plebeo, e in grand’uso il lardo, e spesso
troviamo istituiti legati per distribuirlo ai poveretti[77]. Nel
1150 i canonici di Sant’Ambrogio in Milano pretendevano dall’abate,
in non so qual giorno, un pranzo di tre portate: la prima di polli
rifreddi, gambe in vino e carne porcina pur fredda; l’altra di polli
ripieni, carne vaccina con peperata e torta di laveggiuolo; infine
polli arrosto, lombetti con _panizio_ e porcellini ripieni[78]. Il
molto uso delle carni facea che di pepe si consumasse, quanto di caffè
o zuccaro oggi. Il pan bianco serbavasi per casi d’invito, e ancora
nel 1355 Milano non n’aveva che un forno; il resto faceasi di mescolo
o di segale. Il _panatone_, le _focaccie_, le _pizze_, il _panforte_,
le _crostate_ ed altre varietà, che a Natale o a Pasqua si mangiano
ancora, sono vestigia del tempo quando ciascuno coceva il pane in casa,
di rado e massime all’avvicinare delle maggiori solennità. Generalmente
il principe o signore ne’ castelli feudali dava a mangiare a tutti i
suoi dipendenti, donde gl’immensi banchetti e le enormi pietanze, che
poi serbaronsi per lusso.

Ricobaldo Ferrarese così descriveva le usanze attorno al 1238: «Al
tempo di Federico II, rozzi erano in Italia riti e costumi; gli uomini
portavano mitre di squame di ferro; a cena marito e moglie mangiavan da
un sol piattello; non usavano coltelli da tagliare; uno o due bicchieri
erano in una casa; di notte illuminavano la mensa con una face sorretta
da un famiglio, non usando candele di sevo nè di cera. Vili erano le
portature degli uomini e delle donne, oro ed argento nessuno o poco
sul vestire, parco il vitto: i plebei tre dì per settimana pascevano
carne fresca, a pranzo erbaggi cotti colle carni, a cena carni fredde
riposte: non tutti in estate costumavano ber vino. Di poca somma
tenevansi ricchi: piccole cánove, con ampj granaj. Con esigua dote
si mandavano a marito le fanciulle, perchè assai misurato ne era
l’addobbo: le zitelle stavano contente ad una sottana di pignolato ed
una socca di lino; non fregi preziosi al capo nè da marito nè spose;
queste legavano le tempie e le guancie con larghe bende annodate sotto
il mento. Gli uomini ponevano la gloria nelle armi e ne’ cavalli, i
nobili nelle torri».

Tanta rustichezza è un’esagerazione di Ricobaldo, che volea farne
raffaccio a’ tempi suoi; come noi udiamo tuttodì esaltare dai vecchi
i costumi sobrj e schietti di loro gioventù, e che pure formavano
soggetto a beffe e rimproveri di poeti, di comici, di predicatori
d’allora. Se mai l’esiglio nostro sarà prolungato, anche noi nei
rabbuffi senili rimpiangeremo la beata semplicità e l’ingenua fede che
correva nei giovani nostri anni.

Un anonimo del secolo XIII così, ma più prolissamente che non facciam
noi, ritrae i Padovani: «Prima di Ezelino, sino ai vent’anni andavano
scoperti il capo; di poi presero a portar mitre ed elmi o cappucci co’
rostri, e tutti vestivano soprabito (_epitogia_) con drappi da oltre
venti soldi il braccio. Bella famiglia, buoni cavalli, sempre armi. I
nobili garzoni ai dì festivi imbandivano alle dame, servendo eglino
stessi, e di poi ballavano e torneavano. Splendide corti tenevano
in villa. Le donne, deposto il grosso pignolato crespo, vestivano
sottilissimo lino, cinquanta o sessanta braccia per ciascuna, a ragione
delle sue facoltà. Se ai tempi d’Ezelino alcun del popolo fosse entrato
a danza, i nobili lo schiaffeggiavano; e se un nobile amoreggiava
qualche popolana, non la conduceva senza permissione».

Ecco un avanzo delle prepotenze nobiliari; e nella _Divina Commedia_,
il più importante documento della storia nostra, troveremo un continuo
rimpiangere i tempi passati, cioè quelli dell’aristocrazia, quando
valore e cortesia si trovavano per le città d’Italia, quando nelle
Corti ogni gentilezza splendeva, nè ancora la gente nuova e i sùbiti
guadagni aveano turbato quel bello, quel riposato vivere. Lasciamo
pur dire al Boccaccio che i Fiorentini sono garruli e oziosi come
le rane[79], egli che altrove dice delle Pisane che «poche ve n’ha
che lucertole verminare non pajano»: scrivendo egli per celia, per
comando, per imitazione, da lui meno che da qualunque novelliere si
possono dedurre le costumanze del paese, giacchè molte volte non fa
che copiare, e persino nella descrizione della peste toglie da altrui
i tratti che si crederebbero caratteristici, e avventure di tutt’altri
affibbia oltraggiosamente alla regina Teodolinda o alla marchesana di
Saluzzo. Meglio la vita d’allora ci è rivelata dalle _Cento novelle
antiche_, alcune per certo scritte fin al tempo d’Ezelino, e da
quelle di Franco Sacchetti, i cui tanti aneddoti, comunque talvolta
insipidi, mostrano i costumi compagnevoli e gaj della libertà, pieni
di brigate sollazzevoli, di vivaci burle, d’allegrie, e l’amore
del novellare, i pronti ripicchi, l’arguzia a proposito, il vivere
all’aperto, la festiva comunanza tra i signori e quelli d’umile stato,
insolita nelle altre nazioni. Al tempo di Federico II di Sicilia
«uno speziale di Palermo, chiamato ser Mazzeo, avea per consuetudine
ogn’anno al tempo de’ cederni, con una sua zazzera pettinata in cuffia,
mettersi una tovaglia in collo, e portare allo re dall’una mano in un
piattello cederni, e dall’altra mele, e lo re questo dono riceveva
graziosamente». Esso Federico e i suoi figliuoli Enrico e Manfredi
asolavano di sera per le vie di Palermo, sonando alla serena, e
cantando cobole e strambotti di loro composizione.

Sovratutto piace quella universale pubblicità, tutto al differente
da oggi, quando la gioja come il dolore si costipa fra le pareti
domestiche, o al più si comunica a quelli che chiamiamo nostri eguali.
Allora pareva contentezza di tutti quella d’un solo; e le nozze si
festeggiavano con una corte bandita, i funerali coll’intervento di
tutta la città; ballavasi sulle piazze, e con chi primo capitasse. Chi
murava, ponea vicino della sua casa una loggia per ritrovo degli amici
al cospetto di tutti[80]: chi non fosse da tanto, poneva fuor della
porta una pancaccia, ove fare la chiacchiera coi passeggieri, e dove
talora Cisti fornajo eccitava l’invidia de’ magnati col pan buffetto
e col buon vino ch’egli reputavasi beato di mescere agl’illustri
cittadini ed agli ambasciadori di grandissimo Stato[81].

L’arte di lavorar calze co’ ferri fu tardi conosciuta. Noto è che i
Romani non usavano brache, sicchè venne notato come uno straordinario
Cesare, il quale riparavasi dal freddo con certe mutande. I calzoni
usati dai Barbari furono adottati ben presto dai vinti. Comuni erano le
pelli; di volpe, d’agnello, d’ariete a’ plebei; a’ ricchi le grigie e
vaje e bianche spoglie degli zibellini, delle martore, dell’ermellino.
Il nome di _superpelliceum_ dato alla cotta testifica l’uso de’ preti
di portar pelliccie; del che avanzano traccie nelle almuzie e nella
cappamagna. I Veneziani, e forse quei dell’Esarcato, nel vestire
tennero dei Greci, coi quali erano in frequente comunicazione; e
quando i Crociati assalirono Costantinopoli, Pietro Alberti veneziano,
che primo era salito sulle mura, fu ucciso da un Francese che lo
scambiò per un Greco. Ch’essi nutrissero e pettinassero la barba alla
bisantina, appare dalla maschera che n’è tipo.

All’idea di que’ secoli poetici e pittoreschi associamo quella di
vestiti di gran valuta, a compassi d’oro e di gemme, e a pelliccie:
ma uno bastava tutta la vita, anzi tramandavasi ai figliuoli ed ai
nipoti. Ciascuna condizione e grado lo portava differente, poichè uno
dei caratteri del medioevo si è questa separazione che le opinioni,
le leggi, le usanze mettevano tra il vulgo e i nobili, tra il ricco e
l’artigiano, tra il lavoratore e lo scienziato. Vasti palazzi, di forza
più che di venustà, con pochi mobili che pareano fatti per l’eternità,
con ampie sale bastanti a raccogliere la numerosa clientela, con
portici ove soleggiare, discorrere, novellare; buffoni, che di aneddoti
e facezie esilaravano le adunanze e ai conviti; donativi di solida
importanza, come vesti, denari, vivande; turme di cani, d’avoltoj, di
falchi, di cavalli; estesissimi parchi chiusi per le caccie; grosse
famiglie di servitori, pompa d’armi, brigate di tutta la gioventù,
gualdane, comparse, discernono affatto quel lusso dall’odierno, tutto
abiti e fronzoli d’apparenza più che di prezzo, e da oggi a domani
mutati al capriccio della gran città che normeggia in Europa il modo
del vestire e del pensare.

E ciascun paese aveva un vestir proprio, e Dante si fa riconoscere
nel suo pellegrinaggio[82] tanto alla favella quanto all’abito. Gli
statuti e principalmente le leggi suntuarie di ciascun Comune, colle
minute prescrizioni fin sul taglio, le pieghe, gli ornati, la spesa de’
vestiti, ajuterebbero a particolareggiare le costumanze d’allora, chi
sel proponesse. I birri erano casacche di color rossigno, più spesso di
panno vulgare, e col cappuccio; _rauba_ o _roba_ fu nome comune delle
vesti migliori, conservatosi nella lingua nostra e nella francese;
v’è menzione del _supertotus_, e del palandrano o cappa, distinto dal
mantello perchè senza maniche e col cappuccio. Ma il dire le varie
foggie di ciascun tempo è fatica degli storici municipali.

Gli statuti di Mantova del 1327 vietano che alcuna donna di basso
stato porti abito che tocchi terra, nè abbia al collo intrecciatojo
di seta; di qual sieno grado poi, non tengano veste che strascichi
più d’un braccio, nè corone di perle o gemme al capo, nè cintura che
valga oltre dieci lire, nè borsa d’oltre quindici soldi. Nel 1330,
racconta il Villani, «fu provveduto in Firenze al lusso delle donne,
molto trascorse in soperchi ornamenti di corone e ghirlande d’oro e
d’argento e di perle e pietre preziose e reti, e certi intrecciatoj di
perle e di altri divisati ornamenti di testa di grande costo, e simili
di vestimenti intagliati di diversi panni e di diversi drappi rilevati
di seta di più maniere, con fregi di perle e di bottoncini d’argento
e dorati, spesso a quattro e sei file accoppiati insieme; e fibbiati
di perle e di pietre preziose al petto, con segni e diverse lettere.
E per simil modo si facevano conviti disordinati di nozze, e di spese
soperchie. Fu sopra ciò provveduto, e fatto per certi ufficiali alcuni
ordini molto forti, che niuna donna potesse portar corona nè ghirlanda
d’oro nè d’argento, nè di perle, nè di pietre, nè di vetro, nè di
seta, nè di niuna similitudine di corona, nè di ghirlande, eziandio
di carta dipinta, nè rete, nè treccie di nulla spezie se non semplici;
nullo vestimento intagliato nè dipinto con niuna figura, se non fosse
tessuto, nè nullo adogato nè traverso se non semplice partito di due
colori, nè nulla fregiatura d’oro nè d’argento, nè di seta, nè niuna
pietra preziosa, nè eziandio smalto nè vetro, nè di poter portare più
di due anella in dito, nè nullo scheggiale, nè cintura di più di dodici
spranghe d’argento; e che nessuna potesse vestire di sciamito, e quelle
che l’aveano il dovessero marchiare acciocchè altro non ne potessino
fare. E tutti i vestimenti di drappi di seta rilevati furono tolti e
difesi, e che niuna donna potesse portar panni lunghi di dietro di più
di due braccia, nè scollato più d’un braccio e quanto il capezzale; e
per simil modo furono difese le gonnelle e robe divisate a fanciulli e
fanciulle, e tutti i fregi, eziandio gli ermellini, se non a cavalieri
e a loro donne; e agli uomini tolto ogni adornamento e cintura
d’argento, e giubbetti di zendado e di drappo e di ciambellotto. E fu
fatto ordine che nullo convito si potesse fare di più di tre vivande, e
a nozze avere più di venti taglieri, e la sposa menare seco sei donne e
non più, e a corredi dei cavalieri novelli più di cento taglieri di tre
vivande, e che a’ cortei de’ cavalieri novelli non si potesse vestire
per donare roba ai buffoni, che in prima assai se ne davano».

Sono una miniera di curiosità e d’individue notizie questi statuti
suntuarj; ma ciascuno richiederebbe un commento, che appena sul luogo
potrebbe condursi. Tanto per un saggio prendiamo quello di Lucca,
il quale al 1308 vieta ai funerali picchiarsi le mani, nè donne
scarmigliarsi e così star piangendo al cadavere, se non sia moglie,
figlia o germana. Al 1362 vuole a nozze non siano più di quaranta
invitati, oltre quattordici tra servitori, cuochi e guatteri. Non
si diano che due qualità di vivande, cioè carni e pesci, servendo
una sola per volta, e un pezzo ogni due persone; e per l’arrosto un
pollo o due pollastri, o due starne, o due tortore o quaglie, o un
quarto di capretto, o un mezzo papero. Non si tien conto de’ raviuoli,
tordelletti, torte, nè altri mangiari di pasta, o di latte, cacio,
salsiccie, carne salata, lingue investite. A cena non si tengano che
venti persone e fin a otto servitori, nè si diano che due qualità di
vivande, oltre erbe o formaggio o ricotta, come sopra. Non si ardisca
dare confetti prima del desinare o dopo, ma una sola volta la tragea a
desinare, e una a cena. Un altro capitolo prefigge il modo del secondo
giorno, dopo di che più non poteasi far convito, neppure il giorno
dell’anellamento. Vietasi di avere, in tali occasioni, alcun giocolare
o sonatore o buffone; bensì potrà il giorno della festa aversi
sonatori, che accompagnino anche la sposa per via; e il primo dì delle
nozze un sonatore in casa o fuori, purchè lo stromento non sia tromba o
trombetta o nacchera o cornamusa.

Le dónora che la moglie manda al marito, pongansi in cofani o casse,
talchè non si possano vedere per via; e i cofani non lavorati o
vistosi o dorati. E qui una serie di divieti sopra tale corredo; poi
altrettanti pel ricorteo, i parti, i battesimi. E via via crebbero,
e nel 1473 fu proibito portar oro e argento se non sia lo spino della
cintura, o fornimenti di coltellini o di libri, o agorajuoli o bottoni;
non più di sei anelli; nessun vezzo al collo o ricamo qualsiasi.
Perle, giojelli, fermagli proibisconsi alle donne se non dai dieci
anni in su fin a un anno dopo maritate; nel qual tempo possano portar
in capo fin a tre oncie di perle, da valere trenta ducati larghi; non
pianelle covertate di drappo di seta o d’oro: niuna donna abbia di più
di due vestiti di drappo di seta, un solo de’ quali sia cremesi; e per
evitare la frode, non si porti alcun abito se prima non sia notato nel
libro da ciò; e quando vogliasi mutarlo, si faccia cangiar la scritta;
e dismesso una volta, nol si ripigli: proibite le maniche aperte a
campana. I cavalieri e dottori di medicina o di legge e le donne loro
sono dispensati da questi divieti, i quali sono assai maggiori per le
contadine.

«E perchè poco varre’ far leggi saluberrime se non si provvedesse al
modo della observantia», si moltiplicavano le visite, gli spionaggi
e il restante corredo delle leggi assurde. Poi nel 1484 ecco nuove
restrizioni, tali che insomma prescrivevano il modo di vestirsi nè
più nè manco, e quanto devano costare il chiavacuore, la borsa, il
grembiule, il grembialotto. E nell’89 limitavansi le spese pei pasti,
non si dessero tragea, cialdoni, frutti, vini, nè si facesse ornati
alla camera se non di spalliere, bancali e tappeti, e sui letti e
lettucci di arazzi; e lenzuoli di lino senz’oro nè argento, e coltre di
seta. Segue un’altra filatera di proibizioni, la ragion delle quali è
impossibile riconoscere se non al momento che vengono fatte o tolte, il
che sovente succede poco dopo[83].

Per quanto inefficaci, le leggi suntuarie poteano avere opportunità
quando al Governo s’attribuiva non soltanto lo smungere denari e
spenderne, ma anche, siccome ad un padre in famiglia, cercare la
moralità de’ suoi dipendenti. E un mezzo di moralità era il non uscire
dal proprio stato; col che il ricco non contrae i vizj del povero,
nè questo i vizj di quello; e le differenze di paese e l’indole non
recavano già alla virtù, ma classificavano in certo modo le genti,
mantenendole nel proprio carattere.

Non vogliamo uscir da questo discorso senza riferire quel che i
Lucchesi nel 1346 stanziarono sul modo di trattare gli otto loro
anziani, dimoranti nel palazzo di San Michele in Foro. «Ciascuno d’essi
sia alla messa il mattino; e qual non vi sarà al vangelo paghi denari
sei, dodici qual non vi sarà al corpo di Cristo, diciotto qual non vi
sarà alla benedizione. Nessuno vada fuor di palazzo, nè risponda a chi
parli al collegio senza licenza del comandatore, a pena di soldi due.
Ciascuno venga a collegio quando sonerà la campanella maggiore, a pena
di grosso uno. Non possano andare fuori più di tre per volta, sicchè dì
e notte rimanga in palazzo il collegio; ma non vi meni o faccia menar
femmina, a pena di soldi cento; non vada a tavola nè si lavi le mani,
se prima non è posto e lavato il comandatore, il quale al collegio,
alla messa, a tavola deve sempre stare in testa, e per città andare
innanzi agli altri. Niuna parola disonesta si parli alla tavola: alla
messa e alla mensa si tenga silenzio, se il comandatore non desse
la parola: nessuno possa invitare forestiere a desinare o cena o
merenda o panebere, senza volontà del collegio; e se alcuno n’avesse
la grazia, paghi due grossi allo spenditore per volta. Nessun anziano
possa andare a corpo, se non fosse per sua famiglia e consortato, pena
soldi quaranta; non mandar fuori alcuna cosa da mangiare o da bere; non
far venire del vino da vantaggio, se non due volte il dì, e solamente
un mezzo quarto per volta pagando; e sempre si tegna la cocca pel
comandatore. Niun confetto si mangi alle spese del collegio, se non
fossero anisi confetti o tragea di po-mangiare e di po-desinare; e chi
li facesse venire, paghi del suo».

Sarebbe un ripeterci il qui delineare i costumi cavallereschi, che sono
per se medesimi una poesia. E in essi e in tutti domina la convinzione;
onde assoluti nei comandi, nelle credenze, negli odj, negli amori,
nelle persecuzioni, nelle belle e nelle sconce imprese, nel sapere e
nel volere.

Colla libertà dovettero assai migliorarsi i sentimenti, su numero
maggiore diffondendosi le cognizioni e l’operosità. Qual cosa innalza
la dignità dell’uomo meglio che l’uscire dall’angusto circolo de’
domestici affari per occuparsi de’ pubblici, sulla piazza e nel
consiglio sostenere dibattimenti da cui pende la prosperità della
patria? L’agitarsi delle fazioni, i patimenti degl’individui, la
premura di superare gli emuli, l’ambire le cariche come testimonio
della pubblica fiducia, avvezzano fin dai giovani anni ad avere una
volontà, e impediscono quella sonnolenza in cui rampollano le passioni
vigliacche. L’uomo sentiva di essere cittadino; misurava le morali
e fisiche sue forze nella lotta cogli emuli interni o coi nemici
esteriori; e nell’allevare i figliuoli, consolavasi della certezza di
lasciar loro un posto in società e una speranza.

Il compilare e applicare i varj statuti costrinse a coltivare la
politica e la giurisprudenza. I nobili, che un tempo non servivano
se non di capitani, allora andarono anche podestà, obbligati così a
qualche studio o almeno a prendere in miglior concetto i leggisti,
de’ cui consulti doveano valersi. Nelle città grosse, fin ducento
persone pei magistrati annuali venivano di fuori, lo che accomunava le
idee, cresceva la reciproca conoscenza, diffondeva tra gl’italiani la
scienza di Stato: ogni podestà era superbo di lasciare il proprio nome
a qualche novità o miglioramento: ciascuna repubblica era un centro
di attività; ciascun uomo si affaticava negl’interessi della città
propria; onde in mezzo all’Europa feudale il nostro paese compariva
come un oasi della civiltà, e ne veniva grande incremento alle forze
individuali ed energia ai caratteri. Che se pochi grand’uomini si
vedono primeggiare, non significa che mancassero, ma che tutti i
cittadini erano ad una elevatezza.

Nè però abbandoniamoci a panegirici. Era egli a sperare gentilezza
quando gl’interessi esacerbavano gli odj, e gli sfoghi della violenza
restavano impuniti per chi eludesse la legge fuggendo sul vicin
territorio, o la affrontasse appoggiato ad una fazione? Se nei
castelli duravano la prepotenza e la lascivia, se il clero prorompeva
a splendidezze e lussi meno a lui convenienti, neppure i Comuni
offrivano esempj di castigatezza. A migliaja contavansi le meretrici,
o dietro agli eserciti anche dei Crociati, o nelle città dove talora
esponeansi alle corse nelle solennità pubbliche. Nell’archivio di Massa
Marittima è un contratto del 3 gennajo 1384, ove il Comune vende un
postribolo ad Anna Tedesca col canone d’annue lire otto, e l’obbligo di
tenerlo provvisto. In un altro del 19 novembre 1370, nel diplomatico
di Firenze, il Comune di Montepulciano l’appigiona per un anno a
Franceschina di Martino milanese per quaranta lire, oltre la tassa
solita delle femmine di conio. Francesco da Carrara, trovate molte di
queste sciagurate nel campo degli sconfitti Veronesi, le collocò al
ponte dei Mulini di Padova, imponendo sui loro proventi una tassa a
vantaggio dell’università.

Due colonne portate da un’isola dell’Arcipelago, stettero per terra a
Venezia, nessuno sapendole rizzare, sinchè un barattiere lombardo vi si
provò: legatele, bagnava le corde, pel cui accorciamento sollevandosi,
le puntellava, e ripeteva il fatto sinchè le ebbe erette. In gente che
avea San Marco sotto gli occhi, non so che mi credere di sì grossolano
ripiego; ma quel che qui importa è il compenso da lui domandato, che i
giuochi di zara fossero permessi in quell’intercolunnio, come seguitò
per quattrocento anni, sinchè non venne infamato facendone il luogo del
supplizio. A Genova, a Firenze, a Bologna esercitavansi pubblicamente
quei giuochi, altrove ripetutamente, cioè inefficacemente proibiti.

Le leggi municipali rivelano le abitudini del popolo, il lusso con
tutte le sue corruzioni, le speculazioni sul cambio e sui fondi
pubblici. A Lucca la donna libera che peccasse, era abbandonata ai
parenti, che poteano infliggerle qual volessero castigo, eccetto la
morte: altrove era bruciata, severità che avrà impedito le accuse. Lo
statuto di Genova del 1143 a chi ammazza la moglie non commina che
l’esiglio. Quello di Nizza punisce di multa e bando l’adultero dopo
scomunicato; e lo stupratore col marchio rovente in fronte, se pur non
si redima con cinquanta soldi: e fino gl’incendiarj poteano riscattarsi
a prezzo[84]. Quello di Mantova al bestemmiatore imponeva cento soldi:
e se non li pagasse fra quindici giorni, fosse messo in una corba e
affogato nel lago: se un uomo parli con una donna in chiesa, paghi
venti soldi, metà de’ quali tocchi al denunziatore[85]. A Susa i
ghiottoni e le bagascie erano menati nudi per la città.

Da tutti i racconti traspare grossolanità di costumi, non mascherata
licenza nelle relazioni col sesso gentile, un rozzo compiacersi delle
buffonerie, abusi di forza, masnadieri sfacciati, clero scostumato,
avaro, simoniaco, eccessi di gola anche in persone ragguardevoli,
scarso quel pudore pubblico che è fiore del delicato sentire, e fino
ne’ potenti sfacciato libertinaggio e il concubinato. Dante non esita
a relegare nell’inferno uomini di gran conto: il padre del suo dolce
Cavalcanti e il sommo Farinata degli Uberti fra gli Epicurei, cioè fra
quelli che badavano a godere la vita presente senza un pensiero della
postuma; e fra gli oltraggiatori della natura «la cara buona immagine
paterna» di quel Brunetto Latini, che gli aveva insegnato «come l’uom
si eterna».

In tutti però gli attori che Dante conduce ad operare in quel gran
dramma di tante catastrofi, appare un desiderio di fama, che li fa
per un istante dimenticare i tormenti, dimenticar l’onta che possono
ricevere dall’essere saputa la loro dannazione, tanto solo che la
memoria di essi riviva fra gli uomini; desiderio appena soffocato in
coloro che si tuffarono in bassa ed egoistica scelleratezza, traditori,
spioni e simili lordure. Tal desiderio Dante trasportò nell’altro dal
mondo che avea sott’occhio, dove, tra la barbarie non bene spenta e
la civiltà non bene risorta, le passioni non avevano nulla perduto del
loro vigore, operando per impulso anzichè per calcolo.

Aggiungete una devozione irrazionale, che vedeva un miracolo in ogni
evento, premj e castighi immediati in ogni contingenza, attribuiva un
santo ad ogni passione, ad ogni speranza, e santi e apparizioni faceva
intervenire dappertutto, e moltiplicava voti quasi un patto col cielo
per cansare i pericoli, e fin anco per riuscire ad una ribalderia.
Seriamente s’attribuivano alla statua di Marte, qualora fosse mossa
di posto, le calamità di Firenze. I Milanesi hanno in Sant’Ambrogio un
serpente di bronzo, che credevano, ad onta d’ogni storia, lo stesso che
Mosè inalberò nel deserto, e che al fine del mondo sibilerà. A salvarsi
da grandine, fulmine ed altre meteore, tendevano festoni di rose e
d’erbe olezzanti nelle chiese, col che premunivansi pure dal maligno
sguardo delle vecchie (DECEMBRIO). Per impetrare la pioggia, faceano
un gran fuoco all’aperto, e vi metteano un pentolone o una conca a
bollire, in onore di san Giovanni, empiendola di carni salate e legumi,
che i monelli ciuffavano e si godeano là intorno. Alle Rogazioni,
donne e fanciulle formavano di pasta figure di bambini, sperando così
ottenerne; ed ornavano le vie con focaccie, ova e ogni abbondanza di
verdure, e ampolle pensili di latte, vino, olio, mele. Di rimpatto mi
sa d’affettuoso quel ricordare i fasti patrj dal santo che quel giorno
correva, dicendo che a sant’Agnese fu la rotta di Desio, a san Barnaba
la battaglia di Montecatino, a san Dionigi quella di Vaprio, a san
Cosma e Damiano l’uccisione di Ezelino, e via discorrete, accoppiando
una memoria storica ad una religiosa.

Grandi virtù, grandi delitti, grandi calamità sono proprie di tempi
simili, fra cui si foggiano que’ risoluti caratteri che l’Alighieri
seppe cogliere, e dalla vita reale trasferire nella sua scena
soprumana, quasi senza bisogno d’aggiungervi o togliervi. Solo nella
raffinata civiltà le fisionomie morali si fogiano s’uno stampo comune,
alla guisa che i lineamenti esterni vengono ingentiliti e ridotti
ad uniformità maggiore nelle città, mentre nella campagna conservano
carattere distinto e pronunziato.

Fuori d’Italia pochi sapeano scrivere, mentre qui nel 1090 abbiamo
l’atto con cui Vitale Faledro doge di Venezia dona al monastero di
San Giorgio case in Costantinopoli e terre, e porta non meno di
cenquaranta persone sottoscritte col proprio nome e cognome[86].
Nella vita di sant’Ambrogio de’ Sansedoni di Siena si legge ch’esso da
fanciullo voleva sempre avere a mano l’uffizietto, talchè a sua madre
non lasciava recitar le ore, e suo padre fece fare due libriccini
d’immagini, uno de’ personaggi del secolo, l’altro di santi; e il
ragazzino ricusò quello, mentre di questo si dilettava senza fine.

Tra gli altri popoli d’Italia, negli atti e negli scritti primeggiano
i Fiorentini, sottili nel trovare spedienti, arguti nel motteggiare e
cogliere con garbo e con delicatezza il ridicolo, sollazzevoli, pieni
di gioconde idee, ed insieme d’indole ferma e di composta condotta;
nelle lettere poi accoppiavano forza di raziocinio e prontezza, facezie
e meditazione, filosofia e giovialità. Firenze «povera di terreno,
abbondante di buoni frutti, con cittadini pro’ d’armi, superbi,
discordevoli, ricca di proibiti guadagni, dottata per sua grandezza
dalle terre vicine, più che amata»[87], pensava far lieta vita e
balli per la vicinanza. All’Ognissanti era la festa del vin nuovo; a
san Giovanni correasi il palio; e a quello del 1283 un Rossi formò un
consorzio di più di mille popolani con statuti e vesti bianche, e un
_signor dell’amore_, per mettere insieme cavalcate, balli, trionfi, con
grande affluenza di gente e giocolieri e cantastorie e lieti banchetti.

E la ricchezza e insieme la serenità delle Repubbliche manifestavasi
ne’ divertimenti. Folgore da San Geminiano, vissuto attorno al 1260,
compose una corona di sonetti sopra i mesi dell’anno, diretta a una
nobile brigata di Senesi, datasi a lieto vivere, fra cani, uccelli,
ronzini, quaglie, e prodezze e cortesie. Nel gennajo le dona salottini
con fuochi accesi, camere e letti con lenzuola di seta e coperte di
vajo, poi confetti e vin razzente per difendersi dal garbino e dal
rovajo; e gli invita ad uscir fuori il giorno a scagliar neve alle
donzelle che stanno d’attorno. Di febbrajo è la caccia di cervi,
capriuoli, cinghiali; onde in gonnella corta e grossi calzari escano
per tornar la sera co’ fanti caricati di selvaggina, e quivi far trarre
del vino e fumar la cucina e stare raggianti. D’ottobre si vada in
contado a trar buon tempo e uccellare a piedi ed a cavallo; e la sera a
ballo e inebbriarsi di mosto; e la mattina, dopo lavati, medicarsi con
arrosto e vino[88].

«Nel tempo più buono di Firenze (dice Giovan Villani) ogn’anno si
facevano le compagnie e brigate e coorti di gentili uomini vestiti di
nuovo, facendo corti coperte di drappi e zandali, chiuse di legname in
più parti della città, e simili di donne e pulcelle, andando per la
terra ballando e accoppiate con ordine, e signore con più stromenti,
con ghirlande di fiori in capo stando in giuochi e sollazzo e conviti
di cene e desinari». E il Boccaccio: «Furono in Firenze molte belle
usanze che l’avarizia discacciò. Tra l’altre era una cotale, che molti
gentili uomini radunavansi e facevano loro brigate; e oggi uno, domani
l’altro, tutti mettevano tavola, onorando la brigata, ed anche qualche
forestiere; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno,
cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente in
occasioni solenni». Colà pure, nel 1333, si formarono due compagnie
d’artefici, l’una divisata a giallo che furono ben trecento, l’altra
a bianco che furono da cinquecento, e durò un mese in continui giuochi
per la città, andando due a due per la terra con trombe e più stromenti
con ghirlande in testa, danzando, col loro re molto onoratamente
incoronato, con drappi a oro sopra capo, e alla loro corte facendo
continuo convito e desinare con grandi e belle spese[89].

La gara de’ gentiluomini in menare a casa propria chi capitasse nella
terra era tanta, che quei di Brettinoro, per ovviare alle dispute
che ne nascevano, posero in mezzo del castello una colonna con molte
campanelle attorno; e il forestiere legava il cavallo a qualsifosse
l’una di esse; e quello cui era attribuita, restava il prescelto. Anche
altrove s’istituirono brigate per onorare gli ospiti, a cui correano
incontro per essere primi a levarli d’in sull’osteria.

Le sanguinose feste del circo cessarono, ma sempre ne continuarono
di devote fra il popolo, guerresche fra i signori, a cui imitazione
le fecero poi anche le città. Alla congiuntura di coronazioni, di
matrimonj o d’altri fausti successi, solevansi aprire corti bandite,
preparate con una sontuosità che supera l’immaginazione. Vi accorrevano
musici, sonatori, saltambanchi, spacciatori di rimedj, funamboli,
buffoni, che riceveano vesti, cibo, denari; imbandivansi ne’ cortili
e sui prati per chiunque capitasse; nè barone o signore lasciavasi
partire senza appropriati regali. Alle nozze di Bonifazio, padre
della gran contessa Matilde, tre mesi continuarono i banchetti, ove
convenivano (racconta Donnizone) molti duchi coi cavalli ferrati
d’argento, dai pozzi attingeasi vino per un secchio legato a catena
d’oro, e indicibili altre magnificenze.

Dante a’ suoi giorni vide più volte «gir gualdane, ferir torneamenti
e correr giostre»[90]. Le gualdane erano brigate di giovani, che
uniformemente divisati, cavalcavano per la città, armeggiando, o, come
allora diceasi, bagordando. Nella giostra combatteasi con aste broccate
e spade ottuse, sol cercando fare staffeggiare l’avversario[91].
Più solenni erano i tornei, banditi buon tempo prima, per grandiosi
avvenimenti, e sotto la direzione degli araldi, che doveano esaminare
lo scudo di qualunque campione volesse provarvisi. Tale piena di
romanzi oggi c’inonda, che nessun lettore nostro sarà senz’aver
visto qualche descrizione di torneo, e delle feste e cortesie che gli
accompagnavano. In essi, come oggi ai balli, signoreggiavano le donne,
a cui toccava incorare e ornare i campioni, decidere della prevalenza,
consegnare il premio. Non che corrersi lancie a onore di esse,
s’istituirono corti d’amore, ove si dibatteano problemi di galanteria,
e davansi decisioni in forma; e noi pure ne avemmo qualche rara volta
per imitazione dei Francesi.

Altre volte si scannavano e bruciavano bellissimi cavalli; o si
faceano cuocere le vivande a solo fuoco di torchi di cera; o si
seminava un campo con migliaja di soldi, che poi la moltitudine andava
dissotterrando. In tempi di vita isolata e scarsamente abbellita,
cercavansi con avidità simili occasioni di far pompa e acquistare
rinomanza; vi si pensava un anno, e spendevasi in un giorno quel che in
società raffinate stillasi nei piaceri abituali. Oggi un signore mette
tavole discrete tutti i giorni per otto o dieci convivi, ha il teatro
alla sera, frequenti balli, quotidiane comparse: il castellano isolato,
una volta in vita spendeva un tesoro; più apparenza e meno realtà, più
sfarzo e meno comodi.

L’usanza rimase e si ampliò nelle repubbliche e nei principati che
da queste uscirono. Nel 1252 in Milano tennero corte bandita presso
a porta Vercellina alcune compagnie di nobili e plebei, con divisa
bianca e rossa, piantando assai padiglioni e capanni di fronde, ove
ognuno fosse lautamente servito; ciascun dì uscivano a far baldoria i
cittadini di tre porte; ed affinchè i rimasti non fossero senza gioja,
per le strade e nelle piazze erano disposte tavole da mangiare e bere
chi volesse.

Occasione a feste davano la venuta dei podestà o dei principi, le
vittorie, e privatamente i matrimonj, i dottorati, i cavalierati. Nel
1260 gli Aretini ornavano della cavalleria Ildebrando Giratasca a spese
del Comune. Di gran mattino, egli nobilmente vestito, con gran comitiva
de’ suoi entrò in palazzo, e giurò fedeltà a’ signori e al santo
patrono; indi passò alla chiesa madre per ricevere la benedizione,
presenti i sei donzelli di palazzo e i sei tubatori. Pranzò a casa
del signor Ridolfoni con due frati camaldolesi, e sovra desinare vi
fu il pane, l’acqua, il sale, giusta la legge della cavalleria, e un
dei frati gli tenne un discorso sui doveri di cavaliero. Entrò poi in
camera, dove stette un’ora, indi a un frate si confessò; un barbiere
gli acconciò barba e capelli, e ogni cosa pel bagno. Quattro cavalieri,
venuti a lui con una turba di nobili donzelli, di giocolieri, di
sonatori, lo spogliarono e posero nel bagno, mentre gli esponeano i
precetti e le norme della nuova sua dignità. Statovi un’ora, fu posto
in un letto pulito con finissime lenzuola di mussola, e il celone e
tutto il resto di seta bianca. Dopo un’ora di letto, e facendosi già
notte, fu vestito di mezzalana bianca col cappuccio e con cintura di
cuojo; prese una refezione di solo pane e acqua; ito poi alla chiesa
col Ridolfoni e coi quattro cavalieri, fe la veglia tutta notte,
assistito da due sacerdoti e due cherici, e quattro donzelle nobili e
leggiadre, e quattro donne mature, pregando che tal cavalleria fosse
a onor di Dio, della Vergine e di san Donato. Sorta l’aurora, un
sacerdote benedisse la spada e tutta l’armadura dall’elmo fino alle
scarpe ferrate; celebrò messa, dove Ildebrando prese la comunione; indi
offrì all’altare un gran cero verde e una libbra d’argento, e un’altra
per le anime purganti. Allora, schiuse le porte della chiesa, tutti
tornarono alla casa del Ridolfoni, dov’era preparata una colazione
di confetti e tartare e altre delicature, con vernaccia e trebbiano.
Venuta l’ora di tornare alla chiesa, il neofito, ch’erasi alquanto
coricato, fu vestito tutto di seta bianca, con una cintura rossa a
oro, e stola simile; e fra i tubatori e i cantanti, che suonavano e
cantavano stampite in lode della cavalleria e del nuovo milite, s’andò
alla chiesa fra signori e donzelli, e fra i viva e riviva del popolo.
Qui si cantò messa solenne; durante il vangelo quattro cavalieri
tennero elevate le spade nude; poi Ildebrando giurò mantenersi
fedele ai signori del Comune di Arezzo e a san Donato, e a poter suo
difenderebbe le donne, le donzelle, i pupilli, gli orfani, i beni
delle chiese contro la forza e la prepotenza. Due cavalieri gli posero
gli sproni d’oro, una damigella la spada, e il Ridolfoni gli diede la
guanciata dicendo: — Tu sei milite della nobile cavalleria, e questa
gotata sia in memoria di colui che ti armò cavaliere sia l’ultima
ingiuria che ricevi pazientemente».

Finita la messa, tornarono fra suoni e canti alla casa del Ridolfoni,
dove innanzi alla porta stavano dodici fanciulle con ghirlande al capo,
e in mano una catena d’erbe e fiori, colla quale facendo serraglia,
gl’impedivano l’entrata. Il cavaliere le regalò di un ricco anello,
dicendo aver giurato di difendere donne e donzelle; ed esse gli
permisero l’ingresso. Al pranzo sedettero molti cavalieri e signori,
durante il quale i membri della Signoria mandarongli ricco donativo,
due intere armadure di ferro, una bianca con chiovi di argento, l’altra
verde con chiovi e fregi d’oro, due grossi cavalli tedeschi, due
ronzini, due sopravvesti nobilmente ornate. Al popolo che rumoreggiava
per istrada, si gettò spesso della tragea e mustacini e galline e
piccioni e oche, donde l’allegrezza s’avvivava.

Dopo pranzo, Ildebrando fu armato coll’armadura bianca, e con lui molti
nobili; e su cavallo bianco andò alla piazza con adorni scudieri, che
portavano le lancie e gli scudi. Colà era preparato un torneamento, e
gran gente a vedere; e si combattè corpo a corpo con lancie spuntate,
e il neofito si comportò egregiamente; poi si torneò colle spade come
fosse vera guerra, e la Dio mercè non intervenne alcun male. Cadendo
il giorno, le trombe annunziarono la fine del torneamento, e i giudici
distribuirono i premj; e uno ch’era stato scavalcato, dovette lasciarsi
portare s’una barella da scherno. Il primo premio, ch’era un palio di
drappo di seta, toccò a Ildebrando, che mandollo a quella che gli avea
cinto la spada. Poi tra fiaccole e suoni egli tornò dal Ridolfoni, cenò
cogli amici e i parenti, distribuì bei doni a tutti quelli che aveano
preso parte[92].

Nel 1307 Azzo d’Este domandò al senato di Bologna volesse ornar
cavaliere suo figlio Pietro, di quattordici anni. Gradito l’onore, si
elessero dodici sapienti per ciascuna tribù che se n’occupassero, e
stabilirono alloggiasse in vescovado, provvisto d’ogni cosa occorrente
per sè e sua famiglia; si preparasse un bel destriero riccamente
bardato, un palafreno, un mulo da donargli; una vesta di scarlatto
col cappuccio e la berretta, e tabarro per cavalcare, tutto foderato
di vajo, e un giubbetto di zendado giallo e azzurro; un letto con
due paja di lenzuola finissime, coperta di zendado a fiocchi gialla e
vermiglia, e un ricco copertojo di scarlatto; due paja calze, tre paja
scarpe di sajo, una cintura d’argento lavorata, una spada dorata col
fodero guarnito d’argento, un coltello col manico d’avorio guarnito
d’argento, un cappello col cordone di seta, un pajo guanti di camoscio
e uno di capriuolo, una cappellina foderata di vajo, una borsa, due
berrette, un pettine d’avorio, due par di pianelle. Si elessero poi
quaranta paggi de’ più nobili di città, vestiti a spese del Comune di
zendado bianco ed argento, con cavalli ed aste. E Pietro fece la sua
entrata accompagnato da quantità di gentiluomini ferraresi e bolognesi,
e incontrato dal popolo e da’ magistrati a suon di trombe e tamburi.
Il giorno di Natale, nella cattedrale splendidamente addobbata, come
il vescovo ebbe cantato la messa, colle note cerimonie Pietro fu dal
podestà vestito da cavaliere, e dal senato dichiarato figlio della
città; indi il pranzo, poi la cavalcata per la città; la sera fuochi,
trombe, campane per tutto; poi il giovane riccamente donato ritornò a
suo padre, convogliato dai nobili di Bologna.

Nei funerali privati, dinanzi alla casa del defunto coi suoi prossimani
si radunavano i vicini ed altri cittadini assai, e secondo la
qualità del morto vi veniva il chiericato. Ivi la madre e le vicine
cominciavano sopra lui il pianto, e i congiunti sedevano a terra su
stuoje. Il morto, vestito a ragguaglio della sua condizione, veniva
composto s’un feretro; e sopra gli omeri de’ suoi pari, con funerale
pompa di cera e di canto, alla chiesa da lui eletta anzi la morte
era portato. Molte croci lo precedeano, e laici convocati da un
trombetto; poi cherici e sacerdoti; seguivano le donne, quinci e quindi
sostenute[93]. Gli uccisi non si lavavano; gli altri sì, ed ungevansi
e spesso empivansi d’aromi. Era pur consueto sepellire coll’armi e
con magnificenza di vesti, d’anelli, di collane; grande eccitamento a
violare le tombe[94]. Ai medici poneasi un libro sopra il cadavere[95].
S’introdusse poi la devozione di farsi sepellire colle tonache di
battuti o di frati, come volle essere Dante.

Al mortorio di principi e cavalieri assisteva gran turba in bruno; e
cavalli sellati senza cavaliero, vessilli, scudi, insegne, sfoggio di
ceri e di strati; ed orazioni funerali, che poi ogni vulgare denaroso
volle: le pompe si rinnovavano al settimo, al trigesimo giorno, ed
all’anniversario. Con grande onore a pubbliche spese si esequiava il
podestà che morisse in signoria. Nel 1390 messer Giovanni Azzo degli
Ubaldini capitano di Siena «venne sepolto nel duomo a lato di san
Bastiano. In primo al suo corpo ebbe dugendodici doppieri, legati
nel castello di legname, dugenquattro da tre libbre l’uno ed accesi
mentre durò l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli colla balzana
e colle bandiere coll’arme del popolo, ed anche vestì da sessanta
uomini a bruno. Fu portato in una bara ad alto, coperta d’un bellissimo
drappo d’oro, e sopra il corpo un padiglione di drappo d’oro foderato
d’ermellino; e il detto padiglione portavano a stagiuoli, cavalieri
e grandi cittadini di Siena. E furono vestiti venti cavalli a bruno,
colle bandiere di sue arme, tutte di sciamitello, ed un uomo armato
a cavallo di tutte sue armi e barbuta, spada ignuda e speroni ed
altre armadure, le quali tutte rimasero al duomo. E fu nel castello
di legname grande quantità di donne scapigliate, tutte di cittadini.
Furono ancora a detta sepoltura tutti i priori di palazzo, e tra preti,
frati e monaci intorno a seicento, ognuno dei quali ebbe torchietti di
due e d’una libbra, e i cherici di sei once l’uno. E per memoria fessi
la sua figura nella cappella, e attaccaronvisi tutte e ventitrè le
bandiere e sue armi»[96].

Qui pure le prammatiche intervennero a por modo; e uno statuto di
Mantova vieta di far corrotto e pianto nella casa del defunto, nè
l’accompagnino donne maggiori di sette anni. Il senato di Bologna nel
1297 ordina che alle esequie nessuno vada lamentandosi o piangendo
come si soleva; non si suonino altre campane che della chiesa ov’è il
morto; niuna donna si porti a sepellire col viso scoperto, e sopra
il cataletto non si ponga che un palio di seta; e dopo sepolto il
cadavere, non deva la gente radunarsi di nuovo alle case, eccetto
i parenti fino in quarto grado; non si vestano i morti che di
scarlatto, se non siano cavalieri e dottori in legge; non vi sia
all’accompagnamento più di dieci uomini, eccettuate le compagnie delle
arti e delle armi. Nello statuto di Torino era prefisso, ad evitare
spese e fatiche, che nelle esequie le mogli, figlie, sorelle, nipoti
fino al quarto grado non uscissero di casa per seguire il morto; non si
usassero ceri di oltre quattro libbre; non si facessero banchetti.

La caccia stette da principio riservata ai nobili, sicchè fu distintivo
di nobiltà il falco che in quella adoperavasi; andavano in volta con
questo uccello in pugno, ne ornavano i cimieri, come segno d’illustre
sangue l’innestavano nello stemma e sulle tombe; per esso giuravano,
gloriavansi dell’abilità nel porgli i getti o il cappuccio, lanciarlo,
richiamarlo, inanimirlo, avventarlo sulla preda o ritorgliela appena
ghermita; carissimo lo aveano le donne, e attestavano la loro premura
ai cavalieri colle premure usate all’augello cacciatore. Domesticati
portavansi alle adunanze ed ai viaggi; con quelli passarono i Crociati
alla liberazione del santo sepolcro; a Milano, come vedemmo, si ordinò
che nel broletto nuovo, dove adunavansi i nobili e i mercanti, si
ponessero gruccie su cui collocare falconi, astori e sparvieri; il
falconiere era persona importante; e Federico II dettò un trattato
di falconeria. Fino i preti collocavano i falchi sui balaustri o sui
bracciuoli degli stalli; e il III concilio di Laterano vietò la caccia
duranti le visite della diocesi, volendo che i vescovi non traessero
dietro più di quaranta o cinquanta palafreni.

Vietato rigorosamente ai villani di toccare la selvaggina, che perciò
impunemente devastava i seminati, e sino il timido lepre diventava
un flagello. Lamberto, arcivescovo di Milano, come speciale favore
concedette a Burcardo, generale del re Rodolfo, di rincorrere un cervo
nel suo brolo[97]. Anche negli statuti delle città son protetti con
molta cura gli animali da caccia; e quel di Milano obbliga a restituire
i falchi, vieta il rubar cani e prendere colombe o rondini o cicogne. I
quali ultimi uccelli, ora quasi affatto stranieri alle nostre plaghe,
frequenti vi comparivano, nidificando sulle torri, e purgavano da
velenosi insetti[98]. Firenze avea due compagnie, dette _i Piacevoli_
e _i Piatelli_, che a gara andavano a far caccia; e a chi meglio era
riuscita, tornava in trionfo con fuochi e carri ed ostentazione.

S’imitarono poi le caccie vere colle finte, massime del toro: il circo
di Augusto a Roma vide spesso di siffatti esercizj. Una magnifica
caccia a fanali diede Alfonso di Napoli a Federico III imperatore nel
recinto della Solfatara, dove pareano rinnovarsi i prodigi della magia.
In una tristamente memorevole, data il 1333 nel Goliseo, Cecco della
Valle, vestito mezzo bianco e mezzo nero, recava per divisa _Io sono
Enea per Lavinia_, nome della sua amata; Mezzostallo, a bruno per la
morte della moglie, portava _Così sconsolato io vivo_; un dei signori
di Polenta, abito rosso e nero, e il motto _Se annego nel sangue
ho dolce morte!_ un altro giallo, e dicea _Guardatevi della pazzia
d’amore_; uno color cinerino, e _Sotto la cenere ardo_; un Conti,
vestito di argento, aveva per divisa _Così bianca è la fede_; Cappoccio
vestiva rosa pallido, col motto _Io di Lucrezia romana son lo schiavo_;
uno, divisato a scacchi bianchi e neri, _Per una donna pazzo_; un
altro, a color marino e giallo, _Chi naviga per amore, ammattisce_; un
giovinetto Stulli, a bianco con legacci e pennacchio rossi, e il motto
_So’ mezzo placato_; uno, color celeste, con un cane legato al cimiero,
leggeva _La fede mi tiene e mantiene_; un fosco, con brache bianche e
abito nero, e una colomba all’elmo con oliva in bocca, dicendo _Sempre
porto vittoria_; un altro a verde pallido, _Ebbi speranza viva, ma già
muore_: taciamo altri motti e divise. Man mano che uscissero dall’urna,
scendevano nell’arena, e fatti inchini alle dame, impugnate le armi,
davano la caccia a tori, fra gli applausi dei riguardanti. Ma nella
lotta ne furono morti diciotto dalla furia degli animali, sicchè al
cruento spettacolo ne seguì un altro luttuoso di accorrere al Laterano
per vedere i funerali de’ trafitti[99].

Come i nobili le feste aristocratiche, così il popolo ne voleva di
proprie, motivate spesso dalla religione, anche quando alla religione
facevano contrasto. I pubblici giuochi per lo più erano simulacri
di guerra ed esercizj di forza. Nel broglio e nel circo a Milano si
congregavano in bande ad esercitarsi alla corsa o alla lotta; a Verona
in Campo Fiore, a Vicenza in Campo Marzio, a Padova nel Prato della
Valle, a Lucca nel Prato. In Pisa il giuoco di Ponte rammemorava
Cinzica, che dicevasi aver difeso la patria da una sorpresa dei
Saracini (t. v, p. 536); e le due fazioni di Borgo e di Santa Maria,
affrontatesi sul ponte d’Arno, con battocchi si davano furiosamente,
sinchè all’una rimanesse il vantaggio; troppo per un giuoco, troppo
poco per una battaglia, com’ebbe a dire Pietro Leopoldo. A Siena si
rappresentava san Giorgio armato che azzuffavasi con un drago, finchè
gli applausi annunziavano la vittoria. Quei di Prato aveano vanto nel
giuoco del calcio, i Fiorentini nel pallone a bracciale, i Senesi nel
pugilato, e alla Lizza e nel Campo frequentavano le feste delle quali
un’ombra dura tuttavia nelle corse che, di luglio e di agosto, si fanno
sopra dieci cavalli, divisati ciascuno diversamente[100]. Risalgono
a quel tempo altri giuochi popolareschi non ancora dimenticati, come
correre al villan rosso, alla pignatta, all’oca sospesa, e così la
cuccagna, e piantare il majo, e somiglianze.

La gioventù molto addestravasi nel cavalcare, preparamento alla guerra;
e a frotte correvano la gualdana, o faceano pellegrinaggi di piacere,
o numerosi incontri a principi e grandi. Frequenti ripeteansi anche le
luminare; frequenti quanto variati i balli; e le corse ora di barberi
sciolti, ora montati da un fantino; e poichè il primo premio consisteva
ordinariamente in un palio di seta o di lana, dicevasi _correre al
palio_; al quale poi andavano uniti ronzini, falchi, porci, galli,
cani da caccia, guanti ed altre gentilezze. Reputavasi fiero insulto
alle città assediate il far correre il palio sotto le loro mura; e
Castruccio, vinti i Fiorentini, pose le loro porte per meta ad una
corsa di cavalli, poi di pedoni, infine di meretrici.

Moltiplicavansi i divertimenti al carnevale, nome che alcuni deducono
dall’abbandono de’ cibi grassi, come si dicesse _vale alla carne_[101].
Pare finisse dappertutto colla prima domenica di quaresima, come si
mantiene nella diocesi di Milano, ove pure san Carlo faticò assai per
escludere le baldorie da essa domenica.

A chi non è conto il venerdì gnoccolare di Verona? Roma ha i suoi
moccoletti; e più antica la processione di carri, che l’ultima domenica
di carnevale drizzavasi a Monte Testacio. A Pavia in due piazze sotto
le mura due parti della città venivansi incontro squadra a squadra
ed uomo a uomo con elmetti di vinco imbottiti, portanti il segno
di ciascuna compagnia; la celata al volto, la criniera, e scudi e
mazze di legno. I generali precedevano colla bacchetta, accennando
all’assalto d’un monticello, d’una casa, d’un ponte, ove ciascuno
facea sue prove. Il podestà vegliava non si offendessero con armi
vere; e dopo il carnevale continuavano duelli con mazza e scudo[102].
«In Firenze (dice Benedetto Varchi) usavano nei giorni di carnevale
i giovani, massime i nobili, uscire fuori travestiti con un pallone
gonfio innanzi, e venire in Mercatovecchio e in tutti i luoghi ov’erano
le botteghe e i traffichi dei mercanti e degli artefici, e quivi dando
a quel pallone, e mescolandosi con gli altri cittadini, e traendo loro
addosso il pallone, e cercando di metterlo fra le botteghe, farle
serrare, e finire così per quei pochi giorni le faccende. Così non
facendo ad alcuno male, fuor quello di scioperarlo, in Mercatonuovo
talora si formavano in cerchio, e spartiti faceano una partita al
calcio... Degenerato poi l’uso innocente, sturbavano tutti, e gettavano
fango»[103].

In Venezia era così antico il gusto de’ divertimenti, che Pietro
Orseolo I, nel 978 abbandonando il corno ducale e il mondo pel
chiostro, dispose delle sue facoltà mille libbre d’oro a favore de’
parenti, mille pei poveri, mille pei divertimenti pubblici[104]. Già
nel 1094 erano segnalati i suoi carnevali, che fin agli ultimi tempi
trassero da ogni parte chi amasse il libero sollazzarsi. La maschera,
che sottraeva l’uomo alle indagini, permetteagli di penetrare fino nel
gran consiglio, e ravvicinava il plebeo al nobil uomo, il barnabotto
al frate, la merciaja alla dogaressa, v’era dalle leggi protetta con
punizioni più severe a chi l’ingiuriasse. Vinto Ulrico patriarca
d’Aquileja e fattolo prigione con molti nobili, i Veneziani il
gravarono di mandare al doge, ogni mercoledì grasso, dodici majali e
altrettanti grossi pani; poi al giovedì, in commemorazione faceasi la
festa di tagliare il capo ad un bue e ad alcuni porci che il popolo si
godeva. Intanto eransi eretti nella sala del Piovego piccoli castelli
di legno, che il doge e i senatori demolivano. Poi dall’antenna di una
nave tiravasi una gomona fin alla sommità del campanile di San Marco,
per la quale un marinaro ascendeva ajutato da certi ordigni, indi
calava alla loggetta per presentare al doge un mazzo di fiori.

Anche fuor del carnevale, Venezia era particolarmente rinomata per le
sue feste; balocchi che la nobiltà offeriva alla plebe onde sviarne
il pensiero dai rapitile diritti. Il ratto delle fanciulle (t. V, p.
526) diede origine all’annua festa dell’ultimo di gennajo, ove dodici
_Marie_ erano sposate con dote pubblica, portata entro arselle: ma
poichè l’allegria era degenerata in turpitudini, vi si surrogarono
dodici fantocci. Il giorno delle Palme, liberavansi alcuni uccelli e
piccioni dalla loggia di San Marco, ed era una festa il rincorrerli e
il narrar le venture. Alquanti, scampati all’attacco, si annidarono sul
campanile e moltiplicarono, fin ad oggi rispettati dalle rivoluzioni e
dal despotismo.

All’Ascensione, quando traeva un mondo di gente alla fiera, esponevasi
un fantoccio di donna, che diventava modello al vestir femminile di
quell’anno, non variato, come ora si fa, ad ogni arrivo di corriere.
Ivi pure esibivansi all’ammirazione i capi d’arte; ed in una delle
ultime, Canova preluse al risorgimento della scultura, presentando
il suo Dedalo ed Icaro. Quel giorno stesso il doge sposava il mare.
Le mense, che per santa Marta disponevansi lungo il canale della
Giudecca, servite quasi di solo pesce, porgevano occasione a stringere
o rannodare amicizie. Ai patrizj poi la Repubblica stessa imbandiva
solennemente in certi giorni, con isfoggio di cristalli e quantità di
zuccherini e canditi, che i convitati portavano a casa.

Volgendosi i divertimenti a formare buoni marinaj, si frequentavano
le regate, delle quali la prima è ricordata nel 1315; quindi il senato
decretò si facessero nel giorno di san Paolo. Una volta per settimana,
nobili e popolani doveano esercitarsi al bersaglio a Lido. Il pugilato
faceasi da settembre a Natale su ponti senza sponda. Nelle famose forze
d’Ercole gareggiavano i Castellani vestiti a rosso, e i Nicolotti a
nero, vincendo quelli che s’elevassero a maggior numero di palchi; poi
finito, traevano certe spade smussate, e paravano e ferivano come in
moresca, o ballavano la furlana. Nei boschi della badia di Sant’Ilario
fra Gambarare e la laguna, i caccianti dovevano ai monaci la testa e
un quarto d’ogni cinghiale che pigliassero; a vicenda i monaci doveano
al doge prestar cani e cavalli quando vi venisse a cacciare, e nutrirne
i falconi e i bracchi. La vigilia di Natale faceasi una gran caccia, e
il doge distribuiva a ciascun magistrato e padrefamiglia cinque capi di
selvaggina: al che, sotto Antonio Grimani, si surrogarono le _oselle_,
monete d’argento, a questo sol uso coniate; e la raccolta delle quali
oggi è una preziosità. Il giovedì santo egli riceveva il tributo del
pesce, che parimenti distribuiva.

Cinque banchetti pubblici s’imbandivano ogni anno; a san Marco,
all’Ascensione, a san Vito, a san Girolamo, a santo Stefano: per lo
più di cento coperti, il doge invitandovi antichi magistrati e persone
ragguardevoli. Nella sala del banchetto si sfoggiavano argenti del
doge e dello Stato, trionfi di cristalli colorati; i ministri poteano
parlare al doge e corteggiarlo; un popolo di curiosi vi assisteva
in bautta, fra cui spesso insigni forestieri; le donne correano da
un convitato all’altro motteggiando colla vivacità ch’è sì propria
delle veneziane; qualche volta un poeta v’improvvisava, come più
tardi fece la Cassandra Fedeli; più spesso v’avea musica e spettacoli.
Allo sparecchio, gli scudieri dogali venivano a presentare a ciascun
convitato un gran paniere di dolci, e mentre i padroni accompagnavano
il principe alla sua dorata prigione, il gondoliere di ciascuno entrava
a prendersi quel paniere, e recarlo a chi gli era stato imposto,
invidiato testimonio di predilezione.

Secondo Rolandino, nel 1214 si finse in Treviso il castello
dell’onestà, invece di spaldi e di merli, munito con pelli di vajo,
porpore, zendadi, stoffe, ermellini, e dentro le più belle donne e
donzelle, coperte non d’elmi e corazze, ma di vesti pompose. Erano
accorsi alla festa i giovani da Padova, da Venezia e dal contorno,
tutti in bell’addobbo; e divisi in drappelli sotto lo stendardo della
patria, s’accinsero ad attaccare l’amorosa fortezza. Da projetti
servivano melarancie, confetti, fiori e frutti, acque odorose, e dolci
parolette. Con armi siffatte si prolungò la scherma, finchè i Veneziani
mutaronle in zecchini; per raccorre i quali le Trevisane si diedero
vinte. E già lo stendardo di San Marco penetrava nelle porte indifese,
quando i Padovani, tenendosi soperchiati, cominciarono a forbottare,
stracciarono il gonfalone, e si diè di piglio alle armi. La rissa fu
chetata, ma Venezia pretese soddisfazione; e fu imposto che ogni anno
i Padovani spedissero alla città trenta chioccie, alle quali davasi
la libertà; ed era una ressa tra ’l popolo per raggiungere le _galline
padovane_.

Dopochè, cacciando Pagano podestà del Barbarossa, si furono vendicati
in libertà, i Padovani celebravano annualmente la festa de’ Fiori,
menando attorno il carroccio, tirato da bovi e cavalli coperti di
rosso coll’arma del Comune, e su di esso dodici fanciulle nobili
inghirlandate di fiori e spargendo fiori, mentre fiori piovevano loro
dalle finestre e davanti ai passi: ventiquattro cavalieri marciavano
di fianco al carroccio, giunto il quale nel prato della Valle,
cominciavasi una zuffa di questi con quelle a fiori, poi tra i soli
cavalieri con arme; seguivano combattimenti di campioni armati con
rotelle e mazze di legno, e di bravi inermi con sacchetti di sabbia. Le
naumachie, colà rammentate fin da Tito Livio, si continuavano lungo il
canale di Sant’Agostino, o in quello che lambiva a occidente il Campo
marzio.

Ad avventure incerte dell’età dei Comuni attacca Vicenza la festa
della Rua, per la quale, il giorno del _Corpus Domini_, strascina per
la città a tutta forza di braccia un’altissima macchina a pennoncelli
e stemmi e persone; baccano carnevalesco in giorno devoto. Quando
Bologna ebbe, nel 1281, acquistato Faenza per tradimento di Tibaldello
Zambraso, ordinò che ogni anno il giorno di san Bartolomeo si corresse
per strà maggiore un cavallo addobbato, uno sparviero, due cani
bracchi, un carniero e la baracagna, cioè la gruccia che si attacca
all’arcione quando si va a caccia col falco. Inoltre si arrostisse
una porchetta, e a mezza cotta il cuoco a cavallo la portasse sullo
spiedo per detta strada fin alla porta, tenendo nella man sinistra lo
sparviero; poi tornato la cocesse a perfezione, e, finito il corso,
fosse a suon di trombe gittata dal palazzo in piazza ai biricchini colà
famosi.

Messina, per l’Assunta, oltre le luminare e le corse, manda in volta
un finto camello, in cui la tradizione ravvisa la memoria del conte
Ruggero, allorchè, cacciati i Saracini, v’entrò alla orientale; mentre
in due statue colossali, che pur si portano attorno fra assordante
schiamazzo, indica Zancle e Rea, favolosi fondatori di essa città.
I Cremonesi, la vigilia di quel dì, celebravano una festa a cui
attaccavano le memorie di Zannino dalla Balla, che li redense dal
tributo d’una palla d’oro all’imperatore: e quelle della vittoria sopra
i Parmigiani. Cominciavasi dalla _battaglia_ fra ragazzi sulla piazza
maggiore; poi i facchini schizzavano dell’acqua, e i mugnaj della
farina sopra la folla, che ne restava tutta bianca: lasciavasi correre
un toro legato, che menavasi quindi per la città: poi nuove zuffe per
acquistare il _rigotto_, berretto listato che gettavasi tra i facchini,
e chi se ne impadronisse toccava sei zecchini: le statue di Zannino e
di Berta vestivansi di panni adogati bianco e rosso, ogn’anno rinnovati
a spese dei fornaj.

A Verona, il 26 dicembre, esponeansi le maschere: poi il lunedi e
martedì del carnevale si andava nell’Arena a festeggiare: dopo le
ventiquattro ore poteva chicchessia levare le insegne di qualsifosse
bottega, e sopra di essa, per quanto minima di valore, farsi dare
dall’oste fino a sei lire e quattro soldi in vitto; il quale oste
faceasene rimborsare dal padrone dell’insegna. Due vedovi che si
sposassero doveano contribuire ciascuno l’un per cento della dote ai
ragazzi della contrada ove abitavano, altrimenti venivano derisi con un
baccano fatto sotto le loro finestre (le bacinelle): del denaro avuto
si facea gozzoviglia o limosina o qualche festa sacra.

Tali feste continuarono a lungo fra gl’Italiani, e valsero a renderne
lieti e arguti i caratteri, quali li vediamo personificati nelle nostre
maschere da scena. I tiranni ne preparavano di più frequenti, sapendo
quanto facilmente si conduca un popolo che ama divertirsi; e nel secolo
XVI le vedremo abbellirsi di tutto lo splendore delle arti.

I buffoni erano arnese necessario non solo nelle Corti ma e nei palazzi
del Comune, sì lautamente trattati da patirne gli erarj[105]: alcuni
nobilitaronsi col nome di minestrelli. Spesso eran nani, che coi
frizzi vendicavansi degli scherzi cui la loro deformità gli esponeva.
Talvolta usarono del privilegio della pazzìa per dire ai principi
verità che altrimenti non v’avrebbero trovato accesso: per questa via
alcuni ottennero l’immortalità, negata agli scopritori delle più utili
arti, come il Gonnella del duca di Modena, Ponzino della Torre fra i
Cremonesi, altri altrove.

Alle varie solennità ecclesiastiche dell’anno erano affisse certe
costumanze, in parte derivate dall’antichità, in parte introdotte di
fresco, e che non ancora furono dimentiche. Per l’Epifania a Firenze
si portava attorno un fantoccio di cenci in mezzo ai lumi, ed altri
si esponeano alle finestre, onde le tante baje sulla befana. Meglio
a Milano una comitiva figurante il corteo de’ re magi moveva da
Sant’Eustorgio preceduta da una stella; alle colonne di San Lorenzo
incontrava re Erode, e gli domandava del nato Messia; poi tirando
innanzi giungeva al duomo, e quivi trovato un magnifico presepio,
offriva i doni; indi dall’angelo avvisata, volgevasi al ritorno per
porta Romana. Più affettuosa era la domestica gioja del dì di Natale,
quando il capocasa levavasi sulle spalle un ceppo, ornato di rami e
fronde sempreverdi, e recatolo per la casa, il ponea sul focolare,
attorno al quale esultava la riunita famiglia.

Quando a Pavia, la vigilia di san Siro, offrivansi al tempio ceri
enormi, precedeano la processione i tavernaj, recando sopra una tavola
un castello; dietro a loro i cacciatori con un albero, a’ cui rami
erano legati di ogni razza uccelli, che portati in chiesa liberavansi:
poi venivano le corse degli scudieri al gallo vivo e alla porchetta
arrostita, e quella delle meretrici a’ salcicciotti; e finalmente
gozzoviglie[106]. A Firenze pel san Giovanni faceasi un carro altissimo
pien di santi e figure simboliche; e sulla piazza de’ Signori fin
cento torri dorate, con entro uomini; e dappertutto palj, e gonfaloni,
e macchine cariche di ceri e d’altri doni; infine fuochi d’artifizio,
di cui i migliori artisti non isdegnavano dare le invenzioni variate.
In alcuni luoghi, a Pentecoste davasi il volo in chiesa a piccioni
bianchi, tra fiori e lingue di fuoco e frastuono popolare. Quando
Firenze fu signora di molte città, ciascuna dovea quel giorno mandarvi
il suo cero, e fin ventotto se n’ebbero, alti sei o otto braccia, con
bambocci di carta, e quello di Pescia e San Miniato quaranta persone
ci voleva a portarlo. Qualcosa di simile praticavasi nelle altre città,
a Milano per la Madonna nascente, a Bologna per san Petronio, a Modena
per san Geminiano, e così discorrete.

Qual v’è città o borgata che non festeggiasse con modi drammatici il
santo tutelare? Alcuna fiata poi se ne celebrava qualche maggiore,
come i Fiorentini nel 1304 mandarono un bando che «chi volesse
sapere novelle dell’altro mondo, dovesse andare il dì di calen di
maggio in sul ponte alla Carraja e d’intorno all’Arno»; e su quel
fiume ordinarono palchi, ove figurarono l’inferno coi tormenti e i
tormentati. La soverchia folla cagionò che il ponte cadesse, e molti
ne guastarono la persona, sicchè il giuoco da beffe tornò a vero,
e «com’era ito il bando, molti per morte andarono a sapere novelle
dell’altro mondo».

E come presso gli antichi gli spettacoli dovevano invigorire il
coraggio ed eccitare sentimenti patriotici, così nel medioevo sentivano
l’ispirazione comune, l’ecclesiastica, e insinuavano devozione. Per ciò
facevansi il più spesso in chiesa, e da diaconi o preti; donde abusi
che rivelano più sempre la mistura di serio e beffardo, di compunzione
e d’allegria, che ricorre in tutte le opere di quell’età. A certe
feste, tutti dovevano comparire in figura di volpi, e in qualunque
abito fossero, magistrati o prelati, usciva loro di dietro la lunga
coda. In commemorazione della fuga in Egitto celebravasi la festa degli
Asini, ove al canto affettuoso s’intercalavano ridicoli ragli. Queste
cose facevansi sul serio, e noi stessi in fanciullezza potemmo vedere
processioni e feste, che, come oggi a riso, così allora ci movevano a
devozione.

Men ridicoli apparecchi atteggiavano i fatti che la Chiesa rammemorava
in quel giorno. A tali _misteri_ tutte le arti prestavano servigio,
e davansi, non nelle angustie mefitiche d’un teatro a scapito della
salute e della fermezza del cuore, ma al gran sole, nelle piazze,
talvolta trasportandosi da paese a paese. Ne crebbe l’uso colle
crociate, quando i pellegrini reduci voleano al vivo riprodurre
gli atti su cui avevano meditato in Palestina; e scelte situazioni
analoghe al Calvario, a Betlem, a Gerusalemme, vestivano sè ed altri
cogli abiti che aveano veduto agli Orientali. A Roma nel 1264 era
istituita la società _del gonfalone_ per rappresentare la passione
di Gesù. Alla compagnia _de’ battuti_ a Treviso i canonici doveano
annualmente somministrare due cherici, bene istruiti a cantare, per far
Maria e l’Angelo nella festa dell’Annunziata[107]. Rolandino al 1244
riferisce come, nel prato della Valle a Padova, si figurò la passione
di Cristo: ivi stesso il 1331 si ordinò di rappresentare ogn’anno
nell’anfiteatro il mistero dell’Annunziazione. La cronaca del Friuli
di Giuliano Canonico ricorda che, il 1298, alla corte del patriarca
si rappresentarono dal clero la passione e la risurrezione di Cristo,
la venuta dello Spirito Santo, il giudizio finale; e nel 1304, dal
capitolo di Cividale, la creazione, l’annunziazione, il parto, la
passione, l’anticristo. Chi tra’ miei lettori è così giovane da non
averne visto gli avanzi in contado?

Sono queste le origini del teatro, che ritoccheremo quando il troveremo
cresciuto.



CAPITOLO XCIX.

Belle arti.


Fu di mezzo a tale prosperità che risorsero fra noi le lettere e le
arti belle, serena gloria d’Italia.

Caduto l’impero d’Occidente, coi resti della civiltà le arti si
erano rifuggite a Costantinopoli, onde venne intitolato bisantino
il modo che allora ebbe corso. L’arco e la volta, immenso progresso
portato dai Romani, si continuarono abbandonando l’architrave, e
voltando direttamente l’arco sopra colonne, le quali non erano fatte
di nuovo, ma tolte da edifizj anteriori: mancavano i capitelli? se ne
surrogavano di rozzi, con qualche fogliame grossolano e poco rilevato,
o incrociamenti di linee, o qualche testa disavvenente. Gli archi,
acciocchè impostassero su colonne di diversa altezza, furono talvolta
allungati in basso; in alcuni meno appariscenti si deviò dal perfetto
semicircolo, ora schiacciandolo verso il sesto acuto, ora prolungandolo
a ferro di cavallo, ora dandogli forma d’un frontone; talvolta
nello sfogo d’un arco se ne chiusero altri minori, appoggiati sopra
colonnine[108].

Ravenna, che conservò meglio il carattere dell’Oriente, ha maggiori
esempj di stile bisantino, sempre ad archi e volte. San Vitale, che
san Massimiano eresse imperante Giustiniano, all’esterno è informe
costruzione di cotto, ma, come entri, ti sorride in un regolare
ottagono del diametro di quaranta metri, con cupola emisferica e due
ambulacri, de’ quali l’inferiore imposta su otto pilastri, vestiti di
marmo greco venato; ogni cosa poi adorna senza discrezione con avanzi
antichi, massime dell’anfiteatro, e con bei musaici. La quale pittura
di marmo fregia e contorna le porte, le finestre, gli altari in tutti
gli edifizj di quello stile.

Il vicino mausoleo di Galla Placidia, sacro ai santi Nazaro e Celso,
forma croce latina senza anditi laterali nè tribuna, avente al centro
l’altare di tre grandi tavole d’alabastro orientale. Quadrilungo a tre
navi è pure Sant’Apollinare nuovo, eretto da Teodorico, con musaici,
tombe, iscrizioni, e lavori di alabastro, di porfido, di cipollino,
di marmo pario e serpentino; comunque guasto dai Barbari, e forse più
dai correttori. Ivi stesso, fin dal 417 era finita Sant’Agata, a tre
navi sorrette da venti colonne, ma ogni cosa fu mutata, eccetto la
pianta; e così la gran basilica di Sant’Apollinare in Classe con tre
ampie navate e tre tribune, ed archivolti robustamente profilati. Al
duomo, fabbricato da sant’Orso nel 540, è annesso un battistero forse
dell’età medesima, formato di due circoli da otto arcate, che portano
la cupola. V’è chi reca al IX secolo il battistero d’Asti, a quattro
angoli fuori e otto dentro, e il palazzo delle Torri a Torino, facciata
di cotto[109].

La parola _edificare_, trasferita a senso morale, accenna come
la scienza architettonica accoppiasse idea di devozione e lode di
esemplari costumi. In fatto i vescovi erano talvolta gli architetti,
più spesso i promotori di nuovi edifizj; per cura del vescovo Epifanio
si fabbricò il duomo di Pavia; pel vescovo Eufrasio la basilica di
Parenzo in Istria, ricca di musaici; per altri il monastero e il
tempio di Montecassino, le chiese di Sant’Evasio a Casal Monferrato,
di Napoli, di Siponto, di Firenze, di Lucca. L’atrio della basilica
di Sant’Ambrogio a Milano, comandato dall’arcivescovo Ansperto, con
archi semicircolari sorgenti dai pilastri, tiene della maestà se non
dell’eleganza romana. Le tante dispute sull’età delle chiese presunte
d’età longobarda ci tolgono di valerci degli esempj del San Michele e
San Pietro di Pavia, della Santa Giulia di Brescia, del San Fridiano di
Lucca; sol bastando che non vi si vede uno stile nuovo, ma variazioni
dell’antico.

Nessun papa forse passò senza d’alcun lavoro giovare le chiese della
sua metropoli, decoro al culto e alimento alle belle arti quando
ogn’altro mancava. Leone III, oltre fabbriche assai, profuse lavori
di metallo fino, fece rivestire la Confessione di San Pietro con
453 libbre d’oro, e sotto all’arco trionfale collocare un balaustro
d’argento di 1573 libbre, coll’effigie del Salvatore, e un leggìo al
pulpito, e un ciborio, tutti di argento; riedificò il battistero di
Sant’Andrea, rotondo colla fonte nel mezzo, circondata da colonne di
porfido, in cui versava linfe un agnello d’argento stante sovra una
colonnina; e pose alla basilica di Laterano vetri dipinti, che sono i
primi mentovati. San Giorgio in Velàbro, Santa Prassede, Santa Maria
in Dominica, Santa Cecilia in Trastevere, San Nereo e Achilleo, Santa
Sabina, San Giovanni a Porta Latina, San Martino ai Monti, San Michele
in Sassia, San Pietro in Vincoli, Santa Maria in Cosmedin, altre chiese
di Roma furono in quelle età adorne colle spoglie di tempj antichi.

Nè di pitture manca menzione. Gregorio Magno vide espresso un
sacrifizio di Abramo sì al vivo (_tam efficaciter_), da commoverlo
al pianto; le geste de’ Longobardi fece ritrarre Teodolinda a Monza;
una madonna a Gravedona sul lago di Como, regnante Lodovico Pio,
pianse miracolosamente; altre di poco posteriori sono rammentate nelle
chiese della Cava, di Casuaria, di Subiaco, di Montecassino. Alcune
ancora sopravanzano, principalmente ne’ musaici, nelle miniature, ne’
sigilli, nelle monete; e sono inamene figure, con occhi spiritati, mani
assiderate, piedi in punta. Il tesoro di Monza convince che neppure
il lavoro de’ metalli nobili era dismesso sotto i Longobardi; eppure
le costoro monete non potrebbero essere più rozze. Insigni sono la
pala d’oro di San Marco a Venezia, tutta a smalti; e il paliotto di
Sant’Ambrogio a Milano, già menzionato a pag. 436 del tomo V, su cui
sono a continuo parallelismo le azioni del santo e quelle di Cristo:
l’Annunziazione della Vergine, e le api che fanno il favo nella bocca
del neonato Ambrogio: l’Ascensione del Salvatore, e l’entrare del santo
nella gloria; e così via[110]. In molte chiese, ma più nelle romane,
si conservano lampade, turiboli, evangeliarj di quel tempo; e in San
Pietro la dalmatica di cui si rivestivano gl’imperatori, con soggetti
sacri a ricamo d’oro e argento riccamente composti.

Niuna età fu dunque diseredata d’arti fra noi, ma attorno al Mille
crebbe l’operosità, sia per la devozione alle reliquie, cresciuta
allora, come narrammo; sia che gli uomini si sentissero rassicurati
sulle terre che dapprima erano percorse da orde o da nazioni intere
predatrici; sia che si manifestassero anche in ciò la risurrezione
delle città annichilate dal feudalismo, e il prosperare del commercio e
della libertà comincianti. San Ciriaco di Ancona, alzato allo spirare
del X secolo, architondo a croce greca con cupola, è bisantino, come
Santa Maria Rotonda fuor di Ravenna, e le sette badie che il marchese
Ugo fece in Toscana. Nel 1014 il duomo vecchio di Arezzo modellavasi
sul San Vitale di Ravenna, a otto faccie, e l’architetto Mainardo
lo compiva nel 1022, servendosi delle spoglie del teatro e d’altri
edifizj vetusti. A Firenze, verso il 1013, Ildebrando vescovo edificò
San Miniato al Monte, dov’è un musaico che mostra indirizzo al bello;
San Lorenzo fu ingrandito nel 1059; nel 1085 fabbricata Sant’Agata.
Nel 1028 il vescovo Jacopo Bavaro avea fondato San Pietro e Romolo,
cattedrale di Fiesole, a tre navate, con colonne e capitelli romani,
dicono tolti da un vicino tempio. Pistoja nel 1032 avea cominciato il
suo San Paolo: il Sant’Andrea, colla facciata a marmi bianchi e neri,
è del 1166 a disegno di Gruamonte e Adeodato fratelli, che fecero a
bassorilievo l’Adorazione de’ magi. Dal 1060 al 70 si compì San Martino
di Lucca, e Anselmo da Bagio vescovo vi collocava il voltosanto,
coperto poi dal vago tempietto di Matteo Cividale: dal 1043 al 78 San
Zeno di Verona, ove la torre di piazza è del 1172. Sulla facciata del
duomo d’Empoli si legge il 1093[111]. Anteriore certo al 1118 è la
magnifica chiesa di Sant’Antimo in val d’Orcia, a tre navi arcuate
a tutto sesto sopra colonne. Nel 1099 Modena da un Lanfranco facea
rinnovare la sua cattedrale, ove dopo sette anni trasferivansi le
reliquie di san Geminiano; ancora di stile longobardo a tre navate a
pieno centro, col santuario elevato sopra la confessione, e con molte
sculture d’un Wiligelmo, che argomenterebbesi germanico dall’avervi
raffigurato i fiordalisi e la storia di re Arturo. Il duomo di Borgo
San Donnino fu consacrato nel 1106, coperto poi di ricche sculture,
e l’anno 1190 i collegati lombardi vi si adunavano a giurare i patti
della pace di Costanza. Nel 1107 Adamo Ognibene e Ossolaro Tiberio
disegnavano il duomo di Cremona; e Teodosio Orlandino il battistero nel
1167. Nel 1166 Gruamonte e Adeodato fratelli faceano la facciata del
duomo di Pistoja, scolpendovi l’adorazione de’ Magi. Del battistero di
Parma, disegno di Benedetto Antelami ricchissimo di sculture, fu messa
la prima pietra nel 1196, l’ultima nel 1270. Seguono il Piscopio di
Napoli, San Pietro e San Petronio di Bologna, Santa Maria di Sarzana,
con colonne di marmo portanti arcate arditissime e non legate di ferro.
Altre chiese del Valdarno superiore a questo modo, che ora denominano
lombardo, meritano attenzione, e singolarmente quella di San Pietro a
Grossina.

Le repubbliche marittime si proposero d’emulare i monumenti antichi che
vedeano in Levante. San Marco di Venezia, cominciato nel 977, dicono
nel 1071 fosse terminato, press’a poco quale oggi si vede, disposto
a croce greca col centro coronato da gran cupola, e ciascun braccio
da una minore, non emisferiche, ma oblunghe, e con forami arcuati.
Le colonne con capitelli quadrati sono congiunte per archetti tondi,
che attorno alla nave e ai bracci sorreggono gallerie; sopra un’altra
serie di archi piantasi il tetto; e un velo copre il santuario, alla
orientale. La facciata, larga quanto l’edifizio, ha cinque porte in
sghembo: finissimi i marmi, e gli archivolti di curva variata. La
Signoria stanziò che nessuna nave tornasse di Levante senza prendere
fra ’l suo carico statue, colonne, bassorilievi, marmi, bronzi,
altri materiali di prezzo, che uniti ai musaici, formarono il più bel
tipo d’architettura bisantina in Italia, regolare nel piano quanto
capriccioso ne’ particolari. Avanti al 1008 da Orso Orseolo vescovo
era edificata Santa Maria di Torcello, non alla orientale, ma sulle
basiliche romane, col coro elevato, e sovra alla cripta l’altare; e più
lungi l’abside semicircolare, con magnifico presbiterio. Contemporanea
ma di modo bisantino è Santa Fosca nell’isola stessa.

Di questo tempo pure la regina del mar ligure fabbricava San Lorenzo,
della cui facciata la parte migliore si terminò nel 1100. Già vi
esistea la chiesa dei Santi Vittore e Sabina: Santo Stefano si cominciò
nel 960, le Vigne nel 991. Nel 994 sorse la nuova cattedrale di Savona,
dove un dipinto serba la data del 1101.

I Pisani già possedeano San Pietro in Grado con colonne e capitelli
greci e romani, dov’erano dipinti i papi fin a Giovanni XIII
del 965: ora colle spoglie dei Saracini vollero fabbricare la
primaziale, maestosamente elevata sopra un terrazzo. Il Buschetto, che
l’architettò, avea combinato una macchina, per cui dieci fanciulle
sollevavano un peso, cui sarieno appena bastati mille bovi od una
nave[112]. Ch’egli avesse studiato sulle opere de’ primi tempi
cristiani lo palesa la disposizione di quattrocencinquanta colonne,
recate da Levante e tolte da anteriori monumenti o tagliate allora,
forse nell’isola d’Elba, e perciò di proporzione e merito diverso. Nel
1100 l’opera era compita, e diciott’anni appresso papa Gelasio II la
dedicava a Maria. Capi d’arte raccattati di lontano l’arricchirono,
e cimase ed epigrafi antiche e spezzate e capovolte, e tritamente
collocate alla rinfusa con altre nuove ricordanti i fasti pisani,
confondendo statue grandi e piccole, lavori squisiti con goffi.

Servì d’esempio ad altri edifizj fra lo stile greco e il romano, de’
quali un de’ migliori fu il battistero, che porta la data del 1153
ed il nome di Diotisalvi. Rotondeggia sovra tre gradini, ornato da
tre schiere di colonne corintie affisse al muro, e da infiniti fregi
di maniera gotica; per tre gradini si scende nell’interno, dove
sta il vaso ottagono pel battesimo: otto colonne e quattro pilastri
sopportano le arcate, sopra cui corre un secondo ordine, che regge la
cupola allungata a pera. Qui pure l’architetto si dovette adattare ai
materiali che aveva alla mano, e supplire come seppe alla variante
misura delle colonne e de’ capitelli, alcuni dei quali furono ben
imitati sopra gli antichi.

Terza meraviglia di quell’incantevole piazza, nel 1174 vi si alzava
il campanile; gran cilindro, rivestito a profusione di bassorilievi
e statue, con ducentosette colonnine, varie di forma e di materia, e
con capitelli, alcuni di greca eleganza, altri a fogliami grossieri
e teste d’uomini e d’animali. È opera di Buonanno da Pisa, cui si
aggiunsero Guglielmo e Giovanni d’Innspruk: e sembra che, già sorto
a certa altezza, il terreno cedesse da una parte, e l’architetto
s’accorgesse di poter proseguire senza pericolo l’innalzamento; talchè
ora strapiomba di tre metri sopra quarantacinque d’altezza: bizzarria
derivata dall’accidente, e altrove imitata di proposito.

Perchè potessero entro terra santa riposare quelli cui non era dato
passare in Soria, cinquanta galee pisane, ite alla crociata con
Federico Barbarossa, riportarono terra di colà, e se ne formò il
Camposanto, finito il 1283. Giovanni da Pisa lo foggiò a chiostro, con
portico ad archi tondi, ma a frastagli e archetti gotici, tutto marmo
bianco; e dentro si adunarono sarcofagi, iscrizioni, anticaglie, quasi
in un museo; abbellito poi dai pennelli migliori delle età successive,
tanto che vi si può seguitare la serie degli artisti italiani. Il
campanile di San Nicola è opera alquanto più tarda di Nicola pisano; e
fors’anche quello della badia di Settimo, rotondo al piede, ottagona la
canna, piramidale la cuspide.

Procedeano dunque contemporanei due sistemi d’architettura: l’uno
conforme alla basilica romana con linee rette e coperture angolari;
l’altro alla bisantina con curve e con cupole, le quali, da emisferiche
sopra un cilindro come le facea Roma, sorsero a più vaste proporzioni,
e svilupparono i pennacchi, per appoggiarsi su quadrato o ottagono.
La cupola di San Vitale a Ravenna è formata con doppio ordine di vasi
a spira: quella di San Michele a Pavia posa su piano ottagono che
s’innesta al quadrato mediante pennacchi, prima idea dei timpani:
al domo di Pisa e di Corneto sono ellittiche; oblunghe quelle di San
Marco, senza intermezzo fra la calotta e i pennacchi.

Gli edifizj che su mentovammo, e i duomi di Piacenza, di Verona, di
Terracina, di San Leo di Ancona, passavano dal romano bisantino allo
stile lombardo o romano: in alcuni appare l’arco acuto, se non altro
nell’incrociarsi dei costoloni della volta. La nazionale vanità sarebbe
blandita dal credere che da questa derivasse l’architettura gotica; ma
non ce n’ajuta la storia.

L’arco acuto, suggerito naturalmente dalle grotte, fu imitato in
sostruzioni e acquedotti; e senza uscire d’Italia, l’abbiamo nella
porta Sanguinaria ad Alatri nel Lazio, città fondata da Saturno forse
duemila anni avanti Cristo, e nella porta Acuminata pur nel Lazio, di
costruzione ciclopica[113], e in alcune fogne di Roma. Quelli delle
cento canterelle di Nerone a Miseno, e di qualche forno di Pompei, sono
piuttosto capriccio e accidente che sistema.

Da noi l’arco acuto dapprima apparve unito col tondo. A Subiaco,
deliziosa solitudine a cinquanta miglia da Roma presso le fonti
dell’Anio, attorno alla grotta di San Benedetto si fabbricarono
chiesuole e celle, dinotate col nome di Sacro Speco: distrutte o guaste
da Longobardi e Saracini, vennero riedificate nell’847 dall’abate
Pietro, che particolarmente restaurò la cappella da Leone IV consacrata
a San Silvestro, scarpellata nella roccia, a volta acuta, come altre
escavazioni di colà. Sopra le quali nel 1053 l’abate Umberto cominciò
una chiesa, e dopo tredici anni l’abate Giovanni la fece servire di
confessione al tempio che vi eresse: e fosse per rispetto ai venti ed
alle nevi, o per imitazione d’essi sotterranei, fu disposto a volte
acute, come anche il monastero di Santa Scolastica che ne dipende.

È arcacuta la chiesa di Chiaravalle tra Ancona e Sinigaglia del 1172:
nel qual modo l’anno seguente fu restaurata parte della cattedrale di
San Leo nell’Urbinate. Tali appajono alcuni portici di Rimini nel 1204,
e si mescolano agli emisferici nel San Flaviano presso Montefiascone,
rifabbricata da Urbano IV. Così timidamente s’insinuava quella novità,
spesso non occupando che gli spazj ove non poteva tondeggiarsi la
volta. Nella Porziuncola, cameretta di san Francesco or rinchiusa
in Santa Maria degli Angeli d’Assisi, l’arco acuto della porticina è
inserito in uno a pieno centro.

Buon pezzo prima che l’arco acuto divenisse comune, l’ampiezza delle
cattedrali, l’elevazione delle guglie, il girar delle navi attorno
al coro, ed altri caratteri del gotico si trovano nelle tante chiese
erette verso il Mille, avanti che si vedessero nelle crociate le
asiatiche, da cui alcuno vorrebbe l’imparassimo.

Non escludiamo però l’influenza orientale; e dagli Arabi furono
probabilmente erette la Zisa e la Cuba a Palermo, e certo la fortezza
e i bagni d’Àlcamo sul monte Bonifato, le une e gli altri aventi
l’arco retto. Altre fabbriche mostra il Mongibello presso Siracusa, le
città di Polemi e Lonama due secoli fa serbavano ancora pregevolissimi
avanzi; e così il porto di Marsala. Prima del 1132 Ruggero normanno
faceva nel suo palazzo di Palermo la cappella di San Pietro, dove,
sopra colonne corintie di preziosi marmi orientali, voltano in punta
tutti gli archi e il trionfale; ed ergeva l’ampia cattedrale di
Cefalù, con capricciosi intrecci d’archi acuminati d’ogni grandezza
o sfogo: dorature, musaici, iscrizioni servono d’ornamento. Al
1174 rapidissimamente si finiva il più splendido monumento d’arte
siculo-normanna, il duomo di Monreale, ad archi acuti, con profusione
di musaici e con un mirabile chiostro, tutto, fin le colonne, a
scolture e musaici. Contemporaneamente s’innalzavano la Martorana,
Santa Maria dell’Ammiraglio, San Cataldo, la Matrice e Santo Spirito
a Palermo, la cattedrale a Messina, di cui il tremuoto non risparmiò
che una porta, Santa Maria di Randazzo; e sempre col sesto acuto, quale
pure nella cappella di San Cataldo a Palermo, anteriore al 1160[114].
Colà dominavano e Arabi e Normanni, sicchè ne traggono prove e quei
che derivano il gotico dall’Oriente e quei che dal Settentrione. Però
la pianta ritrae ordinariamente dalla romana-cristiana, la cupola ha
del bisantino, mentre l’arco si allunga alla musulmana, e i fregi e
ghirigori arabeschi s’alternano con pezzi tolti da edifizj classici.

Le fabbriche normanne e sveve dell’Italia meridionale sono simili, pur
non eguali a quelle di Sicilia; e primeggia il duomo di Salerno, eretto
il 1080 da Roberto Guiscardo. Il portico quadrilatero che precede,
ha colonne corintie, levate dalle ruine di Pesto, sormontate da archi
tondi: la porta maggiore è fregiata con gusto classico: bisantini sono
il coro e le tre tribune: squisito il musaico al coro, all’ambone e
alla cantoria. Archi acuti sopra colonne antiche sono nel duomo di
Amalfi, e archi moreschi nell’attiguo chiostro; siccome pure in quel
di Ravello, legantisi con fantastica varietà. I duomi di Troja, di
Trani, di Bitonto, San Nicolò di Bari, hanno parti che si rivelano di
quell’età; e il Castel del Monte, palazzo di Federico II, quadrangolare
con torre simile, abbellisce le forme germaniche con cornici e frontoni
antichi.

Destatasi poi in quel tempo portentosa attività di fabbricare e
restaurare, si moltiplicarono le opere arcacute. Nel sacro convento
d’Assisi poco dopo il 1226 frate Elia eresse a san Francesco il famoso
tempio, o piuttosto tre tempj un sovrapposto all’altro. Nell’inferiore
prevale ancora l’arco tondo; ma nel superiore appajono regolarmente gli
archi in punta, impostati sovra piloni, da cui sorgono le colonne del
corpo superiore a fasci, e il cui costolone principale s’incrocia con
quello del pilastro vicino per formare il colmo. Divenuta modello delle
altre chiese innalzatesi al nuovo santo, questa contribuì non poco a
diffondere il gotico. Sull’architetto non s’accordano, ed il Vasari
nomina a sproposito un tedesco, padre di Arnolfo di Lapo: altri opina
che e Lapo ed Arnolfo imparassero da Nicola pisano, al quale darebbero
lode di quel disegno[115], del resto troppo somigliante ai tedeschi.

Del vedere a un tratto gli edifizj assumere il sistema gotico, non
si può per avventura dare più conveniente spiegazione che l’influenza
delle loggie massoniche. Come le altre arti, così i maestri di fabbrica
erano stretti in corporazioni, e fin le leggi longobarde ripetutamente
parlano de’ _magistri comacini_ (t. V, p. 144). Intende de’ capomastri,
i quali dai laghi di Como e di Lugano andavano già, come vanno ancora,
per tutto il mondo in uffizio di fabbricare: e forse per opera loro
le corporazioni muratorie furono connesse ne’ varj paesi con riti
solenni d’ammissione, e riconosciuta giurisdizione particolare, cioè
franca; onde il loro nome di Franchi muratori o Franchimassoni. Essi
trasmettevansi tradizioni arcane intorno ai metodi del costruire; il
che fece progredire la meccanica, conoscere a punto la spinta delle
volte, la forza degli archi, la forma meglio conveniente, ed altre
norme che dipoi andarono perdute in grazia del segreto con cui erano
custodite.

Ma per quel misto di regola e d’indipendenza che riscontrammo sì spesso
negli istituti del medioevo, gli accessorj abbandonavansi al genio
inventivo di ciascuno, poichè i Franchi muratori erano fratelli, non
manovali; donde una varietà inesauribile, fino a nuocere all’armonia
del tutto, e non congiungere alla grandezza di concetto e all’ardimento
meditato la ragionevolezza de’ particolari.

Non v’è bello fuor del classico, diceano fin a jeri gl’idolatri
dell’antichità, e perciò consideravano il gotico un erramento
d’ignoranti, tutto insania e capricci; alla bella quantunque uniforme
colonna ne surroga di isolate, or tozze, or gracilissime, or a
fasci, ora attortigliate, spirali, poligone, striate; ad alcune
s’avviticchiano pampini, su altre arrampicano animali; spesso portano
iscrizioni; sovrappongonsi fila a fila senza interposto cornicione;
alla voluta e al grazioso acanto succedono ne’ capitelli le grasse
foglie del cavolo e del fico; spesso costoloni sgarbati, membri
incoerenti senza riposo nè armonia, sicchè il debole sostiene il
robusto; piloni di rinforzo ingombrano l’arco; facciate fuor di
proporzione, con gugliette e tabernacolini e frastagli e sporti
d’enormi acquarj; finestre altissime finite a lancetta, o divise da
colonnine, e spesso sormontate da un altro foro a trifoglio o a rosa;
boni che portano colonne o pile dell’acqua benedetta, nanerottoli e
mostri, ed altri delirj di fantasie ineducate.

Eppure chi guarda senza prevenzioni di scuola, s’accorge che un
pensiero armonico coordina le parti a un concetto comune e vivo,
sicchè, vedendo un edifizio, si dice _È gotico_. A differenza delle
regole odierne prestabilite, tutto era libero, tutto si sperimentava,
nè un genere escludeva l’altro; e come nella letteratura era
un misto delle tradizioni antiche colle ispirazioni nuove, così
nell’architettura si accordarono concezioni indigene, ricordanze
greche e romane, gusto orientale. Era un grande progresso l’ottenere
con minori mezzi eguale effetto, un dato spazio coprendo con
numero e volume minore di sostegni e con più facili materiali. Se
poi i monumenti sono la scrittura de’ popoli, talchè il cambiare
d’architettura esprime cambiamento di civiltà, e non avrà originalità
in essa chi non l’abbia nelle idee; confessiamo che quei così detti
rozzi ottennero ciò che fu impossibile ai secoli di Leon X, di Luigi
XIV e di Napoleone, creare una novità, ergersi ad un bello più elevato
e spirituale.

In questa nuova sua fasi come nella primitiva, l’architettura
era sacra, ed esercitavasi specialmente nelle case di Dio,
immagini imperfette e finite del modello infinito della creazione
progressiva[116]. Pertanto la gotica adottò quanto avea di forme
simboliche e di mistiche proporzioni la basilica de’ primi Cristiani;
arcano massonico. Tutto era allegorico, tutto traeva i fedeli verso
l’origine del vero culto e la superna destinazione del tempio, tutto
dovea rammentare che la Chiesa non è compagine di sassi, ma edifizio
vivente, di cui Gesù Cristo è pietra angolare, e membri i fedeli. Il
numero tre e la figura triangolare dirige l’elevazione, non meno che le
costruzioni secondarie; a croce la pianta, a croce le areste sovra il
capo del pregante, e lo stromento della redenzione messo in ogni dove,
ricorda la rigenerazione per via del patimento; sgomento e fiducia,
vita e morte ne spirano d’ogni dove con un misto indefinibile; e Dio lo
riempie tutto, come l’universo di cui è immagine. L’arco in punta, le
smerlature, le piramidette, le guglie elevate al cielo, pare invitino
il pensiero a staccarsi dalle basse cose, o rappresentino i voti dei
mille credenti che s’elevano concordi a Dio. Il bujo delle navate, la
nudità delle pareti, le sfogate volte echeggianti, gli enormi pilastri
dietro a cui nascondersi a piangere l’uom penitente, le tombe di
persone addormentate nella speranza della risurrezione, tutto infonde
una pietà austera insieme e consolante. Poi il suono degli organi
(istrumento per eccellenza, che le mille voci accorda in una sola
sublime), e i moti e le pose de’ cherici, e la piena de’ cori popolari,
rappresentano la vita, che riceve spiegazione dalla morte.

Solito abbellimento n’erano le vetriate a colori. Già trovatisi in
chiese greche e latine, come in Santa Maria Maggiore di Roma; nel XII
secolo poi si cominciò a divisarvi storie sacre, ripetendo all’occhio
ciò che all’orecchio avevano detto i sacerdoti, e così pei sensi e per
l’immaginazione giungendo al cuore e all’intelletto. Vi ebbero lode
molti Gesuati, ed anche varj Domenicani.

Le cattedrali ornavansi pure col culto de’ sepolcri, seconda religione
dei popoli e delle famiglie; e stesi sovra la propria tomba si
figuravano cavalieri, dame, prelati, anch’essi con un’espressione
determinata, sicchè poteasi leggere in quella generazione di statue
la storia de’ tempi. Qui il re in trono con diadema e scettro, o
il doge col suo corno; colà la sposa di Cristo, con allacciati alla
cintura i capelli che recise il giorno che si consacrò a Dio; l’amor
conjugale era indicato dal riposare costa a costa i due sposi colle
mani intrecciate; l’angelo della morte sospendeva le corone sopra il
bambolo che portò seco tutte le speranze de’ genitori; una nuda pietra
col nome, e colla parola _De profundis_ o _Miserere mei_ indicava
il requietorio d’un frate, che forse aveva regolato i consigli dei
principi e le sorti d’un regno. Le basiliche dei Frari e di San
Giovanni e Paolo a Venezia danno nei sepolcri la storia delle arti
dal 1300 in poi: di più antichi se ne riscontrano in tutte le nostre
cattedrali e chiese, che sfuggirono alle vandaliche restaurazioni.

Ben è scarso di sentimento chi non ammira la fratellanza di popoli che
potevano sollevare opere tali senz’altri sussidj che della spontanea
carità; la fede che gittava le fondamenta d’edifizj, a cui solo i più
tardi nepoti porrebbero il fastigio; la religione d’uomini che empivano
quelle vaste navate per ringraziare il Signore d’aver loro dato una
patria!

Perocchè, un altro dei caratteri per cui piaciono le cattedrali
gotiche, si è l’essere alzate per concorso di tutto il popolo, per
limosine e spontanei servigi di corpo. I Crociati al ritorno fondavano
un monastero od una chiesa per voto o per memoria o colle spoglie
degl’infedeli; la predicazione di un frate animava a farvi ciascuno
oblazioni secondo sua possa; talvolta la tassa per la dispensa dalle
astinenze quaresimali volgevasi a quest’uso, o il ricavo d’alcune
indulgenze; a chiunque testava, ricordavasi la fabbrica del duomo; i
Comuni contribuivano a questi edifizj le somme che poi furono obbligati
tributare al fasto di principi; il San Lorenzo di Genova percepiva il
decimo di tutte le eredità e un tanto per cento sulle gabelle, ebbe
donazioni molte in Terrasanta, e a vantaggio suo si stipulavano tributi
e omaggi cogl’imperatori.

L’essere le costruzioni dirette per pubblico consiglio, anzichè
impacciare il genio degli artisti, faceva che il gusto si estendesse.
Ma, come accade, l’impeto veniva meno, laonde rimasero incompiute
la più parte delle opere gotiche[117]. Fosse poi in essi sentimento
di devota abnegazione, o ignorante incuria ne lasciasse perir la
memoria, ben pochi conosciamo degli architetti; neppur si trovano i
primi disegni o piani, o si volessero ravvolgere nel mistero, o si
mandassero alle loggie massoniche di Germania, da’ cui archivj di fatto
ne uscì alcuno recentemente. A Bono lombardo sono attribuiti diversi
lavori in Napoli, Ravenna e altrove, e specialmente il campanile di
San Marco in Venezia, costruzione inconcussa benchè appoggiata sopra
palafitte. Al San Martino e al San Michele di Lucca pose la facciata
un Guidetto nel 1200, a più ordini di colonnette e che man mano si
restringe, come in altre fra le poche chiese dì Toscana finite. A mezzo
quel secolo contava Siena sessantun maestri di pietra, e probabilmente
siffatte compagnie costituivansi dovunque si fabbricasse. Il suo duomo,
cominciato forse nel 1089, coperto e consacrato nel 1180, non s’ammira
tanto per grandiosità quanto per la bellezza e la profusione di marmi e
bronzi.

La cattedrale di Ferrara è del 1135, opera d’un Guglielmo, e colle
sculture d’un Nicolao, che lavorò pure la facciata di San Zeno a
Verona nel 1138, ov’è scolpito, come su quella di Ferrara, _artificem
gnarum qui sculpserit hæc Nicolaum_ ecc. Su entrambi v’erano
ghirigori, animali simbolici, porta coll’arco sporgente, sostenuto
da colonne intrecciate, e queste da leoni; e sulle porte laterali
erano rappresentati i dodici mesi. Ma il duomo ferrarese è d’arte più
avanzata, con più grandiosi concetti, più ricco ornamento, potendo la
facciata di questo considerarsi come il punto più elevato dell’arte
lombarda, e forse il primo in Italia dove l’arco acuto si mescolasse
al tondo. Sciaguratamente l’interno fu tutto rinnovato, parte nel 1498,
parte nel 1637 e finalmente nel 1711[118].

Duccio di Buoninsegna senese inventò i pavimenti di marmo bianco,
con incavi riempiti di pece, a modo di giganteschi nielli: e n’è
l’esempio più insigne nel duomo della sua patria, colla sacristia
ricca di preziosi codici miniati, e abbellita poi dagli affreschi del
Pinturicchio sopra disegni di Raffaello. Macchione d’Arezzo servì
di molte fabbriche Innocenzo III, e nel 1216 alzò la pieve della
sua patria ed il campanile con tre ordini sovrapposti di colonne
variatissime ne’ fusti, ne’ capitelli, nelle combinazioni, e con
istrane fantasie d’uomini e belve che sopportano le moli. Arnolfo di
Cambio di Colle, che falsamente chiamano di Lapo, diresse in Firenze la
loggia in piazza de’ Priori, l’ultima mura, Santa Croce, e il palazzo
vecchio della Signoria, di vigorosa semplicità e grandezza.

L’impeto medesimo che portava sì innanzi gl’Italiani sulle vie della
civiltà, li traeva pure ad ornarsi colle arti belle; nè fu favore di
principe che queste allattasse, ma l’entusiasmo popolare. Margaritone
non credea compensar meglio il magnanimo Farinata, che col regalargli
un suo crocifisso; i Veneziani a Gentile da Fabriano assegnano un
ducato al giorno e il privilegio di portar toga da senatore; i Pisani
aveano ceduto qualche città dell’Asia all’imperatore Calojanni perchè
sovvenisse a fabbricare il loro arcivescovado e la cattedrale di
Palermo. I Perugini mandarono a supplicare Carlo d’Angiò di conceder
loro Giovanni da Pisa onde ornare di sculture la loro città: quando poi
esso Carlo giunse a Firenze, il Comune l’invitò a vedere il quadro che
allora Cimabue stava terminando; ed egli vi andò col suo corteggio, e
dietrogli i magistrati e tutto il popolo; e tanta fu la contentezza,
tanto l’applauso, che quella strada ne conserva ancora il nome di Borgo
Allegri: e poichè il quadro fu compito, venne recato alla chiesa con
solennissima processione, e all’autore lauti premj ed onori.

Quando Andrea pisano ebbe fuso le porte di San Giovanni a Firenze, alla
Signoria fu concesso uscire dal palazzo ove dovea stare rinchiusa,
per venire a vederle cogli ambasciadori di Napoli e Sicilia. Poi
esso Comune emanava questo memorabile decreto: — Atteso che la somma
prudenza d’un popolo di origine grande sia di procedere negli affari
suoi di modo, che dalle operazioni esteriori si riconosca non meno
il savio che magnanimo suo operare, si ordina ad Arnolfo, capomastro
del nostro Comune, che faccia il modello o disegno della rinnovazione
di Santa Reparata, con quella più alta e suntuosa magnificenza che
inventar non si possa nè maggiore nè più bella dall’industria e poter
degli uomini; secondo che da’ più savj di questa città è stato detto e
consigliato in pubblica e privata adunanza, non potersi intraprendere
le cose del Comune se il concetto non è di farle corrispondenti
ad un cuore, che vien fatto grandissimo perchè composto dell’animo
di più cittadini uniti insieme in un sol volere»[119]. Conforme a
tale decreto, Arnolfo di Cambio architettò Santa Maria del Fiore a
croce latina ed archi ottusi, sostenuti da piloni formati di quattro
pilastri, con capitelli a fogliame; e l’ampiezza degli archi dà idea di
grandissima estensione, mentre la semplicità, da altri disapprovata,
tempera l’aspettativa, talchè il riflettervi non diminuisce la prima
impressione. Quattro denari per lira, esatti sulle merci che uscissero
di città, e due soldi per testa ogn’anno, fu l’ajuto che Firenze
diede alla devozione per esigere quell’insigne monumento religioso e
nazionale.

Il vicino battistero, fabbricato forse nel VI secolo con materiali
antichi, fu da Arnolfo disposto e ornato, levando ciò che discordava
dalla sua destinazione, e rivestendolo del marmo nero di Prato. Di
bella e maestosa semplicità fece egli prova anche in Santa Croce, ove
allo scolo dell’acque provvide con tetti a frontispizio e doccie di
pietra immurate.

Di Santa Maria Novella (di cui si poser le fondamenta il 7 ottobre
1279) fanno architetti frà Jacopo Talenti da Nipozzano e due
Domenicani frà Sisto e frà Ristoro, i quali dentro, dicono per ottico
accorgimento, diminuirono a gradi lo sfogo degli archi, come si
userebbe in prospettiva. Lorenzo Maitani senese ergeva allora il duomo
d’Orvieto, che in quell’altura dovette costare ingente prezzo; e riuscì
finitissimo nelle particolarità, massime nella facciata, d’eleganti
proporzioni, e tutta a rilievi e musaici che sono una bellezza a
vedere: la varietà delle pietre che li divide a fasce, è spesso
riprodotta negli edifizj toscani. E se si pensi come piccola città
sia quella, più fa meraviglia che abbia voluto emulare le maggiori con
iscolture di Arnolfo, di frà Guglielmo, di Agostino ed Angelo da Siena,
di Mosca, e pitture di Gentile da Fabriano, del beato Angelico, di
Benozzo Gózzoli, del Signorelli e d’altri eccellenti.

Di gran sapere architettonico diede segno Nicola pisano ne’ Frati
Minori di Firenze, poi nel Santo di Padova, alla cui costruzione papa
Alessandro IV invitava tutta cristianità(1231). Suo figlio Giovanni
si sperimentò in molti luoghi, e singolarmente a Perugia nel mausoleo
di Benedetto XI, e nella ricca fontana storiata, di tre bacini
sovrapposti, elevata su dodici gradini, e tutta a ninfe e grifoni di
bronzo, costata censessantamila ducati. In patria lavorò Santa Maria
della Spina, giojello di minuto artifizio, e il famoso camposanto. Da
Carlo d’Angiò fu chiamato a fabbricare il Castelnuovo a Napoli, disegnò
le facciate del Duomo d’Orvieto, condusse un bellissimo musaico per
l’altar maggiore di Arezzo. Andrea pisano nel 1304 cominciò l’arsenale
di Venezia, il più glorioso monumento di quella città, come ora il più
compassionevole. Gattapane o Catapane fece il palazzo di Gubbio, ove si
conservano le tavole eugubine.

Da noi nel gotico prevaleva il massiccio al finestrato, non si
poneano i contrafforti, consueti in Germania, ma piuttosto molte
decorazioni di frontoni, di gugliette, di tabernacoli; e di rado
si seppe innestare i campanili al tutt’insieme. Poi non fu mai
esclusivo, e v’avea contraddizioni di stile fra le parti inferiori
e le superiori, le quadre e le puntute; la linea perpendicolare e
piramidale non lanciavasi coll’ardimento de’ nordici, e cedea spesso
alla classica orizzontale; nè l’arco acuto escludeva l’emiciclico,
che troviamo unito a quello in insigni edifizj, quali il camposanto di
Pisa, Or San Michele di Firenze, le cattedrali di Siena, di Orvieto,
di Padova, la cappella sotterranea di Montefiascone. Il Palazzaccio
dei Soderini a Corneto internamente è di marmo bianco a tre ordini di
loggie, di cui i due primi arcoacuti, l’altro di colonnette corintie
sostenenti l’architrave piano. A Roma, se ne togli Aracœli e Santa
Maria presso Minerva, ai restauri non sopravive quasi di gotico che
qualche decorazione. Tutto insomma indica che il gotico qui fu imitato,
non indigeno, e venne sovraposto all’antica forma bisantina ed alla
romano-cristiana.

Misti sono gli ordini anche nel broletto di Milano e in quello di Como
a marmi tricolori: nella qual città fu il 1396 tolta a rifabbricare
la cattedrale, ch’è tra le migliori di gusto lombardo, tutta marmi
del paese, arricchita poi con ornati d’ottimo sentimento. Pel San
Petronio di Bologna, architettato nel 1388 da Antonio di Vincenzo, uno
dei sedici riformatori e ambasciatore a Venezia, si fece un modello di
legno e carta a un dodicesimo del vero, e doveansi demolire otto chiese
circostanti; e sebbene non compiuto nella grandezza designata[120],
mirabili ne sono gli ornamenti, e maestosa l’interna disposizione. Il
Piemonte, oltre Sant’Andrea di Vercelli, fondato dal cardinale Guala
de’ Bicchieri nel 1219 quando tornava dalla nunziatura di Inghilterra,
ad archi acuti, torre a cupola, finestre rotonde, mostra un bel gotico
nella badia di Vezzolano, inosservata fra le colline del Monferrato. La
cattedrale di Asti e San Secondo hanno maniera lombarda.

Appartengono a men severi e più splendidi tempi il duomo di Milano e
la Certosa di Pavia. Il primo si cominciò, o piuttosto si ripigliò
con fervore nel 1386[121]; e l’architetto ignoto, tenendosi nella
pianta alla regolarità delle basiliche, nell’elevazione s’avvicinò
alle cattedrali nordiche, e specialmente a quelle di Strasburgo e di
Spira, che sono i più bei monumenti di Germania. Gli acutissimi archi
delle cinque navate a croce latina impiantano su cinquantadue piloni
poligoni, con capitelli adorni di ricchissima varietà; centodue guglie,
quante nessun’altra fabbrica italiana, ornate esse e tutto l’edifizio
di tremilatrecento statue di marmo. Fino a quest’oggi fu palestra agli
artisti; e nel cinquecento il Gobbo Solaro, il Vairone, il Bambaja, il
Brambilla, il Fusina ed altri lo fregiavano di sculture, gran pezza
superiori al San Bartolomeo scorticato di Marco Agrati, che gode una
fama popolare non meritata dall’esecuzione, e meno dal pensiero.

Contemporanea, ma in istile più italiano, cominciavasi la Certosa
presso Pavia. Ignoto l’architetto primitivo; l’ortografia esteriore
è ad elegantissimo disegno d’Ambrogio da Fossano, pittore detto il
Borgognone nel 1472, e potè dirsi compiuta nel 1542. Non cede che
a San Marco di Venezia in marmi e pietre preziose; ed è foggiata a
croce latina, lunga settantasei, larga cinquantatre metri, in tre
navate ad archi acuti, quattordici cappelle e due sfondi di croce.
All’incrociamento sorge il pinacolo a loggiati interni ed esterni, più
simiglianti al bisantino che al tedesco, e dove l’effetto è cresciuto
dalla policromatìa, essendovi bellamente uniti il marmo e la terra
cotta. Vi sono fusi varj ordini, e profusi gli ornati, i trofei, i
monumenti, dove singolarmente notevoli sono la porta maggiore e il
mausoleo di Gian Galeazzo. Capolavoro poi credo il cenobio, con un
cortile di cento metri il lato, a colonnine di marmo, e tutt’intorno
un fregio ornatissimo di terra cotta; e dà accesso a ventiquattro
cellette, ciascuna a due piani con giardinetto, scompartimento comodo
quanto ingegnoso.

E speciale bellezza degli edifizj sacri d’allora sono i chiostri,
derivati dal cavedio che gli antichi aprivano nel mezzo de’ loro
palazzi per dar aria e luce ed agevolare le comunicazioni interne.
Stendonsi i più in un vasto parallelogrammo, circondato da uno
stilobate, sul quale posano colonnine, che sostengono altrettanti
archetti o un continuo architrave: in mezzo sta il giardino con
un pozzo: le pareti offrono le storie dell’Ordine, o iscrizioni
sepolcrali. Il bellissimo di Santa Scolastica a Subiaco[122] è dovuto
ai Cosmati, generazione d’artisti che spesso ricompare ne’ monumenti
romani di quel tempo. Quello de’ Benedettini a Monreale di Palermo ha
le colonne binate secondo la grossezza dello stilobate, differenti una
dall’altra, rivestite di musaici, e particolarmente ricche attorno alla
fontana, per quanto risparmiarono le man ladre degli Spagnuoli. Tra i
molti di Roma basti mentovare quel di San Paolo fuor delle mura, colle
arcate divise da grossi pilastri quadrati, che sostengono le volte
della galleria; e sulla facciata da colonne doppie come a Monreale,
e sormontate da un cornicione: variatissimi i membri, non meno che
i capitelli e la cimasa; e ogni cosa a musaici, fino il gocciolatojo
della cornice. Tali esempj stavano certo sott’occhio a Michelangelo
quando condusse lo stupendo di Santa Maria degli Angeli, con cento
colonne, degno d’emulare le terme di Diocleziano, sulle cui rovine lo
piantava.

Come la Chiesa, così la patria dava lavori e ispirazioni agli artisti:
nessuna città mancò del palazzo comunale, con sale bastanti al popolo
congregato, senza fasto, e sopra di esso la campana elevava la voce
solenne per congregare tutti a discutere degl’interessi di tutti.
Fra Giovanni eremitano modellò il coperto della sala della Ragione
di Padova, la più vasta d’Italia: frà Ristoro e frà Sisto fiorentini
fecero in patria i ponti sull’Arno e varie vôlte del palazzo pubblico.

I signori poi, costretti a prendere domicilio cittadino, vi vollero
abitazioni solide quanto i castelli che abbandonavano. E tante erano,
che i Ghibellini, presa Firenze nel 1248, demolirono trentasei palazzi
con torri, fra cui quella de’ Tosinghi in Mercato vecchio, ornata a
colonne di marmo, alzavasi centrenta braccia; di quella di Guardamorto
tale era la solidità, che coi picconi non se ne poteva levar pietra,
onde Nicola pisano suggerì di puntellarla con travi, scalzarla da un
dei lati, poi, bruciando i sostegni, lasciare che diroccasse. Così
a Bologna, a Cremona, a Padova e altrove si obbligarono i signori
a mozzare le torri fin ad una certa misura, perchè gli uni non
soperchiassero gli altri[123].

Le città, viste da lontano, con tante torri e comignoli e cupole e
campanili, davano un aspetto differente in tutto dalle antiche: dentro
poi modificavasi l’architettura a norma del terreno o del governo. A
Genova, angusta di spazio, si fanno palazzi elevatissimi, e giardini
pensili a scaglioni: a Venezia occorrendo grandi sale e magazzini
aerati e chiari, si fa correre su tutta la fronte un finestrato: a
Bologna, per fiancheggiare di portici la strada, se n’aggiunge uno a
ciascuna casa: a Napoli e in Sicilia, non temendosi neve, si surroga
ai tetti il terrazzo ove asolare: a Firenze le diresti fortezze, con
finestre anguste, enormi bugne, porte massicce: il palazzo dei duchi
di Ferrara, cinto di fossa, palesa un uomo che fa tremare e trema;
mentre quello del doge di Venezia sta in mezzo al popolo da cui trae
il potere. A ogni passo poi si trovano in presenza chiesa, feudalità,
Comune, la cattedrale, il palazzo, le rocche, la città, i borghi, gli
spedali, i conventi; tutti gli edifizj sono un elemento della storia; e
il sentimento della loro destinazione faceva si cercassero le grandiose
proporzioni, più che l’eleganza, la grazia, la purezza, che fanno
l’eterno vanto dei Greci e Romani.

Roma imperiale avea già preso gusto ai marmi variegati, cui coloriva
anche artifizialmente e dorava, e disponevali a tarsie o a musaico.
L’arte fiorì tra i Bisantini, ma presto se ne lavorò anche altrove, e
massime fra i monaci in Italia; più che a pavimenti però adoprandola ad
ornare pareti, balaustri, sedie vescovili, con pietre dure incastrate
in marmo riccamente scolpito e talvolta ricoperto di smalto e d’oro.
A Roma v’è musaici d’ogni epoca, che basterebbero a tessere una storia
dell’arti: il più antico è forse quello di Santa Sabina, comandato il
424 da papa Celestino[124]; e il più notevole quello di Sant’Apollinare
dentro a Ravenna, con figure alte da tre metri, che coprono tutte le
pareti laterali. Non ne mancano nelle città occupate da’ Longobardi,
da essi ebbe nome San Pietro _in ciel d’auro_ a Pavia, e Liutprando ne
ornò la basilica di Sant’Anastasia a Corteolona presso il Po.

Attorno al Mille, Leone Ostiense scrive che Desiderio abate di
Montecassino trasse da Lombardia (col qual nome intendeva l’Italia
meridionale), da Amalfi e sin da Costantinopoli valenti artefici di
musaici, di marmo, d’oro, argento, ferro, legno, gesso, avorio; e
soggiunge che la maestra latinità, avendo trascurato da cinque secoli
la musivaria e la quadrataria, la ricuperò pei molti fanciulli addetti
a quel convento, che in tal magistero s’addestrarono, e che forse
eseguirono poi i tanti musaici delle chiese normanne in Sicilia. Le
storie del Testamento fatte in musaico sotto Sisto III nella Liberiana
di Roma, e già citate nel concilio Niceno II del 787, ancora vi si
vedono. Nell’arcone e nella tribuna di Santa Prassede n’ha del IX
secolo. Sotto al portico di Santa Maria in Transtevere, ove i capitelli
presentano immagini di Iside, Arpocrate, Serapide, sta un’Annunziata
del secolo XIII, molto notevole, e musaici nella tribuna del 1143,
rozzi di forma, eppur già mossi più che i bisantini.

Erano lavorati da nostrali o da Greci? Risoluzione difficile ove gli
artisti per imitazione modificavano la maniera, o si tenevano a tipi
indeclinabili. Certamente vi divennero poi abilissimi i nostri, e agli
antichi del Vaticano di nuovi ne aggiunsero Jacopo e Mino da Torrita
senesi; il qual ultimo, ajutato da fra Jacopo da Camerino, condusse
quello nella nave traversa del Laterano, compiuto poi il 1292 da Gaddo
Gaddi, con ricca simbolica. Sulla facciata del duomo di Spoleto è un
musaico del 1207, coll’iscrizione _Doctor Solsernus hac summus in arte
modernus_, con vivacità occidentale. Sei anni dappoi nasceva a Firenze
Andrea Tafi, gran maestro di questo artifizio.

Neppur l’arte del fondere metalli erasi perduta. Il lodato Desiderio
abate di Montecassino, viaggiando il 1062, vide da un Andrea compiuta
la porta di bronzo ad Amalfi; Pantaleone di Viaretta fece fare nel 1087
quella di San Salvadore in Atrani; di dieci anni la precedette quella
che alla cattedrale di Salerno pose Roberto Guiscardo, rozza per verità
e somigliante a quelle teste consunte a San Paolo di Roma, e lavorate
il 1070 da Stauracio a Costantinopoli: un’altra chiude la tomba di
Boemondo d’Antiochia a Canossa; due alla cattedrale di Troja portano
gli anni 1119 e 1127; il 1150 quelle di San Bartolomeo in Benevento.
Oltre quella di Ravello, è notevole una di quelle di Trani, perchè
non più a niello, ma a figure rilevate, e non di guisa bisantina, ma
barbara, lavorata da Barisano tranese. Quelle che Buonanno da Pisa
poneva nel 1180 alla primaziale della sua patria, guastò l’incendio del
1596[125]; ma restano quelle che, sei anni più tardi, fece pel duomo
di Monreale, con molto ragionevole disegno. Nel 1191 l’abate Gioele ne
facea porre a San Clemente, dodici miglia presso Chieti; quattr’anni
dipoi, Uberto e Pietro di Piacenza finivano quelle della cappella
orientale di San Giovanni Laterano; e poco appresso, Marchione quelle
di San Pietro in Bologna, e Nicola pisano nel 1282 quelle di San Pietro
Martire a Lucca.

Sono di quel torno le porte di bronzo dell’atrio di San Marco a
Venezia; ma anteriore, e forse levata da Santa Sofia di Costantinopoli,
è quella a destra, niellata e a tarsia di diversi metalli, con figure
e santi e caratteri greci; a cui imitazione Leone da Mojno, che fu
procuratore di San Marco il 1112, fece fondere la media: le porte di
mezzo della facciata appartengono al 1300 e ad un Bertuccio, di scarsa
maestria. Celestino II regalava un paliotto d’argento cesellato alla
cattedrale di Civita di Castello nell’Umbria; e nel 1166 Gonamene
e Adeodato operavano i bassorilievi della porta principale di
Sant’Andrea in Pistoja. Non taceremo del vescovo Pacifico di Verona,
che lavorava di metalli e di marmi, e che inventò[126] l’orologio
notturno. Tutti superò Andrea pisano facendo nel 1330 la porta
meridionale del battistero di Firenze in alto rilievo, a comparti che
formano altrettanti quadri di meravigliosa bellezza; gittata a fuoco
di fornello per maestri veneziani. Nella pala d’oro di San Marco
a Venezia, venuta da Costantinopoli il secolo XII e ricchissima di
smalti e gemme[127], trovi vigore ingenuo e maestà di pose jeratiche
in ciascun pezzo, ma stravagante la disposizione de’ gruppi, scorrette
le particolarità, secco il disegno, ignorata la prospettiva, sparuto lo
stile.

In ogni età si scolpì di bassorilievo, siano arche sepolcrali, sieno
frontoni a porte di chiesa, dove effigiavasi la divinità con attributi
diversi; Cristo in trono, con veste prolissa e la mano elevata
a benedire, e con attorno angeli e gli animali simbolici; Maria,
che sotto lo spiegato manto raccoglie i devoti: su alcune facciate
correva la serie dei segni dello zodiaco, accompagnati talora dalle
operazioni agresti convenienti al mese. Notevoli sono le quattro
colonne di pietra dell’altar maggiore in San Marco di Venezia, tutte
liberamente storiate; due lastre di marmo figuranti Cristo e Sansone,
già appartenenti all’ambone di Santa Restituta di Napoli: ed altre nel
duomo di Salerno.

Nel secolo XII appajono più diligentemente lavorate le colonne e i
capitelli; arabeschi e frastagli acquistano finezza; le statue di santi
e di persone illustri mancano ancora di vita e d’individualità, non
di ardimento ed eleganza. Di un Wiligelmo sono i rilievi del duomo di
Modena del 1099, e alcuni della facciata del San Zeno a Verona, dove
le migliori sculture appartengono a Nicola da Ficarolo (almeno a detta
del Baruffaldi) che nel 1135 ne lavorava sulla facciata del duomo di
Ferrara. Roberto, Gruamonte, Biduino scolpirono a Pistoja, a Lucca,
a San Casciano. Di Benedetto Antelmi è una Deposizione del 1170 nella
cattedrale di Parma. Avanzano a Milano un bassorilievo, che rappresenta
la riedificazione di questa città; ed un monumento a Oldrado da
Tresseno, podestà nel 1233, la prima statua equestre dopo gli antichi.
In piazza di San Domenico a Bologna è la tomba del giureconsulto
Rolandino Passaggeri, che dettò la risposta a Federico II quando
minacciosamente chiedevagli si restituisse il re Enzo; e quella dei
Foscherari, fatta il 1289, con rozzi bassorilievi: dentro poi sta la
tomba di Taddeo Pepoli, rappresentato dal veneziano Giacomo Lanfrani in
atto di rendere giustizia al popolo. Nel duomo di Sessa avvi un pulpito
grandioso, retto da sei colonne di granito con capitelli bellissimi, e
adorno di musaici, come i due di Salerno; e un candelabro stupendo, che
l’iscrizione attribuisce a un Pellegrini da nessun nominato, e fra gli
anni 1224 e 1283[128].

In generale ne’ lavori di metallo è più seguito il metodo bisantino,
in quelli di pietra predomina l’occidentale; forse perchè di
Costantinopoli venissero i maestri di fonderia, arte ivi ancora
fiorente, mentre v’era perita quella della scoltura o bassa o intera.

Di ben altra maestria lavori offre Pisa, dove Giunta avea formata
una buona scuola, e dove Nicola, studiando i bassorilievi antichi
del cimitero si propose imitarne la bontà, senza forse ignorare i
sassoni artisti, che allora abbellivano Wechselburg e Freyberg. Al
pergamo di San Giovanni egli pose figure mirabili, malgrado i molti
difetti di disegno[129], poi una Deposizione in San Martino di Lucca,
ispirata ancora dal sentimento devoto, al quale lasciò poi prevalere la
perfezione tecnica, come in un altro pulpito ottagono a Siena, di gusto
e diligenza e complicata composizione, con numerose figure e leoni bene
studiati, e tra altre cose un Giudizio universale, ch’e’ trattò per
la prima volta con larghezza, benchè non ancora ispirato da Dante. È
migliore l’arca di San Domenico in Bologna[130], sobria composizione,
ajutata o finita da scolari. Sulla facciata del duomo di Siena sono
fregi e statue di Giovanni della Quercia, del 1339. Così ornata era
quella di Bologna.

Giovanni di Nicola pisano continuò la buona scultura, operò al
magnifico duomo d’Orvieto, esercizio de’ migliori pennelli e scalpelli
di quel secolo, e donde Bonifazio VIII tolse artisti pel San Pietro di
Roma, fra i quali Agostino ed Angelo da Siena. Con questi due, Giovanni
condusse il sepolcro di Guido Tarlato, il più bello che ancor si fosse
veduto, con sedici storie di sue imprese. Ad alcuno di essi vorrebbero
attribuire la bellissima tavola in San Francesco di Bologna, tutta
istoriata, che invece è di Jacobello e Pietropaolo de’ Masigni[131]; e
chi dice anche l’arca di Sant’Agostino a Pavia, ricca di ducennovanta
figure, che in sole opere di marmo costò quattromila fiorini d’oro.
Sotto Giovanni cominciò Andrea Ugolino da Pisa; a Firenze ornò la
facciata del duomo che poi fu distrutta, non restando di lui che
qualche bassorilievo sul campanile, e le porte di San Giovanni,
eclissate poi da quelle del Ghiberti: a torto gli attribuiscono il
monumento di Cino da Pistoja e la bellissima statua sull’altare del
Bigallo, opera di Alberto Arnoldi fiorentino. Da Pisa pure veniva a
Milano Giovanni di Balduccio, che fece la meschina porta della chiesa
di Brera e il monumento di san Pietro martire a Sant’Eustorgio, marmo
di Carrara con otto bassorilievi e diverse statue simboliche, le quali
sostengono ed ornano un sarcofago, sormontato da piramide, aggiunto
un tempietto con Cristo e varj santi; opera che cede in gusto ai
pergami di Pisa e Siena e all’arca di San Domenico, ma le pareggia in
magnificenza.

Nè la pittura era morta mai; e i monaci che miniavano manoscritti, e
principalmente salterj e benedizionarj, non aveano modelli antichi a
cui sagrificare il pensiero, e studiavano il movimento e l’espressione.
Ottone III menò via d’Italia un Giovanni pittore, affinchè ornasse un
oratorio del suo palazzo in Aquisgrana; dal quale il vescovo Nolker
fece pur dipingere il chiostro della cattedrale di Liegi, e il suo
successore edificar la chiesa di Sant’Andrea[132]. Le dame di Modena
nel 1157 faceano esemplare il codice delle lettere di san Girolamo, bel
monumento d’arte, e più di civiltà. Nulla ci rimane di frate Oderisi da
Gubbio, e di Franco Bolognese, encomiati da Dante. Nell’archivio delle
riformagioni a Siena ammirano miniature della metà del XIV secolo,
massime di Nicola di Sozzo, e magnifici corali di frà Benedetto di
Matera: a Montecassino altri lavorati dalla scuola ivi esistente, che
poi produsse in Sandolio, di cui v’è un mirabile uffizietto: altri a
Ferrara: nella Laurenziana un preziosissimo, de’ molti che appartennero
a’ Camaldolesi degli Angeli, fra cui andavano distinti quelli di Giovan
del Monte e di don Silvestro fiorentino; e que’ religiosi conservarono
come reliquia la mano di frà Lorenzo degli Angeli. Gherardo e Atavante,
pur di Firenze, vennero con altri chiamati ad abbellire i codici
di Mattia Corvino re d’Ungheria. Dal 1477 al 1535 sono i corali di
Ferrara, belli quanto quelli di Siena, e ne son conosciuti gli autori.

Son lavori, ai quali lo storico dell’arte dee molta attenzione,
perocchè l’imitazione v’è minore e più vivace l’ispirazione religiosa.

Profusione d’oro, sul cui campo rilievano il Creatore o il Redentore;
crocifissi somiglianti a mummie, coi piè disgiunti, e ferite da cui
sgorga a rivi un sangue verdastro; madonne nere e torve, con dita
lunghe stecchite e occhi tondi, e un rozzo bambino in grembo; e in
generale figure lunghe, teste vulgari, niuna espressione, composizioni
sgraziate, sono i distintivi di quel dipingere anteriore al XII secolo,
che intitolarono bisantino. I Greci, non ancora invasi dai Barbari,
aveano conservato il meccanismo dell’arte; ma invece di ritrarre la
natura, atteggiavansi a certi tipi sacerdotali, indeclinabili.

Nella presa di Costantinopoli forse i nostri conobbero sostanze e
stromenti, e con migliore abilità tecnica imitarono alcune forme
greche. Del qual modo sono i severi dipinti di San Pietro in Grado
presso Pisa, e una pala d’altare nella galleria di Siena del 1215,
dalla quale città diede i primi lampi la pittura nuova. Ivi nei
Domenicani è una preziosa Madonna di Guido da Siena, che mal si
porrebbe al 1221: ma di quel tempo Bonamico, Parabuoi, Diotisalvi vi
dipingevano i libri del camerlingo: poi sul fine del secolo Duccio di
Buoninsegna faceva il gran quadro della cattedrale, dipinto sul dritto
e sul rovescio, ove dalla dignità jeratica non iscompagna la dolcezza
e la nobile grazia convenienti alle scene della passione. Si conserva
il Cristo, che i Senesi portarono alla battaglia di Monteaperti; per la
quale vittoria fecero da Simone di Martino, lor cittadino, dipingere la
Vergine, con un fare che si stacca dalla bisanlina durezza. Ispirata
dalla religione e dalla patria, quella scuola ha maggior estro della
fiorentina, e i suoi lavori non s’ammucchiano in gallerie principesche,
talchè chi visita quella città, ch’è una visione del medio evo, inclina
a darle la priorità nelle arti belle.

Giunta pisano fin dal 1202 è intitolato pittore, e di man sua non
di Margaritone sono il Cristo d’Assisi, fors’anche le pitture di
quella tribuna; e un altro Salvatore nel San Renieri di Pisa. Jacopo
francescano ornò di musaici l’altare di San Giovanni di Firenze.
D’altre opere non si accerta il tempo. A Margaritone d’Arezzo, scultore
e architetto, il Vasari attribuisce l’aver primo riparato al fendersi
delle tavole coll’incollarvi una tela e intonacarla di gesso, e
insegnato a dar di bolo, mettere l’oro in foglie e brunirlo. Molte cose
lasciò a fresco, a tempra e su tela; ma restò amareggiato dal veder
sorgere una generazione migliore. Ferrara vanta Gelasio di Nicolò della
masnada di San Giorgio, forse del 1242; Lucca il suo Buonagiunta; i
Bolognesi Guido, Ventura, Ursone, e molte pitture serbano del secolo
XII; i Cremonesi altre nel loro duomo, a contorni secchi e colorito
forte, e da Lanfranco Oldovino fecero dipingere la vittoria sui
Milanesi del 1213.

Rilevando su fondo d’oro e d’oltremare, i contorni di tali lavori
pajono rigidi; ma i lineamenti cominciano ad apparir meno burberi, e
il riposo che fin allora credeasi unicamente convenire alla santità,
inclina a qualche movenza. Al difetto d’espressione si suppliva con
liste scritte; spediente ben anteriore a Bufalmacco, al quale lo
attribuiscono[133]; e Simone di Martino o Memmi volendo esprimere che
violentemente il diavolo tentava san Renieri, dipinse quello col capo
basso e gli occhi coperti dalle mani, e di bocca gli usciva _Ohimè, non
posso più_.

Era dunque la pittura risorta prima di quel che ne proclamano
restauratore, Giovanni Cimabue. Nato il 1240 in Firenze, ammaestrato
sui Greci, bentosto se ne staccò, colorendo più sfumato e fuso, e
rendendo morbide le vesti, vive le attitudini, quantunque manchi di
prospettiva lineare ed aerea, e paja secco a causa del fondo cilestro
o verde: le madonne faceva ancora fosche e disavvenenti, per riverenza
verso i tipi; ma meglio arieggiò le altre teste, e con dignità e vita
espresse i caratteri ne’ due gran quadri di Santa Maria Novella e di
Santa Trinita a Firenze, il primo più sciolto d’imitazione e soave nei
volti, l’altro di minor grazia e più robusta maestà. I vasti dipinti
murali di San Francesco d’Assisi ingegnosamente aggruppò e svolse con
affetto e naturalezza.

Allora dappertutto germogliarono artisti: Tommaso degli Stefani
dipingeva a Napoli, e in Santa Chiara Simone da Cremona; in Perugia
il 1297 si facea la _Maestà delle volte_, cioè una madonna e alcuni
santi (or mutati in angeli) sotto al palazzo del popolo, con manto
d’oro rabescato, e con molta grazia nelle teste e nel bambino; Scipione
Maffei, nella _Verona illustrata_, cita non poche opere di questa
città; il Malvasia altre di Bologna, anteriori a Giotto; artisti
paesani coprivano il battistero di Parma con pitture imitanti il
musaico, a contorni meno angolosi, e con partiti nuovi di pieghe, e
movenze passionate fin all’esagerazione.

Ad emanciparsi dai tipi greci diè spinta il dover rappresentare cose
nuove, quali erano gli stemmi, e sovente i ritratti dei podestà[134],
le arme del Comune, le geste di san Francesco, e de’ suoi, con bontà
d’atti semplici, e fra persone e casi positivi e recenti; sicchè
mancando esemplari classici o tipi prestabiliti, si imitò il vero.
Teofilo, monaco vivente in Lombardia, che alcuni rimandano al X secolo,
ma pare piuttosto dei tempi che discorriamo[135], descrisse «tutto
quanto possiede la Grecia sulle specie e le mescolanze de’ varj colori;
tutta la scienza de’ Toscani sulle incrostazioni e sulle varietà de’
nielli; tutte le sorta d’ornamenti che l’Arabia adopera in opere fatte
colla malleabilità, la fusione, la cesellatura; tutta l’arte della
gloriosa Italia nell’applicar l’oro e l’argento alla decorazione delle
differenti maniere di vasi, o al lavoro delle gemme e dell’avorio;
quel che la Francia ricerca nella preziosa varietà delle finestre;
i delicati lavori d’oro, d’argento, di rame, di ferro, di legno, di
pietre che onora l’industre Germania». Egli accenna chiaramente il
dipingere a olio, ignoto agli antichi, ma s’adoprava quello di linseme,
lentissimo ad essiccare, donde la difficoltà del sopradipingervi; e
forse la scoperta di cui vien gloriato Giovanni da Bruges consistette
nel surrogarvi olio di noce e di papavero, od aggiungervi un
essiccante.

A questo punto ritrovava l’arte Giotto da Bondone (-1337). Fanciullo,
mentre custodiva l’armento paterno, copiava in disegno pecore e capre,
avvezzandosi così a ritrarre dal vero. Cimabue il tolse dall’oscurità
e l’istruì nel dipingere, ove presto acquistò un colorire giocondo
e trasparente, buona disposizione de’ componimenti, giuste forme ed
espressione naturale, abbandonando i tipi arcaici e convenzionali.

Primo o de’ primi suoi lavori furono i ritratti di Dante, di ser
Brunetto, di Corso Donati e d’altri illustri fiorentini nella cappella
del Bargello; per ultimo nella sala della Mercanzia «con propria
e verosimile invenzione dipinse il Comune rubato da molti, per
mettere paura ai popoli» (VASARI). Di tali patriotici concetti doveva
ispirarlo l’amicizia di Dante, a illustrazione del quale adoperò il
pennello, e come lui vagò per Italia, quasi scuola ambulante, e in più
di venti città lasciò lavori ed esempj, e i principali in Firenze,
massime l’Incoronata in Santa Croce. Bonifazio VIII gli diede varie
commissioni, e 1200 fiorini pel disegno della nave di san Pietro,
sviluppo d’allegoria cristiana, condotto a musaico da Pietro Cavallini
sotto al portico della basilica Vaticana; frescò l’interno del vecchio
portico di San Giovanni Laterano; a Padova nella cappellina gotica
degli Scrovegno entro l’antica arena, fece la vita di Maria Vergine,
composizione carissima, oltre un Giudizio finale, e figure simboliche
de’ vizj e delle virtù, più meditate che lodevoli. A’ suoi dipinti in
Santa Chiara di Napoli un’età di barbara eleganza diè di bianco per
crescer luce alla Chiesa: quelli nel Santo d’Assisi sono rialzati dalla
pietà e dalla simbolica intelligenza.

Come gli altri contemporanei, lavorò anche d’architetto, e nessun
campanile supera quello che pose alla cattedrale di Firenze, tutto
a compasso di marmi varj, con finestre, nicchie, statue, fasce
di rappresentazioni civili, figurando la creazione e lo sviluppo
dell’umanità nel vivere domestico, ne’ viaggi, nelle arti, nelle
scienze, nelle virtù cristiane, nei sacramenti. È in cinque piani, e
intendea sovrapporvi un’alta piramide, che avrebbe dato un mirabile
vedere.

Gli scolari suoi studiarono di più le tinte, e rammorbidirono i
contorni fin a dare nello stentato: ma nel giudicare di loro, la
critica sistematica biasima o loda la medesima mano, secondo vi vede
l’imitazione della antica purezza, o l’ispirazione del sentimento
cristiano. Stefano nipote di Giotto migliorò la prospettiva e tentò gli
scorti; educò il Giottino, che per grave espressione e colorire unito
superò i precedenti, e forse solo dalla precoce morte fu impedito di
uguagliar l’avo. Taddeo Gaddi, lavorato ventiquattro anni con Giotto,
lo emulò nel cappellone di Santa Maria Novella, facendo la religione
trionfante per opera dei santi Domenico e Tommaso, con ricchezza
d’allusioni, di ritratti, di grandiose invenzioni.

Vi operò seco a concorrenza Simone di Martino o Memmi senese,
coloritore soavissimo e di composizioni ispirate ed espressive
fisionomie; immortalato dal Petrarca, pel quale ritrasse madonna Laura,
e miniò un Virgilio, serbato nell’Ambrosiana di Milano. In altre città
d’Italia dipinse egli, ed in Avignone pei papi: sicchè le due scuole
toscane, procedendo di fronte, assodavano l’onore dell’arti italiane,
con senso del bello e convenienza di rappresentazione; la fiorentina
più erudita, ingegnosa ed ampia; la senese più profonda di sentimento.
I Lorenzetti, e massime Ambrogio, alle soavi composizioni unirono forza
di colorito; il Berna ben ritrasse gli animali; Andrea di Vanni non si
distolse dall’arte per elevate magistrature; Duccio fe prove eccellenti
in quel duomo; Taddeo di Bartolo di Fredo forma passaggio tra questa
scuola e la perugina, studiando più allo spirito che all’esterna
correzione del contorno. La terribile peste vi rincalorì le idee
religiose, mantenute nell’accademia ivi formatasi.

Anche Giacomo di Casentino nell’accademia di San Luca di Firenze
riunì i principali artisti. Assisi era sempre la palestra de’
pittori, come Subiaco, Montecassino ed altri chiostri. Al cimitero
di Pisa coll’Orcagna gareggiarono Stefano Memmi, Pietro Lorenzetto,
Spinello aretino, Anton veneziano e Bufalmacco Buonamico, rinomato
per bizzarrie. Dell’apparire di Giotto nell’alta Italia danno segno
i pittori che vi sorsero. Verona si abbella di Turone e Stefano da
Zevio, e di Jacopo d’Avanzo, che stupendamente dipinsero nel Santo
di Padova e nella vicina cappella di San Giorgio: poi di Vittor
Pisanello; nella qual città si ammirano anche opere di Giovanni Miretto
e di Giovanni e Antonio Padovano. Crebbe la perdonabile vanità delle
cappelle gentilizie, ornate dai migliori pennelli e scalpelli, come
singolarmente si ammirano in Firenze quelle de’ Baroncelli e de’
Rinuccini in Santa Croce, degli Strozzi in Santa Maria Novella, de’
Brancacci nel Carmine: poi nelle case private voleansi dipinte camere,
cassapanchi, teste di letti.

Ma già siamo entrati nell’età, ove riprendea piede il gusto classico,
e principalmente in Toscana nacque e crebbe l’idea di metter tutto
sull’imitazione antica, fin al punto di rinnegare ogni originalità. A
questa teorica s’inchinarono i precettori e gli storici, e compiansero
come miseria e barbarie quant’erasi lavorato nel medio evo. A ciò li
condusse il vagheggiare soltanto la forma, anzichè elevarsi all’idea;
riporre il bello nella rappresentazione vera ed eletta della natura,
anzichè ne’ concetti da cui è ispirato, e dai sentimenti che suscita;
nel rigoglio della gioventù e della forza, anzichè nella ascetica
magrezza, nella paziente sofferenza e nella pacata devozione.

Al tempo che descriviamo, le arti, più che ritrarre al vero la vita,
pareano proporsi di spiritualizzare la materia; più che la bellezza
plastica, stavano fedeli ad un’espressione delicata e spirituale; più
che ai particolari, badavano all’effetto generale, onde tutte e tre si
teneano per mano, e l’artista potea valersi d’ogni mezzo, del simbolo,
del rilievo, della doratura, delle parole che or uscivano di bocca,
or giravano col lembo della veste, or coll’aureola al capo. A vicenda
la pittura doveva esprimere il suo concetto nel modo più semplice
ed evidente, senza distrazione di accessorj, nè tampoco nel fondo,
senza ricerca di bellezze naturali; poichè il dilettare non era che
mezzo. Insomma le arti si conservavano mistiche e religiose, benchè
dall’erigere e ornare i tempj di Dio passassero già ad abbellire le
stanze degli uomini, e credeano non si potesse raggiungere il vero
bello se non mediante l’ispirazione, nè questa ottenere se non con
cuore mondo, viva fede, orazione fervorosa.

Bufalmacco diceva che i pittori, «attendevano a far santi e sante per
le mura e per le tavole, ed a far perciò, con dispetto dei demonj, gli
uomini più devoti e migliori»: un’iscrizione a piè del quadro[136]
o l’effigie del pittore medesimo pregante, dovevano attestare la
sua devozione. Quel Teofilo che dicemmo, diresse l’opera sua alla
pittura sacra, ai vasi, ai messali, alle vetriate delle chiese; onde
non solo nella proposizione, tutta elevatezza di spirito, ma ad ogni
tratto erge l’artista a Dio _da cui emana l’arte_, e vuol consideri la
propria professione come un incarico divino; e per ricompensa della
fatica di stendere il suo libro _ut quoties labore meo usus fueris,
ores pro me ad misericordiam Dei omnipotentis_. Cennino Cennini,
che cento anni dopo Giotto esponeva i precetti e segreti da questo
tramandati ai discepoli, chiudeva il trattato della pittura col pregar
Iddio e la Madonna e san Luca primo pittore cristiano, acciocchè quei
che leggessero il facciano con frutto, e ne ritengano per sempre
gl’insegnamenti. Il beato Giovan Dominici, in tutti i conventi che
metteva o riformava, stabiliva scuole di miniare, e alle Domenicane del
_Corpus Domini_ di Venezia scriveva regole sul ben lavorare di minio,
e offrivasi a terminar egli quel ch’esse non sapessero, parendogli
arte opportuna ad elevare a casti pensieri[137]. Lippo Dalmasio non
si poneva mai a dipingere la Madonna, che non v’avesse premesso il
digiuno e la comunione. Gli statuti dell’arte dei pittori senesi del
1355 cominciano: — Noi siamo per la gratia di Dio manifestatori agli
uomini grossi che non sanno lettera de le cose miracolose, operate per
virtù et in virtù de la santa fede; et la nostra fede principalmente è
fondata in adorare et credere uno Idio in ternità, et in Idio infinita
potentia et infinita sapientia et infinito amore et clementia; et neuna
cosa, quanto sia minima, può aver cominciamento o fine senza queste tre
cose, cioè senza potere, et senza sapere, et senza con amore volere».

E per lungo tempo artisti e scienziati continuarono a considerare
l’uomo come il principale strumento, e la morale come il fine delle
discipline; laonde Leonardo da Vinci, disegnando un oriuolo, vi
scriveva a fianco: — Usa le ore in modo da vivere nella prosperità»;
Michelangelo diceva che la mano è nulla, ed obbedisce allo spirito
che sa dirigerla; il Marchi cominciava il suo trattato d’architettura
militare da capitoli sull’uomo, sull’elevare lo spirito alla
considerazione delle cose, sull’acquistar onore e gloria colle virtù; e
alle tavole di disegno apponeva detti morali: — L’uomo può tutto quando
voglia. La fatica vince ogni ostacolo».



CAPITOLO C.

Lingua Italiana.


Avvenimento importantissimo nel medioevo è il formarsi, o, dirò meglio,
l’apparire delle lingue nuove, e della nostra specialmente, che di
buon’ora troviamo svolta a segno, da bastare ai più nobili argomenti.
Ne dedussero le voci e i modi chi dal tedesco, chi dal greco, chi dal
provenzale, chi dal celtico, e fin dall’arabo e dal persiano: e al
vederli tutti sostenere l’assunto con lauta erudizione e spesso con
lealtà, tu inclini a credere che nessuno avesse interamente ragione,
tutti n’avessero parte. Effetto dell’impicciolire la quistione
isolandola, mentre anzitutto bisogna aggruppare le lingue derivanti da
ceppo comune, le quali perciò tengono somiglianze grandissime, senza
che l’una sia figliata dall’altra.

È abbastanza conosciuto che le lingue si raccolgono sotto tre gruppi,
denominati dai tre figli di Noè. Delle giapetiche, una vasta famiglia
s’intitola indoeuropea, perchè abbraccia quasi tutte quelle della
moderna Europa, insieme col persiano e col sanscrito dell’India; lingue
aventi un organismo comune, e maggiori o minori somiglianze fra sè.
Appartiene a queste la latina, la quale assai partecipa della greca,
ma non per questo è a credernela figlia; tant’è vero che tiene della
sanscrita molto maggior numero di termini che non la greca. Espressioni
della società che le adoperava, la sanscrita era lingua sacerdotale,
popolare la greca, grave ed aristocratica la latina, avente per
carattere speciale la _maestà_, di cui persino il nome è ignoto alle
altre; lingua singolarmente opportuna ad esprimere il comando, sicchè
in essa furono dettate le più insigni legislazioni, poi i canoni del
nuovo impero incruento: lingua della civiltà, che si fuse cogli idiomi
tutti dei Barbari per redimerli dalla materialità; che fu adottata come
universale nella società cattolica, ove tutto doveva esser uno.

Il latino si formò da un fondo indiano derivatole per la Tracia,
e dai dialetti delle varie colonie stabilitesi in Italia, e delle
genti sottomesse o consociate. I più antichi monumenti lo mostrano
vago e incerto, come quello che non era scritto o poco; anzi gli uni
differiscono dagli altri talmente, che senza estrinseci argomenti non
si arriverebbe a determinarne l’età, e l’epitafio di Lucio Scipione
si direbbe più antico che quello di Barbato suo padre (Capitoli III e
XXXI, e Appendice I, dove le prove di ciò che qui si asserisce).

Regola ed affinamento ricevette mediante la letteratura greca; e mentre
appariva rauco ed inculto nel _Carme Saliare_, sonò breve e marziale
in Ennio. Via via si andò ripulendo e fissando; l’assoggettamento
del Lazio fece che, se la lingua di Roma andava corrotta da tanto
affluir di genti d’ogni favella, ne rimanesse quale tipo la lingua del
Lazio, la latinità, distinguendosi Roma soltanto per quell’urbanità,
di cui, come dice Cicerone, più si avverte la mancanza in provincia
che la presenza in città. Fomentato dal patriotismo e dalla libertà,
invigoritosi nelle lotte esteriori ed interne, fatto robustamente
conciso dall’orgoglio nazionale, arricchito colle spoglie altrui,
perfezionato da tanti scrittori, il latino negli ultimi tempi della
romana repubblica aveva nobiltà di forme, pienezza di senso, eleganza e
maestà degna d’un popolo re.

La grandezza patria lasciava presumere che in tale eccellenza dovesse
persistere lungamente; se non che la durata di ciò ch’è artifiziale non
può essere perenne. Marco Tullio, che collocava ai tempi di Scipione e
di Lelio il miglior parlare, già all’età sua ne sentiva la decadenza, e
piacevasi sulla bocca di Lelia sua suocera udir quella vecchia loquela
incorrotta che gli rammentava Plauto e Nevio; appunto come a noi pare
d’udire il Sacchetti o il Firenzuola sulla bocca di una pistojese
o d’una ciana. Una sterilità organica non permetteva alla latina
d’arricchirsi a modo della lingua greca, mediante la composizione;
mancava della parte metafisica e trascendente, la popolare ripudiava;
e quando, sbandita dalla tribuna, ricoverò alla Corte, dipendente dal
capriccio de’ cesari, e obbligata a saldare l’avvilimento con uffiziali
dottrine, ostentò dignità col tono declamatorio; ricorse all’arcaismo,
sintomo di decadenza come il rimbambire de’ vecchi; e insieme abusò
di voci nuove, non giustificate dal bisogno di esprimere nuove idee
o di meglio precisare le filosofiche. Già Augusto derideva il _fetore
delle parole recondite_ e i cercatori d’anticaglie; poi gli ispanici vi
insinuavano gonfi neologismi, mentre dal greco accattavansi pedantesche
affettazioni.

Il turbine divenne sempre più vorticoso quando cittadini di Roma
furono i Barbari di tutto l’orbe conosciuto, sicchè con pari diritto
introducevano le voci native quelle poche volte che al popolo od
in senato favellassero: e quando ai gradi supremi e fin al seggio
imperiale salivano capitani stranieri al Lazio e all’Italia, era egli
a pretendere purità di favella? Eppure fu allora che le conquiste
la portarono alle estremità dell’Oriente e dell’Europa, e che col
cristianesimo riformata, divenne lingua universale, e veicolo della
scienza e della civiltà, sicchè i limiti di questa sono là dove il
latino è inteso.

Chiunque abbia meditato sulla natura delle lingue, sarà convinto
che il vulgo romano doveva averne una propria, diversa da quella
che scrivevano Livio e Cicerone, più analitica, trascurante delle
desinenze, alla cui varietà suppliva colle preposizioni, cogli
ausiliarj alle inflessioni de’ verbi, e le relazioni meglio determinava
mediante gli articoli. I bei parlatori aveano forbito la lingua col
_delectus verborum_, cioè mediante l’eufonia e l’analogia rimovendo
le parole troppo usuali ed aspre, per attenersi alle dolci, tornite e
numerose. I grammatici con Fortunaziano insegnavano che _longioribus
verbis decora et lætior fit oratio_; onde si accettarono i composti
come _inaurare, aggregare, apparere, extinguere, observare, exprimere_,
non i loro semplici, i quali dovettero però restare nella lingua del
popolo. Di fatto raccogliamo che questo dicea _scopare, stopa, sufolo,
bellus, caballus_, dove gli aristocrati usavano _verrere, linum,
tibicen, pulcher, equus: anellus_ e _scutella_ abbiamo in Cicerone,
_adjutare_ in Pacuvio, _minaccias_ in Plauto, in Lucrezio _bene sæpe_,
come _bene impudentem_ in Cicerone; e negli scrittori agrarj raccolti
dal Goes, _botones_ per mucchi di terra, _brancam lupi, campicellus,
monticellus, flumicellus, montaniosus, fontana, planuria, quadrum_,
e ben altri vocaboli ignoti al parlar letterario. Donde ci si fa
persuaso che, fra i patrizj latini prevalendo elementi etruschi e
greci, di questi si nutrisse la loro lingua, mentre gli oschi e sabini
prevalevano nella rustica, adoperata da’ plebei, la quale noi, per
annunziarci senza ambagi, crediamo sia la stessa che oggi parliamo,
colle modificazioni portate da trenta secoli e da tante vicende.

Le prove di tutto ciò noi le adducemmo altrove: e certamente Plauto
discerne la lingua _nobilis_ dalla _plebeja_; la prima dicevasi anche
_urbana_ o _classica_, cioè propria delle prime classi; l’altra rustica
o vernacola, dal nome dei servi domestici (_vernæ_), e anche da Vegezio
_pedestris_, da Sidonio _usualis, quotidiana_ da Quintiliano, il quale
move lamento che «interi teatri e il pieno circo s’odano spesso gridar
voci anzi barbare che romane», e avverte che in buona lingua non dee
dirsi _due, tre, cinque, quattordice_, e geme che ormai il parlare
sia mutato del tutto. Che v’avessero maestri del bel parlare latino
l’accerta Cicerone, aggiungendo che non è tanto gloria il saper di
latino, quanto vergogna l’ignorarlo; ed esortando, giacchè s’ha il
linguaggio di Roma corretto e sicuro, a seguir questo, ed evitare non
solo la rustica asprezza, ma anche l’insolito forestierume. Ovidio
raccomanda ai fanciulli romani d’imparare _linguas duas_, cioè il
latino e il greco, e di scrivere alle amanti in lingua pura e usitata:
un purista censurò il _cujum pecus_ di Virgilio, come parola di
contado. Che se la passionata imitazione del greco diede al latino
una consistenza che lo preservava almeno dalle profonde e repentine
alterazioni, al popolo non importarono questi raffinamenti, e continuò
a seguir l’abitudine di ciò che aveano detto il nonno e la nonna.

Nè le lingue prische erano spente ne’ paesi conquistati della
restante Italia. Quando Bruto veniva proconsole nelle Gallie, Cicerone
l’avvertiva che v’udrebbe parole poco usate a Roma (_parum trita_): a
Decimo Bruto, negli ultimi aneliti della repubblica, fu agevolata la
fuga da Bologna verso Aquileja dal sapere il dialetto di quei paesi.
Tito Livio fu tacciato di patavinità. In lingua osca i giovani romani
rappresentavano le Atellane, e il popolo ne andava pazzo. Pompeo
Festo si duole che ormai non si conoscesse il latino in quel Lazio,
da cui avea dedotto il nome. E i così varj dialetti nostri attestano
antichissime differenze di idiomi, ben anteriori all’invasione dei
Barbari.

Viepiù doveano le prische lingue sussistere fuori d’Italia, e
basterebbe a provarlo il consulto d’Ulpiano che consente di stendere i
fedecommessi non solo in latino e greco, ma in lingua punica, gallica,
o di qualsiasi altra gente. Le legioni nostre che per le provincie
accampavano, e quelle reclutate di stranieri che s’assidevano poi in
Italia, doveano trasportar qui voci e modi ignoti ai colti parlatori.

Aggiungansi le varietà di pronunzia. Il vecchio latino era aspro,
quanto lo prova il _rozzo_ numero saturnino; e tale si conservò in
gran parte nello scritto: ma favellando si temperava per sentimento
d’eufonia, sin a ledere la grammatica. Quest’alterazione, già operata
dal vulgo ne’ bei tempi romani, e talora accettata dagli scrittori,
teneva, cred’io, ai prischi idiomi o dialetti italici, nei quali quanto
si amasse la terminazione in o appare dalle monete della bassa e media
Italia, dal famoso senatoconsulto de’ Baccanali, e dagli epitafi degli
Scipioni. Colla lingua dunque a terminazione variata, consueta negli
scritti, viveva quella a terminazione fissa che parlavasi, e che crebbe
col volger de’ secoli, tanto che nell’italiano noi ci troviamo aver
conservato le parole che escono in vocale (_acqua, stella, porta_...),
mentre a quelle in consonante appiccicammo una vocale, o ne prendemmo
l’ablativo (_fronte, ardore, arbore, libro_...). Dappertutto ci salterà
all’occhio questo studio, o dirò meglio istinto del raddolcimento,
manifestato col troncare, aggiungere, trasporre: e che di più si
richiede per ridurre italiane la più parte delle voci latine?

Segnalate vestigia n’abbiamo nelle iscrizioni, massime in quelle de’
primi Cristiani, fatte da persone vulgari, cioè che scriveano secondo
uso, non secondo grammatica. Per tali accidenti, sopprimevansi spesso
la _s_, la _c_, la _m_ finale, stringevasi il dittongo _au_ in _o_,
proferivasi l’_e_ per l’_o_ e per l’_i_, il _v_ pel _b_, sicchè
_mundus, fides, tres, aurum, scribere, sic_ diventavano _mondo, fede,
tre, oro, scrivere, sì_; e più la coltura diminuiva, più gli scriventi
s’avvicinavano alla pronunzia, anzichè all’uso letterario.

Quando poi la gente meglio stante e la Corte si trapiantarono a
Costantinopoli, e ringhiera e senato qui ammutolirono, nè v’ebbe corpo
di scrittori o impero di tradizioni che gli conservasse l’aristocratica
castigatezza, il latino, come uno stromento complicato in mani
inesperte, doveva alterarsi viepiù perchè così sintetico, e perchè non
procede per mezzi semplici secondo il rigoroso bisogno delle idee, ma
con tanti casi e conjugazioni e artificiosa inversione di sintassi.

Sottentra allora il pieno arbitrio dell’uso, cui stromenti sono il
tempo e il popolo, operanti nel senso medesimo. Il popolo vuole
speditezza, e purchè il pensiero sia espresso, non sta a cercare
d’esattamente articolar la parola o di adoprare tutti gli elementi,
lusso grammaticale. Adunque, invece della finezza di declinazioni
e conjugazioni, adoperò la generalità delle preposizioni e degli
ausiliarj, specificò gli oggetti coll’articolo, mozzò le desinenze.
Pei quali modi la lingua latina, forbita dagli scrittori classici,
non imbarbariva, come dicono i più, ma tornava verso i principj suoi,
riducendosi in una più semplice, poco o nulla distante dalla nostra
odierna; sicchè il parlare che chiamano del ferro era un’altra fasi
della lingua, ove la scritta accolse in maggior copia voci e forme
della parlata, e modificate secondo paesi: donde quel lamento di san
Girolamo, che la latinità ogni giorno mutasse e di paese e di tempo.

Ajutarono siffatta evoluzione gli scrittori ecclesiastici, che più non
dirigendosi a corrompere ricchi e ingrazianire letterati, ma recando
al vulgo le parole della vita e della speranza, non assunsero la lingua
eletta, ma la comune, la vernacola. Essi mostrano sprezzare l’eleganza
e perfino la correzione; sant’Agostino dice che Dio intende anche
l’idiota, il quale proferisca _inter hominibus_; san Girolamo professa
voler abusare del parlare, per facilità di chi legge. Chi dunque
abbia mente alla purezza ciceroniana, dee nausearsi ai tanti modi che
si scontrano ne’ Padri, e fulminarli col nome di barbarismi: ma il
fatto era che il cristianesimo, come le altre cose, così trasformava
la lingua. Nel tradurre la Bibbia, destinata non ad aristocratico
allettamento, ma ad edificazione della plebe, si sbandirono le forme
convenzionali e l’artifizioso periodare de’ classici, il quale del
resto non s’incontra in coloro che con minore arte scrissero, come
nell’inarrivabile Cesare o nelle epistole di Cicerone e de’ suoi
amici; ma secondo il parlar comune, si tenne semplice l’andamento,
ingenua l’esposizione. I precettori, che la sentenziano di corruzione
e barbarie, dovrebbero riflettere che l’antichissima versione detta
_italica_ fu eseguita nel fiore della latina favella; e in quei
salmi l’idioma del Lazio prende un vigore inusato, e per secondare la
sublimità dei concetti ripiglia la nobile altezza che dovette avere
ne’ sacerdotali suoi primordj, un’armonia, diversa da quella che i
prosatori cercavano nel periodeggiare e i poeti nell’imitazione dei
metri greci, e che pure è tanta, da farla ai maestri di canto preferire
persino all’italiano.

Questo rifarsi della favella plebea, questo ritorno verso l’Oriente
dond’era l’origine sua, avrebbe potuto ringiovanire il latino,
infondendogli l’ispirato vigore delle belle lingue aramee e la semplice
costruzione del greco; ma troppo violenti casi sconvolsero quell’andar
di cose; e quando l’Impero cadeva a fasci, era egli a promettersi un
ristoramento della letteratura?

L’esclusivo patriotismo degli antichi idolatrava la patria favella,
repudiando ogni altra. Temistocle fece dannare a morte l’interprete
venuto cogli ambasciadori di Persia, perchè aveva profanato il greco
coll’esporre in questa lingua l’intimata del fuoco e della terra:
ai Cartaginesi fu proibito di studiare il greco: latino parlavano i
magistrati romani anche ai Greci, nè altrimenti che in quella lingua
poteano darsi gli editti del pretore. Tra le altre servitù che Roma
imponeva ai vinti, era l’obbligo di parlar latino; e Claudio imperatore
tolse la cittadinanza ad uno di Licia, il quale non seppe così
rispondergli. Davanti al senato contendevasi se avventurare o no un tal
vocabolo di greca etimologia, e Tiberio imperatore voleva ricorrere ad
una circonlocuzione piuttosto che dire _monopolio_. Da ciò alle antiche
favelle l’unità, il carattere specifico, non alterato nelle derivazioni
e ne’ composti; mentre le moderne sono formate dei frantumi di varie,
sicchè in un solo periodo potresti incontrar voci delle origini più
distanti: e più popolare essendo la letteratura, meno squisita riesce
la forma.

Ma che a generare le lingue nostre, dette _romanze_ perchè uscite dal
romano, principal parte avessero i Barbari, a noi sembra tutt’altro
che provato. I Goti dominarono lungo tempo la Spagna, eppure non
riscontri vocabolo gotico in quell’idioma: Venezia non fu invasa da
alcun Barbaro, Verona da tutti, e i loro dialetti si somigliano ben più
che non il veronese col contiguo bresciano, o questo col bergamasco, o
il bergamasco col milanese, separati appena da qualche fiume. E appunto
un corso d’acque o la cresta d’un monte frapponevansi a due linguaggi
diversissimi, quanto è il toscano dal bolognese. Qui che hanno a fare i
Barbari?

Nondimeno, a sentire certuni, avrebbe a credersi che un bel giorno i
nostri d’accordo avessero dismesso il parlare romano, e assunto quello
dei Barbari. Ma a qual fine? l’Italiano non aveva nulla a chiedere
al conquistatore se non misericordia: questi invece bisognando dei
vinti per tutte le necessità della vita, era costretto modificare la
sua loquela sulle nostre, non il contrario. E che ciò sia vero, voi
trovate nella nostra rimasti ben pochi termini d’origine teutonica,
e questi significano armi e generi nuovi di oppressioni; i pochi che
si applicano alle occorrenze della vita, hanno a fianco ancora vivo
il sinonimo latino; a ogni modo son meno assai che non le voci latine
accettate dai Tedeschi. Anzi alla storia dice qualche cosa il vedere
che le parole de’ vincitori adottate furono spesso tratte al peggio
senso; e _land,_ che pei Tedeschi è _terra_, per noi fu un terreno
incolto; e _ross_ non espresse un cavallo, ma un cavallaccio; e
_barone_ divenne sinonimo di paltoniere e birbo; e _grosso_ significò
tutt’altro che grandezza.

Ben troveremo nel parlar nostro voci e locuzioni assai, che non
traggono origine dalle latine, o dirò più preciso, non dalle latine
scritte; e queste sono spesso delle più necessarie; di molte la radice
non si riscontra neppure fra i Settentrionali; e più frequentano
nei paesi ove i Nordici non posero mai nido, come sarebbero Toscana,
Sicilia, Venezia, Romagna. Ora, donde vennero elle se non dai prischi
dialetti, ch’erano sopravissuti alla dominazione romana? e non n’è
altra prova la conformità mantenutasi tra dialetti di paesi ove pure
si parlano due lingue differenti? Se fossero certe due carte addotte
dal Muratori, sino dal 900 i Corsi e i Sardi avrebbero usato un vulgare
assai simile al nostro; eppure non vi presero dimora le genti tedesche.

Adunque la nostra lingua (e vale a un bel circa lo stesso delle altre
romanze) non è che la parlata dagli antichi Latini, colle modificazioni
che necessariamente, in qualunque favella, introduce il volgere di
venti secoli. Altre prove ne troverà chi osservi come noi tuttodì
usiamo termini che il latino classico repudiava come vecchi o corrotti,
ma che doveano correre tra il popolo, giacchè li vediamo resuscitare
quando si guasta o ammutolisce il linguaggio letterario. E poichè noi
non nasciamo dai pochi letterati, ma dal grosso della popolazione
latina, perciò le parole d’oggi tengono il significato de’ bassi
Latini, anzi che quello degli aurei.

Più che delle parole vuolsi tener conto delle differenze
grammaticali che dicemmo, come il supplire alla varietà di desinenze
colle preposizioni, l’anteporre ai nomi l’articolo, il formare
coll’ausiliario molti tempi della maniera attiva e tutti quelli della
passiva, l’abbandono dell’inutile genere neutro e dell’inesplicabile
verbo deponente. Ma è natura di tutte le lingue, nel loro procedere,
di farsi più chiare, più analitiche, in ragione che s’impoveriscono
di forme grammaticali; e ciò si avvera ben anche nel tedesco e nel
persiano, per accennare solo a lingue del gruppo stesso della latina,
e a paesi cui non arrivarono immigrazioni della natura delle nostre.
Già nel latino de’ migliori tempi si trovano indicate le relazioni per
via di segnacasi, non erano ignoti gli ausiliarj _avere_ e _stare_, del
qual ultimo ci sopravive il participio _stato_. L’articolo, proprio
della lingua greca e delle germaniche, non era raro fra i Latini,
sia il determinante _ille_ o l’indeterminato _unus_; e sentendosi
il vantaggio di quella precisione nel parlare ordinario, anche nello
scrivere si ammetteva l’_ipse_ e _ille_, o si surrogava l’articolo a
questi prenomi, come oggi si fa; talchè nelle litanie che cantavansi in
chiesa al tempo di Carlo Magno, il popolo rispondeva _Ora pro nos, Tu
lo adjuva_. In tal modo s’introduceva o confermava l’uso dell’articolo,
caratteristico alle lingue dell’Europa latina, differente però da
quel de’ Greci e del gotico, i quali non escludono la declinazione.
Ed esso e gli ausiliarj vennero a risarcire in chiarezza e analitica
precisione ciò che le lingue perdevano in dovizia e simmetria. Il fondo
però restava sempre latino, ed è noto che in varj dialetti d’Italia
occorrono intere frasi prettamente latine, nel friulano per esempio; si
scrissero poesie bilingui, lunghe composizioni sardo-latine.

Nè le parole, dunque, nè il sistema grammaticale fa mestieri derivare
dagli invasori: ma poichè monumenti mancano onde seguire storicamente
questa trasformazione, siam ridotti cercarla a tentone in qualche
parola sfuggita a quei che usavano la lingua letteraria.

Un singolare documento ci rimane nei comandi militari dei tribuni:
_Silentio mandata implete — Non vos turbatis — Ordinem servate — Bandum
sequite — Nemo dimittat bandum — Inimicos seque_. Quel _bandum_ per
_vexillum_, quel _sequite_ e quel _turbatis_, imperativi insoliti,
sono i precursori delle contorsioni che in ogni parlare si fanno pel
comando delle milizie. Dell’anno trentotto di Giustiniano trovasi
un istromento sopra papiro, fatto in Ravenna e già pieno di modi
all’italiana, come _Domo quæ est ad sancta Agata; intra civitate
Ravenna; valentes solido uno; tina clusa, buticella, orciolo, scotella,
bracile, baudilos_. Ammiano Marcellino dice che i Romani del suo tempo
giacevansi _in carrucis solito altioribus_; e _carrocia_ per carrozza
dice oggi il vulgo lombardo. La _Storia miscella_ riferisce al 583,
che, mentre Commentiolo generale guerreggiava gli Unni, un mulo gittò
il carico, ed i soldati gridarono al lontano mulattiere nella favella
natia, _Torna, torna fratre_; onde gli altri lo credettero un ordine
di tornare indietro e fuggirono. Ajmonino racconta che Giustiniano
ebbe prigioniero il re di certi Barbari, e fattoselo sedere a lato, gli
comandò di restituire le provincie conquistate, e poichè quegli rispose
_Non dabo_, l’imperatore replicò _Daras_; forma nostrale del verbo
_dare_ al futuro.

Così la lingua parlata scostavasi più sempre dalla scritta, sin a
formarne due diverse; siccome anche i Barbari conservavano la favella
nazionale, ma per ispiegarsi coi vinti adottavano un gergo fra il
tedesco e il latino, bilingui anch’essi. Ma se in altri paesi il vinto
gloriavasi di usar la lingua del vincitore come segno d’emancipazione,
l’Italiano preferiva l’antica come ricordo di gloria; e il vincitore
stesso che non avea letteratura, si serviva di secretarj nostri, e
perciò della lingua latina onde scrivere le leggi. In queste sovente
alle parole latine s’aggiunge il sinonimo vulgare: prova evidente
dell’esistenza di questo, e che trapela anche dalle poche carte di
quell’età. Nel feudalismo, trovandosi i signori diffusi ne’ castelli,
in contatto cogl’indigeni e non coi nazionali, smetteano più sempre il
tedesco, e diventava comune anche a loro il vulgar nostro nel parlare,
il latino nello scrivere.

Quando gli studj erano così scarsi, difficile dovea riuscire lo
scrivere questa lingua, mentre già in un’altra si pensava e parlava;
e ciascuna v’inseriva gli idiotismi del proprio paese; e, come in
idioma non famigliare, vacillavasi per l’ortografia, pei reggimenti,
pei costrutti. Laonde ne’ rozzi scrittori di carte e di cronache è a
cercare l’origine dell’italiana, o dirò meglio il progressivo mutarsi
dell’antica nella nostra favella.

Nel musaico che papa Leone III poneva in Laterano il 798, cioè nella
città più colta del mondo e pel ristoratore degli studj, è scritto:
_Beate Petrus dona vita Leoni pp. e victoria Carulo regi dona_; dove
già vedete abbandonate le desinenze, e raccorcia la congiunzione. Il
testamento di Andrea arcivescovo di Milano nel 908 legge: _Xenodochium
istum sit rectum et gubernatum per Warimbertus humilis diaconus,
de ordine sancte mediolanensi ecclesiae nepote meo et filius b. m.
Ariberti de befana, diebus vite sue_. E quattro anni più tardi un
altro: _Pro me, et parentorum meorum, seu domni Landulphi archiepiscopi
seniori meo, animas salutem._ E altrove: _Foris porte qui Ticinensi
vocatur — Ego Radaperto presbitero edificatus est hanc civorio sub
tempore domno nostro_.... Strafalcioni così madornali, e fra persone
addottrinate come erano prelati roganti e notaj rogati, convincono
che il latino non parlavasi più nemmeno fra la classe elevata; giacchè
chi detta in lingua propria accorda nomi e verbi senza dare in fallo,
mentre in bizzarre sconcordanze inciampa chi presume adoperarne una
differente. Di qui pure la durezza delle costruzioni, la ineleganza
degl’idiotismi, la mancanza di spontaneità, la varietà degli stessi
solecismi, attesochè non provenivano da un comune modo di favellare,
ma dal capriccioso stento di ciascuno nel latinizzare il proprio
linguaggio.

Siccome Romani erano chiamati dal conquistatore tutti i vinti, così
romana o romanza fu detta la loro favella, non solo in Italia, ma
dovunque a colonie latine si sovrapposero i Barbari. Nè però noi
sogniamo con quelli che credono una lingua romanza fosse parlata in
tutta l’Europa latina; fatto da nessun documento provato, e dalla
ragione smentito. Se latino non parlavano le provincie neppure ai
tempi più robusti dell’Impero, allorchè da Roma venivano e leggi e
magistrati, quanto meno dopochè furono inondate da popoli di vulgari
differenti e incolti?

Papa Gregorio V nel suo epitafio è lodato perchè

               _Usus francisca, vulgati et voce latina,_
                 _Instituit populos eloquio triplici._

Questa lingua vulgare in Italia tenea molta conformità col latino
letterale: talchè Gonzone, italiano del 960, dice che nel parlar
latino gli era talvolta d’impaccio l’abitudine della lingua vulgare,
tanto a quella somigliante. Pure que’ notaj o cronisti molte volte si
tengono obbligati a spiegare la parola latina con una più conosciuta,
la quale si riscontra identica a quella che oggi usiamo; a modo
de’ vulgari italiani sono nominate alcune località indicate in esse
carte, o persone e mestieri; il vulgo poi attribuendo, come è suo
stile, soprannomi di beffa o di qualificazione, lo facea con parole
che diremmo italiane. Talvolta ancora lo storico mette voci vulgari
in bocca de’ suoi personaggi, o lasciasi per abitudine cascar dalla
penna idiotismi e frasi, quali usavano nel parlare casalingo, e che
ritraggono non meno dell’ignoranza dello scrittore, che del paese
ond’egli è. Tutte prove che già era distinto il linguaggio nuovo
dall’antico.

Il domandare però quando la latina lingua nell’italiana si trasformò,
equivale al domandare in che giorno un fanciullo diventò giovane, e di
giovane adulto. E come voi oggi vi credete quel di jeri, e di giorno in
giorno, restando lo stesso, vi cambiaste pure di bambino in fanciullo,
poi in adolescente, in uomo, in vecchio; al modo stesso procede il
travaglio delle lingue. Ai pochi scienziati tornava comoda e gradita
una lingua comune, per cui mezzo partecipare i loro pensieri anche
a quelli d’altra favella; onde coltivarono il latino, negligendo i
vulgari. I signori avranno trattato degli affari in dialetti tedeschi;
ma quando era da ridurli in iscritto, ricorreano a _cherici_ nostrali,
che si servivano di quel gergo da loro chiamato latino; gli strumenti
stendevansi da notaj colle formole antiche; in latino erano dettate
leggi e convenzioni; nè verun grande interesse spingeva a svolgere le
lingue vulgari. Le prediche possiam credere fossero capite dalla gente
comune, come sono oggi quelle che, per mezza Italia, si recitano in
lingua tanto diversa dai dialetti: qualche volta però il predicatore
esponeva in latino, poi egli stesso o un altro spiegava in vulgare.
Nel 1189 consacrandosi Santa Maria delle Carceri, Goffredo patriarca
d’Aquileja predicò _liberaliter et sapienter_: Gherardo vescovo di
Padova spiegò al popolo _maternaliter_, cioè tradusse in vulgare. Nel
1267 assolvendosi il Comune di Milano da censura incorsa per avere
aggravezzato beni d’ecclesiastici, vien letto l’atto in presenza di
molti congregati, _primo literaliter et secundo vulgariter, diligenter,
per seriem de verbo ad verbum_.

Fanciulleggiarono le lingue finchè scarse le comunicazioni e gli affari
in cui adoperarle; ma quando anche il popolo, redento dalla servitù
feudale, fu chiamato a discutere de’ proprj interessi, dovettero
acquistare estensione e raffinamento i dialetti, non volendo l’uomo ne’
consigli parlare altrimenti che nell’usuale conversazione, nè potendo
ciascuno avere in pronto il notaro che esponesse i suoi sentimenti.

Non sorgono dunque le lingue nuove per arte e proposito, ma dietro
all’eufonia e all’analogia, secondo la logica naturale e quell’istinto
regolatore che così meraviglioso si manifesta ne’ fanciulli. Alla parte
poetica, educatrice di ciascun dialetto, si univa l’erudizione, cioè
gli elementi trasmessi dal mondo antico; e così le lingue moderne,
poetiche e popolari di natura, acquistarono coltura sull’esempio delle
precedenti.

La separazione dei Comuni e dei feudi avea portato prodigiosa varietà
di dialetti: quando si fusero in piccoli Stati, e i piccoli in grandi,
un dialetto speciale fu tolto a raffinare di preferenza, e le nazioni
acquistarono anche quel che n’è distintivo primario, la lingua.

Ed anche in questa si rivela la condizione politica; e mentre la
Francia riducevasi a unità di dominio, e con questa veniva unità di
linguaggio; da noi, fra tanto sminuzzamento di Stati, altrettanto se
n’ebbe dei parlari, e più d’uno recò innanzi pretensioni di priorità o
di coltura.

Un’opinione da scuola vorrebbe che prima in Sicilia siasi parlato
italiano. Se fosse, n’avrebbe rinfianco il nostro assunto sulla
poca influenza de’ Barbari: ma altro è parlare, altro scrivere; e
immiseriscono la quistione quelli che attribuiscono la formazione
della lingua ad alcuni, e fors’anche a tutti i letterati, mentre
solo dal popolo essa riconosce vita e sovranità. Forse che filosofi o
poeti hanno l’intelligenza che inventa, e la possanza che fa adottar
le parole? al più, sanno dall’uso arguire le leggi. Per ispiramento
ghibellino, e per adulazione a Federico II e sua corte si asserì che in
questa siasi primamente sostituita nel poetare la lingua italiana alla
provenzale. Ma i pochi frammenti che ce n’avanzano, non differiscono
dal toscano che contemporaneamente si usava; e per indurre col
Perticari che il buon italiano si parlasse in quell’isola prima che in
Toscana, bisognerebbe non avessimo canzoni in dialetto siculo, a gran
pezza discosto dalla lingua usata dagli scrittori.

Dante imperiale dice: «Perchè il seggio regale era in Sicilia, accadde
che tutto quello che i nostri precessori composero in vulgare si chiama
siciliano; il che ritenemmo ancora noi, e i nostri non lo potranno
mutare». Ebbene, noi sfidiamo a trovare che altri mai lo dicesse; e
solo il Petrarca per condiscendenza d’erudito scrive che il genere
della lingua poetica apud _Siculos, ut fama est, non multis ante
seculis renatum, brevi per omnem Italiam ac longius manavit._ Ove,
del resto, s’intende di poesia, non di lingua; e potrebb’essere che
Federico, viste in Germania le canzoni che i minnesingeri ripetevano
per le Corti, volesse averne alla sua in lingua italiana. Dante stesso,
quando antepone i Siciliani, non vuole intendere del loro parlare; anzi
i parlari riprova tutti, e quel della gente media di Sicilia non trova
migliore degli altri: ma poichè colà sedevano que’ da lui vantatissimi
Federico e Manfredi, e accoglievano il fiore di tutta Italia, al
contrario de’ sordidi e illiberali principi del restante paese, gli
scrittori riuscivano in nulla diversi da ciò ch’è lodevolissimo. Nè si
creda (conchiude) che il siculo o il pugliese sia il più bel vulgare
d’Italia, giacchè quei che bene scrissero se ne discostarono.

Dante pone che cose per rima vulgare in lingua d’_oc_, cioè in
provenzale, e in lingua di _sì_, cioè in italiano, non siensi dette se
non cencinquant’anni prima di lui, lo che riporterebbe al 1150; e lo
rincalza il commento di Benvenuto da Imola. Quanto al provenzale, egli
è smentito da numerosi documenti; dell’italiano nulla abbiamo di più
certa antichità, tardi sentendosi il bisogno di scriverlo, perchè già
si possedeva il latino, formato e nazionale. Una lingua che succede
ad un’antica, difficilmente sa sciogliersi dall’imitarla, anche dopo
che, formata ed ingrandita, viene assunta dagli scrittori. Così avvenne
della nostra, ove nel Trecento si riscontra ancora la fisionomia
materna nel non restringere l’_au_ in _o_, non mutare la _l_ in _i_
avanti ad _a b c f p_, nè lo _j_ in _g_, nè inserire la _i_ avanti ad
_e_.

È conforme alla natura dei vulghi che colla lingua a parola finita,
adoprata negli scritti, restasse la parlata a parola tronca. Oltre
poi il toscano, che fu elevato a lingua nazionale, io penso che
anche gli altri dialetti avessero già allora preso il carattere
proprio che tennero dappoi, e che traevano da fonti più lontane. Se
il Lombardo pronunzia l’_eu_, l’_u_ e l’_on_ e l’_an_, nasali a modo
francese, e contrae l’_au_ in _o_, forse è debito alle immigrazioni
de’ Galli, anteriori ai Romani; donde pure i tanti nomi di località,
affatto gallici o celti, e l’udirsi dal vulgo nostro voci proferite
tal quale si fa colle antiche galliche. Anche in altri dialetti si
rinvengono modi non adottati dagli scrittori, e che hanno riscontro con
provenzali; prova che sono anteriori alla separazione delle due lingue.

Già le carte venete del XII secolo mutano _g_ in _z_ (_verzene,
zorzi_); le bolognesi ci offrono _altare sanctæ Luziae, Cazzavillanus,
Cazzanimicus, Bonazunta, rivum Anzeli, Delai de la Bogna, Adam de
Amizo, Mulus de Bataja, Arderici de Mugnamigolo_; sull’arco alzato
dai Milanesi, quando riedificarono la patria, eran nominati _Settara,
Mastegnianega, Prevede_, idiotismi odierni; Boso Tosabò è uno de’
cinque consoli di giustizia che nel 1170 compilarono gli statuti di
Milano; frà Buonvicino da Riva, che scriveva nel secolo seguente, ha un
dialogo fra la Madonna e un villano, che comincia:

    _Chi loga se lumenta lo satanas rumor_
    _D’la verzene Maria matre del Salvator;_

e anch’oggi i villani dicono _chiloga_ per qua (_hoc loco_), e
_lumentà_ per ricordare, rammentare. Altre voci dei dialetti serbano
l’impronto delle dominazioni e comunicazioni forestiere, greche a
Ravenna, tedesche e spagnuole in Lombardia, arabe e greche in Sicilia,
levantine a Venezia, francesi in Piemonte, mentre nei paesi de’
Volsci, Sabini, Vejenti, Falisci, Sanniti, Marsi e di là dal Tevere,
maggiori reliquie sopravivono di romano rustico. Tant’era lontano
che tutte le città italiche parlassero il linguaggio stesso; fatto
repugnante a natura quand’anche non restassero prove del contrario, e
non vedessimo Dante poco di poi riprovare quattordici dialetti, cioè le
voci troppo zotiche e troppo municipali, per iscegliere le più acconce
_alla poesia_. Ben merita considerazione che que’ primi scrittori
(comunque il lor paese natìo parli trinciato, e squarti e scortichi le
parole; o sdruccioli sulle desinenze, o le strascichi, o adoperi voci
bazzesche e croje quale le lombarde già parevano a Dante, o accumuli
frasi sgraziate e villani costrutti), di qualunque parte fossero,
ingegnavansi, come oggi ancora si fa, d’accostarsi al dialetto toscano.
La quale norma generale, se non si fosse voluta disconoscere da coloro
che vennero a ragionar poi sopra ciò che già si praticava, avrebbe
schivate deh! quante sofisterie e discussioni, che empirono biblioteche
intere per fare avviluppato e controverso ciò che è chiaro e consentito
col fatto.

Perocchè il linguaggio è come il diritto. Una logica naturale domina
la sua prima formazione, poi qualche alto ingegno ajuta il popolo nel
costituirlo; prende il cumulo informe degli elementi di esso, ne trae
il bello, e dà norme alla lingua e la fissa. In quell’alto ingegno il
popolo non vede un tirannico comando, bensì la fedele espressione del
suo modo di essere, pensare, sentire, quantunque nobilitato.

Ma mentre il nostro popolo conservò il titolo di toscana alla lingua,
i dotti la chiamarono dapprima vulgare, quasi non conveniente che
a vulgo; quando essi l’assunsero, vollero dirla cortigiana, come
destinata a blandire le Corti dei signorotti; vergognatine poi, la
vollero dotta e letterata, non osando rifondervi la popolare vitalità:
di modo che la lingua che, svoltasi prima ne’ paesi meno imbrattati
da Barbari e retti a Comune, potè ben presto divenire variata di
melodie, dolce di cadenze, ricchissima di passaggi, flessibile ad
esporre concetti sublimi con Dante, teneri con Petrarca, vivaci con
Ariosto, civili con Machiavelli, ci tocca sentir ancora discutere come
nominarla, e quel ch’è più tristo, a quali autorità conformarla.



CAPITOLO CI.

Italiani letterati. Primordj della poesia nostra fino a Dante.


E già la letteratura, che è espressione delle credenze, degli
usi, delle passioni de’ popoli, col fissarsi di questi comincia a
individuarsi anch’essa: ma la nostra non fu la primogenita fra le
neolatine. Il mezzodì dell’odierna Francia, ridotto di buon’ora
provincia (_Provenza_) dai Romani, e che conservò traverso alla
barbarie la costituzione comunale, e al favore di questa fiorì di
commercio e civiltà, subito dopo il Mille intese alcuni poeti, famosi
col nome di Trovadori. Di essi sopravivono molti componimenti, ma in
generale pieni d’artifizj, di giuochi di parole, di sensi ambigui, di
amorose freddure, di dispute fin nella galanteria, di rado o non mai
quell’ispirazione che va franca e semplice, non il fervido linguaggio
del cuore, nè tampoco l’individualità, avendo e pregi e difetti
comuni; e nessuno per avventura meritò durevole lode letteraria. Noi
li accenniamo in primo luogo per un’opinione corsa secoli fa, e per
brev’ora resuscitata ai dì nostri, che la lingua italica derivasse
dalla provenzale[138]; poi perchè molti Italiani, per un precoce
spirito d’imitazione, poetarono in quella lingua, molti altri ne
imitarono i modi e i pensieri.

Folchetto di Marsiglia genovese fu il primo de’ nostri che _trovasse_
in provenzale; gli tenner dietro a Genova Bonifazio Calvi, Percivalle
e Simone Doria, Ugo di Grimaldo, Jacopo Grillo, Lanfranco Cicala; in
Piemonte Pier della Caravana, Pier della Rovere, Nicoletto da Torino
che disputò con Ugo di San Ciro, e poeticamente morì nel 1255 pel
crepacuore di non vedersi corrisposto dalla sua bella; ad Albenga
Alberto Quaglia; a Nizza Guglielmo Brievo; nel Monferrato Pier della
Mula; a Pavia un Lodovico; a Fossano un monaco; a Venezia Bartolomeo
Zorzi, che, preso in viaggio dai Genovesi e tenuto prigione sette
anni, avventò un serventese contro Genova, poi liberato, fu messo
castellano a Corone, ove morì. Aggiungiamo Siccardo lombardo, che «dà
del poltrone a tutti i vicini suoi, ma ad ogni pericolo è il primo
a fuggire; s’inorgoglia delle arie grossolane, che adatta a parole
prive di senso»[139]. I più sono dunque nell’alta Italia; però troviam
ricordati Alberto de’ Malaspina in Lunigiana, Paolo de’ Lanfranchi a
Pisa, Ruggerotto a Lucca, Migliore degli Abbati a Firenze, Lambertino
Bonarello a Bologna. Tanto comune era quel vulgare, e tanto credeasi
opportuno alla poesia più del nostro.

Va distinto Ugo Catola, perchè, in luogo di futili galanterie, elevò il
canto a fulminare la corruzione de’ signorotti. Emerico di Peguilain,
venuto in Italia verso il 1201, vi rimase oltre cinquant’anni,
festeggiato alle corti di Monferrato, d’Este, dei Malaspina,
componendo canzoni popolari anche sopra soggetti di stagione, la lotta
degl’imperatori coi papi, de’ Guelfi co’ Ghibellini. Largheggiò co’
trovadori Azzo VII d’Este signor di Ferrara; e lui e le figliuole
sue, come paragoni di cortesia e di virtù, troviamo spesso cantati
da poeti, liberali di lodi a chi era liberale di doni. Carlo d’Angiò
nella conquista d’Italia fu accompagnato da Percivalle Doria suddetto,
il quale scrisse anche la _Guerra di Carlo re di Napoli col tiranno
Manfredi_. Allorchè Corradino periva sotto la mannaja dell’Angioino,
Zorzi prorompeva: — Se il mondo cadesse in rovina per catastrofe
spaventosa, se quanto luce nell’universo si trovasse sepolto in
tenebra, non potrei farne lamento maggiore che dell’aver veduto il
giovane Corradino e il duca Federico sì perversamente posti a morte. Oh
maledetta mille volte la Sicilia che lasciò commettere tanto misfatto!
Oh, le persone dabbene che possono ormai aspettarsi, se non di vivere
nell’abjezione? ebbero giammai nemici più spietati che il conte
d’Angiò?»

In maggior nominanza rimase Sordello da Mantova, che accoppiò la palma
di guerriero, il mirto d’amante e l’alloro di poeta. Strane avventure
di lui raccontano, e degli amori suoi con Cunizza, sorella d’Ezelino
IV: ma lasciandole al romanzo[140], noi diremo come delle poesie sue
le più ricantino d’amore, e in altro modo che non ci aspetteremmo
dall’_anima lombarda altera e disdegnosa_; nè pare fosse appo i
contemporanei in quella nominanza di eroismo, in cui lo posero le
cronache mantovane e l’Alighieri. Si rivela piuttosto buontempone;
vantasi de’ trionfi sopra tutte le donne, come un don Giovanni,
senza delicatezza cavalleresca nè urbana; invitato da Carlo d’Angiò
a crociarsi, — Signor conte (risponde), non esigete da me ch’io vada
a cercar la morte. Per coteste acque salse troppo presto si guadagna
il paradiso: io non ho fretta d’ottenerlo, e il più tardi possibile
voglio arrivare all’eternità». Ameremmo credere che le prime fossero
millanterie, profonda ironia le seconde; giacchè altrove Sordello,
disdegnoso ed elevato, nè a grandezza nè a potenza riguardando,
sfolgora la viltà dovunque gli appaja. Tal è il famoso suo _serventese_
in morte di ser Blacasso, ove con ardimento ingiurioso i pezzi del
cuore di quel forte manda ai varj re, a ciascuno rinfacciando il poco
cuor suo.

Non vogliamo dimenticate alcune poesie, nelle quali i Valdesi
espressero le loro dottrine religiose, in un dialetto che ai Lombardi
s’accosta più che non facciano oggi quel di Genova o del Monferrato,
sicchè datevi la terminazione odierna e sono italiane[141]. Nè tra
noi mancò chi coltivasse il francese, e in esso dettarono Marco Polo,
Brunetto Latini, Da Canale e varj romanzieri.

Se tardi fu scritta la lingua vulgare in Italia, non ne inferite
che tardi si svolgesse; bensì, considerandosi il latino come lingua
nazionale e poco differendo dalla parlata, non v’era perchè i dotti
avessero ad affrontare le troppe difficoltà del maneggiare una favella
non mai scritta, e per conseguenza incerta e scarmigliata nelle forme,
nelle voci, nell’ortografia. Gl’Italiani, come rimpiansero sempre
l’antica grandezza di Roma, e, qualvolta poterono di sè, prescelsero
ordinamenti consoni agli antichi almen di nome, così più tenaci
conservarono la latina lingua ne’ pubblici atti fin al secolo nostro,
anche per imitazione della curia romana, cui il far così tornava
necessario perchè corrispondeva con tutto il mondo. Più dovettero
farlo i padri nostri, anche quando la crescente libertà li recava a
trattare più spesso gl’interessi proprj, benchè già il parlare avesse
assunto le forme nuove. Ma qual latino fosse, se già non bastassero
le carte addotte qua e là, potrà darcene indizio Odofredo, celebre
professore dell’università di Bologna, il quale terminando il discorso
del Digesto, così congedava gli scolari: _Dico vobis, quod in anno
sequenti intendo docere ordinarie, bene et legaliter sicut unquam
feci. Non credo legere extraordinarie, quia scholares non sunt boni
pagatores; quia volunt scire sed nolunt solvere, juxta illud, _Scire
volunt omnes, mercedem solvere nemo_. Non habeo vobis plura dicere;
eatis cum benedictione Domini_[142]. In tutte le età le epistole della
cancelleria pontifizia furono di gran lunga migliori, per le parole
come per le cose. Fra i chiostri sorse qualche scrittore nell’XI
secolo, lontano a pezza dai classici, ma più preciso e purgato che non
qualche autore della decadenza dell’Impero: molti già ne mentovammo,
e non vuolsi dimenticare Arrigo da Settimello, il quale, dal vescovo
di Firenze spogliato di un pingue benefizio e ridotto a povertà,
se ne spassionò nell’elegia _De diversitate fortunæ et philosophiæ
consolatione_, quattro libri di latinità non affatto infelice[143], e
saliti a così pronta fama, che vivo l’autore leggeansi nelle scuole.
Facilmente si potrebbe rovistarne d’altri: ma chi usa una lingua
separata dalla vita attuale, n’ha sempre scapito e al raziocinio e alla
immaginazione, forme vecchie traendosi dietro i vecchi pensieri.

Neppure il greco fu dimenticato; e i monaci Basiliani, diffusi nel
mezzodì dell’Italia, lo conservavano nell’uffiziatura: nelle crociate
poi si cominciò studiarlo anche per uso pratico, e qualche autore fu
allora portato dalla Grecia, come portavansi reliquie. Per commissione
di Eugenio III e per suffragare all’anima di suo figlio, Burgondione
giudice di Pisa mutò in latino alquante omelie del Grisostomo, le opere
di Giovanni Damasceno, e la _Natura dell’uomo_ di Gregorio di Nissa.

Crebbe allora anche la messe delle storielle sacre e de’ miracoli o
falsi o alterati, massime sulla passione di Cristo, notando di prodigi
ogni zolla della Palestina, ogni nonnulla portato di colà: e Jacopo
da Varagine pel primo, dopo gli antichi biografi degli eremiti, nella
_Leggenda dorata_ raccolse vite de’ santi, zeppe di favole[144]. In
reputazione meno rea sono quelle di frà Pietro Calo da Chioggia: ma
tra la farragine indigesta e sconcia delle leggende allora comparse,
i Protestanti menarono gran rumore del _Liber conformitatum sancti
Francisci cum domino nostro Jesu Christo_, di scempia semplicità.
Bartolomeo da Lucca, vescovo di Torcello e amico di Tommaso d’Aquino,
stese una storia ecclesiastica fino al 1313, copiando quel che trovò, e
conservandoci importanti notizie.

Guido delle Colonne, giudice messinese, fu alcun tempo in Inghilterra,
ove scrisse _De regibus et rebus Angliæ_, opera lodata, che il cronista
inglese Roberto Fabyan usurpò. Nel 1287 già vecchio, da Ditti e Darete
cretese tradusse o compilò _De rebus trojanis_, opera divulgatissima,
volta poi in tutte le lingue, e nella nostra già nel 1333 da Matteo
di ser Giovanni Bellebuoni pistojese, ed una delle prime messe a
stampa[145].

Anco furono in uso biblioteche, tesori, specchi o con altro nome
enciclopedie di tutto quel che un autore imparasse; libri di
opportunissimo soccorso in quella penuria di libri. Il _Catholicon_,
o Somma universale di Giovanni Balbi genovese, è una tavola alfabetica
e ragionata di quanto allora gli Europei sapevano, e per attestazione
dell’autore _valet ad omnes fere scientias_.

Il latino non era soltanto lingua de’ letterati, ma correva tra il
vulgo, non altrimenti che oggi il toscano ne’ paesi d’altro dialetto;
e Gaufrido Malaterra, nel proemio alla cronaca sua, adduce canzoni
da lui composte ad istanza del principe _plano sermone et facili ad
intelligendum, quo omnibus facilius quicquid diceretur patesceret_; e
quando a re Ruggero nacque Simone poco dopo la morte del primogenito,
fece questa:

    _Patre orbo_
    _Gravi morbo_
    _Sic sublato filio,_
    _Unde doleret_
    _Quod careret_
    _Hæreditati gaudio,_
    _Ditat prole_
    _Quasi flore_
    _Superna prævisio._

I quali versi ci presentano la misura e la rima alla moderna, e
c’invitano a cercare se sia vero che dai Provenzali noi imparammo il
verseggiare.

Come una lingua parlata differente dalla scritta, così ci si fa
credibile che, colla poesia metrica, cioè misurata per lunghe e brevi,
tra i Romani ne vivesse una ritmica, attenta solo al numero delle
sillabe. Tale dovette essere la primitiva dei versi Saturnj e del
carme Arvale, e degli altri carmi deprecatorj, medici, magici, che
recitavansi _assa voce_, vale a dire senz’accompagnamento musicale,
ma con una danza virile, ove col piede marcavasi l’accento[146]; e
le canzoni convivali ricordate da Catone, ove al suon della tibia
recitavansi le lodi de’ maggiori. Chi abbia intelligenza dell’accento
latino, facilmente si persuaderà che ai canti mal potea servire la
misura prosodica, bensì la ritmica. E tali noi crediamo durassero
i versi Fescennini, lacchezzo del popolo; e tali i canti militari e
bacchici e da celia, di cui ci conservò taluni Svetonio, come alcune
strofe di Adriano imperatore, indocili alle conosciute misure[147].

L’imitazione greca introdusse i metri dattilici, ma come armonia
fittizia, arbitraria, non mai connaturata colla lingua, e
preoccupandosi delle convenienze accidentali del metro o di pretese
analogie coi modelli greci, anzichè della vera pronunzia; tant’è vero
che spesso il tono cadeva sulle brevi, e un gran numero di sillabe
rimanevano incerte. Questa melopea tutt’artifiziale rendeva più
corruttibile la quantità, che non negl’idiomi dove aveva un’esistenza
naturale, come sarebbero il greco e il sanscrito: e per quanto i poeti
cercassero crescere armonia ai loro versi sottomettendo a un ordine
sistematico i piedi liberi, cioè determinando la successione de’
dattili e degli spondei, e regolando il posto delle cesure e fin la
lunghezza delle parole[148], l’armonia non acquistò in Roma nè tampoco
la forza d’un’abitudine. I Barbari affluenti colà, introduceano sempre
più parole ribelli alla prosodia; e la pronunzia, men rispettosa
alle tradizioni letterarie, riconduceva le capricciose differenze di
quantità a una specie d’unità: i poeti dapprima variarono le regole
prosodiche, poi confessarono d’ignorarle[149], e sul tipo dell’antico
esametro si foggiarono versi che sistematicamente s’allontanavano da
ogni misura.

Cessata la classica squisitezza, rivalsero le forme indigene; e
ciò viepiù in grazia del cristianesimo, dove l’ispirazione era più
personale e più dominante il sentimento, talchè i poeti, invece
di subordinare le loro emozioni a una misura inanimata, vollero
appropriarla ai pensieri, e l’espressione melodica sostituirono alla
regolarità plastica. Allora dunque si neglesse la quantità delle
sillabe per curarne solo il numero, e lasciare campo alla musica; e
l’orecchio, ineducato a quella finezza, preferì essere carezzato dalla
rima. Di tal modo abbiamo versi d’autori[150], iscrizioni, inni della
Chiesa, facili al canto ma ribelli alla prosodia; e se ne variò la
misura, sempre con ragione al numero, non alla quantità delle sillabe.

La rima conobbero i classici e latini e greci, e sebbene la evitassero
come poco acconcia alla metrica, talvolta accumularono le consonanze
in modo, da non potere attribuirle a inavvertenza[151]. Questo vestire
di forma più musicale i pensieri, e rendere più sensibile l’armonia,
piacque ognor meglio al declinare del latino, e man mano che sentivasi
la necessità di dare un ritmo più libero ed espressivo a concetti,
sui quali il sentimento acquistava maggiore imperio. Da prima bastava
l’assonanza, cioè la cadenza simile della sillaba estrema o delle
due ultime nelle voci sdrucciole[152]; poi si vollero eguali tutte le
lettere che succedessero all’accento tonico. Leonini furono denominati
questi versi; forse ad indicarne la forza, o forse da Leone benedettino
di San Vittore a Parigi, fiorito verso il 1190, che (fatto non raro
tra quella nazione) se n’attribuì il merito benchè assai prima fossero
in uso[153]. E la rima passò in tutte le lingue romanze, come già
l’avevano gli Arabi e i popoli settentrionali, il cui esempio potè
forse divulgarla tra noi, certo non la insegnò.

Chi non badi alla quantità, già può nei classici latini riscontrare la
misura dei nostri versi quinarj, senarj, settenarj, ottonarj, di cui le
combinazioni crebbero e si svincolò l’andamento quando furono destinati
al canto ecclesiastico[154]. L’eroico nostro viene dagli endecasillabi
antichi, o dal saffico o dal giambo iponazio[155]: fu consueto nei
secoli bassi, e in quello i soldati confortavansi nel 900 a custodire
gli spaldi di Modena (t. V, p. 339). Del decasillabo, ignoto ai Latini
e ai Provenzali, si fa merito a ser Onesto bolognese[156]. E sempre
la poesia sottometteasi alla musica; come attestano anche i nomi di
canzone, cantilena, sonetto, aria, ballata, antifona, responsorio.

Che mestieri dunque di cercare da’ Provenzali le nostre forme
poetiche? erano evoluzione logica del progresso della versificazione,
del sottentrare le lingue antiprosodiche, e dell’associarsi più
intimamente la poesia colla musica. Bensì da loro ci vennero le canzoni
a versi disuguali e rime incrociate, chiuse con un invio, le quali
noi intitoliamo petrarchesche; e il faticoso intreccio delle sestine
antiche e delle ballate, ove ad ogni dato spazio ricorre il verso o il
vocabolo medesimo. Il loro sonetto fu ben altro dai nostri, dei quali
il più antico che ci resti attribuiscono a Pier delle Vigne[157];
determinato poi regolarmente da Guitton d’Arezzo, che vogliono
pel primo usasse gli ottonarj. Meritano al Boccaccio l’invenzione
dell’ottava[158], della quale non è che mutilazione la sestina moderna.
De’ terzetti grandemente si piacquero i primi nostri poeti. Così
via via la versificazione perfezionavasi, combinando in maniera più
melodica elementi più conformi alla natura della lingua.

La Sicilia udì verseggiare italiano Pier delle Vigne, Federico II, Enzo
e Manfredi suoi figli (pag. 122). Sembrano anteriori Ciullo d’Alcamo e
Mazzeo Ricco di Messina, e più forbito Rinaldo d’Aquino, Jacopo notajo
da Lentino, e Guido delle Colonne. Contemporanei coltivavano poesia
in Toscana due Buonagiunta da Lucca, Chiaro Davanzati, Salvino Doni,
Guido Orlandi, Noffo notajo d’Oltrarno, che si nominano solo perchè
primi. Già lodammo san Francesco e frà Pacifico, e forse sin dal 1177
poetava Folcalchiero Folcalchieri senese, parendo alludere alla pace di
Costanza quando col verso — Tutto lo mondo vive senza guerra» comincia
la più antica canzone di nostra favella. Dante da Majano, per fama
invaghitosi della Nina Sicula, ricambiò versi con essa, dove non si
riscontra differenza fra lui toscano e lei siciliana; tant’è vero che
tutti s’ingegnavano di conformarsi allo stesso tipo.

Più rozzamente, ma pure scriveasi nel settentrione d’Italia; e
i milanesi Pietro Besgapè che fece la storia del Vecchio e Nuovo
Testamento, e frà Buonvicino da Riva che insegnò le belle creanze[159],
e Guido da Sommacampagna retore veronese che nel 1360 espose _lo
tractato e la arte delli ritmi vulgari_[160], non vagliono se non ad
attestare quanto già allora fosse superiore il dialetto toscano.

Tanto basta perchè più non si ripeta quel triviale dettato, aver Dante
creato la lingua e la poesia italiana; egli che nel suo trattato _De
vulgari eloquio_ esamina e giudica gli scrittori che lo precedettero,
condannando quelli che la lingua accettarono tal quale si parlava
senza forbirla; e anche nella _Divina Commedia_ gli accusa che non
s’ispirassero al sentimento, e volessero piacere con altri ornamenti
che colla verace espressione dell’amore[161].

Severissimo egli si mostra a Guitton d’Arezzo, eppure costui, dotto
di provenzale, francese, spagnuolo, sotto forme ruvide espose alti
concetti, sì nei versi come in quaranta lettere di vario soggetto, e
le più scritte per edificazione delle anime, per incorare a virtù i
cavalieri Gaudenti, ai quali apparteneva, esortare alla pace Firenze
e l’altre città di Toscana, e per poco che siano dirugginate, appajono
tutt’altro che spregevoli.

Jacopone da Todi, letterato e dottore, intese a guadagni e voluttà sin
quando, assistendo ad uno spettacolo ed essendo caduto il palco, vi
rimase ammazzata sua moglie, alla quale scoprendo il seno, la trovò
stretta di cilicio sotto le vesti scialose. Compunto, si rese terziario
di san Francesco, e per attirarsi disprezzo, si finse mentecatto.
Eccogli addosso le baje de’ fanciulli, la persecuzione de’ suoi frati
e di papa Bonifazio VIII; e cacciato prigione, vi canta versi e sacre
laudi, grossolane e scorrette, pure a volta robuste e spontanee di
pensieri come d’espressioni. Nel primo ordine de’ Francescani non fu
voluto ricevere se non dopo avere scritto sul disprezzo del mondo; ma
passar sacerdote non volle mai.

Brunetto Latini ci lasciò in vulgare il _Tesoretto_, raccolta
di precetti morali in settenarj rimati a coppia. «Fu dittatore
(segretario) del Comune di Firenze, ma fu mondano uomo. Fu egli
cominciatore e maestro in digrossare Fiorentini, e farli scorti in
bene parlare e in sapere giudicare e reggere la repubblica secondo la
politica» (VILLANI). Perseguitato da re Manfredi, riparò in Francia
presso Luigi IX, ove scrisse il _Tesoro_, che vollero dire enciclopedia
di quel tempo, mentre non è che un affastellamento di cose desunte
dalla Bibbia, da Plinio, da Solino. E dic’egli, _le composa en français
pour ce que nous sommes en France, et par ce que la parleure en
est plus delitable et plus commune à tous gens._ L’originale rimase
inedito, ma due traduzioni italiane, contemporanee all’autore, di
idee e vocaboli molti accrebbero la nostra lingua, e dovettero a lungo
conservarsi in pregio, se all’introdursi della tipografia furono delle
prime date alla stampa[162].

Buje nella forma e tutte lambiccature mi sembrano le rime, in cui Cino
da Pistoja celebrò la bella Selvaggia: eppure il lodano di eleganza
e dolcezza, e Dante asserisce che le costui canzoni e le sue aveano
«innalzato il magistero e la potenza del dire italico, il quale
essendo di vocaboli tanto rozzi, di perplesse costruzioni, di difettosa
pronunzia, di accenti contadineschi, era stato da essi ridotto così
egregio, così districato, così perfetto e civile». Gran lode meritò
commentando il Codice, e cacciato in bando perchè ghibellino, era
chiesto a gara dalle università.

Guido Guinicelli bolognese, spatriato coi Lambertazzi, e morto in
esiglio due anni dopo, fu chiamato da Dante «nobile e massimo, e
padre suo, e de’ migliori che mai cantassero rime d’amore dolci e
leggiadre... il primo da cui la bella forma del nostro idioma fu
dolcemente colorita, la quale appena dal rozzo Guittone era stata
adombrata»[163]. Poco ce ne rimane e guasto, ma abbastanza per vedervi
elevazione e vigore, pensamenti nobili, stile dirozzato, da far
meraviglia in autore di seicento anni fa; se non avessimo anche e prose
e versi di esso Guittone, troppo superiori al concetto che vorrebbero
darcene l’Alighieri e chi gli fa eco.

Sorvolò ai precedenti il fiorentino Guido Cavalcanti, che, cantando
la Mandetta di Tolosa[164], mischiò la filosofia all’amore, e usò la
lingua con una forbitezza tutta moderna.

Insieme v’avea non pochi che adopravano la prosa sia a prediche, sia a
cronache, come già notammo, sia a traduzioni, le quali soglion essere
utilissimo esercizio delle nuove lingue. Frà Guidotto da Bologna nel
_Fior di retorica_ vulgarizzò compendiando il libro ad Erennio; e —
conoscendo te e la tua gran bontade, alto Manfredi, lancia e re di
Cicilia, siccome a diletto e caro signore nell’aspetto de’ valenti
principi del mondo, essere sovra gli altri re grazioso, ho compilato
questo Fiore, nel quale, secondo il mio parere, voi potete avere
sufficiente ed adorno ammaestramento a dire in piuvico ed in privato».
Ma forse le molte traduzioni di quel tempo non sono dal latino, bensì
dal francese; e di là i romanzi, di là molte delle Cento Novelle,
dedotte dal monaco di Montalto.

Sono questi, che, usando del popolo le parole, ma combinandole secondo
l’ingegno naturale e la coltura propria, stabilirono il primato della
lingua toscana, contrastato indarno da coloro che vollero tenere di
Dante piuttosto le mal chiarite dottrine, che non gl’immortali esempj.
Esempj così grandiosi e inaspettati, ch’egli fu salutato qual creatore
non solo della poesia ma della lingua: mentre e dell’una e dell’altra
non fece che accogliere le tradizioni, accostandovi la fiaccola del
genio; tanto più mirabile quanto men colta era la restante Europa, e
scarsamente conosciuti gli antichi modelli.

Dimenticati questi, l’immaginazione avea preso due vie, delle idee
religiose e delle cavalleresche; e dalle prime era venuta una serie
di leggende, applicate a personaggi e tempi diversissimi, e che
costituivano una mitologia cristiana, di gran lunga men bella della
gentilesca, ma più morale ed efficace, e cui forma erano l’allegoria
e la visione. La cavalleria, portata in Europa colle crociate, ed
avvivata dall’alito di queste, avea partorito tutte quelle imprese
degli eroi della Tavola Rotonda e de’ paladini di Carlo Magno,
oppure vestito alla moderna i compagni di Alessandro Macedone, e
inventato genealogie delle Case regnanti e principalmente della
francese. In questi predominavano la satira e il grottesco, fosse nel
narrare imprese ridicole, fosse nell’esagerare le eroiche ed esporle
sogghignando. Trovammo pure i poeti storici, narrazioni sprovvedute di
fantasia.

Il sentimento individuale esprimevasi nella lirica, tutta d’amore; ma
se teneva forma leggera e spensata fra Provenzali e Francesi, in Italia
ben presto la assunse colta, divenne platonico e metafisico, tanto che
fu mestieri di commenti alle canzoni amorose[165]. Il sentimento e la
bellezza ne scapitavano; ma faticando ad esprimere quelle idee o ad
analizzarle, la lingua prendeva ampiezza e vigore.

Anche i tanti _fabliaux_ e poemi e romanzi in francese, in tedesco, in
provenzale, in italiano, erano rozzi di apparenza e scempj di concetto,
istintivi piuttosto che d’arte; nè era sorto chi (uffizio de’ poemi
primitivi) raccogliesse tutte le tradizioni viventi, le combinasse
colla scienza più raffinata del suo tempo, mescolasse la satira, la
storia, l’amore, la devozione e, forme loro, la lirica, il dialogo,
il racconto, l’allegoria; e culto, dogmi positivi, istituti civili,
fatti storici, speculazioni filosofiche e teologiche unisse mediante
il proprio genio, e coll’arte che sola può eternare le opere. Ciò fece
Dante con ingegno sommo ajutato dai casi.

Discendente (1265-1321) da un Cacciaguida, che erasi meritato il
paradiso crociandosi dietro all’imperatore Corrado, a nove anni
capitato coi parenti in casa di Folco de’ Portinai quando si
festeggiava il calen di maggio, vide Bice figlia di questo, la quale
«di tempo non trapassava l’anno ottavo, era leggiadretta assai, e
ne’ suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle
sue parole con più gravezza che la sua piccola età non richiedea. E
Dante così la ricevette nell’animo, che altro sopravvegnente piacere
la bella immagine di lei spegnere nè potè nè cacciare» (BOCCACCIO).
Sopra l’amata fanciulla cominciò egli a far versi, inviandoli, com’era
costume, ad altri poeti toscani, che o l’avranno dissuaso da una via
dove il prevedevano emulo, o donato di que’ compassionevoli conforti
che somigliano ad insulto. Chi si commove alla passion vera, sentirà
quant’egli e come l’amasse allorchè scriveva: — Questa gentilissima
donna venne in tanta grazia delle genti, che, quando passava per via,
le persone correano per veder lei; e quando fosse presso ad alcuno,
tanta onestà venia nel cuore di quello, che non ardìa di levare gli
occhi nè di rispondere al suo saluto. Ed ella coronata e vestita
d’umiltà s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedeva e
udiva. Dicevano molti, poichè passata era, _Questa non è femmina,
anzi è de’ bellissimi angeli del cielo_; ed altri dicevano, _Questa è
una meraviglia: che benedetto sia il Signore, che sì mirabilmente sa
operare!_ Io dico ch’ella si mostrava sì gentile, che quelli che la
miravano, comprendevano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che
ridire nol sapevano; nè alcuno era, lo quale potesse mirar lei, che nel
principio non gli convenisse sospirare»[166].

Bice si maritò in un de’ Bardi; ma ben presto (racconta esso poeta) «lo
Signore della giustizia chiamò questa nobile a gloriare sotto l’insegna
di quella reina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima
reverenza nelle parole di questa beata Beatrice». Dante, a cui, com’è
dell’anime passionate, parve tutto il mondo avesse a prender parte
al suo lutto, per lettera ne informò re e principi; poi, affine di
distrarsi, si affondò in solitarj studj, e promise seco stesso di «non
dir più di questa benedetta infintanto che non potesse più degnamente
trattar di lei»; e sperava dirne «quello che mai non fu detto
d’alcuna».

Gli amori suoi raccontò nella _Vita nuova_, il primo di quei libri
intimi alla moderna, dove uno analizza il sentimento e rivela le
recondite sue tribolazioni. Dettato troppo spesso con pretensione
erudita e scolastica aridità, qui e qua con semplice candore, come
di chi narra se stesso, e governata da una malinconia non arcigna,
Dante vi si mostra poeta più che in molte poesie; contempla Beatrice
nelle visioni, anche molt’anni dopo morta, e ne favella come fosse di
jeri. A tale entusiasmo voi sentite che non riuscirà uomo nè scrittor
vulgare: e se tanto soffriva per amore, che doveva essere quando vi
si unissero i patimenti politici, l’esiglio immeritato, e il cader con
indegni?[167].

Il profondo sentire lo spingeva a volersi cingere il cordone di
san Francesco, poi se ne distolse per mescolarsi ne’ parteggiamenti
cittadini: dai quali spinto fuor di patria, ideò e compì un’epopea
affatto differente dagli esempj classici, di cui aveva imperfetta
notizia. L’_Iliade_ esponeva le vicende guerresche; l’_Odissea_,
il vivere domestico de’ principotti greci; l’_Eneide_, la grandezza
di Roma. Questa Roma stessa avea Dante veduta quando, l’anno 1300,
centinaja di migliaja di pellegrini vi accorrevano al giubileo, mossi
da un unico pensiero, la salute dell’anima, eppur ciascuno portandovi
gli affetti, le passioni, le fantasie proprie. Il devoto entusiasmo
di tutta cristianità si accentrò nel poeta, il quale tolse a cantar
l’uomo, e come i suoi meriti in terra sono retribuiti nell’altro
mondo. Il dispetto verso gli uomini, l’aver toccato con mano le miserie
d’Italia, il conversare cogli artisti che allora, innovando la pittura,
gli davano esempio di nobili ardimenti, maturarono la vasta sua facoltà
poetica; e amore, politica, teologia, sdegno gli dettarono la _Divina
Commedia_, che, come l’epopea più ardita, così è l’opera più lirica di
nostra favella, giacchè nel canto egli trasfonde l’ispirazione propria,
l’entusiasmo onde ardeva per la religione, per la patria, per l’impero,
e gl’immortali suoi rancori.

Nel tempio, nel duomo eransi tutte le arti novamente congiunte,
com’erano state prima che il separarsi raffinasse le singole, a scapito
dell’universale espressione. Così Dante ripigliava l’epopea vera, che
comprendesse i tre elementi di racconto, rappresentazione, ispirazione,
i lanci dell’immaginativa e le speculazioni del raziocinio; toccasse
all’origine e alla fine del mondo; descrivesse terra e cielo, uomo,
angelo e demonio, il dogma e la leggenda, l’immenso, l’eterno,
l’infinito, colle cognizioni tutte dell’intelligenza sua e del popolo.
Laonde il suo poema riuscì teologico, morale, storico, filosofico,
allegorico, enciclopedico; pure coordinato a insegnar verità salutevoli
alla vita civile[168].

Il Boccaccio, di poco a lui posteriore, lasciò cadersi dalla penna
che scopo unico ne fosse il distribuir lodi o biasimo a coloro, di
cui la politica e i costumi reputava onorevoli o vergognosi, utili
o micidiali. Ridurre un sì vasto concetto alla misura di un libello
d’occasione! e forse era siffatta l’opinione de’ vulgari, soliti a non
veder che allusioni e attualità, perchè in fatto stanno racchiuse nelle
verità eterne, e in quella vastità dei generali che è il carattere
degl’ingegni elevati. Ma a gran torto s’appongono coloro che solo
un’allegoria politica vogliono trovare in un poema, cui poser mano
cielo e terra. Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel
_Prometeo_, che Shakspeare atteggiò nell’_Amleto_, che Faust cercò
risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werter coll’amore,
fu l’indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto
fra il niente e l’immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo, e
l’avvilimento di mali incessanti.

«L’autore, in quel tempo che cominciò questo trattato, era peccatore
e vizioso, ed era quasi in una selva di vizj e d’ignoranza; ma poichè
egli pervenne al monte, cioè al conoscimento della virtù, allora la
tribolazione e le sollecitudini e le varie passioni procedenti da
quelli peccati e difetti cessarono e si chetarono »[169]. Ciò fu _nel
mezzo del cammin della vita_ del poeta, quando il giubileo lo richiamò
a coscienza.

I poeti pagani sono pieni di calate all’inferno. I Padri cristiani non
insistettero sul descriverlo, e di volo vi passa sopra anche l’estatico
di Patmos; ma cresciuta la barbarie, parve si volessero rinforzare
i ritegni col divisare a minuto que’ fieri supplizj. Divenuto unico
sentimento comune il religioso, in centinaja di leggende ricomparivano
viaggi all’altro mondo. Pel pozzo di San Patrizio in Irlanda Guerrino
il Meschino scende a laghi di fiamme, ove l’anime si purgano: e
nell’inferno, disposto in sette cerchj concentrici un sotto l’altro,
in ciascuno dei quali è punito uno de’ peccati mortali, trova molte
persone conosciute: infine Enoch ed Elia lo elevano alle delizie
del paradiso, e risolvono i dubbj suoi[170]. Le lepide composizioni
del _Sogno d’inferno_ di Rodolfo di Houdan, e del _Giocoliere che
va all’inferno_, correano per le mani come espressioni di credenze
vulgatissime, e comuni ai popoli più lontani. In Italia principalmente
dovea essere conosciuta la visione d’Alderico, monaco a Montecassino
attorno al 1127, il quale dopo lunga malattia rimane nove giorni e nove
notti privo di sentimento; nel qual tempo, portato su ali di colomba e
assistito da due angeli, va nell’inferno, poi nel purgatorio, donde è
assunto ai sette cieli e all’empireo. Da tali credenze Brunetto Latini,
maestro di Dante, avea dedotto l’idea d’un viaggio, in cui dicevasi
salvato per opera d’Ovidio da una selva diversa, dove avea smarrito il
gran cammino[171].

Ben sarebbe meschino l’imputar Dante d’imitazione. Forse la Madonna col
bambino non è la stessa, sgorbiata dall’imbianchino del villaggio, e
dipinta da Rafaello? Dante vi era portato dai tempi e dalle credenze
universali; e il libro più comune e quasi unico del medio evo gli
somministrava queste allegorie, e le visioni, e perfino le tre fiere
che l’impediscono al cominciar dell’erta[172]. E talmente la visione è
forma essenziale dell’opera di Dante, che durò anche dopo lui morto, e
si disse che otto mesi dopo la tomba foss’egli apparso a Pier Giardino
ravignano per indicargli dove stessero riposti gli ultimi tredici canti
del poema, di cui in conseguenza la terza parte fu pubblicata solo
postuma.

La predilezione di Dante pei concetti simbolici trapela da tutte le
opere sue. Conobbe Beatrice a nove anni, la rivide a diciotto alla
nona ora, la sognò nella prima delle nove ultime ore della notte, la
cantò ai diciott’anni, la perdè ai ventisette, il nono mese dell’anno
giudaico; e questo ritorno delle potenze del numero più augusto
gl’indicava alcun che di divino[173], come il nome di lei parevagli
cosa di cielo, aggiuntivo della scienza e delle idee più sublimi; onde
la divinizzò come simbolo della luce interposta fra l’intelletto e la
verità.

Adunque Dante non poeteggia per istinto, ma tutto calcola e ragiona;
compagina l’uno e trino suo poema in tre volte trentatrè canti, oltre
l’introduzione, e ciascuno in un quasi ugual numero di terzine[174]; e
gli scomparti numerici cominciati nel bel primo verso (_nel mezzo_),
lo accompagnano per le bolge, pei balzi, pei cieli, a nove a nove
coordinati. Questo rispetto per la regola, questo _fren dell’arte_
che crea egli stesso e al quale pure si tiene obbligato, non deriva da
quell’amore dell’ordine, per cui vagheggiava la monarchia universale?

La mistura del reale coll’ideale, del fatto col simbolo, della storia
coll’allegoria, comune nel medio evo[175], valse all’Alighieri per
innestare nella favola mistica l’esistenza reale e casi umani recenti;
sicchè i due mondi sono il riflesso l’uno dell’altro, e Beatrice è la
donna sua insieme e la scienza di Dio, come dalle quattro stelle vere
son figurate le virtù cardinali, e dalle tre le teologiche.

Smarrito nella selva selvaggia delle passioni e delle brighe civili,
dalla letteratura e dalla filosofia, personificate in Virgilio, vien
Dante condotto per l’esperienza fin dove può conoscere il vero positivo
della teologia, raffigurata in Beatrice, alla cui vista, prima gioja
del suo paradiso, egli arriva traverso al castigo ed all’espiamento.
Al limitare dell’inferno, incontra gli sciagurati che vissero senza
infamia e senza lode, inettissima genia, chiamata prudente dalle
età che conoscono per unica virtù quella fiacca moderazione la quale
distoglie dall’_esser vivi_. Con minore acerbità sono castigati coloro,
di cui le colpe restano nella persona; e peggior ira del cielo crucia
quelli che ingiuriarono altrui. Così nel secondo regno si purgano le
colpe con pene proporzionate al nocumento che indussero alla società;
e a questo assunto sociale si riferiscono, chi ben guardi, le quistioni
che in quel tragitto presenta e discute il poeta, le nimistanze civili,
il libero arbitrio, l’indissolubilità dei voti, la volontà assoluta o
mista, come di buon padre nasca figlio malvagio, e come nell’eleggere
uno stato non devasi andare a ritroso della natura.

Erano tempi, ove, non conoscendosi i temperamenti dell’educazione,
tutto veniva spinto all’assoluto; e Dante ce li dipinge colla
credulità, coll’ira, la morale, la vendetta. Secondo è uffizio del
poeta, s’erge consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e
degli uomini, re dell’opinione: ma la mal cristiana rabbia onde tesse
l’orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all’interna
bellezza.

E bellezza sua originale è quella rapidità di procedere, per cui non
s’arresta a far pompa d’arte, di figure rettoriche, di descrizioni,
a ripetere pensieri altrove uditi; ma cammina difilato alla meta,
colpisce e passa. Insigne nel cogliere o astrarre i caratteri degli
enti su cui si fissa, egli è sempre particolare nelle dipinture; vedi
i suoi quadri, odi i suoi personaggi. Libero genio, adopera stile
proprio, tutto nerbo e semplicità, con quelle parole rattenute che
dicono men che il poeta non abbia sentito, ma fanno meglio intravvedere
l’infinito, acciocchè ne cerchiamo il senso in noi medesimi. La forza
e la concisione mai non fecero miglior prova che in questo poema,
dove ogni parola tante cose riassume, dove in un verso si compendia
un capitolo di morale[176], in una terzina un trattato di stile[177];
e in eleganti versi si risolvono le quistioni più astruse, come la
generazione umana, e l’accordo fra la preveggenza di Dio e la libertà
dell’uomo, le quali non apparivano fin là che nell’ispido involucro
dell’argomentazione scolastica[178]. Ond’è che Dante opera sul lettore
non tanto per quel che esprime quanto per quel che suggerisce; non
tanto per le idee che eccita direttamente, quanto per quelle che
in folla vengono associarsi alle prime. Capirlo è impossibile se
l’immaginazione del lettore non ajuti quella dell’autore: egli schizza,
lasciando che il lettore incarni; dà il motivo, lasciando a questo il
trovarvi l’armonia, il quale esercizio dell’attività lo fa sembrare più
grande.

Ma egli non è un autor da tavolino; _fa parere la sua nobiltà_
scrivendo ciò che vide; laonde con libero genio, non teme la critica,
pecca di gusto, manca della pulitura qual richiedono i tempi forbiti;
e intese la natura dello _stil nuovo_, che non può reggersi colla
indeclinabile dignità degli antichi: ma, come nella società, mette
accanto al terribile il ridicolo; donde quel titolo di Commedia[179].

Dell’introdurre tante questioni scolastiche nol vorrò difendere io;
ma, oltrechè è natura de’ poemi primitivi il raccorre e ripetere
tutto quanto si sa, se oggi appaiono strane a noi disusati, allora
si discuteano alla giornata, ed ogni persona colta avea parteggiato
per l’una o per l’altra, non altrimenti che oggi avvenga delle
disquisizioni politiche.

Neghi chi vuole, ma il maggior difetto di Dante resterà
l’oscurità[180]. Locuzioni stentate, improprie; voci e frasi inzeppate
per necessità di rima; parole di senso nuovo; allusioni stiracchiate,
o parziali, o troppo di fuga accennate; circostanze effimere e
municipali, poste come conosciute e perpetue, l’ingombrano sì, che
Omero e Virgilio richiedono men commenti; e tu italiano sei costretto a
studiarlo come un libro forestiere, alternando gli occhi fra il testo
e le chiose; e poi trovi concetti che, dopo volumi di discussioni,
non sanno risolversi. Vero è che quel fraseggiare talmente s’incarna
col modo suo di concepire e di poetare, da doverlo credere il più
opportuno a rivelar l’anima e i pensamenti di esso. Anzi si direbbe
che l’allettativo di Dante consista in una virtù occulta delle parole,
le quali devono essere disposte a tal modo nè più nè meno; movetele,
cambiate un aggettivo, sostituite un sinonimo, e non son più desse: ha
versi senza significato, e che pure tutti sanno a memoria: udite que’
terzetti quali stanno, ed eccovi la vanità divien persona, e presente
il passato, e figurato l’avvenire.

Con sì stupendi cominciamenti rivelavasi la nostra lingua. Dante nella
_Vita nuova_ avea riprovato coloro «che rimano sopra altra materia
che amorosa; conciossiachè cotal modo di parlare (l’italiano) fosse da
principio trovato per dire d’amore». Ma nelle trattazioni civili ebbe a
riconoscere la forza del vulgar nostro, e come «la lingua dev’essere un
servo obbediente a chi l’adopera, e il latino è piuttosto un padrone,
mentre il vulgare a piacimento artificiato si transmuta»; onde nel
_Convivio_ diceva: — Questo sarà luce nuova e sole nuovo, il quale
sorgerà ove l’usato (il latino) tramonterà, e darà luce a coloro che
son in tenebre e in oscurità per lo usato sole che loro non luce».

Frate Ilario, priore del monastero di Santa Croce del Corvo nella
diocesi di Luni, dirigendo la prima cantica a Uguccione della Faggiuola
così gli scrive: — Qui capitò Dante, o lo movesse la religione
del luogo, o altro qualsiasi affetto. Ed avendo io scorto costui,
sconosciuto a me ed a tutti i miei frati, il richiesi del suo volere
e del suo cercare. Egli non fece motto, ma seguitava silenzioso
a contemplare le colonne e le travi del chiostro. Io di nuovo il
richiedo che si voglia e chi cerchi; ed egli girando lentamente il
capo, e guardando i frati e me, risponde, _Pace!_ Acceso più e più
della volontà di conoscerlo e sapere chi mai si fosse, io lo trassi
in disparte, e fatte seco alquante parole, il conobbi: chè, quantunque
non lo avessi visto mai prima di quell’ora, pure da molto tempo erane
a me giunta la fama. Quando egli vide ch’io pendeva della sua vista,
e lo ascoltavo con raro affetto, e’ si trasse di seno un libro, con
gentilezza lo schiuse, e sì me l’offerse dicendo: _Frate, ecco parte
dell’opera mia, forse da te non vista; questo ricordo ti lascio, non
dimenticarmi_. Il portomi libro io mi strinsi gratissimo al petto,
e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le
parole vulgari, e mostrando per l’atto della faccia la mia meraviglia,
egli me ne richiese. Risposi ch’io stupiva egli avesse cantato in
quella lingua, perchè parea cosa difficile e da non credere che quegli
altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo;
nè mi parea convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a
quel modo plebeo. Ed egli: _Hai ragione, ed io medesimo lo pensai; e
allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo,
presero a germogliare, scelsi quel dire che più n’era degno; nè
solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:_

    _Ultima regna canam fluido contermina mundo,_
    _Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt_
    _Pro meritis cuicumque suis._

_Ma quando pensai la condizione dell’età presente e vidi i canti
degl’illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per
servigio de’ quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono
ahi dolore! le arti liberali a’ plebei; allora quella piccioletta
lira onde m’era provveduto, gittai, ed un’altra ne temprai conveniente
all’orecchio de’ moderni, vano essendo il cibo ch’è duro apprestar a
bocche di lattanti_».

Di fatto l’Alighieri osò adoprare l’italiano a descriver fondo a
tutto l’universo; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà d’una
lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime;
se non fissolla, la determinò, _e mostrò ciò che potea_. Togli le
voci dottrinali, o quelle ch’egli creava per bisogno o per capriccio
(avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola,
o la parola alla rima)[181], le altre sue son quasi tutte vive. Se,
come alcuno fantastica, egli fosse andato ripescandole da questo o
da quel dialetto, avrebbe formato una mescolanza assurda, pedantesca,
senza l’alito popolare che solo può dar vita. Forse le prose e i versi
de’ suoi contemporanei, quanto a parole, differiscono da’ suoi? Nato
toscano, non ebbe mestieri che di adoperare l’idioma materno; e le
voci d’altri dialetti che per comodo di verso pose qua e là, sono in
minore numero che non le latine o provenzali, a cui non per questo
pretese conferire la cittadinanza. Irato però alla sua patria, volle
predicare teoriche in perfetto contrasto colla propria pratica; e
nel libro _Della vulgare eloquenza_ (dettato in latino per una nuova
contraddizione), dopo aver ragionato dell’origine del parlare[182],
della divisione degli idiomi e di quelli usciti dal romano, che sono
la lingua d’_oc_, la lingua d’_oui_ e la lingua di _sì_, riconosce in
quest’ultima quattordici dialetti, simili a piante selvaggie, di cui
bisogna diboscare la patria. E prima svelle il romagnolo, lo spoletino,
l’anconitano, indi il ferrarese, il veneto, il bergamasco, il genovese,
il lombardo, e gli altri traspadani _irsuti ed ispidi_, e _i crudeli
accenti_ degli Istrioti; dice «il vulgare de’ Romani, o per dir
meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i vulgari
italiani, e non è meraviglia, sendo ne’ costumi o nelle deformità degli
abiti loro sopra tutti puzzolenti»; dice che Ferrara, Modena, Reggio,
Parma non possono aver poeti, in grazia della loro loquacità[183].
Insomma lascia trasparire che quel che meno gl’importa è la questione
grammaticale; ma sovratutto condanna i Toscani perchè _arrogantemente
si attribuiscono il titolo del vulgare illustre_, il quale, a dir suo,
«è quello che in ciascuna città appare ed in niuna riposa; vulgare
cardinale, aulico, il quale è di tutte le città italiane, e non pare
che sia in niuna; col quale i vulgari di tutte le città d’Italia
si hanno a misurare, ponderare e comparare». Per disservire questa
patria, ne _depompa_ il linguaggio; i dialetti disapprova quanto più
s’accostano al fiorentino; eppure insulta ai Sardi perchè dialetto
proprio non hanno, ma parlano ancora latino: loda invece il siciliano,
dicendo che così si chiama l’italiano e si chiamerà sempre; eppure
all’ultimo capitolo mette che il parlar nostro, _quod totius Italiæ
est, latinum vulgare vocatur_; e semprechè gli cade menzione del parlar
suo o del comune italiano, lo chiama vulgare, o parlar tosco, o latino,
e neppure una volta siciliano.

A rinfianco del suo sofisma reca poche voci di ciascun dialetto, prova
inconcludentissima; e versi di poeti di ciascuna regione, lodando
quelli che si applicarono a cotesta lingua aulica, riprovando quelli
che tennero la popolare, massimamente i Toscani. Nulla men giusto che
tali giudizj, e basta leggere anche solo le poesie da lui addotte,
per vedere che le toscane popolesche sono similissime alle cortigiane
d’altri paesi: donde deriva che il cortigiano d’altrove, cioè lo
studiato, era il naturale e vulgato di Firenze[184].

Malgrado i commenti di eruditissimi, o forse in grazia di quelli, io
non so se meglio di me altri sia riuscito a cogliere l’assunto preciso
di Dante in questo lavoro; tanto spesso si contraddice, tanto esce
ne’ giudizj più inattesi. Chi volesse vedervi qualcosa più che un
dispetto di fuoruscito, potrebbe supporre che i dotti avesser mostrato
poco conto della sua Commedia, perchè scritta nella lingua che egli
avea dalla balia, senza i pazienti studj che richiedeva il latino;
quindi egli tolse a mostrare che nessun dialetto è buono a scrivere,
ma da tutti vuolsi scernere il meglio. E qui v’è parte di verità: chè
chi voglia formare un mazzo, non coglie tutti i fiori d’un giardino,
ma i più belli; e quest’arte del _crivellare_ e dello scriver bene
non può impararsi se non da chi bene scrive, nè a questi è prefisso
verun paese. Ma il giardino dove trovare i fiori più abbondevoli e
genuini, qual sarà se non la Toscana? e di fatto egli confessa che
fin d’allora _non solo l’opinione dei plebei, ma molti uomini famosi_
attribuivano il titolo di vulgare illustre al fiorentino; nel che dice
_impazzivano_, egli che pur credea necessario dare per fondamento alla
lingua scritta un dialetto, benchè lo sdegno gli facesse ai Fiorentini,
_obtusi in suo turpiloquio_, preferire sino il disavvenente bolognese;
egli che asseriva il latino dovere scriversi per grammatica, ma il
_bello vulgare seguita l’uso_.

Nella scarsa metafisica d’allora, confondeva la lingua collo stile,
giacchè è affatto vero che, adottando quella dei Fiorentini, bisognava
poi aggiungervi l’ingegno e l’arte perchè divenisse colta; e poichè
a ciò serve non poco l’usare con chi ben parla e ben pensa, Bologna
per la sua Università offriva campo a migliorar lo stile, più che
non la mercantesca Firenze. L’appunteremo noi se non seppe fare una
distinzione, la cui mancanza offusca anc’oggi i tanti ragionacchianti
in siffatta quistione? Al postutto egli non argomenta della lingua in
generale, ma di quella che s’addice alle canzoni: lo che dovrebbero non
dimenticare mai coloro che vogliono di Dante fiorentino far un campione
contro quel fiorentino parlare, ch’egli pose in trono inconcusso.

Altri versi dettò, e massime canzoni amorose, delle quali poi fece un
commento nel _Convivio_, fatica mediocre, dove maturo tolse a indagar
ragioni filosofiche a sentimenti venutigli direttamente da vaghezze
giovanili, e vorrebbe che per amore s’intendesse lo studio, per donna
la filosofia, per terzo cielo di venere la retorica, terza scienza del
trivio; per gli angeli motori di questa sfera, Tullio e Boezio unici
suoi consolatori. Ivi esprime di valersi dell’italiano «per confondere
li suoi accusatori, li quali dispregiano esso, e commendano gli altri,
massimamente quello di lingua d’oc, dicendo ch’è più bello e migliore
di questo»: eppure altrove soggiunge «molte regioni e città essere più
nobili e deliziose che Toscana e Firenze, e molte nazioni e molte genti
usare più dilettevole e più utile sermone che gli Italiani». Locchè
vedasi se a que’ tempi potea dirsi con giustizia.

Quella che l’Alighieri creò veramente, è la lingua poetica, che
fin ad oggi s’adopera con più o men d’arte, ma sempre la stessa, e
per la quale sin d’allora egli era cantato fin nelle strade[185].
La sua prosa invece è povera d’artifizio, pesante, prolissa, con
clausole impaccianti, periodi complicati. Quanto più doveva essere ne’
coetanei suoi, eccetto que’ Toscani che s’accontentassero di usarla
nell’ingenuità natìa? Pure la prosa su que’ primordj va più originale
che non divenisse in man di coloro i quali di poi vollero applicarvi la
costruzione latina.

Doveva l’eloquenza ingrandire fra’ pubblici interessi: ma quel gran
sintomo dello sviluppo di un popolo, la potenza politica della parola,
il talento applicato a governar le nazioni, non ad esilarare gli
spiriti, rimase impacciato dall’inesperienza delle lingue. I pochi
discorsi riferiti dagli storici non mostrano aspetto d’autenticità;
pure sappiamo che, uniformandosi alle consuetudini scolastiche, gli
oratori di tribuna si appoggiavano a un testo, sovente plebeo, e su
quello ragionavano senz’arte. Farinata degli Uberti, quando, dopo
la battaglia dell’Arbia, si alzò a viso aperto contro la proposta di
distruggere Firenze, prese per testo due triti proverbj: — Come asino
sape, così minuzza rape. Si va la capra zoppa, se lupo non la intoppa».
E san Francesco predicando a Montefeltro, tolse un altro motto
vulgare: — Tanto è il ben che aspetto, che ogni pena m’è diletto».
Que’ predicatori che traevansi dietro le moltitudini, spingevanle alla
guerra e, ch’è più mirabile, alla pace, li trovi rozzi e inordinati
raccozzatori di scolastiche sottigliezze o di mistiche aspirazioni,
lardellati di testi scritturali e di trascinate allusioni, dividendo
e suddividendo a modo dialettico, senz’ombra di genio e rado di
sentimento. Predicavano forse in latino rustico, e a tanta folla che a
ben pochi era dato di sentirli e a meno d’intenderli, sicchè i cronisti
ricorrono al miracolo. E davvero l’efficacia portentosa va attribuita
al concetto di loro santità, e alla persuasione con cui parlavano, e
che facilmente trasfondesi in chi ascolta.



CAPITOLO CII.

Ingerenza francese. — I Vespri siciliani, e la guerra conseguente.


Parve la parte guelfa avesse confitto la ruota della fortuna al cadere
degli Svevi e al piantarsi Carlo d’Angiò nelle Due Sicilie (Cap. XCII).
Questo avea tributarj il bey di Tunisi e molte città del Piemonte,
ligie quelle della Romagna e della Lombardia; vicario della Toscana,
governator di Bologna, senatore di Roma, protettore degli Estensi e
perciò della marca Trevisana; arbitro de’ papi e del re di Francia
suo nipote; da Baldovino II, imperatore spodestato di Costantinopoli,
si fa cedere i titoli sull’Acaja e la Morea; il regno di Gerusalemme
da Maria figlia di Boemondo IV d’Antiochia; da Melisenda, il regno di
Cipro; titoli vani, ai quali sperava ottener realtà facendo dai papi
scomunicare Michele Paleologo imperatore bisantino, e allestendo grosse
armi per isbalzarlo.

Nel Regno egli non mutò gran fatto della costituzione, conservando i
pesi e i freni che la robusta mano di Federico II e i bisogni della
guerra v’aveano introdotto; migliorò Napoli di edifizj, fra’ quali il
Castel Nuovo per assicurar l’accesso al mare, il duomo, Santa Maria
la Nuova con ampio monastero di frati Minori; San Lorenzo, eretto
sul Palazzo del Comune, da lui abbattuto; fece lastricare le vie
interne; favorì l’Università attribuendole un giustiziere proprio,
e determinando i prezzi degli oggetti di consumo per gli scolari,
cui esentò dalle gabelle. Estese l’usanza di far cavalieri in tutte
le solennità, e con quest’onore si amicò alcuni popolani grassi,
come molti signori francesi col distribuir loro i feudi sottratti ad
amici degli Svevi. Soltanto gentiluomini, o notevoli per ricchezza o
per senno ammise nei _seggi_, ristretti ai cinque di Capuana, Nido,
Montagna, Porto, Portanuova; i quali gareggiarono a fabbricare nel
proprio quartiere palazzo e teatro; nominavano ciascuno cinque o sei
capitani annui, che potessero convocare i nobili per qualunque pubblico
affare; e gli Eletti, che governavano la città insieme coll’Eletto
della piazza del Popolo. I parlamenti, che si accoglievano or qua or
là, allora furono fissati a Napoli, e v’intervenivano la più parte de’
baroni, i sindaci di tutto il regno, e i due ordini de’ nobili e della
plebe; i prelati soltanto in qualità di baroni.

Ma la nobiltà antica prendeva in dispetto la nuova; le sventure della
dinastia caduta convertirono l’odio in compassione; il popolo fremeva
ai supplizj di coloro che non erano stati tanto vili da rinnegare
gli antichi benefattori. I baroni, che soleano retribuire soltanto un
donativo ne’ casi preveduti dal diritto feudale, cioè per invasione
del paese, prigionia del re, nozze della sua figliuola o sorella,
e nell’ornar cavaliere lui o suo figlio, erano stati sottomessi da
Federico a gravezze regolari, mantenute o aumentate da Manfredi pel
bisogno della guerra; e se Carlo avea promesso esoneraneli, si giovò
del favore mostrato a Corradino per mancare agli accordi.

Ragioni di popoli e ragioni della Chiesa aveva egli a rispettare,
ed entrambe violò. Alla santa Sede avea giurato abolire le esazioni
arbitrarie inventate dagli Svevi, e ripristinare le immunità come
al tempo di Guglielmo il Buono; poi, per ambizione ed avarizia e per
soddisfare l’esercito, introduceva sottigliezze fiscali, tasse sopra
ogni minimo consumo; e se non trovasse pubblicani, obbligava qualche
ricco a pigliarne l’appalto, come per forza dava in socida i beni del
regio dominio, stabilendo a sua discrezione il fitto; estendeva le
bandite per la caccia, ripristinava i servizj di corpo, di carri, di
navi; arrogavasi ragioni di acque: la prigione era spalancata per ogni
ritardo, per ogni richiamo, pur beato chi potesse fuggire, lasciando
incolto il campo, deserta la casa, che talora veniva diroccata. Pose
in corso la moneta scadente del carlino, minacciando chi la ricusasse
di marchiarlo in fronte colla moneta stessa rovente[186], e producendo
scompigli nelle private contrattazioni. Che diremo dei delitti di
maestà, delle fiere procedure per sospetti, del proibire che i figli
de’ rei di Stato non potessero accasarsi senza licenza del re?[187]
Il quale pure o gli eredi di pingui feudi condannava al celibato, o le
ricche ereditiere maritava co’ suoi stranieri.

Ad esempio di lui soprusavano i ministri, smungeano denaro per ogni
occasione, rubavano, poi otteneano connivenza spartendo col re; sopra
gente avvezza alle franchigie normanne e alla cortesia sveva, si
comportavano con quella sbadata insolenza, per cui i Francesi in Italia
non seppero farsi amare se non quando non vi sono.

Più castigata fu la Sicilia quanto più dagli Svevi favorita; fraudata
de’ privilegi, posta in dipendenza da Napoli, abbandonata a magistrati
violenti o avari, a giustizieri che angariavano le città e le coste; e
col pretesto della crociata, smunta con sempre più gravi imposizioni;
dei baroni, molti spogliati, molti ritiraronsi ne’ castelli montani.
Tutti dunque sospiravano un’occasione di svelenirsi, e se la
promettevano dallo sgomento che Carlo eccitava ne’ potentati. Le città
del Piemonte, messesi a signoria di lui, se ne riscossero, sollecitate
da Guglielmo VI marchese di Monferrato, e dai Genovesi che spesso nel
Mediterraneo sconfissero la flotta provenzale. Michele Paleologo, che
aveva usurpato e risanguato l’impero d’Oriente, vedeva con sospetto
i preparativi di Carlo. E i popoli, ridotti a non avere speranza che
nella rivoluzione, s’immaginano d’esservi ajutati da tutti i nemici del
loro tiranno.

La leggenda, che sbizzarrì sui fatti di quel tempo, racconta come
radunasse in sè i dolori, le passioni, gli anatemi della sua patria
Giovanni da Prócida, nobile medico salernitano, che, privato de’ suoi
beni come creatura degli Svevi[188], con odio infaticabile girò per
tutta Europa cercando nemici agli Angioini: aggiunge ch’egli avesse
raccolto il guanto che Corradino gettò dal patibolo, e recatolo a
Pietro III re d’Aragona, il quale, per la moglie Costanza, figliuola
di Manfredi e cugina di quello, poteva (dicono essi) pretendere alla
successione di lui. Fatti incerti: ma potrebbe darsi che Pietro
adoprasse alle sue aspirazioni questo Procida, il quale era stato
medico di Federico II e cancelliere di Manfredi, poi dei primi a fare
omaggio a Carlo d’Angiò, e che forse s’indettava coi baroni siciliani,
non per redimersi in libertà, ma per mutare padrone. Al re d’Aragona,
signore di piccolo Stato, ma di valore ed ambizion grande e voglioso
di vendicare il suocero, non potea che piacere un tale acquisto; ma
Corradino avrebbe mai pensato a trasmettere la sua eredità al genero
di colui che glie l’aveva usurpata? Il fatto sta che, «come vuolsi a
buona guerra, l’Aragonese erasi preparato con amistà, denari, segreto»
(MONTANER); e concertatosi coll’imperatore di Costantinopoli, dava voce
di voler sbarcare contro i Mori d’Africa; e a chi tentava succhiellarne
di più, rispondeva: — Tanto mi preme questo segreto, che se la mia
destra il sapesse, la mozzerei colla sinistra».

Il prendere la Sicilia era tutt’altro che facile, dove erano
quarantadue castelli regj, pronte alla chiamata le truppe feudali,
disposti grossi armamenti per l’impresa di Levante. Il popolo poi,
men tosto che al re d’Aragona, volgea gli sguardi al pontefice, come
quello che poteva da Carlo ripetere le liberali convenzioni giurate.
Clemente IV l’aveva ammonito più volte con norme, che beato il re e
i popoli se le avessero osservate: — Chiama i baroni, i prelati, i
migliori delle città, esponi ad essi i bisogni tuoi, e col loro assenso
determina i sussidj. Di questi poi e de’ diritti tuoi sta contento;
del resto lascia liberi i sudditi: ordina col tuo parlamento in quali
casi tu possa richiedere la colletta ai vassalli e ai baroni»[189].
Gregorio X, che per ismania della crociata voleva la pace, blandiva
l’antico campione della Chiesa, ed erasi limitato a doglianze mansuete
e inesaudite; non che secondare le ambizioni di Carlo sull’impero
greco, sudò anzi a riconciliare quella Chiesa colla latina; e rimase
tradizione popolare che Carlo avvelenasse san Tommaso d’Aquino mentre
andava al concilio ecumenico di Lione, ove lo temeva avverso a’ suoi
divisamenti[190].

I tre pontificati brevissimi (1276-77) che succedettero (Innocenzo V,
Adriano V, Giovanni XXI) nulla innovarono; ma Nicola III degli Orsini,
uomo altero e volente la liberazione d’Italia forse per ingrandirne la
propria famiglia, adoperò con senno e cuore per rimetter pace, e mandò
Latino cardinale d’Ostia a sedare le maledette parti. A Firenze, ove si
combattevano Adimari e Donati, Tosinghi e Pazzi, dopo datosi attorno
per quattro mesi, il cardinale raccolse tutti davanti a Santa Maria
Novella, messa a fiori e gale, e indusse a darsi il bacio della pace,
bruciar le sentenze ottenute, restituire i beni e unirsi con matrimonj;
insieme rimpatriò i Ghibellini esigliati.

Più ammalignavano le nimicizie in Bologna. Quivi Imelda de’ Lambertazzi
avendo accolto in casa Bonifazio della nemica famiglia de’ Geremei, i
fratelli di essa lo colpirono d’un pugnale avvelenato. La fanciulla
credè salvarlo col succhiarne la ferita, ma contrasse ella pure il
veleno, e morì coll’amante. La pietà pei due infelici esacerbò gli
odj, si pugnò in città e fuori per sessanta giorni, infine i Geremei
prevalsi cacciarono ben dodicimila cittadini. Questi, rifuggiti a
Faenza e Forlì, menarono lunghe ostilità, finchè esso cardinale
Latino riuscì a farli ripristinare nella patria e negli onori,
abolendo le società popolari, tizzoni di discordia, e sulla piazza
solennemente parata, davanti a molti vescovi, fu sui vangeli giurata
la pace, sottoscritta da trentotto famiglie ghibelline, e cenventinove
guelfe[191]. Poco dopo i Lambertazzi ripigliarono le offese; o
almeno ne gli incolparono i Geremei, che gli espulsero di nuovo e ne
demolirono i palazzi.

Nicola III fu de’ pontefici più magnifici; tolse a rifabbricare la
basilica di San Pietro, e vicino a quella il palazzo Vaticano, munito
a guisa di città, e un altro a Montefiascone; ai parenti largheggiò
prelature e signorie, e fu sin dubitato che, per ingrandirli,
distraesse il denaro destinato per Terrasanta. Appoggiato a quelli,
aspirava alla capitananza d’Italia; e dicono chiedesse una figlia
di Carlo d’Angiò per un suo parente e dal superbo francese n’avesse
risposta: — Perchè egli porta calzari rossi, presumerebbe mescere il
sangue degli Orsini con quello di Francia?» Ne indispettì Nicola, e
per ostare a Carlo fece nominar se stesso senatore di Roma, proibendo
di più mai portare alcun re a quella dignità; elesse molti cardinali
italiani; mandò assolvere i tanti scomunicati che i più erano
Ghibellini; aveva anche in concetto di dividere l’impero in quattro
regni ereditarj: quel di Germania per la discendenza mascolina di
Rodolfo; quello d’Arles a Clemenza figlia di lui, maritata in Carlo
Martello; la Lombardia e la Toscana a due nipoti del papa.

Quali ne sarebbero state le conseguenze? non distruggevasi così
quell’impero elettivo, di cui si compiacevano come di gloriosa
creazione i suoi predecessori? e v’è diritto di spartire per tal
maniera i popoli, ed assegnarli come un retaggio? e sovratutto sarebbe
ciò stato possibile? — Nicola ne fece la proposizione a Rodolfo
d’Habsburg, ma la morte (1280) interruppe il trattato[192] e la sua
breve e vigorosa amministrazione.

Carlo vide l’importanza d’avere un papa suo, onde prepotentemente
cacciò i tre cardinali di casa Orsini, gli altri fe chiudere a
pane e acqua; e d’accordo cogli Annibaldeschi, portò alla tiara il
francese Martino IV (1281). Questo lo ripagò col buttarsi interamente
agli interessi di lui, rinominollo senatore di Roma, scomunicò il
Paleologo, e mentre il predecessore avea sudato per tenere in pace
Guelfi e Ghibellini, egli cercò sempre la preponderanza dei Guelfi,
all’uopo abusando delle armi spirituali. Guerreggiò Forlì, ricovero
de’ cacciati di Bologna, non solo ponendo all’interdetto tutta la
città, ma volendo che i beni de’ Forlivesi, côlti in qual si fosse
paese, cadessero nel fisco papale: fatto nuovo, dappoi spesso imitato.
Mandarono essi implorar perdono, ma egli no, se prima non cacciassero
tutti i forestieri. I fuorusciti di Bologna lo pregarono, — Assegnateci
un luogo dove ricoverare, giacchè dalla patria siamo espulsi»; e
neppur tanto ottennero. Ma Giovanni d’Appia, creatura di re Carlo
e fatto conte di Romagna, che spingeva quella guerra ajutato dai
denari raccolti per la crociata, toccò grave sconfitta dai Forlivesi,
comandati da Guido di Montefeltro.

Un tal pontefice poteva aver orecchie disposte alle suppliche de’
Siciliani? anzi gittò prigioni il vescovo e il frate da loro deputati
a portargli lagnanze. Ne imbaldanziva la francese tracotanza, e i
Siciliani taciti e torvi aspettavano i tempi; quando privati oltraggi
fecero che l’impeto popolare de’ Siciliani prevenisse le ambizioni
de’ re e le brighe dei baroni. La terza festa di Risurrezione del
1282, mentre i Palermitani pasquavano a vespro alla chiesa di Santo
Spirito, mezzo miglio dalla città, Drouet soldato francese, sott’ombra
di cercare se portasse armi nascoste, frugò una nobile fanciulla; i
parenti di lei se ne risentono, e lo uccidono; i Francesi vogliono
vendicarlo, ma periscono quanti sono: il grido di _Mora, mora_ si
diffonde; Ruggero Mastrangeli incora, e grida alla strage di chiunque
non sa proferir _ciciri_; non altare li difende, non l’ordine sacro o
la cocolla, non sesso o puerizia: nei giorni seguenti per tutta l’isola
e per gl’invano difesi castelli e ne’ boscosi nascondigli si dilata
la carnificina, della quale si dimenticò l’orrore per farne lezione ai
regnanti. Solo Guglielmo Porcelet, feudatario di Calatafimi, uom giusto
e umano, fu salvo e rinviato in patria.

Il popolo, che nulla sapeva di trame d’Aragona, e che soleva associare
l’idea di chiesa a quella di libertà, fermò di reggersi a comuni
tra loro confederati e sotto la protezione del papa, di cui alzò la
bandiera, e dava i suoi atti «al tempo del dominio della sacrosanta
romana Chiesa e della felice repubblica, anno primo». Ma papa Martino
montò in estremo furore, e quando alcuni frati vennero da Palermo,
inginocchiandoseli colle mani sul petto, e intonandogli _Agnus Dei qui
tollis peccata mundi, miserere nobis_, l’irato rispose pur col vangelo:
_Dicebant, ave rex Judeorum, et dabant ei alapam_. Poscia «ai perfidi
e crudeli dell’isola di Sicilia, corrompitori di pace e ucciditori di
cristiani» intimò dovessero a lui pontefice e a Carlo signor legittimo
sottomettersi, se no «li metteva scomunicati e interdetti secondo la
divina ragione».

Adunque i Siciliani aveano distinto saviamente le ragioni della propria
libertà da quelle della Chiesa: Martino confondendole costringeva i
popoli ad osteggiare la Chiesa, la quale non potendo rinunziare alla
sua supremazia sovra la Sicilia, trovavasi incaricata di vendicare
l’Angioino, e farsi complice de’ passati eccessi di lui.

Carlo, tra dolore e rabbia inteso il fatto, s’affrettò a riversare
sui subalterni ogni colpa del mal governo, e dar provvedimenti, ai
quali anche allora i popoli rispondeano col fatale _Troppo tardi_.
Pure egli trovavasi in pronto grossi apparecchiamenti di terra e
di mare, destinati contro la Grecia[193]; sicchè facilmente avrebbe
potuto rimettere all’obbedienza una provincia senza tesoro nè arsenali
nè capitani, e che se gli proferiva purchè si contentasse di quanto
esigeva re Guglielmo il Buono, e negl’impieghi non mettesse Francesi
nè Provenzali. Egli ricusò togliergli a misericordia; onde anch’essi
fecero raunata di gente e di moneta, e l’odio profondo, il timore delle
punizioni, l’ardore d’una vendetta nazionale li mutarono in eroi.

Il popolo, attissimo a far rivoluzioni, è poi incapace a sistemarle
(1282); e i baroni poterono trarre a sè la direzione d’una impresa
non cominciata da essi: e come avviene quando alcuno ha un disegno
predisposto a fronte di chi non n’ha veruno, i partigiani d’Aragona
invitarono re Pietro, il quale sbarcò a Palermo e si cinse la corona
dei re normanni.

Ruggero di Lorìa, calabrese ribelle, grandissimo di valore e d’ardire,
come di fortuna ed efferatezza, eletto suo almirante, sorprendeva
Carlo dinanzi all’assediata e intrepida Messina[194], e ne bruciava il
navile, preparato con tanta spesa e fatica; il che udendo questi, morse
lo scettro esclamando: — Signor Iddio, molto m’avete elevato; piacciavi
almeno che il mio calare sia a petitti passi» (VILLANI).

Per questa insperabile vittoria e per l’eroismo di Messina fallì
dunque a Carlo quel primo impeto di vendetta; e tra per bizzarria
cavalleresca, tra per guadagnar tempo, appellò traditore Pietro, e per
araldi sfidollo a battaglia singolare con cento cavalieri e col patto
che il soccombente perdesse non solo le ragioni sulla Sicilia, ma anche
sul proprio patrimonio, e fra i gentiluomini passasse per ricreduto
e traditore. Era questo un richiamo ai non ancora dismessi giudizj
di Dio: i due re giurarono sul vangelo di darsi soddisfazione, e dal
re d’Inghilterra ottennero campo franco a Bordeaux[195]. Carlo vi si
condusse, ma l’Aragonese trovò pretesti per non mettere alla ventura
d’un colpo di stocco un bel regno ciuffato; e lasciando che l’emulo lo
tacciasse a gran voce di fellone, si fe intitolare «Pietro d’Aragona,
cavaliere, padre di due re, e signore del mare»; e combattendo sì nelle
acque nostre, sì nelle spagnuole (1284), ebbe la fortuna propizia, sino
a far prigioniero Carlo il Zoppo, figlio del suo nemico. Il papa, che
avea chiarito l’Aragonese scomunicato e spergiuro, decaduto dal regno
avito e da ogni onore, spedì a chiedere la costui liberazione; ma i
Siciliani, irridendo gl’interdetti, voleano sacrificarlo in espiazione
del sangue di Manfredi e Corradino: irruppero anche a Messina sulle
prigioni ove stavano rinchiusi i Francesi, e non potendo altrimenti
averli, vi misero il fuoco. La regina Costanza fece dire a Carlo si
preparasse a morire domani venerdì; ed esso: — M’è lieto di morire
nel giorno in cui è morto Cristo». Il pio ricordo tornò in mente alla
sdegnata che Cristo avea perdonato, ed essa pure campò la vita a quel
nemico.

Indispettito da questo colpo, dalle sconfitte, e dall’udir Napoli
gridare _Muoja re Carlo_, come sogliono le plebi ai re vinti,
l’Angioino voleva mandar a fuoco la propria capitale, se non si
fosse interposto il legato apostolico; pure fece impiccare più di
cencinquanta cittadini. A Brindisi poi allestì un nuovo armamento,
ma appena usciva, la tempesta glielo rovinò; e Carlo rammaricato
moriva (1285), con lode d’insigni qualità, ma eclissate da smisurata
ambizione.

Moriva pure in quel torno Martino papa; e Onorio IV de’ Savelli
succedutogli, con ispiriti vivi in corpo rattratto, bandì due
decreti assai favorevoli alle libertà del Reame. Nell’uno assodava
i privilegi ecclesiastici; nell’altro incolpava della ribellione di
Sicilia le avanìe ed ingiustizie de’ governanti; proibiva di spogliare
i naufraghi; estendeva ai fratelli e loro discendenti il diritto
d’ereditare i feudi; disobbligava dal servizio militare fuor dei
confini, vietando le collette, salvo che ne’ quattro casi feudali;
permetteva ai Comuni di portare richiami alla santa Sede; e se mai il
re violasse queste franchigie, rimanesse sul fatto interdetta la sua
cappella. Sono franchigie che i re successivi affrettaronsi di mandare
in dimenticanza, intitolandole usurpazioni della sede romana[196].

Del regno d’Aragona, da cui scadeva Pietro scomunicato, il papa aveva
investito Carlo di Valois, secondogenito di re Filippo l’Ardito, che di
molta gloria aveva fatto procaccio col vincere la Fiandra. Ma bisognava
conquistarlo; onde allora si bandì per Francia un’impresa, insanamente
come tant’altre intitolata crociata, che di sangue, incendj, stupri
empì la Catalogna; re Pietro vi fece grandi prove di valore; Ruggero
di Loria dovette sospendere le imprese in Sicilia, per farne colà;
migliaja di Francesi vi perirono e lo stesso loro re (1285), al quale
tenne dietro re Pietro, lasciando ad Alfonso primogenito l’Aragona, a
Giacomo la Sicilia. Onorio papa iterò contro questo le scomuniche, ma
le avea spuntate lo scialacquarle, e Giacomo non se ne sgomentò; diede
buone franchigie ai Siciliani, e più d’una rotta agli Angioini e ai
Pontifizj.

Frattanto Carlo il Zoppo, riconosciuto re della Puglia (1288), era
stato dai Siciliani reso in libertà, con certi patti, i quali se non
potesse adempiere, perdesse la Provenza e tornasse prigione. Egli
cercò affezionarsi il clero coll’assicurarne i privilegi, i baroni e
cavalieri col concedere di levare imposte ed esercitare giurisdizione,
il popolo col promettere di non gravarlo più che ai tempi di Guglielmo
il Buono; provvide anche alle monete, alla giustizia, a riparare
abusi; poi non potendo attenere quanto avea giurato al nemico, tornò
a rimettersi nelle mani dell’Aragonese (1291). Intanto combinatasi la
pace fra Aragona e Francia, fu saldato Carlo nel Napoletano, cedendo
il Maine e l’Angiò come dote di sua figlia sposata a Carlo di Valois,
e rimettendo al papa il decidere della Sicilia. Fra questi trattati
il re Alfonso di Aragona moriva; e suo fratello Giacomo, per andare
a succedergli, rassegnò la Sicilia al papa, che ne investì Carlo il
Zoppo.

Quanto improvvidamente si ponga a fidanza di stranieri la propria
liberazione compresero i Siciliani allorchè, dopo dieci anni di
accannitissima guerra, si trovarono venduti come un branco di pecore
agli uccisori di Manfredi e di Corradino; onde, ripigliata la virtù
della disperazione, in generale parlamento presieduto dalla regina
Costanza acclamarono Federico (1296), fratello di Giacomo. Assunse
egli la corona e la difesa dell’isola, comunque contrariato da tutta
la famiglia, venuta in accordo e parentela cogli Angioini, e fin da
Ruggero di Loria, che aspirando a signoria, aveva conquistato le isole
delle Gerbe nella giurisdizione di Tunisi, e col pretesto di tenerle
al cristianesimo, se ne fece dar l’investitura da papa Bonifazio VIII,
che ribenedendolo lo staccava dalla causa siciliana, come già se n’era
staccato Giovanni da Procida, il quale finì oscuramente a Roma.

Re Giacomo, guadagnato dall’oro papale, menò egli stesso l’armata
contro il fratello, ma restò vinto[197]; e un figlio di Ruggero di
Loria fu preso e decapitato dagl’implacabili Siciliani. Ruggero se
ne vendicò sconfiggendoli malgrado gli ajuti genovesi; mentre i reali
di Napoli, sostenuti dai Toscani, faceano mirabili prodezze e guasti
infiniti.

Che due piccoli re d’una frazione d’Italia avessero tante forze per
combattersi accanniti, farà meraviglia solo a chi non abbia visto anche
per recenti esempj di che sia capace un paese in rivoluzione, dove cioè
le forze sono tutte avvivate e spinte. I re di Sicilia poi tenevano
negli armamenti navali la stessa economia dei terrestri; e invece di
assumerli tutti a carico dell’erario, comandavano ai conti e baroni che
ciascuno armasse una o più navi secondo il suo stato; onde dall’interno
paese venivano le ciurme pagate, e servito che avessero quattro o
cinque mesi secondo il convenuto, tornavano a casa, e cessava ogni
aggravio, dovendo l’erario soltanto far buono ai baroni quanto avessero
realmente speso.

Invano Bonifazio VIII cercò indurre i Siciliani a sottomettersi alla
santa Sede, mandando carta bianca perchè vi scrivessero le condizioni,
e scegliessero qual cardinale preferivano per governarli. Abituatisi
a considerare i pontefici come traditori, e la loro causa come ostile
alla papale, cacciarono a strapazzo il messo pontifizio, e incoronarono
Federico che li difese da Carlo di Valois: ma poi contro i patti
giurati conchiuse con questo (1302) la pace di Calatabellota[198],
fiaccamente rassegnandosi a tenere la Sicilia vita durante e col titolo
di re di Trinacria, sposando una figlia degli Angioini, ai quali non
disputerebbe la Calabria nè il titolo di re di Sicilia; si professava
vassallo della santa Sede, tributandole ogni anno tremila once d’oro.

I Siciliani, che una rivoluzione scoppiata per sdegno nazionale aveano
sostenuta con eroico coraggio contro fior di cavalieri ed ammiragli,
e contro le armi irreparabili di Roma, vinto tre battaglie campali,
quattro navali, moltissimi combattimenti, pei quali non solo respinsero
tre eserciti dall’isola, ma acquistarono le Calabrie e val di Crati,
fremettero di quella pace che li riponeva al giogo (dicean essi) di
stranieri. Però Federico ebbe il merito di metter l’isola in cheto, e
civilmente ordinarla o consentire si ordinasse con savj provvedimenti,
restringendo spontaneo i diritti della monarchia.

Re Giacomo, nella urgente necessità di tenersi amici i Siciliani,
avea fatto immuni provincie intere; onde povere le finanze quando la
guerra interminabile facea sentir maggiore la necessità di denaro.
Federico penò a restaurarle, nuove imposizioni facendosi consentire
dai parlamenti, ne’ quali fece costantemente coi prelati e baroni
intervenire i sindachi delle città rappresentanti il popolo, che
formarono un terzo _braccio_; e imitando, come il nome, così alcune
forme della costituzione aragonese. Il re, vestito delle insegne di
sua dignità, apriva l’assemblea con un discorso ai tre bracci; prelati
e baroni sedevano a lato al trono, i sindachi di fronte; e ciascun
braccio deliberava separatamente. Il primo parlamento a Catania in cui
Federico fu eletto, stanziò l’unione perpetua del parlamento; obbligo
al clero di contribuire alle gravezze per tutti i beni che non fossero
specialmente affetti alle loro funzioni. Quel diritto della monarchia
siciliana, per cui Urbano II avea concesso a re Ruggero II autorità
di legato papale, sebbene Carlo d’Angiò l’avesse rinunziato alla corte
pontifizia, gli Aragonesi lo ricuperarono.

I baroni, sentendosi necessarj a sostenere colle proprie forze
l’elezione, montavano in arroganza; straordinaria pompa nel vestire,
nel trattamento, nelle comparse; e incoraggiati dall’esempio della
nobiltà aragonese, tanto ricca di privilegi, mettevansi attorno
clienti e affidati, che s’obbligavano con giuramenti a favorire i
loro interessi[199]. Alle alte dignità non conducevano i meriti,
ma la nascita; e il maestro giustiziero, e il maestro camerario, e
tutti i comandanti di terra e di mare cernivansi fra i baroni. Già
aveano preteso che nessuna derrata si esponesse sui mercati sinchè
non fossero vendute le loro, e che i vassalli pagassero i canoni colle
misure che ciascun di loro adottava. Poi verso il re alzavano ogni dì
le pretensioni, tanto che il forte e insieme dolce Federico a pena
riusciva a reprimerli. Per frenare l’avidità de’ magistrati foresi
ne limitò la giurisdizione e la potenza; divise l’isola, non più in
due, ma in quattro valli; nominò molti giudici subalterni, dipendenti
da quattro magne curie. Dal capo delle finanze (_magister secretus
regni_) fece dipendere segretarj speciali in Palermo, Messina, Catania,
Siracusa: i maestri giurati, che Carlo d’Angiò aveva istituito uno
in ogni terra per vegliare sulla giustizia del re, de’ nobili, degli
ecclesiastici, Federico ridusse ad una specie di magistrati comunali:
ai municipj affidò pure la nomina e la vigilanza di molti magistrati
già regj, che di lontano mal si poteano tener d’occhio, e solo riservò
al trono la nomina del primo giudice di ciascun luogo. Divideva
eziandio al possibile le varie città, in modo che formassero corpi
indipendenti, più deboli contro la regia prerogativa.

L’ordinamento per municipj, impacciato dagli Svevi, venne così a
prendere sviluppo, e potè poi far argine all’autorità regia. Un balio,
alcuni giudici e giurati costituivano il collegio municipale, che
in certi casi s’aggregava alquanti consiglieri, mercanti e seniori.
Dalle cariche municipali, almeno delle città regie, erano esclusi
i nobili, anzi più tardi anche gli affidati loro, sicchè il corpo
cittadino restava separato e opposto all’aristocratico. Federico ai
nobili diè licenza di vendere e ipotecare i feudi, purchè non fosse a
favore del clero, al fisco si pagasse un decimo del valore, e il nuovo
possessore assumesse gli obblighi del precedente. Pareva strappatagli
dalla necessità una concessione sì opportuna a spicciolire i possessi
e mettere in giro ricchezze, che accumulate incagliavano il suo
potere[200].

Usciva dunque Sicilia dalla sua rivoluzione con un ordinamento
monarchico, unico in Italia; e vuolsi saper grado a Federico I
d’avere in tempi sì fortunosi mantenuto tranquillità e giustizia
senza opprimere. Ma d’allora comincia il dechino dell’isola, ove non
più all’ordine pubblico, ma al vantaggio dell’aristocrazia mirarono i
parziali statuti.



CAPITOLO CIII.

Bonifazio VIII. — Dante politico e storico.


Stringemmo in uno i fatti spettanti alla Sicilia; ma altri di gran
rilievo se n’erano in quel mezzo compiuti altrove.

Morto l’imperatore Rodolfo (1291), la corona germanica fu disputata
tra suo figlio Alberto d’Austria, Venceslao IV di Boemia e Adolfo
di Nassau: l’ultimo «di gran cuore, ma di piccola potenza» restò
preferito, ma Alberto non volle mai sottoporsi, onde si prolungò,
se non la vacanza, il disordine. E peggiore ne nacque alla morte di
papa Nicola IV, giacchè, ristrettisi in conclave sei cardinali romani
(1292), quattro della restante Italia e due francesi, non fu mai che
potessero accordarsi: Matteo degli Orsini, famiglia ingrandita di
Napoli, voleva un papa ben affetto ai Guelfi e a Carlo di Napoli; il
contrario cercava Jacopo Colonna, capo dell’altra famiglia cui Onorio
IV avea corteseggiato di favori e possessi. Roma prendea parte con
loro; battagliavasi, saccheggiavasi, incendiavansi palazzi e chiese;
finchè si elesse un senatore dei Colonna e uno degli Orsini, compenso
che sorprese, non tolse i guaj. I cardinali, che eransi collocati
parte a Rieti, parte a Viterbo, alfine si radunarono a Perugia, ma
non s’accordavano nell’elezione, fin quando, dopo diciotto mesi, a
meraviglia di tutti, i voti s’accolsero sovra Pietro Morone (1294),
settagenario, che viveva sul monte Majella presso Sulmona a guisa
degli antichi cenobiti, in pregio di virtù e miracoli. Vedendo giungere
cardinali nel povero romitorio, egli si buttò ai loro ginocchi; essi a
vicenda gli caddero dinanzi venerandolo papa; e per quanto si ostinasse
al no, l’obbligarono ad accettare le somme chiavi col nome di Celestino
V. Carlo II fu ben lieto d’aver pontefice un suo suddito, e quando fece
l’entrata in Aquila sopra un somiero, egli stesso tenne le briglie col
figlio Carlo Martello.

Quel pio, scevro dagli uomini e dalle passioni e intrighi loro, non
addottrinato in altre scienze che nella contemplazione di Dio, avvezzo
a far tutto a cenno d’obbedienza, fu dal re avviluppato d’omaggi, di
legulej, di regie catene, talchè non più volesse che il beneplacito
di Carlo: allora questi l’indusse a fissar sua sede in Napoli; di
dodici cardinali, nominarne sette francesi, tre napolitani; e ad altri
atti che Celestino fece (al dir del Varagine) meno in _plenitudine
potestatis_, che in _plenitudine simplicitatis_. Però non gli era
venuta meno la cenobitica umiltà; e conoscendosi inetto agli affari, e
nell’avidità di curiali abusanti del suo nome, nelle prepotenze regie
sotto il suo manto celate vedendo un pericolo dell’anima propria[201],
ribramò la quiete e le consolazioni del devoto ritiro, e avutone
consiglio coi cardinali, e indarno impedito dal re e da’ suoi vicini,
dopo cinque mesi abdicò al papato.

Nel posto che non richiedeva un angelo ma un uomo, gli fu sortito
successore colui che dicono maggiormente lo spingesse a tal passo,
Benedetto dei Gaetani d’Anagni, che prese il nome di Bonifazio
VIII[202] e il motto _Deus in adjutorium meum intende_, quasi
presentisse le lotte preparategli, e nelle quali tanto bisogno avrebbe
de’ superni ajuti. Valente in scienza e massime nel diritto civile e
canonico, severo e pertinace, ben addentro negli accorgimenti mondani,
e altamente compreso de’ diritti della santa Sede, vedendo questa
in dechino, riassumeva l’opera di Gregorio VII e d’Innocenzo III di
sottoporre la potenza temporale alla ecclesiastica, la materia allo
spirito. Comincia dal sottrarsi al re di Napoli, che col fermarli nel
suo paese volea rendersi ligi i pontefici; e coll’inaspettato comparire
a Roma, da tre anni vedovata, ripiglia padronanza sovra le fazioni,
deprime i Colonna, e come ghibellini e patarini incorreggibili e perchè
alleati a suo danno coi re di Sicilia e d’Aragona, li scomunica e
guerreggia, tanto che li riduce a venire ad obbedienza. Con ciò ebbe
estinta la fazione ghibellina, ma procacciato a a sè irreconciliabili
nemici. Revocò le concessioni improvvide del predecessore, e le tante
bolle che di esso non portavano se non il nome; e poichè era a temere
che alcuno non si valesse della costui inettitudine per indurlo a
rivoler la tiara, sbranando la Chiesa con uno scisma, lo rinchiuse in
un castello della Campania, ove i mali trattamenti gli accorciarono
i giorni (1296). La santa vita meritò a Celestino V gli onori degli
altari, e la debolezza i vilipendj di Dante[203].

Come gli antichi celebravano il centenario della fondazione della
città, così i Cristiani solevano concorrere a Roma ogni capo di
cent’anni, credendo, benchè non ne fosse motto ne’ libri liturgici,
che grandi indulgenze meritasse quel pellegrinaggio. L’anno 1300,
vedendo alla festa de’ santi Apostoli quell’affluenza, Bonifazio volle
santificarla indulgendo generale perdonanza a chiunque, al chiudersi
d’un secolo, visitasse in Roma certe chiese, e designò quella festa col
nome di _giubileo_, dato dagli Ebrei a quella in cui venivano sciolti
da debiti le persone e i beni. La smania delle crociate si sfogò
allora in questo pellegrinaggio, che tanto maggior facilità offriva
d’acquistare le indulgenze plenarie, che prima si concedevano solo per
quelle. I popoli, che omai cercavano la civiltà per altre vie oltre
le religiose, e ne’ parlamenti e nelle carte trovavano alla libertà
quelle guarentigie che prima non traevano se non dalla tutela papale,
sembrò che si unissero ancora personalmente per ravvivare la carità
del capo colle membra, e rinvigorire la fede nell’aspetto delle cose
sante. La cronaca d’Asti pretende v’andassero due milioni di persone:
Giovan Villani, che v’intervenne, dice vi si contavano ogni giorno
ducentomila forestieri d’ogni sesso, età e nazione; onde rincarirono i
comestibili e il fieno, i Romani arricchirono collo spacciar le derrate
e dare alloggi, la Camera apostolica colle oblazioni, le quali vennero
sì copiose, che giorno e notte due cherici stavano con rastrelli per
raccoglierle davanti all’altare. Fra gli altri vi peregrinò Giotto
(1300), rinnovatore della pittura in Italia; e per commissione del
papa, che già avea chiamato frate Oderisi d’Agubio a miniar libri,
molti dipinti condusse nella basilica Lateranese, de’ quali ancora
vedesi uno che esprime Bonifazio in atto di pubblicare il giubileo. Le
solennità furono a proporzione, e il pontefice vi si mostrò alla città
e al mondo cogli ornamenti imperiali, preceduto dalla spada, dal globo
e dallo scettro, e da un araldo che gridava: — Ecco due spade, ecco il
successore di Pietro, ecco il vicario di Cristo»[204].

Bonifazio, benchè di gente ghibellina dovea per natura propendere ai
Guelfi; avendo udito che Alberto d’Austria, senza autorità pontifizia,
erasi dichiarato imperatore, si pose la corona in capo, in pugno
la spada ed esclamò: — Io cesare, io imperatore, e farò valere i
diritti dell’impero»; i Siciliani che non vollero accettar la pace
da lui proposta scomunicò, senza riguardo alle ragioni che possono
determinare un popolo a preferire la guerra; inanimava i Guelfi contro
re Federico in Sicilia ricettatore di Patarini e Ghibellini, ai nemici
di esso concedeva le decime levate a titolo della crociata, e a danno
di lui invitò Carlo di Valois, promettendogli l’impero d’Occidente
mal conferito, e quello d’Oriente, a cui gli dava diritto la moglie,
nipote di Baldovino imperator titolare di Costantinopoli. Venne Carlo
romoreggiando; e ricevuto festosamente da tutti i Guelfi, fatto conte
di Romagna, governatore del Patrimonio, signore della marca d’Ancona,
fu coronato a Roma.

Primo incarico che il papa gli affidò, fu di praticar la pace in
Toscana, a cui grave incendio di discordia era venuto da Pistoja.
Quivi, domati i Panciatichi ghibellini, primeggiavano i Cancellieri,
schiatta nobile che «avea in quel tempo diciotto cavalieri a speroni
d’oro, ed erano sì grandi e di tanta potenza, che tutti gli altri
soprastavano e battevano; e per la loro grandigia e ricchezza montarono
in tanta superbia, che non era nissuno sì grande nè in città nè in
contado, che non tenessono al di sotto; molto villaneggiavano ogni
persona, e molto sozze e rigide cose faceano; e molti ne faceano
uccidere e ferire, e per tema di loro nessuno ardiva a lamentarsi»
(_Storie pistoiesi_).

Era quella famiglia distinta in Bianchi e Neri; e mentre parecchi
insieme bevevano in una taverna, vennero a parole, e Carlino di
Gualfredo de’ Bianchi ferì Doro di Guglielmo, ch’era dei Neri. Doro
per tradimento colse un fratello del suo offensore, e assalitolo per
ucciderlo, gli troncò una mano. Guglielmo credette rassettar la pace
consegnando Doro a Gualfredo, ma questo ebbe la viltà di tagliare a lui
pure il pugno sopra mangiatoja dei cavalli. Il sangue chiamò sangue:
Cancellieri bianchi e Cancellieri neri si fecero i peggiori danni in
città e per tutta la montagna di Pistoja, colla forza e col tradimento
esercitando la vendetta. I Fiorentini, temendo non fra il tumulto una
delle fazioni si accostasse ai Ghibellini, s’interposero, e ottenuto
per tre anni la balìa della città, ordinarono ai capi delle due fazioni
di trasportarsi a Firenze.

Credeano poterli tenere a freno quando fossero staccati dai loro
clienti e conciliar pace; e invece trapiantavano il germe di cittadine
discordie. I Bianchi furono accolti dai Cerchi, famiglia popolana,
venuta su col traffico, mentre i Donati, loro emuli, gentiluomini
e cavallereschi, riceveano i Neri; e adottando i nomi degli ospiti,
parteggiarono coi soliti avvicendamenti, e nelle case vicine, ne’ campi
confinanti, a balli, a nozze, a funerali, si davano di cozzo. «Così
sta la nostra città tribolata, così stanno i nostri cittadini ostinati
in mal fare; ciò che si fa l’uno dì, si biasima l’altro;.... non si fa
cosa sì laudabile, che in contrario non si reputi e non si biasimi.
Gli uomini vi si uccidono, il male per legge non si punisce: ma come
il malfattore ha degli amici o può moneta spendere, così è liberato
dal maleficio fatto» (COMPAGNI). Capi delle due divise erano Vieri
de’ Cerchi, portato in alto dalla sua posizione anzichè da talento
superiore, e Corso Donati, uomo pieno di vigore e d’attività, colla
quale bilanciava le maggiori forze degli emuli.

A papa Bonifazio venne riportato l’occorrente colle solite
esagerazioni: ed egli, per ridurli al suo intendimento, ch’era tutto
di pace, credette bene chiamare a Roma Vieri, e spedire a Firenze
frà Matteo d’Acquasparta cardinale, che ebbe dal Comune facoltà di
dispensare gli ufficj tra le due parti, e ricomporre le differenze; ma
nulla profittando, partì lasciando interdetta la città.

Allora, come interviene, ciascuno metteva in mezzo qualche partito:
Dante Alighieri suggeriva di relegare i capi delle due fazioni; Corso
Donati indusse il papa (1301) a spedirvi come paciere Carlo di Valois.
L’introdursi d’uno straniero potea piacere ai faziosi, non ai buoni;
tra i quali Dino Compagni, modello di virtù cittadina e di storica
moderazione, cercò almeno si deponessero le sconcordie, e «ritrovandomi
io in detto consiglio (narra egli stesso) desideroso di unità e pace
fra’ cittadini, avanti si partissono dissi: _Signori, perchè volete voi
confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare?
contro a’ vostri fratelli? Che vittoria avrete? non altro che pianto_.
Risposono che il loro consiglio non era che per ispegnere scandalo e
stare in pace. Udito questo, m’accozzai con Lapo di Guazza Olivieri,
buono e leale popolano, e insieme andammo ai priori, e conducemmovi
alcuni che erano stati al detto consiglio; e tra i priori e loro
fummo mezzani, e con parole dolci raumiliammo i signori». E Bianchi
e Neri desideravano pace, ma quelli la voleano spontanea, questi per
intromessa dello straniero, il quale di fatto ebbe invito e denaro.

«Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto
pensiero immaginando: questo signore verrà, e tutti i cittadini troverà
divisi, di che grande scandalo ne seguirà. Pensai, per lo uffizio
ch’io tenea e per la buona volontà che io sentia ne’ miei compagni,
di raunare molti buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni; e così
feci, dove furono tutti gli uffizj, e quando mi parve tempo dissi:
_Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendeste il sacro
battesimo di questo fonte, la ragione vi sforza e stringe ad amarvi
come cari frategli, e ancora perchè possedete la più nobile città del
mondo _(1301)_. Tra voi è nato alcuno sdegno per gara d’uffizj, li
quali, come voi sapete, i miei compagni e io con sacramento v’abbiamo
promesso d’accumularli. Questo signore viene, e conviensi onorare.
Levate via i vostri sdegni, e fate pace tra voi, acciocchè non vi trovi
divisi; levate tutte le offese; e le ree voluntà, state tra voi di
qui addietro, siano perdonate e dimesse per amore e bene della vostra
città. E sopra questo sacrato fonte, onde traeste il santo battesimo,
giurate tra voi buona e perfetta pace, acciocchè il signore che viene
trovi i cittadini tutti uniti._ A queste parole tutti s’accordarono,
e così feciono toccando il libro corporalmente, e giurarono attenere
buona pace e di conservare gli onori e giurisdizione della città: e
così fatto, ci partimmo di quel luogo. I malvagi cittadini, che di
tenerezza mostravano lagrime e baciavano il libro, e che mostrarono
più acceso animo, furono i principali alla distruzione della città,
de’ quali non dirò il nome per onestà. Quelli che avevano mal talento,
dicevano che la caritatevole pace era trovata per inganno: ma se nelle
parole ebbi alcuna fraude, io ne debbo patire le pene, benchè di buona
intenzione ingiurioso merito non si debba ricevere; di quel sacramento
molte lagrime ho sparte, pensando quante anime ne sono dannate per la
loro malizia».

Consigli prudenti in mezzo alle ire, chi vi bada? Piuttosto si
ascoltava a Baldino Falconieri, che tutto il giorno perseverava a
vantare la presente tranquillità a fronte delle passate turbolenze e
delle peggiori temute; a Berto Frescobaldi, che mostravasi infervorato
dei Cerchi per ottenerne in prestanza dodicimila fiorini; a Lapo
Salterello, avvocato e poeta, già processato per ribalderie, che
non cessava dal fare opposizione ai rettori, e li chiamava ladri,
traditori. — Ah! sono fisionomie che conosciamo, e che sotto altri nomi
riscontriamo ogni dì sulla piazza e in parlamento.

I Neri prevalsi accolsero Carlo in città, facendogli giurare di non
mutar le leggi nè esercitare giurisdizione. Entrato con cinquecento
cavalli, cominciò a usar da tiranno; tolse diritti più preziosi della
pace, e lasciò che i Neri per cinque giorni saccheggiassero case e beni
dei Bianchi, sposandone le eredi, incendiando, uccidendo; col solito
titolo d’una congiura scoperta, sbandeggiò i primani, e pose giudice
il severissimo Cante de’ Gabrielli da Gubbio, che circa seicento
persone colpì d’esiglio e di grosse multe. Fra queste compajono Dino
Compagni, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri e Petracco dell’Ancisa,
che, abbandonata la politica, si applicò tutto ad allevare i proprj
figliuoli[205], un de’ quali divenne illustre col nome di Francesco
Petrarca.

Guido, filosofo e poeta, fu genero di Farinata degli Uberti, e perciò
accannito ghibellino e caldo nemico de’ Donati. Corso tentò farlo
uccidere mentre andava pellegrino a San Jacopo di Galizia; ed egli,
tornato e saputolo, gli si avventò un giorno nel bel mezzo di Firenze
e gli tirò, ma fallito il colpo, fu preso a sassi dal figlio e dai
seguaci del barone. Relegato a Sarzana, per l’aria insalubre cadde
malato, e ottenuto di riveder la patria, vi morì. Pellegrinava a San
Jacopo, eppure appo la gente era in voce d’epicureo, cioè d’incredulo,
e perchè speculava molto astratto dagli uomini, si diceva cercasse se
trovar potea che Dio non fosse.

Egli era secondo occhio di Firenze[206], di cui primo era Dante
Alighieri, entrambi in fresca età mescolatisi ai movimenti cittadini;
attesochè nelle democrazie, massime se ristrette, i giovani sono
facilmente portati verso gli affari pubblici, e vedendo il governo
da vicino, credono ben conoscerlo e facile il guidarlo. Dante «fu
uomo molto polito, di statura decente, e di grato aspetto e pieno
di gravità, parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto
sottile. Nè per gli studj si racchiuse in ozio, nè privossi del
secolo; ma vivendo e conversando con gli altri giovani di sua età,
costumato, accorto e valoroso, ad ogni servizio giovanile si trovava.
Ed era mirabil cosa che, studiando continuamente, a niuna persona
sarebbe paruto ch’egli studiasse, per l’usanza lieta e conversazione
giovanile». (L. ARETINO). E fu veramente suo distintivo il passare
agevolmente dalla contemplazione all’attività, che esercitò a servizio
della fazione avita in magistrature, in ambascerie e colle armi a
Campaldino; e alla scuola della politica, allo straziante contatto
degli uomini, al laborioso insegnamento delle rivoluzioni ebbe vero
esperimento dell’inferno, del purgatorio e del paradiso.

L’antica nobiltà fiorentina, che pretendeasi discendere dai Romani,
avea sempre messo ostacolo all’alzarsi della gente nuova, e parteggiato
coi Guelfi. Così aveano usato gli Alighieri, e Dante stesso, fin
quando la divisione in Neri e Bianchi li sconnettè di modo, che
poterono considerarsi come Guelfi e Ghibellini. Dante stette fra
questi ultimi, e con loro fu mandato in esiglio (1303 — marzo). Che sia
della malversazione addebitatagli nella sentenza da Cante da Gubbio,
nol possiamo chiarire; Dante non ne fa motto in verun luogo, perchè
v’ha delle cose di cui uno non si difende, come altre di cui non si
vanta; e troppo è nota l’arte delle fazioni di denigrare chi vogliono
perdere, e di sceglier le accuse appunto che più ripugnano al carattere
dell’oltraggiato, correndo le plebi a creder più facilmente ciò ch’è
meno credibile.

Dante badossi alcun tempo alla guelfa Siena e ad Arezzo ghibellina,
insieme cogli esuli; ingrata società, che lo costringeva a partecipare
ad ire impotenti, a garrule speranze, a persecutrici esagerazioni
che non erano le sue. Con soccorsi di Bartolomeo della Scala signor
di Verona tramarono essi di ripatriare per forza (1303), e fallito
il tentativo, ne imputarono Dante, che pure l’avea sempre dissuaso;
ond’egli risolse abbandonare la _compagnia malvagia e scempia_, e
farsi parte da se stesso, schermendosi da entrambe le sêtte, delle
quali vedeva i torti; il che dai settarj s’interpreta come un tradirle
entrambe.

«Cacciato di patria (racconta nel _Convivio_), per le parti quasi
tutte, alle quali questa lingua si stende, peregrino quasi mendicando
sono andato, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna,
che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata.
Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a
diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa
povertà». Passò a studiare teologia e filosofia sull’università di
Parigi, piena testè degli insegnamenti di Tommaso d’Aquino, e allora
di quelli dell’abate Suggero: nè mai deponendo l’eterna speranza degli
esuli, cercò «con buone opere e buoni portamenti meritarsi di poter
tornare in Firenze per ispontanea revoca di chi reggeva la terra; e
sopra questa parte s’affaticò assai, e scrisse più volte non solamente
a’ particolari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo, e intra
l’altre un’epistola assai lunga, che, comincia, _Popule mi, quid feci
tibi?_»[207]. E diceva: — Ogni infelice mi fa pietà; più di tutti,
coloro che logorandosi nell’esiglio, non rivedono la patria che in
sogno»[208], ma per quanto gemesse o fremesse, più non potè rivedere il
suo _bel San Giovanni_.

Solea Firenze, nella solennità del Battista, far grazia ad alcuni
condannati, che colla mitera in capo e con un cero in mano venivano
offerti al santo. Fu esibito a Dante di ricuperar la patria a questo
modo[209], ma egli: — È questo il richiamo glorioso con che Dante
degli Alighieri è richiamato alla patria? questo han meritato il
sudore e la fatica continuata nello studio? Non per questa via si deve
tornare alla patria; e se per niun’altra si può, io non entrerò mai in
Firenze. Forse non vedrò io da qual sia luogo gli specchi del sole e
degli astri? non potrò io speculare dolcissime verità sotto qualsiasi
cielo, senza arrendermi, spoglio di gloria, anzi con ignominia, al
popolo fiorentino?» Il Boccaccio, che ce lo racconta nella _Vita_
di lui, soggiunge che «veggendosi non poter ritornare, in tanto mutò
l’animo, che niuno più fiero ghibellino ed ai Guelfi avverso fu come
lui. E quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria,
è che pubblichissima cosa è in Romagna, lui ogni fanciullo, ogni
feminella, ragionando di parte e dannando la ghibellina, l’avrebbe
a tanta insania mosso, che a gittar le pietre l’avrebbe condotto non
avendo taciuto»[210]. Eppure egli stesso ripeteva quel che non mai fia
ripetuto abbastanza agli Italiani; che il buono non dee prender guerra
col buono finchè non siano riusciti a vincere i malvagi; che è follia
il non abbandonare un cattivo partito per rispetto umano[211].

Ispirato da dolore e da sdegno scrisse la sua _Commedia_, poema
essenzialmente storico, dove vitupera o esalta da uom di parte, il
quale, fremendo della persecuzione, di tutto fa arma alla vendetta;
e coll’autorità che danno l’ira, l’ingegno, la sventura, insieme coi
dolori e rancori suoi eternò le glorie e le sventure d’Italia. E noi,
che già l’esaminammo come poesia, ora vi cercheremo i giudizj del poeta
sopra le cose e gli uomini che lo circondavano, e che tutti chiamò
ad austera rassegna, traendone concetti di speranza o di vendetta. E
poichè fra gl’Italiani fu sempre grande il numero di questi infelici
«che la patria non rivedono se non in sogno», Dante fu immedesimato ai
patimenti di tutti, preso come il tipo di quanti soffrono tirannia e
ingiustizia.

Natura degli scontenti, egli non preterisce occasione di lodare i
tempi preteriti, quando valore e cortesia soleano trovarsi in sul
paese rigato dall’Adige e dal Po, quando Firenze si stava in pace
sobria e pudica, con donne massaje, con uomini contenti alla pelle
scoverta, con abbondante figliolanza. In così riposato, in così bel
vivere di cittadini, a cittadinanza così fida, a così dolce abitare
stavano i Fiorentini gloriosi e giusti, guerreggiando nelle crociate,
o mercatando, nè mai il giglio era posto a ritroso sull’asta, nè fatto
vermiglio per divisione; non v’avea case vuote di famiglia per gente
che esulasse in grazia dei Francesi. Se alcuno rimane di quella buona
stirpe antica, non serve che a raffaccio del secolo selvaggio, ora
che la città è turpe di gola, superbia, avarizia, invidia, nemica ai
pochi buoni che ancor vi allignano; del resto sconsiderata sì, che ogni
tratto cambia leggi, monete, uffizj, costume, e provvede sì scarsamente
che a mezzo novembre non giunge quel che filò d’ottobre.

Dei quali peccati trova Dante la ragione nell’aver ricevuto a
cittadinanza quei di Campi, di Certaldo, di Figline, mentre le
gioverebbe trovarsi ancora ristretta fra il Galluzzo e Trespiano,
nè avere accolto il villan puzzolente d’Aguglione e il barattiero da
Signa[212] in mezzo alla nobiltà veramente romana rimastavi dalle prime
colonie, e mal attorniata da quelli che discesero da Fiesole, e che
tengono ancora del natìo macigno.

Voi qui sentite il patrizio intollerante, il quale, stizzito non solo
coi rettori della patria, ma colla patria stessa, non che eccitasse
l’imperatore a «venir abbattere questo Golìa colla frombola della sua
sapienza e colla pietra della sua fortezza», professò che «per quanto
fortuna l’avesse condannato a portare il nome di fiorentino, non voleva
che i posteri immaginassero tener lui di Fiorenza altro che l’aria e il
suolo» (_Epistola dedicatoria_). Avesse almeno aggiunto e _l’idioma_,
senza cui non avrebbe egli potuto farsi per gloria eterno. Ma chi dalle
care illusioni della gioventù, infiorate da una benevola fantasia,
trovasi per iniquità degli uomini balestrato negli acerbi disinganni
e fuori del circolo dell’operosità, degli affetti, delle speranze
primitive; chi abbia sentito profondamente come Dante, e come Dante
sofferto le persecuzioni del secolo, che non suol perdonare a chi di
buon tratto lo precede; quegli solo ha diritto a condannarlo di tali
iracondie.

Nè men gravi dispetti mostrava Dante alle altre città italiche:
_gente vana_ più che i Francesi è quella di Siena; i Romagnuoli _son
tornati in bastardi_; i Genovesi _diversi d’ogni costume, e pien
d’ogni magagna;_ in Lucca _ogn’uomo è barattiere_; _avari e lenoni_
i Bolognesi; i Veneziani _di ottusa e bestiale ignoranza, di pessimi
e vituperosissimi costumi, e sommersi nel fango d’ogni sfrenata
licenza_[213]: l’Arno appena nato passa _tra brutti porci, più degni
di galle che d’altro cibo_; poi viene a _botoli ringhiosi_, che sono
gli Aretini; indi tra’ _lupi_ di Firenze; infine _alle volpi piene di
frodi_, quai sono quelli di Pisa. A questa, _vitupero delle genti_,
impreca che ogni persona si anneghi; a Pistoja, che sia incenerita
perchè procede sempre in peggio fare. Le antiche case rimorde come
_diredate_ delle prische virtù: i Malatesti _fan dei denti succhio_;
i Gallura divennero _vasel d’ogni frode_; Branca Doria vive ancora,
eppure l’anima sua già spasima in inferno, e lasciò un diavolo a
governare il corpo suo e d’un suo prossimano; in Verona i Montecchi
e Capuleti sono gli uni già tristi, gli altri in sospetto; Alberto
della Scala è _mal del corpo intero, e peggio della mente_; Guido da
Montefeltro ebbe _opere non leonine, ma di volpe_, e seppe _tutti gli
accorgimenti e le coperte vie_; al buon re Roberto iterò oltraggi, come
meno acconcio allo scettro che alla cocolla. Così augura che Brettinoro
fugga via per non soffrire la tirannide de’ Càlboli; così sentenzia
Rinier da Corneto che _fe guerra alle strade,_ e Provenzan Silvani che
_presunse recar Siena alle sue mani_, e i Santafiora che malmenarono i
dintorni di questa città. Sono, al contrario, encomiati gli Scaligeri e
i Malaspini, suo _rifugio ed ostello_, e Uguccione della Faggiuola, cui
pensava intitolare la prima cantica: onde, chi cerca la storia non per
declamazione o per teorica preconcetta, veda se uom possa, altrimenti
che a retorico esercizio, sostenere l’equità di Dante nel distribuire
i vituperj e il guiderdone; e il suo amor patrio, se non sia pel
perdonabile intento di voler trovare tutto grande nei grandi.

Le vendette sue non si limitano fra l’Alpi, ma le scaglia ad Edoardo
d’Inghilterra e Roberto di Scozia che non sanno tenersi _dentro lor
meta_, al codardo re di Boemia, all’effeminato Alfonso di Spagna,
al dirazzato Federico d’Aragona, all’usurajo Dionigi di Portogallo,
agl’infingardi austriaci e fino al re di Norvegia, e a non so qual
principe di Rascia (Servia), falsatore di ducati veneti. Principalmente
infellonisce contro i Capeti, che maledice già nel loro stipite Ugo
_figliuol di beccajo_, la cui discendenza _poco valea, ma pur non fece
male_, sinchè acquistata Provenza, _cominciò con forza e con menzogna
la sua rapina_. Di là uscì Carlo di Valois senz’altre arme che quella
di Giuda; di là Filippo il Bello, _il mal di Francia_, che crocifigge
di nuovo Cristo nel suo vicario: onde il poeta invoca di presto esser
consolato nel veder la vendetta che Dio prepara in suo segreto; come
altrove invoca il giusto giudizio divino sopra la stirpe di Alberto
d’Austria, tanto che il mondo ne rimanga tutto sgomentato.

Conforme agl’imperiali d’allora ed ai leggisti, palesa somma riverenza
della «nostra antichissima ed amata gente latina, che mostrar
non poteva più dolce natura in signoreggiando, nè più sottile in
acquistando, nè finalmente più forte in sostenendo; e massimamente di
quel popolo santo, nel quale l’alto sangue trojano era mischiato, cioè
Roma; quella città imperadrice, per cui guidata, la nave della umana
compagnia per dolce cammino al debito porto correa... E certo sono di
ferma opinione che le pietre che stanno nelle sue mura sieno degne di
riverenza, e il suolo dov’ella siede ne sia degno, oltre quello che per
gli uomini è predicato» (_Convivio_). Dagl’imperatori sperava ristoro
ai mali d’Italia, e gl’invitava a sostener le ire sue e i suoi amori:
tutto in rialzare l’opinione della loro autorità, nel maggior fondo
dell’inferno pose gli uccisori del primo Cesare, e in cima al paradiso
l’aquila imperiale, e stese un libro particolare _De Monarchia_. Tocco
anche personalmente delle tribolazioni in cui il disaccordo delle due
potenze gettò la cristianità, pensava che, a volere il progresso, si
richiedesse la pace sotto un monarca, unico arbitro delle cose terrene,
mentre il pontefice dirige quelle riguardanti l’eterna salute. Quando
uno solo sia padrone di tutte cose, è tolta la cupidigia, radice d’ogni
male, e nascono la carità, la libertà. Questa monarchia universale
trova egli attuata nel popolo romano, il cui fondatore discende al pari
dall’Europa e dall’Atlante; popolo a cui vantaggio Dio operò i miracoli
che si leggono in Livio, e gli concesse vittoria nel conflitto colle
altre genti. Che se diritti s’acquistano legittimamente col duello,
ben s’ha a credere che il giudizio di Dio si manifesti non meno nelle
battaglie generali, e perciò abbiano legittimamente ottenuto l’imperio
i Romani, popolo che quanto amasse gli altri mostrò col conquistarli,
posponendo le comodità proprie alla salute dell’uman genere.

Eccovi prevenuta di secoli la teorica moderna, che asserisce vincere
sempre la parte migliore: ecco dichiarata ottima salvaguardia della
pubblica felicità la massima potenza d’una monarchia, universale e
dipendente da Dio solo, non da alcun suo vicario; ecco in conseguenza
tolto l’unico schermo che allora contro l’imperatore avessero i
popoli, ed usurpata a questi la indipendenza nazionale che ne è vanto
e desiderio[214]. Eppure egli aveva imprecato giusto giudizio dalle
stelle sopra il sangue di Rodolfo tedesco e d’Alberto suo figlio,
che _per cupidigia_ lasciavano disertare il giardin dell’impero; e
bestemmiò Venceslao _pasciuto d’ozio e di lascivia_; ma al _divino e
felicissimo_ Enrico VII di Luxemburg preparò un seggio in paradiso,
e lo inizzava contro quella città, che allora e poi fu rôcca della
libertà italiana. A questa bassezza non scendeva Dante per viltà, sì
per dispetto; e dalle servili conseguenze arretrava, e gli avveniva,
come troppo spesso agl’Italiani, di desiderare quel che non hanno,
per tardi pentire quando n’abbian fatto esperimento. I voti del poeta
furono esauditi; furono _inforcati gli arcioni_ di questa Italia,
_fiera fella e selvaggia_; e gli abbracci degl’imperatori, quand’ebbero
i papi non più oppositori ma conniventi ed alleati, prepararono un’età
di obbrobrioso servaggio, e la necessità malaugurata di violenti
tentativi per riscattarsene.

Ma cotesto imperatore universale e onnipossente, Dante volea risedesse
in Italia, e intimava essere i monarchi fatti pel popolo, non questo
per quelli; anzi essi sono i primi ministri del popolo: tanto il senno
abituale rivaleva, appena che l’ira attuale cessasse d’allucinarlo.
Parimenti, geloso come si mostrò delle pure origini, bersaglia i
privilegi di nascita e l’edifizio feudale, sino a volere abolita
l’eredità dei beni, non che quella degli onori. «La pubblica potenza
non dee andare a vantaggio di pochi, che col titolo di nobili invadono
i primi posti. A sentirli, la nobiltà consiste in una serie di ricchi
avoli: ma come far caso sopra ricchezze, spregevoli per le miserie
del possesso, i pericoli dell’incremento, l’iniquità dell’origine? La
quale iniquità appare o vengano da cieco caso, o da industrie fine,
o da lavoro interessato e perciò lontano da ogni idea generosa, o
dal corso ordinario delle successioni. Poichè questo non potrebbe
conciliarsi coll’ordine legittimo della ragione, che all’eredità dei
beni vorrebbe chiamar solo l’erede delle virtù. Che se il diritto
de’ nobili sta nella lunga serie di generazioni, la ragione e la fede
riconducono tutte queste a’ piedi del primo padre, nel quale o tutti
furono nobilitati o tutti resi plebei. Poichè dunque un’aristocrazia
ereditaria suppone l’ineguaglianza, la primitiva moltiplicità delle
razze repugna al dogma cattolico. Vera nobiltà è la perfezione, che
ciascuna creatura può raggiungere ne’ limiti di sua natura: per l’uomo
specialmente è quell’accordo di felici disposizioni, di cui la mano
di Dio depose in esso il germe, e che, coltivate da solerte volontà,
divengono ornamenti e virtù».

Questi sfoghi egli si permetteva, non senza domandare scusa
dell’opporsi all’opinione di Federico II; e nel _Convivio_, dove
più blandisce alle plebi e ai signorotti, intima: — Ahi malestrui e
malnati, che disertate vedove e pupilli, e rapite alli men possenti;
che furate ed occupate l’altrui ragioni, e di quelle corredate conviti,
donate cavalli ed armi, robe e denari; portate le mirabili vestimenta,
edificate li mirabili edifizj, e credetevi larghezza fare! E che è
questo altro fare che levar il drappo d’in sull’altare, e coprire il
ladro e la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, delle
vostre mansioni, che del ladro che menasse alla sua casa li convitati,
e ponesse sulla mensa tovaglia furata d’in sull’altare, con li segni
ecclesiastici ancora, e non credesse che altri se n’accorgesse».

Noi volemmo qui esporre i suoi concetti, come il giudizio del più
grande uomo d’allora sopra gli avvenimenti che si compivano. Ove
ci pare gran segno della civiltà di quegl’Italiani il saper essi
discernere l’evangelo dalle false interpretazioni, la Chiesa dagli
abusi, il principe di Roma dal pontefice universale, e con baldanza
imprecare all’adultera di Babilonia, mentre si mostravano così sommessi
all’autorità pontifizia. Il che poco videro quegl’intolleranti d’un
tempo che pretesero fare dell’Alighieri un precursore della dottrina
protestante, o quei ghiribizzosi d’adesso, che lo chimerizzarono autore
di una eterna allegoria contro la Chiesa, e fino istitutore di non
so qual nuova religione[215]. Dante batte i frati, di cui le badie
erano fatte spelonche, e le cocolle _sacca di farina ria_; eppure
le lodi più calde del suo poema tributa ai santi Tommaso, Francesco,
Domenico: caccia in inferno i papi; Nicola III, pastore senza legge
e di più laid’opra (_Inf._, XIX), colloca con Simon Mago ad aspettare
Bonifazio VIII; trova fatto cloaca il cimitero di san Pietro; eppure
espose precisissima la formola del cattolicismo, professava _riverenza
alle somme chiavi_, e credeva che l’imperio di Roma fosse stato da Dio
costituito per la grandezza futura della città ove siede il successore
di Pietro. Bensì l’opinione ghibellina, e il vindice dispetto contro
Bonifazio, e le disonestà del clero gli facevano bestemmiare il
lusso de’ prelati che coprivano _de’ manti loro i palafreni, sicchè
due bestie andavano sotto una pelle; e la corte ove tuttodì Cristo
si mercava; e i lupi rapaci in veste di pastori, che fattosi Dio
dell’oro e dell’argento, attristarono il mondo calcando i buoni e
sollevando i pravi._ E sebbene esaltasse Matilde contessa, mal sapeva
grado a Costantino Magno d’aver dotato di terre i pontefici, e a
Rodolfo d’Habsburg di avergliele confermate. Disapprova l’abuso delle
scomuniche, che toglieano _or qui or quivi il pane che il pio padre a
nessun serra_; e non le crede mortali all’anima, tanto che _non possa
tornar l’eterno amore_ a chi si pente (_Purg._, III).

Riprovava insomma i pontefici, ma perchè erano o li supponeva
tralignati; nè il guelfo Villani od altro contemporaneo vediamo
fargliene colpa. Quand’egli morì a Ravenna presso Guido da Polenta,
è scritto che il cardinale Bertrando del Poggetto, legato pontifizio
in Romagna mentre la santa sede stava serva ed avvilita in Francia,
cercasse sturbare le ossa di lui. Questa follia sarebbe a cumulare
alle tante onde quel prelato contaminò la sua missione politica;
potrebb’essere una vendetta ch’egli meditasse del male che Dante disse
di quella Francia, alla quale allora i papi eransi fatti vassalli.
Ma non ne fece nulla; e non che molestarne il sepolcro, subito
anzi cominciò pel poeta una venerazione, che tanto meno s’attaglia
ai moderni sogni, in quanto si sa che i Guelfi prevalsero. I suoi
concittadini ripararono i loro torti istituendo una cattedra per
leggerlo e spiegarlo in duomo, ove Domenico di Michelino[216] lo
dipingeva vestito da priore e coronato, colla Commedia aperta in mano,
mostrando a’ suoi cittadini le bolge dell’inferno e la montagna del
paradiso. Al concilio generale di Costanza leggevasi Dante; e frà
Giovanni di Serravalle minorità riminese, vescovo di Fermo, ad istanza
del cardinale Amedeo di Saluzzo e dei vescovi di Bath e di Salisburg,
lo tradusse in prosa latina e ne fece un commento, che sta manoscritto
nella Vaticana.

Nessuno fu più bersagliato dall’Alighieri che Bonifazio VIII, contro
del quale ben nove volte si scaglia, come ad uomo non mai satollo
dell’avere, pel quale non temè togliere a inganno la santa Chiesa, e
poi farne strazio; che mutò il cimitero di san Pietro in cloaca della
puzza e del sangue onde si placa il demonio, affinchè i Cristiani
siedano parte a destra e parte a manca, e i vessilli segnati colle
chiavi s’inalberino contro i battezzati, e Pietro s’impronti sovra
suggelli a privilegi venduti e mendaci.

Agli occhi di lui, la colpa mortale di quel pontefice era l’aver
favorito ai Neri, e causato la cacciata dei Bianchi coll’inviare a
Firenze Carlo di Valois. Questo «signore di grande e disordinata spesa»
voleva denaro, e poichè ne ebbe estorto assai, andò chiedendone al
papa, il quale gli rispose: — Non t’ho io messo nella fonte dell’oro?»
E oro e peccato e onta cavato dalla sua venuta, se n’andò coi tesori e
colle maledizioni de’ Toscani. Passò a osteggiare la Sicilia, ma presto
vi conchiuse la pace di Calatabellota (pag. 276): laonde i Guelfi
lo proverbiavano che, venuto a mettere pace in Toscana, vi lasciò la
guerra; ito a far guerra in Sicilia, la condannò alla pace.

Questa era stata opera di Bonifazio, che, qual padre universale dei
fedeli costituitosi pacificatore dell’Europa, terminò anche la contesa
germanica col riconoscere imperatore Alberto d’Austria[217]. Ma
essendosi offerto mediatore tra il re francese e quel d’Inghilterra che
si disputavano la pingue Fiandra, e volendo che il primo rilasciasse
Guido conte di Fiandra e i figli suoi con vile tradimento imprigionati,
il re gli rispose, «nessuno doversi intromettere fra lui e un suo
vassallo; udrebbe volentieri consigli, non accetterebbe comandi».

Questo re era Filippo il Bello, di gran cuore, di gran valentia,
calcolatore e pertinace, che nè per giustizia nè per umanità nè per
riguardo a tempi, a persone, a opinioni recedeva da’ suoi propositi.
Principale tra i quali era il dilatare la regia prerogativa; e
l’ottenne coll’abbattere fieramente i feudatarj. A quella parevagli
repugnasse la supremazia papale, sotto cui la Francia era ingrandita,
e cominciò a molestare gli ecclesiastici, crescere imposte sui loro
beni, imprigionare il vescovo di Pamiers, vietare si portassero gioje
o denari a Roma; e dal clero di Francia adunato fe dichiarare quelle
che poi si chiamarono libertà gallicane, vale a dire che il pontefice
non possa restringere l’arbitrio che ha il re di Francia sopra il suo
clero. Così i Francesi, che poc’anzi aveano accettato da un papa i
regni di Sicilia e d’Aragona, e fatto guerra spietata ai natii che li
ricusavano, ora al papa negavano sino il diritto di far rimostranza al
loro re[218].

Bonifazio, qual tutore delle ecclesiastiche immunità, colla bolla
Clericis laicos si lagnò dell’invadere che i principi faceano i beni
ecclesiastici, e scomunicò (1296) qualunque cherico pagasse, qualunque
laico ne esigesse sovvenzioni, prestito, donativo senza licenza della
santa Sede[219]. Nessuno però nominava: ma avendo Filippo per dispetto
tassati maggiormente gli ecclesiastici, Bonifazio ne lo querelò,
mostrando che era in via d’incorrere nelle censure comminate a chi
attenta alle immunità della Chiesa; al tempo stesso facea rimostranze
sull’amministrazione del regno e sulla guerra inglese, che tanto
costava al popolo. Filippo rispose acremente, sostenendo l’indipendenza
dei diritti reali; e Bonifazio, tuttochè irascibile, pure come capo
de’ Guelfi d’Italia bramando tenersi in buon’armonia con Francia, mandò
una schietta spiegazione della sua bolla (1297); non aver egli inteso
sottrarre al re i servigi e le prestazioni dovute dagli ecclesiastici
come vassalli, bensì distorlo dallo aggravezzare in generale il clero;
del resto lasciava alla coscienza di esso il determinare i casi ove di
una contribuzione straordinaria fosse bisogno.

Parvero dunque conciliati: il papa con una condiscendenza
inaspettatissima assentì a Filippo la decima per tre anni, e promise
procurare che al trono imperiale vacante venisse eletto Carlo di
Valois fratello di lui, quel che più volte già nominammo, e che parve
destinato a ricevere tutte le corone e non portarne alcuna; e canonizzò
san Luigi, a gran consolazione di quei che vivo l’aveano venerato.
Filippo in compenso lo tolse arbitro della contesa sua con Fiandra e
Inghilterra: ma che? del lodo si tenne oltraggiato, o se ne infinse;
lasciò che suo fratello gettasse la bolla al fuoco; e per far onta a
Bonifazio accolse i Colonna fuorusciti da Roma, s’alleò con Alberto
d’Austria, processò il vescovo Bernardo di Saisset, scrisse al papa
con ironica crudeltà perchè degradasse cotesto traditore di Dio e degli
uomini, di cui voleva offrire un olocausto al Signore.

Bonifazio non recossi in pazienza l’indegnità (1301), e rispose
al re (_Asculte, fili_) ponendo che Iddio collocò il pontefice di
sopra degl’imperj per isvellere, distruggere, dissipare, edificare,
piantare; non presumesse egli re di non aver superiori in terra; e
gli rinfacciava le lese immunità clericali, la falsata moneta, i beni
delle chiese usurpati; sospese il privilegio che i re di Francia aveano
di non essere scomunicati; invitò il clero gallicano ad un concilio
in Roma; aggiungeva che il potere del papa e nello spirituale e nel
temporale sorpassa quello del re[220]. Credette ancora che Carlo di
Valois, da cui egli si era ripromesso il trionfo de’ Guelfi in Italia,
avesse a bello studio menate sì inettamente le cose in Sicilia; e al
suo passaggio per Roma il rimbrottò con tal calore, che Carlo tirò la
spada contro di esso.

Filippo nell’abbattere i feudatarj e ingigantire la primazia reale
valeasi delle sottigliezze de’ legulej, invidi delle altre autorità,
ed educati al despotismo degli imperatori romani e ai cavilli del fôro.
Principali tra questi erano il guardasigilli Pietro Flotte e l’avvocato
Guglielmo Nogaret, maligni caparbj, come cortigiani che mettono
l’onor loro nel servire alle passioni del padrone, e che, non paghi
d’insultare in Roma al papa con ammonizioni ipocrite ed audaci, vollero
eludere l’effetto che la paterna e dignitosa lettera di Bonifazio
produrrebbe, col fingerne una, dove esso, con franchezza resa più
assoluta dall’imperativa concisione, esponeva quelle pretensioni che
la Corte romana velava di buone parole, e ne tolsero pretesto ad una
risposta del re violenta e brutale, che cominciava: — Filippo, per la
grazia di Dio re dei Francesi, a Bonifazio sedicente papa, poco o punto
salute. Sappia la vostra fatuità che noi non siamo sottomessi a nessuno
nel temporale, ecc.».

Quelle lettere erano apocrife o per lo meno interpolate[221], ma
doveano valere a scandagliar l’opinione. Il popolo, fra cui si erano
eccitate le passioni malevole, applaudì, come fa troppo spesso agli
atti violenti; e il parlamento dichiarò non soffrirebbe mai in Francia
altro superiore che Dio e il re. E poichè tenevasi che l’intimato
concilio generale fosse un artifizio onde allontanare dalle chiese i
pastori, dal re i consiglieri, dal popolo i sacramenti, fu interdetto
al clero d’andarvi, bruciata la supposta bolla, divulgate le lettere
dei tre Stati, in cui le pretensioni della sede pontifizia erano
oppugnate con pompa di cavilli, di erudizione, di servilità.

Bonifazio sventò le calunnie del maligno legulejo, che erasi messo
dal canto della ragione col fargli dire il falso; mandò un nunzio
in Francia che assolvesse il re se pentivasi; compassionò la Chiesa
francese «figlia delirante, cui una madre amorevole era disposta a
perdonare gl’insensati discorsi»: poi radunato il concilio, pubblicò
la bolla _Unam sanctam_ (1302), ove pronunzia, la Chiesa, una, santa,
cattolica, apostolica avere per capo Cristo e il suo vicario in terra;
la potenza spirituale, benchè conferita ad un uomo, pure esser divina,
e chi ad essa resiste, resiste a Dio; la potenza temporale è inferiore
all’ecclesiastica, e dee lasciarsi da questa guidare come dall’anima il
corpo, e quando i re trascorrono gravemente, il papa li può ammonire
e ravviare; ogni creatura umana essere sottoposta al pontefice, nè
ottener salute chi creda altrimenti. E decretò che imperatori e re
dovessero comparire all’udienza apostolica qualora citati, «tale
essendo la volontà di noi che, Dio permettente, comandiamo a tutto
l’universo».

Un’autorità sicura non ha bisogno di violenze, minacciata, esagera
per meglio difendersi: e quest’espressione così assoluta della papale
potenza veniva appunto dal sentirsi essa intaccata. Perocchè i tempi
della inconcussa credenza già tramontavano, le società europee si
sottraevano a quell’ala da cui erano state covate, e ogni popolo voleva
l’indipendenza, ogni principe la potestà illimitata. Più la bramava
Filippo, che pertanto si dispose a cozzar con quei papi, da cui erano
stati vinti gli Enrichi e i Federichi. Assicuratosi il suo popolo con
alcune concessioni, chetata di sue pretensioni l’Inghilterra, fa dal
Nogaret mandar fuori una furibonda diatriba contro Bonifazio (1303),
ch’e’ chiamava Malifazio, falso, intruso, ladrone, eretico, nemico di
Dio e degli uomini; e non che piegare la fronte fulminata, arresta il
legato pontifizio, togliendogli i dispacci; da’ suoi avvocati fa in
parlamento formulare contro Bonifazio ventinove accuse, di eresie, di
bestemmie, d’ogni sorta nefandità; appella ad un concilio raccolto dal
pontefice legittimo; gli ecclesiastici che ricusarono aderire, furono
espulsi o imprigionati; gli altri e la Università di Parigi assentono a
quegli atti, e preparasi uno scisma. Bisognava colla violenza compire
ciò che la calunnia avea cominciato; e il Nogaret, in compagnia di
Musciatto Franzesi potente magnate senese, castellano di Staggia,
con buone cambiali e carta bianca è spedito a Roma, in apparenza per
informare Bonifazio, ma con incarico secreto di arrestarlo e spedirlo a
Lione.

Ripetemmo a sazietà come i Romani fossero sempre volenterosi a
ingiuriare il loro papa, e i signori si tenessero armati contro
l’autorità di lui. Basti per mille citare Ghino da Tacco, il quale,
espulso da Siena, avversato dai conti di Santa Fiora, ribellò
Radicofani alla Chiesa, e postosi colà, facea rubare chiunque passasse.
Un fratello e un nipote suo che gli aveano tenuto mano, furono presi da
messer Benincasa aretino, giudice a Siena, il quale poi andò giudice
a Roma. Ghino un bel giorno entra con sua masnada in questa città, si
difila al palazzo del senatore dove Benincasa sedea sul banco a render
ragione, e presenti molti gli spicca il capo, e se ne torna senza che
alcuno osi fermarlo. Dappoi l’abate di Cluny, ch’egli avea svaligiato
non senza cortesie, lo rappacificò col papa, il quale lo ornò cavaliere
e gli conferì una grossa priorìa.

Prepoteano fra que’ signori i Colonna. Giordano avea lasciato cinque
figli, Jacopo cardinale, Giovanni, Oddone, Matteo, Landolfo, ciascuno
con porzioni distinte d’eredità: ma d’accordo essi lasciaronla
amministrare a Jacopo, anche dopo che Giovanni morì lasciando sei
figli, Pietro cardinale, Stefano, Giovanni, Jacopo, Oddone, Agapito.
Lo zio cardinale malmenava la sostanza de’ fratelli e de’ nipoti, e
Bonifazio, che se ne volle mescolare, incorse nello sdegno del ladro
e de’ rubati. Jacopo nipote, fra gli altri, mostravasi accattabrighe
e violento, sicchè meritò il nome di Sciarra, e volendo vendicarsi,
assalì ottanta some di masserizie e argenti papali che passavano
da Anagni a Roma, e se le portò. Avea ragione Bonifazio di volerne
vendetta, ed esso temendola lo esecrava: del quale rancore si valse
Federico di Sicilia a danno del papa nemico: e i cardinali di quella
casa cominciarono a dire che Bonifazio fosse eletto illegalmente,
perchè papa Celestino non poteva abdicare. Citati non comparvero, onde
il concistoro tolse la porpora a Jacopo e Pietro, e li scomunicò,
implicandovi anche la discendenza. Essi risposero dichiarando
Bonifazio pontefice intruso, appellando al futuro concilio, e insieme
con libelli d’infami accuse preparavano armi, popolo, nemici; sicchè
Bonifazio bandì contro di loro la crociata. Moltissimi vi accorsero
e primi gli Orsini avversarj dei Colonna, poi i Fiorentini; e molte
donne davano di che far armi. Colonna, Nepi, Zagarolo furono presi, e
infine anche Palestrina, che andò distrutta, ergendo incontro ad essa
Civitapapale[222].

Pensate se rimanevano accanniti i Colonna, e ancor peggio Sciarra,
il quale, nel fuggire di Roma, essendo dato ne’ Barbareschi, anzichè
rivelare il proprio nome, avea sofferto di essere messo s’una galea,
ove per quattro anni tirando il remo, avea stillato feroce rancore
contro il papa; ed ora per isfogarlo si esibiva al Nogaret. Bonifazio,
vedendosi tenuto in posta, fuggì ad Anagni, e preparava la scomunica
che rinnovasse le scene della casa Sveva; ma Nogaret lo previene,
e a denaro raccolta una ciurma a sua posta, secondato dai nobili di
Ceccano e Supino e fin da alcuni cardinali, assalta quella città al
grido di — Viva Francia! Muoja Bonifazio!» Il papa, di ottantasei anni,
e abbandonato da cardinali, esclama: — Tradito come Cristo ai nemici,
morrò, ma papa»; si pone la tiara di Costantino, e colle chiavi di
san Pietro e la croce in mano, si asside sul trono. Ed ecco entrano i
masnadieri rubacchiando, violando le reliquie e li archivj: Nogaret lo
ingiuria, Sciarra lo schiaffeggia. Tenuto prigioniero, Bonifazio ricusa
ogni vitto, temendolo avvelenato; il popolo, rinvenuto dallo sgomento,
si solleva, e sclamando — Viva il papa, morte ai traditori», a forza
libera il pontefice, che menato sulla piazza pubblica, ripeteva:
— O buoni uomini e buone donne», e a tutti narrava doloroso i suoi
patimenti, e chiedeva un tozzo per carità; e il popolo gridava — Viva
il santo Padre», e tutti potevano parlargli come a un altro povero.
Ricondotto in Roma a Dio lodiamo, Bonifazio rimbaldisce, deponendo
i sensi di perdono e di riconciliazione mirabilmente manifestati ad
Anagni: ma gli Orsini stessi, in cui confidava, il tengono chiuso in
palazzo; ond’egli per tanti colpi abbattuto, muore fra otto cardinali,
confessando la fede vera[223].

Lo combatterono i prelati colle dottrine d’indipendenza nazionale,
i re coi legulej, gli scrittori coll’opinione: e Filippo il Bello, i
Colonna, Dante tengono ancora in fama sinistra questo pontefice, col
quale spirò (11 8bre) l’onnipotenza della santa Sede.

Benedetto XI (Nicola Boccasini), datogli successore, «uomo di pochi
parenti e di piccolo sangue, costante e onesto, discreto e santo»
(Compagni), non volle riconoscere sua madre quando gli si presentò
in vesti signorili, bensì quando venne colle abituali. Egli non era
guelfo nè ghibellino, ma papa della pace, come si deve; trovavasi
però angustiato in questa Roma, dove ogni palagio era una fortezza, e
i cardinali stessi erano capi e turcimanni delle fazioni de’ Colonna
o degli Orsini o de’ Gaetani: e costretto sempre a difendersi da chi
aveva a’ fianchi, come poteva mostrar vigore contro i lontani? Per
togliersi al coloro arbitrio, si ricoverò ad Assisi, e dicesi pensasse
trasferire la sede in Lombardia[224]; e non avendo parenti, e più
dolce che robusto di carattere, gemeva degli eccessi che non valeva a
reprimere. Per mostrare il desiderio di pace cassò molte costituzioni
del suo predecessore, massime quelle contro Filippo di Francia, e
l’assoluzione dei sudditi dal giuramento di fedeltà, ma lanciò la
scomunica contro il Nogaret e quattordici signori italiani ch’egli
stesso avea veduti oltraggiare Bonifazio. Il Nogaret venne a chiederne
perdono a nome del re (1304); ma pochi giorni di poi Benedetto moriva
avvelenato, e al Nogaret crescevasi lo stipendio da cinquecento a
ottocento lire.

Allora i venticinque cardinali si chiudono in conclave a Perugia,
e l’elezione bilicò lungamente fra i Gaetani fautori degli atti di
Bonifazio, e i Colonna che pendeano pei Ghibellini e per Francia.
Costretti dai Perugini, che scemarono loro fin le razioni, stabilirono
una tripla di forestieri, fra cui il partito nazionale scegliesse il
pontefice; e il prescelto fu Bertrando di Goth arcivescovo di Bordeaux
(1305). Erasi proferito ostile al re, ma Filippo, che per mezzo dei
Colonna rimestava nel conclave, avutone avviso prontissimo, andò a
lui, e mostrando dimenticare le nuove animadversioni per l’antica
famigliarità, — Io posso alzarvi papa, se promettete farmi contento di
sei servizj: il primo di riconciliarmi colla Chiesa; il secondo rendere
la comunione a me e a tutti i miei; terzo, le decime del clero nel mio
regno per cinque anni, onde bastare alle spese della guerra di Fiandra;
quarto, annulliate ogni memoria di papa Bonifazio; quinto, rendiate
la dignità di cardinale a Jacopo e Pietro Colonna, e la concediate
ad alcuni amici miei; della sesta grazia vi parlerò a luogo e tempo».
L’arcivescovo, che per lui credevasi pontefice, promise sull’ostia, e
fu eletto col nome di Clemente V.

Giovan Villani, che riferisce questo assurdo colloquio, era forse in
terzo?[225]. Nessun altro contemporaneo ne parla, e il buon cronista
l’avrà raccolto dalle bocche del popolo, che traduceva in patto
anteriore le posteriori condiscendenze. Il fatto è che Clemente già
avea veduto come i papi in Roma fossero servi della plebe e delle
fazioni; e forse nell’intento d’emanciparne l’autorità, invece di
venire a Roma, chiamò i cardinali a coronarlo a Lione. Nella cavalcata
un muro cascò, uccidendo molti cardinali e domestici, molti ferendo;
una rissa tra i papali e i Lionesi costò altro sangue: accidenti, donde
la superstizione traea funestissimi augurj. La capitale dell’antico
impero, la città di maggiori memorie, la tomba del principe degli
apostoli e di tanti martiri, la meta dei pellegrini, lo studio degli
eruditi, mal si mutava con una cittadina d’altrui, povera, e disastrata
da guerre: ma più che l’abbandono, abbiamo a deplorare che questo
paresse giustificato dalle inquietudini di Roma.

Dopo girato di diocesi in diocesi con un nugolo di famigliari e
cortigiani, alfine Clemente si piantò ad Avignone (1309), città del
contado Venesino, possesso dei papi, ma appartenente al conte di
Provenza sotto la supremazia dell’Impero; e di qui comincia quella
che gl’Italiani chiamarono cattività di Babilonia. Avignone, che al
Petrarca pareva piccola, schifosa, fetente, confinata sovra una rupe,
con vie anguste e case basse e mal costrutte, ben presto scese al
piano, si popolò di palazzi, d’alberghi; all’altra riva del Rodano
su terra di Francia i prelati edificarono la città di Villanova, e il
concorso di tanti forestieri e di tanti principi ricreò quel paese.

Messosi in terra altrui e perciò in altrui arbitrio, il papa cominciò
operare abjettamente: concedendo le decime, impinguava il terzo e
il quarto con denari altrui[226]; cassò la costituzione _Clericis
laicos_, dichiarò la _Unam sanctam_ non pregiudicare al regno di
Francia; assunse dodici cardinali ligi a Filippo, fra i quali i due
Colonna sporporati da Bonifazio VIII, modo di perpetuare la servitù;
assolse il Nogaret. Con ciò volea calmare Filippo, sempre pertinace nel
chiedere la condanna di quel pontefice; e sperava forse che il tempo ne
intepidirebbe la passione, mentre invece non facea che attizzarla, ed
ogni tratto domandava che Bonifazio fosse chiarito eretico e cancellato
d’infra i papi, dissepolto, arso, disperso al vento. Non era soltanto
rancore personale, ma lotta di principj: se lo spirituale dovesse
prevalere al temporale, come ai tempi di Gregorio VII, o d’Innocenzo
III; o se fosse giunta l’ora che nessuno potesse frenare i re, e che la
legalità medesima si piegasse alle esigenze di questi. Il papa cercò
sottrarvisi colla fuga: alfine decise che d’affare così supremo non
poteva decidere se non un concilio.

Vi si complicava un altro processo non men vergognoso. Accennammo (t.
V, p. 565) l’origine dei cavalieri del Tempio, e come da Gerusalemme
fossero propagati a tutta Europa. Delle provincie in cui divideasi
quest’ordine, le più antiche in Oriente erano state occupate da’
Musulmani, salvo Cipro; quelle d’Occidente, tre delle quali erano
Italia, Puglia, Sicilia, possedeano ben novemila commende, fruttanti da
otto milioni di lire. Dei trentamila _frieri_, i più erano francesi, e
francese sceglievasi comunemente il granmaestro, principe sovrano.

Tanti privilegi, tante ricchezze faceanvi accorrere i cadetti
delle principali famiglie d’Europa. Ma perduta Terrasanta, mancò
il principale oggetto di loro attività, e vissero oziosi, egoisti,
insolenti, fra bagordi e lascivie, velate dal mistero, assolte in
generica confessione nei loro capitoli. Il popolo dalla venerazione
passò a guardarli con arcano timore, fomentato dalle forme orientali
di cui circondavano l’iniziazione, la quale faceasi nelle loro
magioni, nottetempo, a porte serrate, escluso ognuno, foss’anco il re.
Mentre il vulgo prendea spavento di tali accuse, i grandi, spesso non
meno vulgari, gl’imputavano d’aspirare alla dominazione universale,
istituendo una repubblica aristocratica in tutta Europa: la quale
imputazione, fatta a cavalieri armati dipendenti assolutamente dal
granmaestro, era meno assurda che non applicata, come la udirono i
padri nostri, dai filosofi ai Gesuiti. Ma come di questi, così di
quelli il delitto maggiore erano le ricchezze che aveano o che si
supponeva; e i cencinquantamila fiorini d’oro e i dieci somieri carichi
d’argento che bucinavasi avessero da Palestina portati in Francia,
equivalgono ai barili di polvere d’oro che diceansi empire le cave de’
Lojoliti.

Le ricchezze divenivano viepiù necessarie ai re nel cambiato sistema
di governo; sicchè da quelle de’ Templari non poteva non esser mossa
la gola di Filippo, che stabilì rovinarli coi mezzi da lui adottati,
i legulej ed un processo. Il prode Giacomo Molay, loro granmaestro,
avuto sentore delle accuse date a’ suoi, chiese una giustificazione
giuridica. Filippo lo menò a parole, poi d’improvviso fece arrestar
lui e quanti cavalieri trovavansi in Francia, e ne staggì i beni.
Molay interpose i privilegi dell’Ordine; novecento cavalieri se ne
dichiararono difensori; quei che aveano dato accuse, le ritrattarono;
vennero in chiaro le iniquità della procedura, le durezze della
prigionia e della tortura; onde Clemente esclamò d’essere ingannato, e
sentendo quel che sia un pontefice in dominio straniero, tentò fuggire.
Filippo per isgomentarlo rimise in scena il processo contro Bonifazio,
accuse d’ogni sorta gravando sopra lui morto come sopra i Templari
morituri; e il Nogaret con lacrime e gemiti, a man giunte e ginocchione
davanti al papa, insisteva acciocchè Bonifazio, per onor della
Chiesa, per amore della patria, per tutte le più sacre cose, fosse
dissotterrato ed arso, dicendovisi tenuto in coscienza. Per evitare
questo scandalo, Clemente accondiscese alle domande regie; e purchè
Filippo rimettesse in lui il giudizio del suo predecessore, il lasciò
fare del resto.

Le accuse contro Bonifazio furono a lungo esposte e dibattute,
finalmente se ne rimise la decisione al concilio. Raccoltosi a Vienna
nel Delfinato (1311) il XVI concilio ecumenico, questo dichiarò
non sussistere le luride incolpazioni, e due cavalieri catalani
vi si presentarono gettando il guanto, come disposti a sostenerne
l’innocenza colla spada. Pure fu confermato quel che Clemente avea
già concesso, cioè Filippo avere operato per giusto zelo; che nè egli
nè i successori suoi sarebbero mai inquietati perciò; che fossero
casse tutte le costituzioni pregiudicevoli alla libertà del regno,
e si cancellassero negli archivj le sentenze proferite. Con tante
soddisfazioni, Filippo consentiva a recedere dal suo puntiglio; ma lo
faceva per essere contentato in un altro: e Clemente, messo nella via
delle condiscendenze, non potè negare la soppressione de’ Templari. Nè
pago a ciò, Filippo volle il supplizio di moltissimi e de’ principali
di loro. «In un grande parco chiuso di legname fece legare, ciascuno a
un palo, cinquantasei dei detti Tempieri, e fece metter fuoco al piede,
ed a poco a poco l’uno innanzi l’altro ardere, ammonendoli che quale di
loro volesse riconoscere l’errore, il peccato suo, potesse scampare:
e in questo tormento, confortati dai loro parenti ed amici che
riconoscessero e non si lasciassero così vilmente morire e guastare,
niuno di loro il volle confessare, ma con pianti e grida si scusavano
com’erano innocenti di ciò e fedeli cristiani chiamando Cristo e
santa Maria e gli altri santi; e col detto martorio tutti ardendo e
consumando finirono la vita»[227]; e dopo gli altri il granmaestro
Molay. Il quale spirando sul rogo, citò Filippo e Clemente al tribunale
di Dio entro un anno, dove in fatti comparvero.

Noffi Dei, giudice fiorentino, s’era adoperato moltissimo nel
convincere i Templari dei delitti, ch’egli diceva averne conosciuti
quando apparteneva all’Ordine loro; poi servì il re in altri processi
contro streghe, untori, maliardi. In Lombardia e Toscana i Templari
furono condannati; assolti a Ravenna, a Bologna, in Castiglia; Carlo
II di Napoli fece mandare a morte i provenzali, attribuendone le terre
agli Spedalieri.

Non per definitiva sentenza, ma in via di provvisione il papa abolì
quell’ordine in tutta cristianità come inutile e pericoloso; e vuolsi
che col re di Francia spartisse ducentomila fiorini d’oro di loro
beni mobili; gli stabili doveano assegnarsi agli Spedalieri perchè
allestissero cento galee centro i Turchi: ma i regj legulej addussero
tante spese di processo e debiti da spegnere, che gli Spedalieri ne
rimasero più poveri.

Il lettore già sente che s’avvicinano tempi nuovi. Due gran
fatti si compivano: la distinzione delle varie nazionalità, e la
secolarizzazione de’ Governi. Quell’unica repubblica cristiana posta
sotto la mano dei papi, si discioglieva; cessava l’uniformità delle
ordinanze: alla fede sottentrava la critica, all’età organizzata
un’età di rimpasto, all’autorità della Chiesa la potenza dei re. Tutte
le nuove energie voleano rompere le fasce, donde veniva una lotta
generale contro la Chiesa, non combattendo ancora lei stessa, ma la sua
dominazione, la quale pareva divenuta soverchia.



LIBRO DECIMO



CAPITOLO CIV.

Gli storici del medioevo.


Dei tempi che fin qua descrivemmo «non solamente son venute meno le
storie, ma possiamo anche sospettare, se non credere, che pochissime
ne fossero allora composte; e se la nostra buona fortuna non ci
avesse salvata la _Storia longobardica_ di Paolo Diacono sino all’anno
774, resterebbe in un gran bujo allora la storia d’Italia. Continua
nulladimeno la medesima ad essere anche da lì innanzi sì povera di lumi
fin dopo il Mille, che qualora fosse perita la cronaca di Liutprando,
e non ci recassero ajuto quelle de’ Franchi e de’ Tedeschi, noi ci
troveremmo ora, per così dire, in un deserto pel corso di quasi tre
secoli dopo il suddetto Paolo. Oltre poi all’essersi perduta la memoria
di moltissimi avvenimenti d’allora, quelli che restano, sì mal disposti
bene spesso ci si presentano davanti, che di poterne assegnar gli anni
via non resta, stante la negligenza o discordia degli scrittori, ed è
forzata non di rado la cronologia a camminare a tentoni».

Tali disadorne parole del padre della storia italiana valgano, se
non ad ottenere scusa, a dar ragione dell’esitanza che il lettore
avrà notato alcuna volta nel nostro racconto, della scarsità di
fatti, dell’ignoranza delle cause. E sì che non ci credemmo tenuti
ad accertare ciascun anno come il cronologo, nè dissertar sulle date
se non quando esse mutano natura e significazione agli avvenimenti; e
risparmiando le discussioni, abbiamo esibito le convinzioni prodotte in
noi da indagini, delle quali velammo ai lettori l’ingratissimo tessuto.

Man mano abbiamo accennato i poveri cronisti da cui attingemmo, e oltre
Paolo Diacono, intorno ai primi Carolingi ci sussidiarono Erchemperto
che va dal 774 all’889, e la cronichetta d’un prete Andrea bergamasco,
tutt’altro che spregevole nè per le cose nè per la forma nè per quella
dote che, rarissima ne’ cronisti, non è comune negli storici, il
sapere quali eventi importi riferire, quali trasandare. Giovan Diacono
tessè la vita di Gregorio Magno; Agnello prete, grossolano ne’ fatti
e nell’esposizione, quella dei vescovi di Ravenna, in tempi che era
città importantissima; alquanto meglio quella dei papi il bibliotecario
Anastasio, o piuttosto i varj autori del _Libro pontificale_,
interrotto all’889, al 1050 ripigliato dal cardinale d’Aragona, sempre
in sentimento encomiastico; aggiunta la vita di Alessandro III, viva
pittura del tempo della Lega Lombarda.

All’uscita dell’XI secolo, Gregorio monaco di Farfa ebbe pel primo la
buona ispirazione di raccogliere i diplomi attinenti al suo monastero,
e sulla scorta loro compilò una cronaca, proseguita da altri e imitata
da molti, e deh fosse stata da tutti i monasteri, ch’erano il centro
dell’attività non solo intellettuale ma sociale. Delle più importanti
è quella di Montecassino, cominciata da Leone Marsiccino, condotta sino
all’abate Desiderio che fu poi Vittore III, indi seguitata rimessamente
da un diacono Pietro.

Nel tradurre alla lingua e alle fogge nostre le tradizioni de’ popoli
invasori, i cronisti le alteravano, al tempo stesso che divenivano
causa od occasione che si perdessero gli originali, come avvenne dei
Goti pel Jornandes, e dei Longobardi per Paolo Diacono. Usando una
lingua che più non parlavano, nelle parole, non nate a un parto col
pensiero, esprimevano più o meno del concetto, quand’anche non vi
attribuivano un senso arbitrario; avendo letto gli antichi, ne traevano
le frasi ben o male a rappresentare tutt’altre cose, tutt’altra
condizione di società. Della quale società aveano sott’occhio
l’andamento, sicchè non gittano più che un cenno per descrivere una
complicazione che a noi riesce inestricabile, una rivoluzione, che per
essi era evidente, mentre noi fatichiamo invano a spiegarcela; toccano
di volo un fatto rilevantissimo alla posterità, mentre si distendono
sopra un’inondazione o una cometa, che turbava l’immaginazione o
gl’interessi dei contemporanei. Per chi non voglia rimanersi alle
generalità convenzionali e sistematiche, quanta fatica ad annodare in
una catena probabile le confessioni sorprese, i monumenti sconnessi, le
congetture sopra notizie mal determinate, incerte, sovratutto scarse!

Di mezzo a questa inopia si discerne Liutprando di Pavia, adoprato
in gravi affari, segretario, poi nemico dell’imperatore Berengario
II, esigliato in Germania, e di là ricondotto da Ottone il Grande,
e posto vescovo di Cremona. Le vicende contemporanee, dalla presa
di Frassinetto nell’891 fino al concilio Romano del 963, espose con
istile colto e con un’arguzia che spesso degenera in frivolezza, e una
passione che neppur rifugge dalla calunnia. Nelle ambascerie sue, con
uno spirito ostico e negativo, affatto discordante dalla bonarietà de’
cronisti, egli critica, ride, esagera i vizj e i difetti della Corte
bisantina per adulare la tedesca, e vagheggiando la puerile o senile
affettazione, e raccogliendo senza discernimento, piacesi sfogare la
sua parzialità fin a costo del pudore.

Ciò ne spiega quella sua frase, ripetuta poi a sazietà e quasi
oracolo storico, che, quando si volesse dinotare il colmo d’ogni
vizio, si diceva _romano_. Spedito dall’imperatore tedesco a
quel di Costantinopoli, che vantandosi del titolo di romano, come
tale pretendeva primazia sopra l’occidentale, Liutprando toglie a
cuculiarlo, trasmodando nel lodare i Tedeschi, e asserendo che romano
non è più che titolo di contumelie e compendio d’ogni improperio. È
dunque bassa adulazione questa contumelia, la quale, del resto, il
complesso del suo racconto convince ch’egli non la diceva alla Corte
bisantina, ma la inseriva solo nella sua relazione per ingrazianire gli
Ottoni.

Di buoni storici furono fortunati i Normanni. Gaufrido Malaterra,
comandato da Roberto Guiscardo di conservar memoria delle sue imprese,
le dedicò al successore di esso. Guglielmo Apulo cantò in cinque
libri le azioni de’ Normanni, cominciando magnifico, seguendo rimesso,
terminando con orgogliosa bassezza[228]. Ad Ugo Falcando di Benevento
la dipintura del regno di Guglielmo il Malvagio acquistò il titolo
di Tacito della Sicilia; poi passato a Guglielmo il Buono, non ha
parole bastanti ad esaltare la felicità della nazione: il quale rapido
tragitto non meno che la retorica eleganza ne rendono sospette le
asserzioni. Coraggioso e sensato, previde le sciagure che sull’isola
trarrebbe il passare in signoria de’ Tedeschi; e come altri Siciliani
anche di tempi più civili, non dissimulava l’odio e lo sprezzo verso i
Pugliesi, gente, al dir suo, «di suprema incostanza, avidi sempre del
nuovo, agognanti libertà senza saper conservarla; sul campo attendono
appena il segno dell’attacco per fuggire; inabili alla guerra, non
sanno requiar nella pace»[229].

Matteo Bonello, ricco prelato, scrisse con sentimento la storia di
Guglielmo I, di cui fu ministro. Goffredo da Viterbo tirò un _Panteon_
dal principio del mondo fino alle nozze dell’imperatrice Costanza,
«avendo (dice egli) per quattro anni, di qua e di là dai mari rovistato
tutti gli armadj latini, barbari, greci, giudaici, caldei». Romoaldo
arcivescovo di Salerno, ministro di Guglielmo II, avvivò la sua cronaca
con preziose particolarità; un’altra di Amato monaco di Montecassino,
conosciamo dalla versione francese[230]. Pietro d’Ebulo verseggiò
i moti della Sicilia, avverso a re Tancredi: Ricardo da San Germano
notajo, testimonio oculare e sincero per quanto ghibellino, delinea
i tempi di Federico II. Dalla morte di questo alla coronazione di
Manfredi prosegue Nicola di Jamsilla, con parzialità ghibellina, ma
con ingenuità carissima. Matteo Spinelli di Giovenazzo dal 1247 fino
alla battaglia di Tagliacozzo, ove morì, stendeva un giornale ch’è il
più antico in vulgar nostro. Saba Malaspina, l’anonimo Salernitano,
Alessandro di Telesa, Nicola Speciale, la cronaca del tempo di regina
Giovanna di Domenico Gravina, son robusti ajuti alla storia del Reame,
de’ cui scrittori diede il catalogo Francesco Soria.

Ma già colla libertà era cresciuta la coltura, alla cronaca del
monastero sottentrava quella del Comune, e l’importanza delle cose
esposte rialzava la narrazione e l’associava alla politica, in modo
di istruire e allettare, mostrando e sufficienza di cognizioni, e
arguta stima degli avvenimenti, e caratteristiche particolarità, e
quel movimento che deriva da sentimenti veri. Nella grande agitazione
comunale, nessuna città può dirsi mancasse del suo cronista, tanto
più che molte nel XII e XIII secolo fecero ridurre in registro tutti
gli atti per assicurarli dalle eventualità; e molti se ne valsero per
la storia. Arnolfo e Landolfo il vecchio, milanesi vissuti poco dopo
il Mille, e primi laici che stendessero civile storia, per quanto
difettino d’esattezza, piace udirli esporre l’origine delle contese fra
nobili e popolani, fra cherici e secolari, donde restò mutata non solo
la costituzione civile, ma la sociale. Il primo mostra la feudalità
trafitta dal popolo guidato dai preti, i quali danno le prime libertà.
Landolfo mostra gli arcivescovi vincitori dei nobili; poi Landolfo
juniore dirà come devoti tribuni vincessero gli arcivescovi imposti
dall’imperatore, e facessero trionfare la libera elezione.

Nei tempi del Barbarossa giova correggere il genio repubblicano di
sire Raul o Rodolfo milanese (_De gestis Frederici_) colle inclinazioni
imperiali di Ottone Morena magistrato lodigiano (_Rerum Laudensium_),
il quale fu seguitato in tono più generoso e liberale dal figlio
Acerbo, che militò col Barbarossa, e morì nella spedizione contro
Roma il 1167. Entrambi cedono la mano a Ottone vescovo di Frisinga
e Radevico suo canonico, che, l’uno in continuazione dell’altro,
tratteggiarono le guerre di cui erano testimonj e parte, non
contentandosi più, come i cronisti, d’una sola città e ignorando le
vicine, ma abbracciando l’Italia tutta, e osservando alla legalità
nell’organica lotta dei due poteri.

Galvano Fiamma (_Manipulus florum_), dopo ingombrati di baje i primordj
della storia milanese, migliora di senno e di colorito accostandosi
ai proprj tempi. Pietro Azario narra i fatti dei Visconti con limpida
prosa e gustosissima ingenuità, e con un’imparzialità insolita nelle
precedenti fazioni. Gherardo Maurisio vicentino scrisse di Ezelino III
quando ancora non s’era mostrato ribaldo; onde gli cammina parziale,
quanto avversissimi i cronisti di tutte le vicine città, fra cui
primeggia Rolandino di Padova. Costui, come maestro di grammatica
e retorica, fece opera più ordinata e chiara delle contemporanee,
e la lesse davanti ai professori e scolari di quell’università, che
l’approvarono, od almeno l’applaudirono.

Albertino Mussato, magistrato padovano, da cui abbiamo le prime
tragedie moderne nell’_Achille_ e nello _Ezelino_, in sedici libri di
_Storia Augusta_ magnificò l’infelice tentativo d’Enrico VII contro
i tirannelli, in altri otto i successi fino al 1317, poi in tre canti
l’assedio posto da Can Grande della Scala a Padova, da ultimo i dissidj
che questa sottomisero ai signori di Verona. La continuazione dei due
Cortusj nel narrare la laboriosa ribellione di Padova è ben lontana
dall’eguagliarne il merito. I due Gattari vedono l’uno il dechino,
l’altro la perdita della patria indipendenza, deplorandone le cause,
e stendendo le scene della guerra civile anche al resto d’Italia;
perocchè già i cronisti volgevano l’occhio anche fuor della terra
natale.

Cristoforo da Soldo bresciano va sino al 1468; ma destituito di critica
e ineducato, si appoggia alle dicerie, e rozzamente espone ciò che
rimessamente pensa. Il Malvezzi trova ne’ disastri nuovi la spiegazione
degli antichi. Castel da Castello bergamasco con grossolana verità
descrive le miserie a cui la sua patria ridussero le guerre civili fino
al 1407. Ricobaldo da Ferrara[231] tuffato tra guelfi e ghibellini,
Ferreto da Vicenza favorevole ai tiranni che trionfano, altri ed
altri noi giudicammo servendocene. Basti dire che la collezione del
Muratori dà le cronache di ben sessantotto città fra il V e il XV
secolo, e che la sola _Bibliografia storica delle città e luoghi dello
Stato Pontifizio_ empie un grosso volume in-4º con null’altro che il
nome degli storici di settantuna città ancora esistenti e di sedici
distrutte in quel paese.

Una ignorante gelosia, che i posteri redimono splendidamente, negò
al Muratori le cronache piemontesi; fra le quali son prime quelle
che sovra le precedenti compilava un Ogerio Alfieri, a torto creduto
monaco, finendo al 1294, cui succedette Guglielmo Ventura al 1325, e
poco poi Secondino Ventura. Frà Jacopo d’Acqui empì di sogni le origini
de’ marchesi di Monferrato nel _Chronicon imaginis mundi_, ove le molte
letture stivò senz’ordine nè discernimento[232].

Alcuni peggiorarono la storia col voler verseggiarla, all’inettezza del
narrare aggiungendo la difficoltà del metro. Lorenzo Diacono di Pisa
non incoltamente cantò la spedizione de’ suoi contro le isole Baleari:
Donnizone, vescovo di Canossa, rimò le azioni della contessa Matilde;
un innominato le lodi di Berengario; il Cumano la guerra decenne de’
Lombardi contro Como; Moisè del Brolo i fasti di Bergamo circa il 1120;
Gaetano degli Stefaneschi i tempi di Bonifazio VIII; maestro Pietro
d’Eboli espose in elegi le guerre fra Enrico VI e Tancredi; Antonio
d’Asti le lotte guelfe e ghibelline nella Storia elegiaca della sua
patria fino al 1341; frà Stefenardo di Vimercate, ne’ migliori versi
della sua età, i fasti milanesi dal 1262 al 95. Poi in italiano Boezio
Poppleto e Anton di Boezio cantarono le cose d’Aquila dal 1252 al 1382,
la cronaca aretina ser Gorello de’ Sinigardi, la mantovana Buonamente
Aliprando, la perugina Bonifazio veronese nell’_Eulistea_.

A Genova presentavasi in pien consiglio la cronaca di ciascun anno, ed
approvata riponeasi negli archivj. Di qui il Caffaro, che fu console e
capitanò le patrie flotte contro i Pisani e i Saracini, desunse la sua
storia, che per morte lasciò in tronco al 1163. Per pubblico decreto
proseguita da Ottobono, da Ogerio Pane, da Marchisio, da Bartolomeo,
cancellieri della Repubblica fino al 1264, fu poi commessa a personaggi
illustri e consolari, Marino Usodimare, Jacopo Doria, Guglielmo
Multedo, Arrigo Guasco marchese di Gavi, Oberto Spinola ed altri che
arrivano al 1294: dopo l’intervallo di quattro anni, Giorgio Stella
ed altri di sua famiglia e dei Senarega ripigliano fino al 1514; da
ultimo Filippo Casoni fa punto al 1700. Sono essi le fonti della storia
genovese, parziale sì, ma preziosissima continuità di contemporanei,
quale niun’altra città può vantare. Anche Giovanni Bracelli da Sarzana,
in buon latino senza ostentazioni retoriche, riandò i fatti dal 1412
al 44, ben informato come cancelliere che era della Repubblica. Altri
scrittori indipendenti riempiono l’ufficiale orditura, ma frà Jacopo da
Varagine, noto per la leggenda dei santi, nella lunga cronaca di Genova
dal trojano Giano fin al 1297 insacca pedantescamente senza vagliare, e
v’innesta della morale scolorita.

Giovanni Diacono, vulgarmente fin qui cognominato il Sagornino, buon
dicitore mentre dogava Pietro Orseolo II, è il meglio accreditato
fra i molti cronisti dei tempi oscuri e congetturali di Venezia, i
quali furono eclissati da Andrea Dandolo. Istrutto in leggi e belle
lettere, tutto decoro, gravità, amor patrio, e prudenza qual si addice
al guidatore di grande repubblica, costui spiegò in latino una storia
dall’êra vulgare 1342, esangue e senza critica pei tempi vecchi, pei
successivi ricco di documenti, e meno parziale che non aspetteremmo da
nobile e repubblicano. Lo continuarono Benintendi de’ Ravegnani, poi
Rafaelle Caresini. Pur testè videro la luce la cronaca Altinate, che è
piuttosto un nodo di cronache di differente merito; e, più allettativa
a leggere se non più feconda di notizie, la cronaca scritta in francese
o in francese tradotta dal Da Canale nel 1267. Furono poi nel 1516
assegnati ducento zecchini annui a uno storiografo e bibliotecario di
San Marco, che registrasse i fasti patrj; e il primo fu Marcantonio
Coccio detto il Sabellico, ma abborracciò; Bernardo Giustiniani erasi
appigliato a buoni documenti per indagare l’evo primo, ma si arrestò
all’809. E in generale Venezia non fu guari fortunata di storici; nè
i suoi mostrano prepotente il bisogno dell’esattezza, e adulando la
patria, guastano il conoscerla quanto i moderni romanzisti.

Non vuolsi dimenticare il partito preso in essa fin dal 1296, che gli
ambasciadori esponessero al magistrato un ragguaglio della condizione
fisica e morale del paese a cui erano spediti; poi nel 1425 fu ordinato
di ridurli in iscritto[233], e si conservavano nell’archivio pubblico,
donde, forse illegalmente, se ne trassero le copie oggi possedute da
privati; e per pienezza dei ragguagli, e per l’opportunità che aveano
di conoscere i grandi dappresso, sono preziosissimi fondamenti a quella
scienza, che poi fu prostituita col nome di statistica.

Anche Bologna ebbe una cronaca di quasi quattrocent’anni. La napoletana
di Matteo Spinelli credesi una contraffazione, e certo il suo italiano
è più sciolto che quello posteriore del Malespini. Ma Firenze ci dà le
migliori per dettatura insieme e per buon senso e accorta ingenuità.
Ricordàno Malespini scrisse nel patrio dialetto quanto «trovò nelle
storie degli antichi libri de’ maestri dottori»; e poichè allora erano
sinonimi scritto e vero, vi trae il nome di Pisa dal _pesare_ che i
negozianti vi fanno le merci, di Lucca dalla _luce_ del cristianesimo
ivi portata, di Pistoja dalla _pistolenza_; fa la chiesa di San Pietro
in Roma fondata ai tempi di Augusto, al tempo di Catilina celebrar
messa nella canonica di Fiesole, Firenze devastata da Attila[234];
ma con miglior senno e con mirabile pacatezza, quantunque propenso a’
Guelfi, espone gli accidenti di cui fu testimonio egli stesso fino al
1280.

Lo continuò fin al 1312 Dino Compagni, volendo «scrivere il vero delle
cose certe che vide e udì; e quelle che chiaramente non vide, scrivere
secondo udienza; e perchè molti, secondo le loro volontà corrotte,
trascorrono nel dire e corrompono il vero, propose di scrivere secondo
la maggior fama». Strani canoni della credibilità, che ci attestano
come fosse ancora in fasce la vera storia, uffizio della quale non è
soltanto il raccorre fatti, ma cernirli, ordinarli, esporli. Come nelle
frequenti magistrature della patria procurava insinuar pace, così nelle
scritture; e da tale sentimento trae non di rado veemenza il suo stile,
e — Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il
ferro e il fuoco colle vostre mani, e distendete le vostre malizie,
palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti; non
penate più, andate, e mettete in ruina le bellezze della vostra città,
spandete il sangue dei vostri fratelli, spogliatevi della fede e dello
amore, nieghi l’uno all’altro ajuto e servizio, seminate le vostre
menzogne, le quali empieranno i granaj de’ vostri figliuoli; fate come
fe Silla nella città di Roma, che tutti i mali che esso fece in dieci
anni, Mario in pochi dì li vendicò. Credete voi che la giustizia di Dio
sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una. Guardate ai
vostri antichi se ricevettono merito nelle loro discordie; barattate
gli onori che eglino acquistarono. Non v’indugiate, miseri; chè più si
consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace; e
piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno». Con sì
nobili intendimenti e retto giudizio e gran probità reca nel suo lavoro
brevità, precisione, vigore, qual può desiderarsi in istoria semplice
e veritiera: eppure rimase ignoto al Villani suo contemporaneo e ai
posteri fin quasi al Muratori: oggi s’affollano ragioni per dimostrarlo
apocrifo.

Giovan Villani, mercante e magistrato, si condusse a Roma pel giubileo
del 1300, e «trovandosi in quello benedetto pellegrinaggio della
santa città», la vista di tanti monumenti e la lettura di Sallustio,
Livio, Valerio, Paolo Orosio, Virgilio, Lucano _ed altri maestri di
storie_ l’ispirarono a narrare gli eventi della sua patria, «per dare
memoria ed esempio a quelli che sono a venire, ed a reverenzia di
Dio e del beato santo Joanni, e a commendazione della sua città di
Firenze». Il che fece in dodici libri, senza pretese di dottrina o
prevenzione di sistema, beendo alla grossa le favole antiche; anche
lunghi tratti togliendo di peso dal Malespini senza pur indicarlo,
non parendo allora plagio ma abilità il giovarsi di chiunque avea
preceduto: giunto poi al tempo suo, con gran rettitudine di sentire e
ragionare espone i fatti, e non soltanto della patria, coll’efficacia
di chi può dire — Io scrittore ho veduto, io sono stato». Pende a
parte guelfa senza dissimularlo[235], ma schietto esprime gli schietti
sentimenti, incalorendosi nel ragionare della sua patria, raccontando
con evidenza affettuosa e talora pittoresca, e distendendosi nelle
particolarità, senza dubitare riesca indifferente o nojoso ad altri
quel che a lui fu d’interesse. Da mercante che era, si bada sulle cose
positive che i contemporanei stranieri negligono; e mentre questi non
ci danno che le personali loro impressioni, il Villani procede esatto e
intelligente, esamina, paragona, giudica, e alla gravità degli antichi,
che non di solo nome conosceva, accoppia la sperienza personale.
Tanto positivo nol distoglie dal credere a miracoli e astrologie,
debolezza che facilmente gli si perdona. Scarco d’apparato letterario,
incondito di grammatica[236], nella legatura delle voci è naturale e
analitico; nulla di soverchio, nulla di studiato riempitivo, di forzata
trasposizione, di reggimento artifiziato, ma sempre una famigliarità
semplice e gioconda. Vero modo, pel quale l’Italia avrebbe potuto
elevarsi alla storia originale, se non avesse anche in ciò voluto
crogiolarsi nell’imitazione.

Morto dalla terribile peste del 1348, lo continuò il fratello Matteo,
in undici libri abbracciando appena sedici anni: evidente ritrattista
de’ costumi e degli avvenimenti, pratico del cuore umano e dei viluppi
della politica, s’indispettisce al vizio, s’infervora alla libertà,
la riverenza religiosa nol rattiene dal rivelare anzi esagerare i
traviamenti dei papi, talchè si concilia confidenza e amore. La nuova
peste del 1362 lo rapì, e Filippo suo figliuolo filò il racconto di
lui sino al 65: uom di studj e chiamato a leggere Dante in cattedra,
ha più adornezza e meno ingenuità del padre e dello zio, e nelle
_Vite d’illustri fiorentini_ lascia desiderare quel colorito e quel
particolareggiare, che formano l’anima delle biografie.

Anche Marchione da Coppo Stefani, pensando «quant’è a grado agli uomini
trovare cosa che riduca a memoria le cose antiche, e specialmente
i principj delle città e schiatte, si pose in cuore di durar fatica
e mettere tempo e sollecitudine in trovar libri ed ogni scrittura,
per ricordare a chi n’avesse vaghezza» la storia patria. Fattosi
dalla creazione, tirò il racconto dei Villani sino al 1385, narrando
le discordie dei Ricci e degli Albizzi che Matteo avea dissimulate.
Piero Minerbetti fece una coda troppo inferiore ai Villani che voleva
imitare; nè hanno valore i Morelli. I _Commentarj_ di Neri di Gino
Capponi fino alla pace di Lodi col vigore e l’evidenza attestano il
limpido ingegno di quel destro politico e buon militare, a cui la
repubblica affidava da stendere i dispacci più importanti. Giovan
Cambi fino al 1480 copiò «da uno libro antico e da darvi buona fede» e
riscontrandolo con altri: poi di là segue il suo _Memoriale_ «semplice
e puramente senza adornezza di parole», come un mercante che nota
dì per dì quel che vede e ode, da tutto traendo riflessioni morali
sulla giustizia di Dio, sulla depravazione de’ costumi, sul nulla
delle grandezze umane, e, come tutti i Fiorentini, rimpiangendo il
buono stato repubblicano, che vedeva andare a rotta. Filippo di Cino
Rinuccini dettò _Ricordi storici_ dal 1282 al 1460, donde fino al 1506
li continuarono i figli Alamanno e Neri. E fu abituale fra quegli
Ateniesi d’Italia il tenere certi libri che chiamavano _Prioristi_
perchè vi notavano i priori di ciascun anno, e insieme gli avvenimenti
principali del loro paese e de’ forestieri, domestica tradizione;
carissimi sempre, perchè non lo scrittore, ma l’uomo vi appare; e
confortanti quanto il conversare con un vecchio dabbene e ricordevole.

Gli altri innumerevoli cronisti di Toscana si esprimono colla
nitidezza e precisione dei popolani, non guasti dalla scuola e dalla
pretensione[237]. Le _Storie pistolesi_, d’ispirazione soverchiamente
municipale, danno rilievo alla larga prospettiva de’ Villani. Perugia
nel 1366 ordinava si scrivesse «in un libro giallo tutti i fatti della
città». Il boccheggiare di Pisa sotto i colpi di Firenze è disegnato
da Palmerio; da Guarniero Berni la ruina d’Agobbio; da Manetto le
inesauribili fazioni di Pistoja. Di Siena non ci restano storici nel
tempo ch’essa teneasi in bilico con Firenze e Pisa; e solo Andrea Dei
ne espose i fatti cominciando dal 1186, trasvolando ai tempi antichi
e giungendo fino al 1348; di là prosegue Angelo Tura: dal 1352 all’81
servono gli _Annali_ di Neri di Donato. Degli storici di Lucca il più
antico è Tolomeo Fiadoni, che narra alla fuggiasca le sorti anche di
tutta Toscana dal 1063 al 1303, valendosi del _Registro_ e degli _Atti
lucensi_ ora perduti. Succede Giovanni Sercambi, che sentenzioso e
compassato tirò una cronaca dall’origine della repubblica fino alla
tirannia di Paolo Guinigi, e un’altra sul costui principato, ma con
molti errori sul tempo passato, e slealtà sul suo[238]. La storia di
Lucca, conservatasi repubblica perchè soccombette la sua gran nemica
Pisa, è piuttosto a raccogliersi ne’ suoi archivj, i più preziosi
d’Italia dopo quelli di Roma.

Nelle cronache l’autore nè scevera il falso dal vero, nè studia ad
esposizione colta e ordinata, ma nota con inconsciente ingenuità quanto
vede o sente, riferisce tritamente le vicende delle stagioni, il prezzo
delle derrate, le dicerie di piazza; talora l’ingenuità arriva a tal
punto che il cronista racconta la propria morte[239]: l’aneddoto la
vince sulla storia, si va da frammento a frammento; notizie individue,
frivole talvolta, sconnesse sempre. Pure, a tacer che talvolta
l’unicità li fa rappresentanti d’un paese o d’un’età, cattivano gli
animi come rivelazione dei tempi, e come schietta espressione de’
sentimenti popoleschi e delle passioni accentuate: al loro cessare si
esaurisce una fonte di pruriginoso sapore.

E cessar doveano, perchè essi vedono dappertutto l’immediato governo
della Provvidenza, castighi e premj in ogni evento, predizioni
ed augurj; mentre da poi estendendosi la coltura e complicandosi
la politica, i fatti terminavano d’essere istintivi e impetuosi,
preparavansi a disegno, si consideravano la concatenazione dei fatti,
le remote origini e conseguenze, il che costituisce la storia, la
quale è ricordo, avviamento, esame. Ma il sentimento vigoroso che
si richiede per riprodurre i fatti, la critica per abburattarli, la
ragione austera per giudicarli, l’estesa comprensione per coordinarli,
mal si combinano nè coll’entusiasmo de’ cronisti, nè coll’erudizione di
quei che vi sottentrano. I quali presero a compilare storie in latino,
da contemporanei ancora, ma già mirando all’effetto, e spesso guasti
da reminiscenze classiche, per le quali rimangono talora svisati i
fatti, più spesso i sentimenti. Il letterato sottentra dunque all’uomo,
la penna al battito del cuore, aspettando che arrivi la vergognosa
êra delle gazzette: han luoghi comuni e frasi stereotipe, per cui
ogni mediocre riesce a raccontare _bene_, ma a raccontar nulla, con
chiacchericcio insulso, colla polemica, colla inintelligenza (anche
i più arguti) del gran fatto che arresta il sublime lancio italiano,
perchè tutto vedono traverso al prisma romano.

Poggio Bracciolini di Firenze cerca soltanto le vicende guerresche,
non dandosi per inteso de’ cambiamenti civili, nè facendoci conversare
coi grandi contemporanei, ma riconosce il posto che compete alla bella
città, che rigenerata dal magnifico Lorenzo, non vacilla dietro a
partiti interni, ma osserva la generale politica, e cerca soluzioni
generali alle particolari evenienze. Anche Bartolomeo della Scala tessè
una storia di quella città fino alla calata di Carlo VIII. Leonardo
Bruno d’Arezzo, stando a Roma segretario apostolico, vide e tratteggiò
i miseri subugli di questa metropoli; eletto cancelliere di Firenze,
ne distese la storia fino al 1404: scrittore accurato della frase e
del periodo, richiesto da principi, visitato da forestieri, lasciò pure
versioni dal greco, e vite e lettere, da cui noi razzoleremo la storia
letteraria del suo tempo. Con maggior arte è stilato l’episodio della
congiura de’ Pazzi, con cui Agnolo Poliziano ripagava i Medici della
concedutagli protezione.

Giovanni Cavalcanti narrò le cose toscane dal 1420 al 52, guelfo
di persuasione, idolatro di Cosmo de’ Medici; il Machiavelli se ne
prevalse senza indicarlo. Pedante benchè toscano, non possiede nè
l’ingenuità del Trecento, nè la meditata purezza del Cinquecento;
guasta la cara favella materna con crudi latinismi, manierati
aggettivi, frasi attorcigliate, concioni retoriche; e di mezzo a ciò
modi plebei più rilevati dal tono cattedratico. Dirà _latino_ per
italiano, _queriti_ i cittadini; e descrivendo gli orrori della presa
di Brescia, si trastulla sulle parole.

Vespasiano de’ Bisticci, erudito librajo, lasciò vite di suoi
contemporanei, neglette per lo stile, buone per le cose, talvolta care
per naturalezza, sempre di virtuosi sentimenti. Oltre il _Libro dei
detti e fatti di re Alfonso_ per Antonio Bocadelli detto il Panormita,
di quel re ci diede la storia Bartolomeo Fazio della Spezia, più
sollecito della elegante latinità che di cercare il vero, benchè fosse
testimonio dei fatti. Lucio Marineo siculo, per incarico di Fernando
il Cattolico, scrisse in latino le imprese di questo e di suo padre
adulando. Pandolfo Colenuccio da Pesaro compendiò la storia napoletana
fino a’ suoi giorni: Pier Paolo Vergerio dettò quella dei Carraresi con
eleganza; Daniele Chinazzo da Treviso in italiano la guerra di Venezia
con Genova: il Plátina la storia di Mantova e dei papi, fondandosi
sopra documenti; e se la passione troppo spesso il traviò, ben era raro
al suo tempo questo dubitare delle asserzioni antiche. Giorgio Stella
racconta la Genova dei dogi, desiderando che, pel bene dell’umanità, i
nomi de’ Guelfi e Ghibellini fosser dispersi dalle memorie: quasi non
fossero il necessario nodo della storia d’allora.

La prima cattedra di storia che si ricordi, fu eretta a Milano per
Giulio Emilio Ferrario novarese; poi Andrea Biglia agostiniano raccontò
fedele e non inelegante i fasti di quella città dal 1402 al 31. Pier
Candido Decembrio, vissuto alla corte di Filippo Maria Visconti, poi
caldo della Repubblica ambrosiana, al cadere di questa passò a Roma
e altrove in servizio di segretario; ripatriato, scrisse le vite di
esso Filippo Maria, dello Sforza, di Nicolò Piccinino, e una cronaca
de’ Visconti, piena d’ingenue particolarità al modo di Svetonio, ma
senza la costui purezza. Giovanni, fratello del famoso segretario
Cicco Simonetta, celebrò Francesco Sforza, al quale era stato sempre a
fianco, adulando ma non smaccato, sempre chiaro, spesso elegante, ma
senza la vivacità che impreziosisce i contemporanei. Tristano Calco
seguì la storia dei Visconti di Giorgio Merula; poi vistola fracida
di favole dello scrigno di Annio da Viterbo, la rimpastò traendola
sino al 1323, con critica delle fonti e buono stile. Contemporaneo
suo Bernardino Corio, cameriere di Lodovico il Moro, compiva la più
divulgata storia milanese, in un vulgare barcollante; parabolano nelle
cose vecchie, particolareggiato e ricco nelle contemporanee, sebbene
poco intelligente, e copiando, quasi traducendo il Simonetta.

Questi autori ci conducono fin valico il medioevo, e fin a quelli
che meritano il titolo di storici. A chiarire e interpretare essi
autori, massime pei secoli più muti di luce, a supplirne le mancanze,
ad accertarne i tempi, soccorrono le lapidi e le monete, come per la
storia antica; ma vi si aggiunge una dovizia di documenti. Sono la più
parte scritture pagensi, cioè d’affari privati: per entro le quali lo
statista aguzza l’occhio a scovare le traccie del popolo e il carattere
delle società nella natura de’ possessi e de’ contratti; il cronologo
se n’ajuta a disporre i successi per anni, primo passo a connetterli
e intenderli; la storia ne ricava le tinte onde incarnare gli aridi
contorni de’ cronisti.

Di che scabrezza sia un tale lavoro, non può valutarlo se non
chi v’abbia steso le mani; onde si trova più facile, e perciò è
più consueto il deriderlo come erudita pedanteria. E di beffardi,
sturbatori della scienza e martirio degli operosi, non fu penuria in
verun tempo; ma neppure di rassegnati, che rinvergarono con pazienza,
interpellarono con sincerità questi testimonj del passato, pur
ignorando che cosa deporrebbero. Già nel Cinquecento (secolo che per
farnetico dell’antichità classica recavasi a schifo come barbarie e
ignoranza tutto ciò che avesse attacco al medioevo) v’ebbe cronisti
e storici che nei loro racconti intarsiarono documenti. Su questi
elaborò la sua _Storia del regno italico_ dal 281 al 1200 Carlo
Sigonio, il primo che penetrasse in quell’inesplorata boscaglia. Sfiorò
esso gli archivj tutti d’Italia e singolarmente della Lombardia,
per sè o per mezzo d’amici esaminò i _Monumenti_; e il catalogo
di questi, pubblicato il 1576, desta meraviglia, per quanto le
cresciute cognizioni l’abbiano convinto di molti errori e di ben più
mancanze[240].

Dei documenti si valsero il Sabellico e il Giustiniani per la storia
di Venezia, il Borghini ne’ _Discorsi storici sopra Firenze_, il Corio
ora detto, il San Giorgio di Biandrate nella cronaca del Monferrato
sino al 1490, Gioffredo della Chiesa in quella di Saluzzo fin al
1419, primo che de’ paesi subalpini scrivesse in italiano; Benedetto
Giovio nella _Storia di Como_; e più tardi il Tatti negli Annali
ecclesiastici della stessa città, quando anche il Campi nella storia
di Cremona, il Martorelli in quella di Osimo, il Pellini in quella di
Perugia[241], l’Ughelli nell’_Italia sacra_, il Cinonio nelle _Vite
dei pontefici_, il Puccinelli nell’_Ugo il Grande_, il Gallarati
nei _Monumenti novaresi_, il Guichenon nella _Casa di Savoja_, il
Compagnoni nella _Reggia picena_. Uno de’ migliori il Ghirardacci nella
_Storia di Bologna_ (di cui non s’ha alla stampa che fino al 1425)
mancò dell’arte di disporre, e narrò quasi sempre incolto; ma offre tal
suppellettile di notizie e documenti, che pur beati se tutte le città
ne apprestassero tanti.

Conosciutane l’utilità, si fecero raccolte sia de’ cronisti, sia de’
documenti, e prima da forestieri, giacchè ci vennero da Francoforte gli
_Scriptores Rerum Sicularum_ e i _Rerum Italicarum Scriptores varii_;
da Parigi Ugo Falcando, e le _Cronache Cassinensi_ di Leone d’Ostia
e di Pietro Diacono; da Rouen Guglielmo Apulo; da Spagna la _Cronaca
di Gaufrido Malaterra_; da Augusta il _Ligurino_ del Guntero sulle
imprese del Barbarossa; da Lione il _Codice Longobardo_, e gli _Annali
Toscani_ di Tolomeo Fiadoni; da Magonza _Anastasio Bibliotecario_.
Gilberto Cognato nella _Sylva variarum narrationum_ ci dava l’_Origine
de’ Guelfi e Ghibellini_ di Benvenuto da San Giorgio; il Menkenio
nelle _Cose germaniche_ stampava la cronaca di prete Andrea da Bergamo;
Eckardt nel _Corpus historicum medii ævi_ quella del Jamsilla dal 1210
al 1258; Bongarsio ad Annover il _Liber secretorum fidelium crucis_
di Marin Sanuto; i Bollandisti molti atti dei nostri santi; altre
novità la _Bibliotheca Patrum_, e il Baluzio nelle _Vite dei papi
avignonesi_ e nella _Miscellanea di vecchi monumenti_; e Rymer negli
_Atti_ editi a cura del Governo inglese; e Grevio e Burmann nel _Tesoro
delle antichità d’Italia_ a Leida. Altre apparvero ne’ _Glossarj_ del
Ducange, del Carpentier, dell’Adelung, nelle _Centurie_ di Magdeburgo,
nella _Biblioteca_ del Fabrizio, nelle _Raccolte diplomatiche_ di
Dumont, Martène, Durand, nel _Tesoro novissimo_ di Pertz, negli
_Scrittori di cose brunsvicesi_ del Leibniz, nel _Diarium italicum_ del
Montfaucon, nelle _Raccolte_ del Goldast, del Mabillon, del Wadding,
del Tillemont, e principalmente nel _Codice diplomatico d’Italia_ del
Lünig.

Fra noi erano già comparse le raccolte del _Bullario Romano_ per ordine
di Sisto V[242], il _Bullario Cassinese_ del Margarini, e il _Tesoro
Politico_ contenente relazioni d’ambasciadori veneti; poi nel secolo
passato crebbe tale sollecitudine. Una Società Palatina di nobili
milanesi stampava opere di patria erudizione, e principalmente i _Rerum
Italicarum Scriptores_ del Muratori, disposti con ordine e con savie
note e prefazioni[243]. Vi servono di complemento gli _Italicæ Historiæ
Scriptores_ dell’Assemani, i _Rerum Italicarum Scriptores ex florentinæ
bibliothecæ codicibus_ del Tartini, la _Collectio anecdotorum medii ævi
ex archivis pistorensibus_ del Zaccaria, la rarissima del Mittarelli
_Ad Scriptores Rerum Italicarum accessiones historiæ faventinæ_, la
raccolta delle più rinomate storie e delle cronache di Napoli.

Alla cognizione del medioevo recavano sussidj nuovi Giorgio Giulini con
dodici volumi di _Memorie spettanti al Governo e alla descrizione della
città e campagna di Milano ne’ secoli bassi_, paziente alle ricerche
se inetto alle induzioni; l’abate Fumagalli e i suoi Cistercesi
colle _Antichità Longobardiche Milanesi_, col _Codice Diplomatico
Santambrosiano_, ricco di ben centrentacinque documenti dal 721
all’897, e colle _Istituzioni Diplomatiche_. L’Argelati, scarso di
critica e discernimento, ragionava delle monete italiche, e catalogava
gli scrittori milanesi; l’Allegranza, il Sassi, l’Oltrocchi, il Bona
illustravano i riti e le antichità ecclesiastiche: Gian Rinaldo Carli,
oltre le _Antichità Italiche_, discorreva delle monete e zecche
d’Italia, disaminate pure da Vincenzo Bellini e da Guid’Antonio
Zanetti[244]. Il canonico Lupo, raccolse nel _Codice Diplomatico
Bergomense_ preziosi documenti dal 740 al 1190, nel prodromo molti
punti della nostra costituzione politica ravvisava con un acume che
verun contemporaneo uguagliò. Centinaja di diplomi erano dati dal
Corner nei diciotto volumi de’ _Monumenti della Chiesa veneta_, dal
Rossi in quelli della Chiesa d’Aquileja, dal Brunacci e dal Gennari
in quelli di Padova, dal Vairani in quelli di Cremona, dal Moriondi in
quelli d’Acqui, da Jacopo Durandi nelle _Notizie dell’antico Piemonte_,
delle cui leggi e della pratica legale trattavano il Galli e il Duboin;
dal Fiorentini e dal Mansi nelle _Memorie della gran contessa Matilde_,
dal Pellegrini nella _Storia dei principi longobardi_, dal Carlini
nella _Pace di Costanza_, da Placido Troilo nella _Istoria generale
del regno di Napoli_, da Giovanni de Vita nel _Thesaurus Antiquitatum
Beneventanarum medii ævi_. Il gesuita Zaccaria, negli _Excursus
Litterarii per Italiam ab anno_ 1742 _ad_ 1752, molti monumenti
produsse di civile ed ecclesiastica erudizione. Giambattista Verci si
mostrò infaticabile a cercar documenti, generosissimo a pubblicarli,
buon cristiano a esaminarli, e arguto a trarne cognizioni nuove o
emenda di vecchie nel _Codice Ecceliniano_ e nella _Storia della
Marca Trivigiana_ in venti volumi, di ciascun de’ quali due terzi sono
documenti.

Intanto dal maronita Assemani era data fuori a Roma la _Bibliotheca
Orientalis Clementina Vaticana_; dal Cenni il _Codex Carolinus_, che
chiarì la donazione di Carlo Magno ai papi; dal Mansi la collezione più
compiuta de’ concilj, oltre migliorare le opere del Baronio e del Pagi.
Marco Fantuzzi ne’ _Monumenti Ravennati_ stampava ottocensessantacinque
fra documenti ed estratti, dal VII secolo ove finisce la preziosa
raccolta dei papiri del Marini, fino al XVI. Scipione Maffei nella
_Storia Diplomatica_ chiariva e combatteva il Mabillon, e nella _Verona
Illustrata_ mostravasi modello non solo dell’attento raccogliere, ma
del savio argomentare. Di monsignor Giusto Fontanini, il quale, più
ricco di vanità che d’ingegno, erudizione e buona fede, pedantescamente
miope e sofistico senz’acume, trattò molti punti, massime
ecclesiastici, e diè la storia dell’Eloquenza italiana, i moltissimi
errori e le infinite omissioni riparò Apostolo Zeno, dal quale son
pure a domandare i giudizj intorno agli _storici italiani che hanno
scritto latinamente_. Aggiungiamo le _Delizie degli eruditi toscani_,
pedantesca compilazione del padre Idelfonso, del Mansi, del Lami, senza
scelta nè confronto di codici, nè fedeltà di lezione, sicchè non si
può valersene a fidanza. Dal Lami furono aggiunti i monumenti della
Chiesa di Firenze; i duchi e marchesi di Toscana dal Della Rena e dal
Camici; i _Sigilli Antichi_ dal Manni; i _Scelti diplomi pisani_ e le
dissertazioni sulla storia di Pisa dai Dal Borgo, su quella Chiesa dal
Mattei, su quegli statuti dal Valsecchi; gli _Aneddoti pistojesi_ dal
Zaccaria: oltre i documenti, comunque disordinati e per tutt’altro
intento, che accumularono esso Lami nell’_Odeporico_, e il Targioni
Tozzetti ne’ _Viaggi_, opportunamente adoprati e cresciuti dal Repetti
nel _Dizionario geografico_.

Molte storie municipali furono appoggiate ai documenti. Tale la
comasca di Giuseppe Rovelli, che ne’ discorsi preliminari poneva savie
riflessioni sullo stato d’Italia alle varie epoche, supplendo col
buon senso e colla dottrina legale alla scarsezza d’erudizione. Pel
Friuli avemmo le notizie del Liruti, e la dissertazione sui servi del
medio evo, oltre la _Patria del Friuli descritta_ da Franco Berretta;
per la Valtellina le dissertazioni del Quadrio sulla _Rezia di qua
dall’Alpi_, guaste da un falso amor di patria; per la marca Trevisana
monsignor dell’Orologio; per Ferrara il Frizzi; per Reggio la storia
fin al 1264 dall’Affaroso, per Parma e Guastalla dall’Affò, per
Brescia dal Biemmi, per Monza dal Frisi, per Rimini da Battaglini e
Zanetti, per l’Agro Piceno dal Colucci, per Bologna dal Savioli, per
Pistoja dal Fioravanti, per la Garfagnana dal Pacchi, per Mantova
dal Visi, per Perugia dal Mariotti. Le chiese veronesi ricevevano
illustrazione dal Biancolini, il diritto e le costituzioni di Milano da
Gabriele Verri[245], e la sua Chiesa dal Puricelli, dall’Allegranza,
dal Sassi[246], dall’Oltrocchi[247]: i senatori di Roma da Vitale
e Vendettini, da Galletti il primicerio, le sue arti dal Minutoli,
dal Coronelli, dal Ficoroni, dal Bosio, dall’Aringhi. Il Tiraboschi,
oltre il Codice diplomatico di Modena, porgeva la storia della badia
di Nonantola, e i monumenti degli Umiliati; quelli de’ Cistercensi
il Tromby, de’ Camaldolesi il Costadoni e il Mittarelli, de’ frati
Gaudenti il Federici, poi de’ Domenicani il Razzi ed ora il Marchese.

Le genealogie d’alcune case porsero occasione a rivendicare in luce
nuovi rogiti e diplomi, come la famiglia Carafa e diverse altre nobili
per Biagio Aldimari, la Sforza e i duchi d’Urbino per Rinaldo Reposati,
i conti Guido pel padre Idelfonso[248] e per Scipione Ammirato, la
famiglia Conti per Andrea Salici, de’ Monaldeschi pel Ceccarelli, le
bolognesi pel Leandro Alberti, le vicentine pel Castellini e, a tacer
altri, le estensi pel Muratori, modello di ampia erudizione e di savia
se non disinteressata critica[249]. Aggiungi molte biografie, come
l’_Ambrogio camaldolese_ del Mehus, il _Marsilio Ficino_ del Brandini,
il Trivulzio e il _Filelfo_ del Rosmini, la _contessa Matilde_ del
Fiorentini.

Nelle contese di supremazia della curia romana coll’Impero e con altri
Stati bisognò appoggiarsi a carte[250], e principalmente nella famosa
disputa della chinea, tributata a Roma nel regno delle Due Sicilie.
Al qual paese fu apprestata larghissima messe nella _Biblioteca
Napoletana_ del Toppi colle _Copiose addizioni_ del Nicodemo, nel
_Delectus scriptorum rerum neapolitanarum_ del Giordani, nel _Corpus
scriptorum_ e dei cronisti e scrittori sincroni della dominazione
normanna (1845) di Del Re, nella _Bibliotheca Sicula_ e nelle _Bullæ
et instrumenta panormitanæ ecclesiæ_ del Mongitore, negli atti di
Federico II del Carcani, _Codex diplomaticus_ del De Giovanni, nella
_Biblioteca_ degli scrittori siculi sotto gli Aragonesi di Rosario De
Gregorio, da cui pure la _Collezione delle cose arabe spettanti alla
storia siciliana_, ove la famosa _Chronica saracenica sicula_ avuta
d’Inghilterra dal Gobbart; dalle quali raccolte esso De Gregorio trasse
eccellenti _considerazioni_. Si aggiungano il _Codice Diplomatico
arabo-siculo_ dell’Airoldi; le _Memorie_ e la _Biblioteca_ storica del
Caruso con monumenti dal VII secolo fino al 1282; la incompiuta della
badia di Montecassino del Gattola; la storia ecclesiastica di Nola
del Remondini, di Monreale del Grassi, che diè pure i monumenti per
la Sicilia; la storia de’ principi longobardi del canonico Pratillo;
quella delle leggi e magistrati del Regno del Grimaldi; la _Sicilia
sacra_ del Pirro.

Sul commercio e le finanze portarono lume il Filiasi, il Marini,
il Fanucci, il Marsigli, il Pagnini[251]. Il Mansi trattava degli
spettacoli e del lusso: Pier Luigi Galetti pubblicava iscrizioni,
disposte secondo i paesi, cioè Venezia, Bologna, Roma, marca d’Ancona,
Piemonte. Nelle _Barbarorum leges antiquæ_ il Canciani per ordine e
critica rimase troppo inferiore alle raccolte fattesi dappoi. Contende
egli che il diritto romano persistette nel medio evo[252]; tesi già
sostenuta da Donato Antonio d’Asti napoletano[253], e che pure come
nuova di zecca hanno ammirata i nostri quando ce la presentò il tedesco
Savigny, allora appunto che più severi eruditi mostravano con quante
riserve la si dovesse accettare.

In gran conto erano allora tenute le immunità, fossero le
ecclesiastiche, o de’ Comuni, o de’ corpi civici, salvaguardie potenti
d’una libertà, che i principi ammodernatori conculcarono, e gli
statisti ammodernatori tentano invano supplire: laonde si raccoglieva
solertemente che che vi si connettesse, dibattevasi a lungo se sul
tal possedimento avesse l’alto imperio un re o un abate o il papa,
se il tal parlamento o senato potesse negar l’imposta o interinare un
decreto; quistioni antiquate dacchè il libero nostro secolo derise le
franchigie particolari, e affastellate le offerse in olocausto ad un
potere unico, centrale, non rattenuto dalle tradizionali consuetudini,
ma al più da qualche carta improvvisata o ricalcata e senza garanzia di
stabilità.

Ma non basta adunare ricca suppellettile di notizie, perocchè, come
ogni altra scienza, la storia non è una raccolta ma un’interpretazione
di fatti; sicchè alla ricerca deve farsi seguire la discussione, saper
interrogarli con quell’acume che trasforma in verità ciò che altri
riferisce senza pure intenderlo, distribuirli con accorgimento, esporre
con candidezza, darvi significato, carattere, alito di vita. In questo
campo non mietè abbastanza l’Italia. Chi potrebbe oggi più leggere
nell’Aretino la guerra Gotica, nel Fino e in Tommaso d’Aquileja la
guerra d’Attila, quella di Federico Barbarossa in Cosimo Bartoli, la
vita di Carlo Magno nell’Acciajuoli o nell’Ubaldini, il regno d’Italia
sotto i Barbari nel Tesauro o in Ericio Puteano, le storie longobarde
nel Rota, la italiana in Girolamo Briano o in frà Umberto Locato[254]
e in altrettali, meri esercizj di penna o inette compilazioni?
L’elegantissimo descrittore Carlo Botta nel ricco suo frasario non
trovava epiteti abbastanza ingiuriosi pel medioevo; egli declamatore
perenne, e compilatore di libri già pubblicati, nè paziente a cercar la
verità, nè severo ad esporla. Seco s’aduna la caterva de’ servili alla
moderna accentrazione, e de’ ligi alla scuola enciclopedista, che tutti
futile dispregio o cieca idolatria, non descrissero il medioevo se non
per astrazioni e luoghi comuni, cioè tenebre condensate, universale
ignoranza, regresso d’ogni civiltà, conculcamento d’ogni dignità umana,
trapotenza di preti, ghiotta infingardaggine di frati, concatenata
usurpazione di pontefici, eccidj fraterni, repubblichette. L’età il cui
grido era _Dio lo vuole_, poteva essere intesa da quella che ripeteva
solo _Il re lo vuole_? E noi ribattiamo questo chiodo perchè crediamo
che la peggiore qualità d’un tempo o d’un uomo sia la debolezza, e
tanto più quando si vanti di forza.

In altra sfera vanno collocati il Machiavello e il Vico, precursori
di quella che poi dagli stranieri comprammo col nome di filosofia
della storia. Il primo, nel quadro del medioevo che antepose alle
sue _Storie fiorentine_, sotto la minutezza dei fatti investiga le
idee generali: ma quel caos inaspa il suo sguardo, la ancora scarsa
erudizione non bastava ad avviarlo, e di raccorre tutti i frutti
gl’impediva la preoccupazione politica, la quale era tanta, che di
lettere e d’arti non fa quasi cenno, egli vissuto nella città più colta
de’ mezzi tempi. Affatto pagano poi di sentire, la società civile non
misura che sul modello antico, separata dalla giustizia e svolgentesi
nella libertà; e sempre iroso a que’ pontefici, che pur erano a capo
dell’incivilimento[255].

Giambattista Vico considerò il genere umano come un uomo solo che
procede sotto la mano di Dio, ma rinchiuso entro un circolo fatale,
dove avanzato che sia, dee retrocedere per corsi e ricorsi inevitabili.
Il medioevo non parvegli dunque che una ristampa dell’evo eroico: che
se ciò lo rimoveva dal vilipendere questa evoluzione provvidenziale
dell’umanità, gli toglieva di valutare il compimento e l’attuazione
del cristianesimo in esso avvenuti, e che devono impedire per sempre il
ritorno della barbarie.

Solo un’indagine improba eppure amorevole, una meditazione estesa
eppur profonda, una critica severa eppure non dispettosa potevano
condurre a intendere tempi, in cui dell’antica società tanti sfasciumi
ancor sussistevano, mentre la nuova non era per anco costruita; tempi
coordinati in maniera, che la storia loro era storia della Chiesa, e
di questa formava parte primaria la storia d’Italia, in grazia dei
papi. Perciò torrenti di luce vi addusse il cardinale Baronio, che
nello stendere gli _Annali della Chiesa_ profittò dell’archivio più
ricco, qual è il vaticano, pubblicando un profluvio di documenti,
e principalmente di lettere, fonte opportunissima[256], vagliandoli
con dottrina multiforme, e traendone la verità con metodo, chiarezza,
precisione, e con una lealtà, nè tampoco contrastatagli dagli avversarj
più risoluti[257]. Fra tanta farragine, era impossibile non inciampasse
in falso, e ne lo corressero il Pagi e il Mansi, per nominar solo
i nostri. Dal 1198 fino al 1565, tempi di più copiosi materiali, lo
continuò Oderico Rainaldi critico non altrettanto assennato: ma questi
due rimarranno sempre il repertorio più dovizioso e la storia più
pregevole de’ mezzi tempi[258].

Lodovico Muratori, immenso dotto che non lasciò intentata veruna parte
del campo dell’erudizione, e per giudicare del quale bisognerebbe
sapere quanto egli seppe, in sei grossi volumi latini pubblicò le
_Antichità Italiche del medioevo_, sotto distinti titoli riunendo quel
che dalla sua raccolta degli Scrittori di cose italiane gli risultava
intorno al regno d’Italia, ai consoli, alle monete, al vestire,
a mangiari, giuochi, riti, investiture, feudi, sigilli, arimanni,
repubbliche, tiranni, lingua, guerra, e così via. Siffatta segregazione
di parti distrae da quell’unità di veduta, dalla quale soltanto deriva
un giusto concetto del medio evo. Pure egli seppe ricorrere a fonti
variatissime che ad altro occhio sfuggirebbero, e ne dedusse varietà
e punti d’aspetto, che se oggi compajono o scarsi o comuni, erano
maravigliosi per allora; un’infinità di quistioni snodò, altre ne
propose chiaramente, il che è già un avviamento a risolverle; molte
baje rimosse, molte dubbiezze ripianò, molte verità pose in sodo; col
buon senso supplì più volte a ciò che non dava l’erudizione, sicchè di
rado riesce fallace se anche spesso è riconosciuto incompleto. Peccato
ch’egli siasi dispensato dall’esaminare e paragonare le istituzioni
germaniche, delle quali tanto ritraevano le italiche!

Poi, con una celerità che somiglia a portento, compilò gli _Annali
d’Italia_, ove per anni dispose gli avvenimenti della nostra patria
dall’êra volgare fino all’età sua. Le date controverse si trovano
in lui discusse, e il più spesso noi lo seguiamo: ove non colse,
scegliemmo quella che ci risultò migliore da indagini, delle quali
risparmiamo la noja al lettore. La forma prescelta il costringeva a
separare i fatti dalle cause loro e dalle conseguenze, e quindi gli
toglieva ogni spaziosa prospettiva; espose poi con una vulgarità che
disabbellisce fino il vero[259]: pure gli durerà perenne il titolo di
padre della storia italiana, e da lui è forza pigliar le mosse non solo
per trattare dell’Italia, ma dell’età media in generale.

Per gli Estensi, al cui soldo viveva, più volte egli ebbe a combattere
le pretensioni della Corte romana; e, debolezza della nostra natura,
l’uomo nelle quistioni suole incalorirsi in modo da perdere il senso
del vero, se anche sulle prima l’avea. Il Muratori serbò sempre
rispetto verso i papi; non ne dissimula le taccie, ma non le esagera,
critico sì ma riverente. Udito che a Roma i falsi zelanti, che sogliono
peggiorar le cause anche migliori, armeggiavano per far proibire
l’opera di lui, ne scrisse al pontefice; e Benedetto XIV gli rispose,
aver bensì trovato nelle opere di lui qualche passo riprensibile
intorno alla dominazione temporale, non essere però mai venuto
nell’intenzione di sottoporle a censure, persuaso che un uom d’onore
non devasi conturbare per materie non concernenti il dogma nè la
disciplina.

Tutt’al contrario, Pietro Giannone, nella _Storia civile del regno
di Napoli_, a modo di avvocato affastellò quanto venisse opportuno
alla sua tesi, copiando a man salva altri autori, senza accennarli nè
curare tampoco di unificarli, purchè garrissero le usurpazioni della
Corte romana, tanto ardita da voler vincolare la onnipotenza dei re
siciliani, contro della quale più tardi non restarono che le diátribe
e le insurrezioni: confondendo tempi e costumanze, restringendo la
vista al suo territorio, invece di paragonare cogli altri paesi, dà
aria di prepotenza e d’intrigo a ciò ch’era piana conseguenza di dogmi
generalmente accettati.

Il _Risorgimento d’Italia_ di Saverio Bettinelli per un certo calore,
che, se non porge, lascia intravvedere la verità, si discerne tra le
futili produzioni del secolo passato. Le _Rivoluzioni d’Italia_ di
Carlo Denina, di sufficiente imparzialità e di viste non profonde
ma estese, possono ancora raccomandarsi come libro elementare. Il
difendere le istituzioni ecclesiastiche come egli fece, trovasi
comune a tutti gli storici leali[260]; eppure la lealtà era merito
raro, quando la storia si facea facilmente mediante le sentenze, la
dissertazione e la declamazione, e veniva riducendosi in una gran
congiura contro la verità. Della quale era campione Voltaire, che anche
troppo si occupò delle cose italiche, principalmente nel _Saggio_; e
pedissequo di lui con maggiori studj l’inglese Gibbon, la cui _Storia
della decadenza e caduta dell’impero romano_ abbraccia tutto il
medioevo italiano. Di amplissima erudizione, ma freddo schernitore,
non conosce entusiasmo, non crede ad eroismo o a sagrifizj, sieno
a vantaggio della Chiesa, della patria o della scienza; travolge
le intenzioni dove non osa i fatti, e con una celia o con qualche
lubricità sverta le fame più intemerate. Idoli entrambi dell’età
passata, si trovò chi ardì affrontare gli scherni e i soprannomi per
combattere i loro pregiudizj, e strappare il manto porporino che ne
copriva l’inumano egoismo.

Meglio di qualunque nostro i materiali adunati compaginò un
ginevrino, che gloriavasi d’origine italiana, e che fra noi lungamente
dimorò, e le cose nostre affezionò sempre, Sismondo de’ Sismondi.
Quell’esposizione sua famigliare; l’attenzione allargata ai fatti
contemporanei di tutta Europa; l’evitare i trabalzi, cercando la
connessione degli avvenimenti parziali col punto di azione comune
d’un dato tempo; la felice scelta di quelle particolarità, le quali
presentano l’allettativo d’una storia municipale, mentre egli sa
intarsiare ciascuna colle vicine, e indicarne le cause e lo spirito; la
costanza nelle vedute che al suo tempo pareano liberali, e che prima
di morire egli si udì rinfacciare come aristocratiche; un invariabile
rispetto per la dignità dell’uomo, un interesse continuo per la classe
più numerosa, una predilezione decisa per la forma di governo che nel
medioevo prevaleva in Italia, senza quella cieca deferenza pei re che
da un secolo era l’alito degli storici, fanno che non v’abbia colta
persona che non voglia averlo letto, e a lui attinge le cognizioni e i
sentimenti la gioventù.

Ma prima di tutto egli difetta d’ordine. — L’Italia ne’ tempi di mezzo
offre tale un labirinto di Stati uguali e indipendenti, che a ragione
si teme smarrirvi il filo. Noi non ci dissimuliamo quest’essenziale
difetto dell’argomento assuntoci; ma quand’anche i nostri sforzi
fallissero, il lettore vorrà saperci grado di quel che femmo per
raggiungere l’intento». Queste parole della sua prefazione adduciamo
più a nostra scusa che a sua incriminazione, troppo noi sapendo quanto
lo sminuzzamento dell’Italia tolga che o la rarità de’ fatti renda
spedito il racconto, o la loro importanza gli rechi interesse: ma in
quel labirinto egli non cercò orientarsi col filo delle idee; ravvicina
e aggruppa gli eventi e li drammatizza, ma nulla più; e alla giusta
intelligenza di secoli eminentemente cattolici gli metteva ostacolo non
tanto l’arida negazione calvinica, quanto la filosofistica disistima
per le istituzioni vitali di quel tempo. In conseguenza muove da
convenzionali assiomi per giudicare le specialità d’un tempo; nelle
controversie tra i principi e i preti parteggia sempre coi primi, egli
che pur sentenzia sempre pei popoli contro i principi; trova ridicole
quelle quistioni, sotto la cui forma si producevano i capitali problemi
economici e governativi; non vede che una trica da sacristia in quella
guerra de’ preti a Milano, che diede occasione all’emancipazione
comunale; pretenderebbe che Gregorio VII, Innocenzo III, Tommaso
d’Aquino, non solo avessero le idee, ma usassero il linguaggio di De
l’Olme o di Rousseau.

D’altra parte egli, intitolando _Storia delle repubbliche_ la sua,
saltò di piè pari la fasi più problematica del nostro medioevo, vale
a dire l’invasione dei Barbari, lo stato di conquista, la feudalità.
Soltanto dallo studio di questi può raccogliersi la trasformazione
del mondo romano nel nuovo; laonde egli il cardinale problema della
formazione de’ Comuni non isnoda, ma recide, facendone una concessione,
da re Ottone prodigata onde umiliare i contumaci vassalli; di maniera
che ad un re straniero dovrebbe attribuirsi il merito d’un ordine
di cose, al cui svolgimento i re stranieri furono sempre l’ostacolo
maggiore. Poi in Italia fino al Mille s’era chiamato _regno_ la metà
superiore; dappoi questo nome passò a indicare il paese meridionale;
estese porzioni della penisola durarono costantemente a dominio
di dinasti: ond’egli, prefiggendosi di descrivere le repubbliche,
avrebbe dovuto decomporre la storia nostra, se fortunatamente non
avesse rotto le barriere che improvvidamente si era poste, e non si
fosse affezionato agli ultimi Svevi e avversato agli Angioini, quanto
già per amore dei Milanesi e de’ Veneziani riprovava il Barbarossa e
Massimiliano[261].

Parte vitale nella storia d’Italia sono le arti e le lettere. Saverio
Quadrio e Mario Crescimbeni aveano già diretto pazienti ricerche
sulla letteratura, ma soffogando fatti vitali sotto insignificanti
particolarità: e di ciò ha peccato pure Girolamo Tiraboschi. Con
solerzia disseppellì nomi, accertò date e titoli di libri in modo da
ben poco lasciar da correggere e supplire; ma nulla più; non seppe
esaminare l’intento degli autori, non assimilarsi ai tempi, non
connettere l’andamento letterario colle grandi quistioni, sotto la
cui varietà ad ogni suo passo l’umanità riproduce i problemi sociali;
non presentare insomma la letteratura come espressione della civiltà.
Invece di giudizj proprj, appoggia o riprova gli altrui, limitandosi
a metterli a fronte, e pretendendo conciliarli anche dove è men
possibile; pronto sempre a ridirsi quando altri, fosse pure il ciclico
Andres, gli oppongano argomenti o anche soltanto asserzioni[262]. Del
resto, non grazia di linguaggio, non scelta d’immagini, non cura di
rendersi piacevole, non costante elevazione del pensiero; nè si accorse
quanti fatti letterarj sfuggano inavvertiti, a segno che per iscriverne
la storia bisogna, collo studiare l’immaginazione e la natural legge
de’ suoi sviluppi, compiere i documenti che ci pervennero mutilati, e
domandarne alla scienza dello spirito umano.

Alle dispute cronologiche sostituite l’analisi de’ libri, siano pur
inconcludenti da non meritarla, o così capitali da non bastarvi;
moltiplicate que’ ravvicinamenti di altre letterature, di cui
difetta il nostro; animate la vita degli autori cogli aneddoti,
pei quali si dimentichi la fisionomia generale del tempo; il tutto
spolverate coi frizzi irreligiosi e cogli epigrammi disumani della
bottega di Voltaire, e avrete travestito il gesuita Tiraboschi
nell’enciclopedistico Ginguené. La sciagurata inclinazione a
raccogliere e tracannare tutto ciò che ne piove di Francia, od è
pensato e scritto alla francese, fece raccomandato alla gioventù
anche questo libro; per modo che la storia del paese che è centro del
cattolicismo s’impara sopra un autore calvinista ed uno incredulo. Ma
come osare di muoverne lamento se non sappiamo apprestar nulla di più
piacevole a chi legge, di più ragionevole a chi pensa?

Uno straniero venne in Italia, come usano gli oltramontani, per farvi
una passeggiata, lodarne il sole e le donne, dare un’occhiata, e
oracolare sentenze, tutte sapienza di sensi: ma albergatosi a Roma,
prese vaghezza delle arti, e cominciò a studiarle; e sempre colla
valigia disposta al ripartire, vi rimase trent’anni. Dei suoi studj
fu frutto la _Storia delle arti_, dove esso D’Agincourt, sebbene non
guarito dallo sprezzo filosofico, raccolse o indicò tanti lavori del
medioevo, che neppure dall’aspetto del bello fu più lecito chiamarlo
barbaro. Viemeno poi dacchè l’attenzione si diresse sulla maestà
delle cattedrali, e smettendo d’idolatrare le sole forme, si riconobbe
la ispirazione sublime nell’esecuzione, per quanto scorretta, delle
miniature, dei sepolcri, delle vetriate.

Sicuramente a migliorarci contribuirono non poco gli stranieri, sia
pel modo nuovo con cui osservarono la storia del proprio paese, sia per
quel che dissero intorno al nostro, scarchi d’ire e d’amore per vicende
che non li concernono, e di quella boria che noi scambiamo per amor di
patria, e che si fa più viva quando una nazione sentesi più conculcata
e impotente a un risorgimento, di cui vorrebbe mostrarsi meritevole.
Però ci sia permesso credere che troppo facilmente si condiscenda a
sistemi venutici d’oltremonte, sino a contorcere i fatti acciocchè
capiscano in quelle cornici. Ad alcuni Tedeschi principalmente dobbiamo
senza fine chiamarci obbligati dell’avere esaminato dal proprio punto
d’aspetto i casi nostri in un’età nella quale le istituzioni tenevano
tanto del germanico; e se anche, per esaltare le proprie, han talora
depresso le cose nostre, a loro dobbiamo, non foss’altro, una più retta
conoscenza di quella civiltà germanica, che si combinò colla romana per
formare la moderna, e che valse a restituire all’individuo l’importanza
che prima era riservata al cittadino e allo Stato. Ma sminuiremo
per questo il sommo pregio delle reliquie romane e reputeremo che a
poco valesse una civiltà indigena, che pur tanto operò là dove non
era che importata? Questo annichilamento del popolo italiano, questa
trasfusione del sangue nordico, necessaria perchè il latin seme
disbarbarisse[263], come crederle, se, a tacer Roma, vediamo Venezia,
incontaminata da conquiste, rifarsi tanto magnifica coi soli corrotti
elementi dell’Impero declinante, ma colla libertà?

Ricerche più sagaci, esami più complessi; più meditati giudizj,
opinioni meno pregiudicate chi può negare alla nostra età? Arrivammo
a questa traverso una rivoluzione, di lunga mano preparata nel
campo delle idee, prima che fosse violentemente attuata nel campo
dei fatti; e cui carattere principale fu demolire il passato per
riformare radicalmente la società civile, scatenarsi sopratutto
contro il medioevo, perchè è il meno intelligibile a chi rifiuti le
evoluzioni storiche, e giudichi non dal complesso ma da frammenti.
Settant’anni[264] passarono da quella prima scossa, eppure non è tempo
ancora di giudicarla, perchè durano tuttavia, non che gli effetti,
i movimenti; essa divertì le menti dalle placide ricerche, dissipò
quelle società monastiche dove la fatica era alleggerita e completata
dall’affratellamento; e quasi si volesse far guerra al passato non
solo nelle sue conseguenze ma fin nelle sue memorie, parte si sperdeva,
parte si spostava de’ documenti. Pure tra il frastuono susseguito non
mancò fra noi chi continuasse le indagini erudite: Brunetti cominciava
in qualche modo il _Codice Diplomatico toscano_[265]; Meo gli Annali
critico-diplomatici del Regno di Napoli; la principessa Elisa Baciocchi
faceva compilare le _Memorie e documenti per servire all’istoria
del principato lucchese_, opera che, con più elevata intelligenza
proseguita sinora, è una delle più copiose fonti alla storia civile
italiana.

Quando poi lo strepito della guerra si tacque, cessate le paure d’un
passato irremeabile e la rabbia del distruggere, la scienza potè le
accumulate ruine contemplare senza beffa e senz’odio. Il crollo delle
istituzioni denigrate lasciò un tal vuoto, da convincere quanto bene
poteano aver fatto in altri tempi: si conobbe che la civiltà e la
verità non entrano nel mondo di sbalzo, non per decreti di re, non
per insurrezioni di plebe, ma progressive, e pigliando le mosse dalle
istituzioni anteriori, sicchè rannodata la catena de’ fatti e dei
concetti, e considerata l’umanità come un uomo solo che progredisce
sempre e non muore mai, nulla dovea considerarsi con disprezzo, perchè
tutto era acconcio coi tempi, e perchè scala al ben presente, il quale
pure non è che un avviamento a progressi futuri. Sarebbe ragionevole
chi uscisse colle maschere ne’ giorni di Passione? o chi l’albero
maledicesse di primavera perchè mostra soltanto i fiori e non ancora le
poma?

Allora anche fra noi si tornò a studiare il passato senza iracondia nè
vilipendio, con intendimenti più acuti e meno declamazioni; e a tacere
per ora gli storici, abbondarono i raccoglitori, preziosi anche quando
manchino d’intelligenza, come il Daverio, il Ronchetti, il Marsand
e qualche vivente[266]. Cognizioni non ordinarie cumulò il Cicogna
nella _Raccolta delle iscrizioni venete_: altre sono sparpagliate ne’
giornali e in opuscoli di circostanza. Ma a due pubblicazioni vuolsi
retribuire lode speciale. L’_Archivio Storico_ del Vieusseux, con una
erudizione scevra di pedanteria e conscia dei più recenti problemi
storici, che sono anche problemi sociali, se più abbonda in memorie
moderne, non poche ne apprestò intorno al medio evo. Di queste poi fu
generosissima la Deputazione di storia patria, istituita a Torino, e
che coi nove volumi finora pubblicati[267], di materie in gran parte
inedite o almeno rimigliorate, ajuta i cercatori delle patrie storie,
tanto più che de’ collaboratori alcuni sono insigni essi medesimi in
questi studj.

Di potente sussidio ci vennero anche pubblicazioni forestiere, fra cui
principalmente i monumenti storici della Germania dal 476 al 1500, dal
Pertz ideati sul modello del Muratori; i _Regesta_ degl’imperatori di
Böhmer, di Döniges, d’altri; quelli dei pontefici di Jaffe[268]; le
vite di Gregorio VII, d’Innocenzo III, d’altri papi, concepite in senso
diverso dal vulgare.

Ed ora che la storia è divenuta l’arsenale donde assumono armi la
teologia, la politica, la statistica, la morale, quella d’Italia fu
un tema di moda, e non solo tra i confini delle Alpi: ma se degli
illustri contemporanei io devo farmi scolaro anzichè erigermi giudice,
da chi è competente odo asserire che i nostri non parvero avanzarsi a
paro coi passi del secolo; che ci mostriamo piuttosto dilettanti che
studiosi; che l’opera più estesa in tal fatto, la _Storia d’Italia_ del
Bossi, è compilazione indigesta, scompleta, avventata e cosparsa delle
stizze d’un levita apostato; nel che le somigliano quella del Levati
in continuazione alla _Storia Universale_ del Ségur, e d’alcuni altri
che si permisero di esser frivoli in materia sì grave, di pensare come
Voltaire quando Voltaire più non avrebbe pensato così, di avere pel
proprio soggetto un dispregio ancor più di pigrizia che di riflessione,
o d’isterilirsi nel pedantesco sussiego, nelle frasi generiche, ne’
sentimenti convenzionali e preconcetti.

Nuovo guasto le recò l’epidemia politica, travisandola perchè
rappresentasse, o almeno alludesse al presente, e ad umbratili
dispute sovraponendo l’incubo dell’onor nazionale; e gli strapazzi
e le denunzie contro chi dipingeva al vero Teodorico, Carlo Magno,
Federico II, Innocenzo III, non erano ispirati da zelo del vero o da
intolleranza coscienziosa, bensì da avversioni e da amori per fatti e
persone odierne.

L’antipatia al dominio temporale dei papi, antica quanto esso, ed
incalorita oggidì dall’opposizione a chiunque governa, quand’anche
non governasse male, alterò sempre i giudizj su tempi ove i pontefici
supremavano; e come alcuni tessevano impavide apologie degli atti
meno scusabili, così altri divisarono un’ambizione tradizionale,
una cospirazione a danno del pensiero e della libertà, continuata
per quindici secoli fra ingegni e volontà così disparate; e mentre
un imperatore cancellava dai calendarj il nome di Gregorio VII, i
sofisti divinizzavano Crescenzio e Arnaldo da Brescia. Che dirò dei
sentimentali, che dappertutto mettono qualche frase di carità, di
fratellanza e, quel che più fu abusato a’ nostri giorni, di nazionalità
e d’odio agli stranieri? idee sconosciute al tempo che descrivono,
quanto quelle di barche a vapore o di telegrafi elettrici.

Di questi luoghi comuni si stomacarono alcuni; ma proponendosi
d’evitarli, fransero nel paradosso, inneggiando sol perchè vilipeso,
conculcando sol perchè venerato; solite eccedenze delle riazioni.
Non mancarono però scrutatori pazienti ed assennati estimatori, che
esercitando la critica su fatti d’erudizione e sentendo l’importanza
di opporre la realità al vago e all’incompleto, trovarono da cambiare
intere serie di fatti, convenzionalmente ricevuti per istorici, e più
spesso il modo di valutare qualche avvenimento che, messo in relazione
coi precessi e coi successivi, acquistava un color nuovo, dava un nuovo
significato ad un uomo o ad un’età.

Sebbene qui, all’opposto dei troppo imitati Francesi, si deprima, non
foss’altro col silenzio, ogni opera compaesana, adorando l’Italia e
conculcando ciascun Italiano, e, come Sansone, si adoperi la mascella
del giumento morto per uccidere i vivi, pure corrono al labbro di
ciascuno i nomi di que’ nostri che operarono a raddrizzare i concetti
scolastici sia intorno al medioevo in complesso, sia specialmente
intorno alla storia italiana, e massime all’età longobarda, alla
condizione delle plebi, all’origine dei Comuni: e forse non manca se
non una robusta sintesi che tutti quegli sforzi particolari assuma in
una potente unità, che ne sia insieme il frutto e la riprova, seguendo
quella catena di cognizioni, di sentimenti, di atti, di libertà che,
non mai interrotta, collega noi moderni con tutti gli antepassati
nella grand’opera del propagare la dottrina, e così elevare le classi
inferiori, estendere la libertà, proteggere la dignità, consacrare
l’eguaglianza sotto la disciplina della coscienza, anzichè sotto la
violenza ufficiale.



CAPITOLO CV.

Calata di Enrico VII.


Da Federico II in poi nessun re di Germania erasi coronato in Italia;
gli eletti assumevano il titolo di _re de’ Romani_, professavano sempre
di volere venirvi, come di volersi crociare, nè all’una adempivano nè
all’altra promessa: sicchè per sessantaquattro anni Italia non vide
principi tedeschi. Il cavalleresco Adolfo di Nassau della supremazia
imperiale diè segno col mandare qualche vicario, ma ben presto rimase
vinto ed ucciso da Alberto d’Austria.

Questo erasi ciuffato la corona (1298) col profondere privilegi agli
elettori, e al papa promettere di francheggiarne i diritti contro
qualsifosse aggressore, nè far pace o tregua coi nemici di esso; ma al
par di Rodolfo suo padre non volle pericolarsi nelle vicende d’Italia,
attento piuttosto a consolidare sua casa, meglio che non fossero
riusciti gl’imperatori sassoni e gli svevi. Se non che colle sue
tirannie disgustò i popoli, che gli si rivoltarono a Vienna, in Stiria,
e con migliore fortuna nella Svizzera, allora redentasi in libertà:
coll’avarizia esacerbò il nipote Giovanni di Svevia, che lo uccise.

Filippo il Bello re di Francia chiese allora (1308) al suo papa
un’altra grazia, che cingesse a Carlo di Valois la corona germanica;
e già aveva compro alquanti elettori, sicchè la Germania fu ad un
punto di subire uno straniero: ma il papa sollecitò perchè i voti si
concordassero sopra Enrico VII, ch’egli promise incoronare imperatore.
Costui, signore di poco più che della piccola contea di Luxemburg,
ma imparentato con molti principi, e fra altri con Amedeo V conte di
Savoja, allettando gli animi col valore e la cortesia, presto riuscì
a quel ch’era omai il primo intento degl’imperatori, aggrandire la
propria famiglia, collocando sul trono di Boemia suo figlio Giovanni
(1310).

Francesco da Garbagnate, nobile ghibellino, sturbato da Milano al
cadere dei Visconti, e come eretico condannato a portar sempre una
croce, viveva a Padova di fare il maestro, quando udita l’elezione del
nuovo cesare, vende i libri per comprare armi, e va a lui, e lo inanima
a calare in Italia per ristaurarvi la parzialità imperiale; troverebbe
ajuti non solo da questa, ma anche dai Guelfi, mal soddisfatti del
papa esulante e di chi facea per esso. All’umore cavalleresco di
Enrico talentava codesto sfoggiare in Italia un’autorità, della quale
aveva concetto meraviglioso; e senz’armi e senza ricchezze calava
in paese che un secolo e mezzo avea resistito a’ suoi predecessori
potenti. Ma nella lunga assenza degli imperatori erasi rintuzzato il
geloso sentimento repubblicano, alle ispirazioni franche della libertà
municipale sottentravano le reminiscenze romane, nè sopra Enrico pesava
l’odio giurato alla casa Sveva, nè a lui correva l’obbligo di vendette
ereditarie. Capo dei Ghibellini come imperatore, realmente professava
la grande imparzialità; a un Ghibellino che gli offriva averi e vita
purchè desse vantaggio alla sua parte, rispose: «Io venni per il tutto,
non per le parti»; anche il papa, desideroso di opporre qualcuno alla
prevalenza della Francia, mandò i suoi legati ad accompagnarlo, farlo
il ben arrivato nelle città guelfe, e imporgli la corona d’oro[269].

Ma la grande rappresentanza pontifizia, schiaffeggiata nella persona
di Bonifazio VIII, avea tagliato i proprj nervi col trasferirsi in
Avignone; senza ritegno sparlavasi contro la Babilonia d’Occidente,
la prostituta dell’Apocalissi; anche spiriti serj e pii guardavano la
supremazia del papa come distinta dalla causa della Chiesa; indignati
contro di quello, bramavano un’autorità che lo deprimesse, e al solito
ponevano grandi speranze in Enrico, «uom savio, di nobile sangue,
giusto e famoso, di gran lealtà, pro d’armi, di grande ingegno e di
grande temperanza, e che parte guelfa e ghibellina non voleva udire
ricordare» (COMPAGNI). In fatto Enrico, estranio a tali dissidj,
ammetteva e questa e quella, i tiranni e i magistrati municipali; i
Pisani, che gli spedivano sessantamila fiorini perchè avacciasse a
passare in Toscana; e i signorotti che promettevano condurlo traverso
all’Italia col falco in pugno, senza mestier di soldati.

Per la Savoja e val di Susa giunto a Torino (1310), surrogò vicarj
suoi a quelli del re di Napoli; ad Asti ebbe un incontro de’ signori
lombardi, cui promise non voler far divario tra imperiali e papalini,
ma venire a rimetter pace, a cancellare di bando i fuorusciti, e
tornar le città dalle private signorie sotto l’immediato suo dominio.
Di fatto riconciliò in Vercelli i Tizzoni cogli Avogadri, in Novara
i Brusati coi Tornielli, in Pavia i Beccaria coi Langosco; restituì i
Ghibellini a Como e a Mantova, i Guelfi a Brescia e a Piacenza; ma non
potè indurre gli Scaligeri a ricever in Verona i conti di Sanbonifazio,
esulanti da sessant’anni.

In Lombardia primeggiava sempre Milano, non dimentica dei tempi del suo
glorioso riscatto, ma dai Torriani già abituata al dominio d’un solo,
quando l’arcivescovo Ottone Visconti la acquistò (1277), e l’invigorì
coll’unire alla civile la podestà ecclesiastica (pag. 28). Fortunato
di non aver bisogno di supplizj per assodarsi, e fatto potente dalle
città ghibelline che gli si congiunsero, studiò tramandare la potestà
al nipote Matteo. Il quale fu eletto capitano dal popolo milanese, poi
da quello di Novara e Vercelli; indi vicario imperiale di Lombardia
(1295), a nome di Adolfo di Nassau; finalmente, alla morte di Ottone,
signore di Milano. Altre molte città imitarono l’esempio. A Bergamo
lottavano Colleoni e Suardi contro Bongi e Rivoli, e i primi mandarono
a chiedere Matteo, che corse in loro ajuto, e ne fu gridato signore.
In Pavia Manfredi de’ Beccaria, dopo sanguinose baruffe, soccombette a
Filippone Langosco, e Matteo carezzò costui e ne chiese la parentela;
ma egli, sospettatolo d’ambire quella città, ruppe gli accordi. Intanto
il Visconti s’imparentava colle due famiglie principali della parte
ghibellina e della guelfa, dando una figlia ad Alboino degli Scaligeri
di Verona (1293), e al suo primogenito Beatrice, sorella di Azzo
d’Este, vedova di Nino de’ Visconti di Pisa, signore d’un quarto della
Sardegna. Le feste di quell’occasione furono delle più splendide che si
vedessero, ripetute con gara di sontuosità a Modena, a Parma, a Milano.

Ma costei era già stata promessa ad Alberto Scotto signore di Piacenza,
il quale legossi al dito l’ingiuria. Vinta, non estirpata, la fazione
de’ Torriani rinforzavasi pei rancori e per le gelosie, consueti contro
un dominio nuovo. Vi soffiò lo Scotto, e strinse lega coi tiranni
Filippone Langosco predetto, Antonio Fisiraga di Lodi, Corrado Rusca
di Como, Venturino Benzone di Crema, i Cavalcabò di Cremona, i Brusati
di Novara, gli Avogadri di Vercelli, Giovanni II di Monferrato; Guido,
Mosca ed altri Torriani accorsero dal Friuli, dove s’erano rifuggiti
presso il patriarca loro zio; molti signori milanesi e fin di casa
Visconti tenner mano coi congiurati; e ben presto Milano a rumore
espelleva i Visconti (1302), il Rusca ribellava Como, benchè cognato di
Matteo, onde questi cesse alla fortuna: e un decreto dichiarò decaduti
i Visconti, un altro nominò capitano della città Guido della Torre.
Mutazioni effimere, e Matteo, che facea sua vita in quiete nella villa
di Nogarola, chiesto da alcuno come gli parea di stare, rispose: —
Bene, perchè so adattarmi al tempo»; e quando pensasse rientrare in
Milano: — Quando i peccati de’ Torriani soverchieranno quelli ch’io
aveva allorchè fui cacciato».

Per le città lombarde allora tornarono a galla quei ch’erano sommersi;
e Alberto Scotto, principale macchina di quelle vicende, ottenne
signoria su varj paesi, autorità su tutti. Ma ben presto egli s’ebbe
inimicato signori e popoli; e avendo mosso l’esercito contro i
Pavesi, trovossi di fronte Cremaschi, Lodigiani, Vercellini, Novaresi,
Milanesi, Comaschi e il marchese di Monferrato, che posero anche a ruba
il Piacentino. Per lo Scotto campeggiarono i Correggio, i Visconti,
gli Alessandrini, i Tortonesi, gli Astigiani; e i nomi di Guelfi e
Ghibellini riviveano dappertutto con mutata significazione, il primo
indicando i fautori de’ Torriani, l’altro quei de’ Visconti, cui
lo Scotto offrì di rimetterli nella città d’onde poc’anzi gli avea
snidati. Sebbene non ne seguisse battaglia, i Piacentini erano sazj di
tanti guasti, e ordirono una congiura che non valse se non a portare
alcuni al patibolo: ma poi insorti popolarmente, cacciarono lo Scotto,
cacciarono Giberto Correggio che volea farsi signore, e al grido di
_Popolo_ richiamarono i Landi, i Pelavicini, gli Anguissola fuorusciti,
dai quali fu chiesto capitano della città Guido Torriano. Costui
era dunque sul montare; ma ben presto egli pure eccitò scontento nei
popoli, dissensioni nella propria famiglia, fino a dover imprigionare
l’arcivescovo Cassone suo cugino co’ fratelli, imputati di attentare
alla sua vita.

A Guido non dovea dar per lo genio il proposito di Enrico VII di trarre
a immediato suo dominio le città lombarde, contro i patti della pace
di Costanza; ma non avendo potuto opporgli una lega guelfa, si piegò al
volere del popolo, ed uscì inerme ad incontrare Enrico (1310 — 3 xbre),
che con lungo codazzo di signori entrò in Milano da dominante, e prese
la corona di ferro, presenti i deputati di tutte le città di Lombardia
e della Marca. Guido solo non aveva abbassato l’insegna quando fu ad
incontrarlo; ma i Tedeschi gliela abbatterono, ed Enrico gl’intimò:
— Riconosci il tuo re; duro è ricalcitrare contro lo stimolo»; pur
risoluto a tenersi imparziale, lo riconciliò coi Visconti. Dappertutto
intanto sostituiva vicarj imperiali ai podestà eletti dai cittadini,
rimpatriava gli esuli, e godeva sentirsi acclamato ristoratore della
pace, della giustizia, della libertà.

Sul principio era in fatto universalmente il ben venuto, ma non tardò
a scontentare i Milanesi col voler introdurre in città uomini armati,
e coll’esigere un donativo. Di questo trattossi nel consiglio, e
Guglielmo Pusterla propose cinquantamila zecchini; Matteo Visconti,
liberale colla roba altrui, soggiunse: — Vorrete almeno assegnarne
diecimila altri per la regina». Al che Guido Torriano indispettito: —
E perchè non fare addirittura il numero tondo, centomila?» e il notajo
regio protocollò centomila, e non ci fu modo di dibatterne uno.

Per questo valsente Enrico concedette un amplissimo privilegio
ai Milanesi (1311 — 20 marzo); per cinquemila ne diede un altro
ai Monzaschi[270], comminando a chi li violasse gravissime pene,
pagabili non già ad essi Comuni, ma alla sua camera. In procinto
poi di calare verso la bassa Italia, pensò tôrre degli ostaggi, e in
apparenza di onore domandò al Comune cinquanta cavalieri, fra’ quali
Matteo Visconti, Galeazzo suo figlio, Guido Torriano e Francesco suo
figlio. S’accorsero a che parava; peggiorati gli umori, tornavasi ad
esclamare contro i Barbari vecchi e nuovi; e i figli dei due capiparte,
affiatatisi, cominciarono quel grido di _Morte ai Tedeschi_, che tante
volte e prima e poi fu sinonimo di _Viva la libertà_. Il popolo prese
le armi, e faceva Dio sa quale scena se tutto davvero i Visconti
fossero stati d’accordo coi Torriani; ma questi furono assaliti ed
espulsi di città abbattendone le case; Matteo, che giocava a due mani,
col mostrarsi tranquillo ottenne dall’imperatore il comando, e titolo
di vicario per cinquantamila fiorini, oltre venticinquemila annui.

I Torriani però aveano dato il segno ai Guelfi di Lodi, Crema, Cremona,
Brescia, che cacciarono i vicarj imperiali e corsero all’arme; ed
Enrico, dissipato quel benevolo sogno di stare amico a tutti, dovè
colla forza risoggettarle; Cremona ebbe atterrate le mura, arrestati
ducento principali, imposti centomila fiorini, e i soliti arbitrj
d’un’occupazione militare. Tebaldo Brusato, che, per interposto di
Enrico, era stato ricevuto in Brescia dal ghibellino Matteo Maggi,
avea côlto il destro per vendicarsi e imprigionar questo e gli altri
capi, e farsi signore coll’ajuto de’ fuorusciti guelfi; onde Enrico
assediò quella città, che, atterrita dall’esempio di Cremona, si
difese mezz’anno: il Brusato, anche caduto prigione, continuò ad
esortare i suoi alla difesa, sicchè Enrico il fece barbaramente
uccidere. Fieramente lo vendicarono i Bresciani, che ferirono anche
il fratello del re, sinchè, consumati tra malattie e ferro tre quarti
dell’esercito, Enrico li ricevette a capitolazione, traendone denaro e
maledizioni, paga de’ conquistatori.

Enrico dunque, venuto a portar la pace, dietro lasciava nimicizie
ribollenti, sicchè quell’anno dappertutto furono abbattute, ricacciate
le varie fazioni, i vicarj imperiali, i signorotti; battaglie in
ogni città e campagna; e per aggiunta la peste, sviluppatasi in
quell’assedio, andò sempre compagna all’esercito imperiale.

Il tempo che intorno a Brescia egli consumò, avea lasciato intiepidire
gli amici suoi, rinforzarsi i nemici, principali de’ quali erano
Roberto nuovo re di Napoli, i Bolognesi e i Fiorentini. Fatto denaro
col nominare vicarj di Mantova i Bonacolsa, di Treviso i da Camino, di
Verona gli Scaligeri, Enrico si volse a Genova, la quale, stanca del
parteggiare fra gli Spinola e i Doria, la prima volta accettò dominio
forestiero (9bre), sottoponendosi per venti anni a lui, che vi costituì
vicario Uguccione della Faggiuola. E ben fu sua ventura che Genova e
Pisa il fornissero nella sua povertà quando tutti lo abbandonavano,
sicchè colle navi loro approdò in Toscana.

Firenze, Atene d’Italia, passionata delle lettere e delle arti belle,
feste ed allegrie frapponeva alla serietà degli affari; gelosa della
sua democrazia, la portava sino all’esclusione, cioè alla tirannide. Il
vederla in tanto fiore mentre era governata da magistrati mutabili ogni
due mesi, nè rieleggibili che dopo tre anni, mostra quanti possedesse
cittadini capaci di reggere la cosa pubblica; e perciò erano richiesti
anche fuori ad ambasciate e a governi[271]. Come negozianti non amavano
le armi, fidando meglio nei maneggi politici; e non avendo codice e
fissa costituzione, si sosteneano per clientele e parenti.

Fedele alla causa italiana, quale almeno s’intendeva allora, Firenze
non ismaniava di divulgare la libertà ove il pregio non ne fosse
sentito; ma persuasa che Italia dovesse la civiltà sua a quel
contrastare indipendente, guardava che tirannide straniera o natìa non
vi si consolidasse, e perciò teneva la bilancia; guelfa di solito, ma
non repugnante all’accostarsi ai Ghibellini quand’uopo le paresse.

Dentro cozzavansi ancora Bianchi e Neri; e Benedetto XI (1304), più
leale amator della pace che Bonifazio VIII, mandò fra Nicola da Prato
cardinale d’Ostia perchè vi rimpatriasse i Bianchi fuorusciti. Il
popolo ne esultò; ma i grandi della parte Nera, per tôrgli credito,
sparsero ch’egli avesse incitato i Bolognesi contro Firenze, sicchè
ad urli fu cacciato da quei che un istante prima lo aveano accolto a
plausi, ed egli pose all’interdetto la città. Subito furono in armi le
parti, e tra la baruffa s’attaccò un incendio, alcun disse per opera di
ser Neri Abbati (10 giugno); e niun provvedendo a spegnerlo, distrusse
da mille settecento case con incalcolabile perdita di masserizie e
mercanzie, spezialmente ne’ magazzini de’ Cavalcanti e de’ Gherardini,
che ne rimasero rovinati.

I Bianchi, ricoverati in Pistoja, invigorivano pe’ sussidj de’ Pisani,
Aretini, Bolognesi; sicchè i Fiorentini chiesero per capitano Roberto
figlio di Carlo il Zoppo, che con Aragonesi e Catalani gli ajutò a
stringere d’assedio Pistoja. Invano il papa spedì frati e cardinali,
lusinghe e interdetti; essi durarono finchè ebbero la città, e ne
fecero strazio (1306), la smurarono, ne spartirono il territorio fra
sè ed i Lucchesi. A’ Guelfi rimase dunque il sopravento, comunque
scomunicati: Pisa e Arezzo, sole città ghibelline, aveano dovuto
implorar pace; ma anche la taglia trionfante divideasi, colla consueta
vicenda in moderati ed esagerati. Principale autore della cacciata
de’ Bianchi, a capo de’ Guelfi Neri rimase Corso Donati «cavaliere
della somiglianza di Catilina romano, gentile di sangue, adorno di
belli costumi, sottile d’ingegno; per sua superbia fu chiamato il
barone, e quando passava per la terra molti gridavano, Viva il barone,
e parea sua la terra; la vanagloria il guidava; molti servigi facea.
Fu di corpo bellissimo fino alla sua vecchiezza; a gran cose sempre
attendea; pratico e dimestico di gran signori e di nobili uomini, e
famoso per tutta Italia; nimico dei popoli e dei popolani, amato da’
masnadieri[272], pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto».

Trionfava egli dei Cerchi, antichi emuli suoi; ma i nobili, recatoselo
in sospetto, lo contrariavano per mezzo delle magistrature. Se non
che egli s’appoggiò a’ Bordoni e ai Medici, famiglia popolana che
cominciava a venir su, e al suocero suo Uguccione della Faggiuola,
caporione de’ Ghibellini in Romagna e Toscana; ed a forza prosciolti i
prigionieri di stato, cacciò la Signoria (1308) tacciandola di venale
e corrotta. Ma questa sparse che egli affettasse la tirannide, e diè
nelle campane; il popolo accorse armato in piazza, i priori delle arti
citarono Corso, e fra due ore lo condannarono come ribelle e traditore
del suo Comune. «Incontanente mosse dalla casa de’ priori il gonfalone
della giustizia col podestà e capitano ed esecutore, con loro famiglie
e coi gonfaloni delle compagnie, col popolo armato e colle masnade a
cavallo, a grido di popolo, per venire alle case dove abitava messer
Corso» (VILLANI). Egli si asserragliò, sperando sopragiungesse il
domandato Uguccione: ma aggravato di gotta mal si potea difendere, e
arrestato nella fuga, mentre veniva ricondotto, si precipitò da cavallo
e morì. Alquanti anni dopo, i suoi consorti uccisero Betto Brunelleschi
(13 7bre), cittadino di gran nome che credeano autore della morte di
Corso; e dissotterrato questo, gli resero esequie splendidissime, tra
mezzo alle armi d’amici e nemici. Non andò guari che Pazzino de’ Pazzi,
assassino di Betto, fu trucidato dai Brunelleschi e Cavalcanti; onde
si diceva che lo spirito di Corso andasse ancora in volta, prèndendo
vendetta di chi l’aveva contrariato.

I Fiorentini furono i soli che mandassero ambasciatori ad Enrico
VII; e quand’egli ne diresse uno a loro, risposero «che mai per
niuno signore i Fiorentini inchinarono le corna». Spedì novamente
annunziando il suo arrivo e chiedendo gli alloggi; e i Fiorentini
gli replicarono, non aver essi mai creduto degno d’approvazione un
imperatore che conduce esercito di Barbari in Italia, mentre dovere
di lui sarebbe affrancare da’ Barbari (1310) questa nobilissima
provincia[273], e si diedero piuttosto a Roberto re di Napoli. Ma i
conti Guido ed altra nobiltà castellana stettero coll’imperatore, a
questo si presentarono i fuorusciti in Genova, e fra essi probabilmente
Dante, il quale, avversissimo ai signori stranieri quando trattavasi
di Carlo di Valois, allora dettò il trattato _Della monarchia_, e a
nome proprio e de’ concittadini fuorusciti scrisse «al gloriosissimo
e felicissimo trionfatore e singolare signore messer Arrigo, per la
divina Provvidenza re de’ Romani e sempre augusto, mandando baci alla
terra dinanzi a’ suoi piedi»; e con ragioni e testi ed esempj rincorava
ad assalire al più presto Firenze, «radichevole cagione delle discordie
italiane; vipera, volta nel ventre della madre; pecora inferma, la
quale col suo appressamento contamina la greggia del suo signore: Mirra
scellerata ed empia, la quale s’infiamma nel fuoco degli abbracciamenti
del padre»: venga dunque Cesare e colpisca i Filistei, sicchè
restituita a’ fuorusciti la loro eredità, «cittadini e respiranti,
in pace ed in allegrezza le miserie della confusione rivolgeranno».
Parole; ma poi «il tenne tanto la riverenza della pátria, che venendo
l’imperatore contro a Firenze, e ponendosi a campo contro la porta,
non vi volle essere, contuttochè confortatore fosse stato di sua
venuta»[274].

I Pisani, che calavano a misura del crescere di Firenze, si lusingarono
che Enrico, il quale, scarso di possedimenti in Germania, meditava
piantarsi in Italia, vorrebbe far sede e metropoli dell’Impero la loro
patria. Coi costoro denari dunque e coi soccorsi di quanti covavano
nimicizia pei Fiorentini, Enrico move sopra di questi; ma essi tre
tanti di forze gli opposero _a onore di santa Chiesa e a morte del re
di Lamagna_ (1312). Il quale, preso tra le armi, la fame e la peste,
dovette andarsene, mettendoli al bando dell’Impero per «la sfrenata
mentecattaggine e la non domata superbia contro alla real maestà»; e si
affrettò a far una pomposa mostra nella sua coronazione a Roma.

Abbiam veduto i papi credersi di avere assicurato l’indipendenza
d’Italia coll’ottenere da Rodolfo d’Habsburg la rinunzia alle
pretensioni che gl’imperatori ostentavano su varie terre nostre: ma con
Nicola III rientrarono in una politica barcollante, che non vedea di
là dalle necessità istantanee. Nella schiavitù poi d’Avignone, in mano
al re di Francia, perdeano quella sicura libertà che la Chiesa invoca
con quotidiana preghiera. Intanto Roma rimaneva strazio delle fazioni,
combattute tra Orsini e Colonna, ingranditi dal favore dei due papi
Nicola III e IV. I primi accolsero Enrico, ma i Colonnesi e il fratello
di re Roberto armati guardavano la città; per modo ch’egli dovette
prendere a forza Ponte Milvio, il Campidoglio, il Coliseo, il Laterano,
dove serragliate le vie, si fece coronare (29 giugno) dai legati, non
senza che la festa e il banchetto fossero insultati dai nemici.

Consunto allora il tempo del servizio feudale, i baroni tedeschi
abbandonano Enrico; i Ghibellini di Lombardia sono richiamati dalla
guerra che rompono loro i Guelfi; le malattie si aggravano; onde
l’imperatore, rimasto con pochi uomini e men denaro, senza sottomettere
Roma torna verso Firenze a bandiera spiegata, e accampa dirimpetto a
San Salvi. «Firenze non era murata, ma tutta fu all’armi: il vescovo
con tutto il chericato ne venne alla porta Sant’Ambrogio, poi il
capitano e il podestà e alcun gonfaloniere, e tutti vi s’accamparono e
posero trabacche, e tolsono lettiere e tavole da mangiare e finestre,
e in meno di mezza notte infino a Pinti fu tutto steccato, e innanzi
dì molte bertesche fatte, e corritoj sopra gli steccati» (STEFANI).
V’accorse poi gente d’arme dalle città vicine, ma non vollero attaccar
l’imperatore, il quale non potendo avere Firenze, si partì da oste
sfogando il suo dispetto contro il territorio.

Firenze divenne allora caporale del partito guelfo; e stretto lega con
Bologna, Lucca, Siena e con chiunque mostrava i denti all’imperatore,
dava il cenno a tutta Italia; perseverò a difendersi, ma non assalì
l’imperatore, sia che conoscesse troppo inferiori le milizie cittadine
a guerrieri esercitati, sia che prevedesse il necessario sfasciarsi
dell’esercito imperiale.

Enrico cercò che il papa scomunicasse i Guelfi e Roberto di Napoli;
e forse il papa v’inchinava, quando ecco Filippo il Bello gli manda
quegli stessi ribaldi che aveano sfregiato Bonifazio VIII, i quali,
entrati nella cancelleria, tolgono quante bolle vi trovano, al
pontefice rinfacciano di operare contro un parente di quella casa di
Francia che tanto di lui benemeritò; si ricordasse di Bonifazio[275].
Enrico dunque solo ed assottigliato di uomini e di vettovaglie,
sarebbesi tolto dall’impresa se avesse avuto di che pagare i debiti;
e non appena Federico di Sicilia gli spedì denaro a ciò, tornossene
a Pisa[276], assai male di sè e di sua gente. Volendo almeno far
qualche scena imperatoria, v’alzò tribunale, spiegando pretensioni
superbissime. Già si conosceva una sua costituzione per «reprimere
le colpe di molti, che, sfrenatisi dalle fedeltà, e ostili al romano
impero, nella cui tranquillità consiste l’ordinamento del mondo,
violano gli umani e i divini precetti, dai quali è imposto che
ogni anima sia sottoposta al principe»[277]. Allora poi emanò una
costituzione, ove dichiaransi ribelli e sleali all’Impero tutti quei
che palesemente o in occulto facesser opera avversa all’onore e alla
fedeltà sua, o agli uffiziali suoi. Contro di essi doveva procedersi
per accusa, inquisizione o denunzia, sommariamente e semplicemente,
senza strepito o figura di giudizio.

Le città ribelli non avendo obbedito alla citazione, egli spogliò
Firenze (1313) del mero e misto imperio, d’ogni giurisdizione e di
tutte le immunità, i feudi, gli statuti, i privilegi, confiscandone i
beni e i castelli, facendo infami i magistrati suoi: a que’ cittadini
nessun dia ricovero o soccorso, ma possano essere pigliati da ciascuno
come ribelli e banditi: concedeva agli Spinola e al marchese di
Monferrato di contraffare i fiorini al conio di san Giovanni; insieme
dichiarava scaduto dal trono e condannato alla decollazione re Roberto,
e dispensati i sudditi suoi dal giuramento.

Sentendo quanto sieno ridicole le minaccie di sole parole, sollecitava
dalla dieta germanica e dai Ghibellini d’Italia un buon polso di
gente, ma poco avanzava: Clemente V ricordossi della franchezza de’
suoi antecessori, e credendo invasi i suoi diritti col deporre Roberto
suo ligio, minacciò scomunicar l’imperatore se mettesse piede sul
Napoletano, e per contraccolpo alla costituzione di lui proclamò la
santa Sede essere superiore all’Impero. Solo per gelosie particolari
Pisa e Genova provvidero di settanta galee Enrico VII, il quale, mentre
Federico di Sicilia l’assecondava invadendo Calabria, entrò in via per
Napoli con duemilacinquecento cavalieri oltramontani, millecinquecento
italiani e proporzionato numero di pedoni. Casa d’Angiò stava dunque
in gran frangente, e «preso che Arrigo avesse il regno, assai gli
era leggero di vincere tutta l’Italia e dell’altre provincie assai»
(VILLANI); quando a Buonconvento presso Siena (24 agosto) morì
improvviso[278], e lasciò l’Italia più tempestata che prima non fosse,
e l’autorità degli imperatori spoglia dell’antico prestigio, troppo
apparendo l’estrema sproporzione fra i diritti che pretendeano e le
forze con cui volevano attuarli.



CAPITOLO CVI.

Roberto di Napoli. — Uguccione. — Castruccio. — Lodovico il Bavaro. —
Giovanni di Luxemburg.


La morte d’Enrico VII tolse il cuore ai Ghibellini. Pisa, perduti i due
milioni spesi per lui, e trovandosi esposta alla vendetta de’ Guelfi,
credette risanguar l’erario coll’imporre un accatto su tutte le merci
che entrassero nel suo porto; ma i Fiorentini si drizzarono a quel di
Telamone, ove trasferendosi gli altri negozianti che con essi aveano
a fare, ne derivò l’ultimo crollo al commercio di Pisa. Esausta e
minacciata, ricorse al solito infelice compenso di buttarsi in braccia
altrui, eleggendo a signore Uguccione della Faggiuola, figlio di Rinier
da Corneto, famigerato masnadiero in val del Savio.

Il popolo parlava di Uguccione come suole di cotesti avventurieri,
con fole esagerate: che mangiasse straordinariamente per sostentare lo
straordinario corpo, a coprire il quale voleansi armi straordinarie;
ch’egli bastasse a sostenere l’impeto d’un esercito o ristaurare una
battaglia; nient’altro che collo sguardo volgesse in fuga i nemici;
eppure fosse gajo, ingegnoso, di arguti ripicchi, di generosa cortesia.
In realtà, confinando i suoi feudi coi Ghibellini di Toscana e di
Romagna, e sentendosi ambizione pari al coraggio, avea tentato signoria
in molte parti; in Arezzo dominò dal 1292 al 96, nimicando tra loro i
Ghibellini, sinchè ne fu respinto per chiamare Federico di Montefeltro;
allora capitanò Cesena, Forlì, Imola, Faenza, sinchè nel cacciò Matteo
d’Aquasparta. Nel 1300 sedendo podestà di Gubbio escluse i Guelfi
di colà, ma essi rientrarono con alterni guasti: tornato podestà in
Arezzo, ne fu snidato coi Verdi. Era podestà di Genova quando i Pisani
lo chiamarono signore; ed egli, assoldate le bande tedesche rimaste
sciopere alla morte d’Enrico, subito recò devastazioni al Lucchese, e
minaccie al resto di Toscana.

In questa i nobili aveano perduto la voglia di dare soccorso alla
repubblica, la quale in ogni provvedimento li sfavoriva; i popolani
aveano pei traffici disusato le armi; di guisa che Firenze, Lucca,
Prato, Pistoja credettero anch’esse opportuno cercare salvezza col
darsi un padrone. Tant’era venuto di moda questo sottomettersi a un
principe! ma i soli durevoli furono quelli dell’Italia meridionale.

Dopo la pace di Calatabellota continuarono a regnare in Sicilia
Federico I col titolo di re di Trinacria, a Napoli Carlo II col
sopranome di Giusto. Ebb’egli per moglie Maria sorella di Ladislao
IV re d’Ungheria; e morto questo in verde età senza successione
(1290), Carlo fece attribuire il titolo di quel regno al figlio Carlo
Martello. Rodolfo imperatore, sempre in occhi onde aggrandire casa
d’Austria, l’aveva prevenuto col conferire quella corona al proprio
figlio Alberto; quand’ecco fra i due alzarsi un altro pretendente.
Andrea II d’Ungheria nel 1235 avea sposato Beatrice del marchese
d’Aldrovandino d’Este. Rimasta in breve vedova e gravida, Bela, nato
da altra moglie di quel re, la cacciò in prigione e ad ogni peggior
trattamento: essendo però capitati in Ungheria ambasciadori di Federico
II, essa trovò modo di fuggire con loro, e rientrare alla casa paterna.
Quivi diede in luce un bambino, che fu detto Stefano, e che sposò
l’ereditiera della nobile famiglia Traversari di Ravenna, poi in
seconde nozze Tommasina Morosini veneziana, da cui generò un figlio.
Questo, di nome Andrea, di soprannome il Veneto, chetò gli Austriaci
collo sposarne una figlia, e regnò in Ungheria; ma morto improle
(1301), gli sottentrò Carl’Uberto o Caroberto figlio di Carlo Martello
predefunto, pel quale alle sorti di Napoli si mescolarono funestamente
anche quelle dell’Ungheria, mentre una figliuola di re Carlo di
Valois recava in dote incerti diritti sull’Impero Orientale all’altro
figliuolo Filippo.

Morto Carlo II, si disputò se dovesse succedergli il nipote Caroberto
di Ungheria (1309); ma Roberto secondogenito, affrettatosi ad Avignone,
ottenne che il papa desse a lui l’investitura del Regno, e confermasse
al nipote quella d’Ungheria; anzi il papa gli perdonò trecentomila
zecchini d’oro e cinquantamila marchi d’argento, di cui suo padre era
debitore alla Chiesa.

Qui comincia il lungo regno di Roberto, detto il Buono, dai letterati
acclamato un Salomone, perchè li favoriva, assisteva alle lezioni
dell’Università, e non preteriva occasione di far pompa di un’eloquenza
pedantesca. Spertissimo degli affari, e poco incline alla guerra,
industriavasi di metter pace nelle città; senza l’inflessibilità
che spezza gli ostacoli, avea la perseveranza che li logora; rendea
personalmente la giustizia, il che è un modo di lederla spesso, ma che
piace ai popoli; e molti in fatto si diedero spontanei in sua balìa.
Quanto visse fu considerato capo della taglia guelfa, e parve in
procinto di diventar signore di tutt’Italia; eppure nè d’un palmo di
terreno accrebbe il regno avito. Non interruppe mai guerra a Federico
di Sicilia, sostenuto dai Ghibellini e dagli imperatori; e col mandare
ogn’anno una flotta a guastarla, sperava che quell’isola per istracca
gli si butterebbe nelle braccia. Papa Clemente V, non che annullare la
sentenza di Enrico VII contro di lui «in forza dell’indubitata autorità
sua sull’Impero e pel diritto di succedere allo imperatore nella
vacanza»[279], nominò Roberto (1313) vicario imperiale di tutta Italia;
il quale fu anche chiamato senatore dai Romani, e signore da Ferrara,
Parma, Pavia, Bergamo, Alessandria, Firenze; al che aggiungendo molti
feudi in Piemonte e la contea di Provenza, veniva ad essere fra i
maggiori potenti.

A fronte a lui stava Uguccione, il quale fece trionfare Pisa, e la
indusse ad escludere dalle magistrature chi non provasse d’essere
sempre stato ghibellino egli e i suoi antenati. Perchè guelfa osteggiò
Lucca, ricca e potente quasi a par di Firenze, e fiancheggiata da una
nobiltà avvezza a lanciarsi da’ suoi castelli per far preda in terra
o sul mare; e avutala a tradimento, con soldati tedeschi manomise i
tesori dai cittadini accumulati principalmente coll’usura, e quelli
che il papa v’avea fatti venire da Roma per trasferirli in Francia;
e la tenne a dominio. Firenze, sgomentata del crescere di costui, da
re Roberto cercava generali capaci di reprimere i Ghibellini; ma alla
giornata di Montecatino (1315 — 14 giugno) questi prevalsero con grave
strage dei Guelfi, dove perirono anche i figliuoli dei due capitani
nemici, Carlo de’ reali di Napoli e Francesco d’Uguccione, che furono
sepolti in una stessa tomba nella badia di Buggiano[280]. Roberto si
diè tanto attorno, che indusse Pisa e Lucca a pace con Firenze, Siena e
Pistoja.

Uguccione intanto reggeva le due città alla militare, fiero contro
ogni sospetto; talchè esse tramarono con Castruccio Castracani
degli Interminelli. Costui esigliato dalla patria, per dieci anni
corse il mondo a venture, acquistando grido di valore col servire in
Francia, in Inghilterra, in Lombardia; avea prestato mano ad Uguccione
nell’occupare Lucca, poi cogli scontenti s’intese per abbatterlo.
N’ebbe fumo Uguccione (1316), e lo pose in carcere; ma mentre vi
aspettava il patibolo, ecco il popolo sollevato ne lo trae, e lo
solleva al dominio di Lucca, la quale si riordinò a popolo. Uguccione
accorse colla cavalleria da Pisa, ma allora anche questa si rivoltò,
ed egli sbaldanzito ritirossi alla corte di Can Grande, ove s’imbattè
con Dante, che a lui indirizzò la prima sua cantica, e che forse
alluse a lui nel _veltro_ che prometteva liberatore di _quest’umile
Italia_[281]. Castruccio per riconoscenza ottenne il titolo di capitano
e difensore del popolo di Lucca per dieci anni, poi a vita; vi munì
una cittadella, superbamente intitolata Augusta e abbellita come una
reggia; e accettata la pace offerta da re Roberto (1320), fu tolto
capitano de’ Ghibellini di Toscana. In tante guerre e viaggi aveva
imparato non meno la tattica che l’amministrazione; valoroso, perfido,
ingrato quanto si richiede per salir sublime; a torture e supplizj
mandò chiunque l’avesse contrariato o beneficato; scoperto una trama,
fe propaginare venti persone, cioè sepellirle vive col capo in giù, e
cento esigliarne; con buona economia raddoppiò le entrate, chiamossi
attorno i castellani della Versilia e dell’Appennino, e col premiare il
valore si creò un poderoso esercito.

Lucca, per quanto ricca e commerciale, era troppo angusta alle
aspirazioni di lui; e sempre fingendo operare pel suo Comune, egli
invase la Garfagnana e la Lunigiana: ma Spinetta Malaspina, che vi
possedeva sessantaquattro castelli, gli recise la marcia, sostenuto
dai Fiorentini. Addosso a questi s’avventò Castruccio, guastando le
valli di Nievole e dell’Arno inferiore, assalse Prato, sorprese Pistoja
togliendola a Ermanno de’ Tedìci abate di Pacchiano, che vi si era
fatto tiranno; e coll’esibire maggiori somme, trasse a sè le bande di
ventura che i Fiorentini aveano soldate.

Tocca d’onta, Firenze chiama a stormo i cittadini ed anche i
fuorusciti, e aduna il più grosso esercito che mai coscrivesse, e che
costava tremila fiorini d’oro il giorno, oltre mille Fiorentini che
servivano a cavallo a proprie spese; e l’affida a Raimondo Cardona,
avventuriere catalano. Ma costui pensando men tosto a vincere che
a incassar denaro col dispensare dalla milizia i ricchi mercanti,
li condusse per le insalubri maremme di Biéntina, dove uggiati o
febbricitanti, pagavano per ottenere congedo. Castruccio guata e
aspetta, poi ad Altopascio li sconfigge (1325 — 13 7bre), prende
Cardona e il carroccio, e col mandare il territorio a sacco si rifà
delle spese di guerra. Mentre avea destra l’aria, tenta sorprendere
Firenze, saccheggia le ville del piano di Peretola, ricche d’addobbi
e di capi d’arte quali non sarebbonsi trovati altrove, e fin sotto
le mura fa correre beffardamente il palio da cavalieri, da fantini
e da bagasce. Nè certo i Fiorentini sfuggivano alla servitù, se una
Frescobaldi non avesse distolto suo figlio Guido Tarlati vescovo
d’Arezzo dal congiungere le sue forze a quelle dell’ardito venturiero.

«Addì 10 novembre Castruccio si trovò in Lucca per fare la festa di san
Martino con grande trionfo e gloria, vegnendogli incontro con grande
processione tutti quelli della città, uomini e donne, siccome a un re;
e per più dispregio de’ Fiorentini, si fece andare innanzi il carro con
la campana, che i Fiorentini avieno nell’oste, coperti i buoi d’ulivo
e dell’arma di Firenze, e l’insegne del Comune a ritroso, facendo
sonare la campana, e dietro al carro i migliori prigioni di Firenze, e
monsignor Raimondo di Cardona, con torchetti accesi in mano a offerire
a san Martino. E poi a tutti diede desinare, che furono da cinquanta
dei migliori di Firenze, gravandoli d’incomparabili taglie.... E
di certo Castruccio trasse di nostri prigioni e de’ Franceschi e di
forestieri presso a fiorini cento migliaja d’oro, onde fornì la guerra»
(VILLANI).

Giacomo d’Euse caorsino fu maestro (1316) poi cancelliere d’Università;
indi con brighe e col denaro di re Roberto succeduto papa col nome
di Giovanni XXII, si era stabilmente collocato in Avignone, dominio
d’esso re, il quale perciò lo regolava a sua voglia, e preparavasi ad
annichilare i Ghibellini in Italia; e sembra veramente che il papa e il
re, prevalendosi della discordia de’ due imperatori eletti in Germania,
pensassero sottrarre a questi tutta davvero la penisola, e assodarvi
la sovranità di Roberto. Forte ostacolo vi mettevano Castruccio nella
media Italia, nella superiore Matteo Visconti, contro del quale Roberto
mosse coi tesori e colle maledizioni papali; ma quegli colle armi e più
colle negoziazioni ne disperse le minaccie.

Gran rumore levò a que’ giorni l’impresa di Genova, la quale,
prospera pel commercio di Levante, ignorava la quiete interna, nè
mai si comportava così male come quando pace godesse. I suoi ricchi
non sedevano nei fondachi aspettando i compratori, ma scorreano il
mare quai capitani di vascello, avvezzando i marinaj a rispettarli
e ubbidirli; e poichè talvolta ogni figlio di famiglia comandava un
bastimento, migliaja di persone si trovavano al soldo d’una casa
sola, obbedienti per abitudine, per bisogno, per riconoscenza.
Grosse e sanguinose faceansi dunque le battaglie fra’ Doria e
Spinola ghibellini, Grimaldi e Fieschi guelfi; convertiti i palagi
in fortezze, vi si assalivano e respingeano, e uom a uomo nemici,
ciascuno esercitava una funesta attività; a vicenda popolani e nobili
vedeansi trionfanti o cacciati; le piraterie pareano rese legali dalle
nimicizie. I Ghibellini, prevalsi al venire di Enrico VII (1318), poi
sbanditi dai Guelfi, invocarono i loro consorti d’ogni paese, e alla
patria posero assedio per mare, mentre dalle valli del Bisagno e della
Polcevera la stringeva Marco Visconti, prode figliuolo di Matteo.
Tutta Italia prese parte al fatto; e Pisa, Castruccio, Can della
Scala, il marchese di Monferrato, il re di Sicilia, fin l’imperatore
di Costantinopoli fiancheggiarono gli assedianti, mentre Fiorentini e
Bolognesi coll’armi, il papa co’ monitorj davano mano a Roberto che la
difendeva. Questi, benchè solesse lasciar le imprese ai generali, venne
in persona colla flotta, entrò nel porto, e ottenne insieme col papa la
sovranità di Genova, ch’egli meditava far centro delle operazioni de’
Guelfi nell’alta Italia; i Ghibellini, durati dieci mesi gli attacchi,
dovettero andarsene, e i Genovesi ne disfecero i palazzi e le ville,
saccheggiarono i magazzini, e portarono in processione le reliquie del
Battista in ringraziamento della vittoria. Quali danni una sì lunga
guerra recasse a città tutta commercio, ognuno può figurarlo. Il popolo
minuto, vedendosi oppresso malgrado l’abate che il rappresentava, aveva
istituito una _Motta del popolo_, dieci capitani aggregando all’abate
per costringere il vicario a far giustizia; e quando ricusasse,
toccavano a martello. Roberto sconnettè questa lega, e tenne il dominio
dodici anni, dopo i quali si crearono due capitani del popolo, con un
podestà, oltre l’abate.

Intanto i Ghibellini s’erano attestati a Soncino sul Cremonese, e
fermata una lega sotto la capitananza di Can della Scala, rinnovarono
le ostilità in varie contrade. Giovanni XXII fece processar d’eresia lo
Scaligero, Matteo Visconti, Passerino Bonacolsi, gli Estensi ed altri;
e comunque protestassero di loro fede, proclamare contro di loro la
crociata. La guidò il cardinale legato Del Poggetto, nipote del papa,
cattivo soldato e cattivo prete; ed ebbe lo svantaggio, malgrado il
valore del suo capitano Cardona predetto. Il papa, ormai implicato
a sostenere le scomuniche colle armi, mandò allora contro di noi il
guelfo Filippo di Valois, cugino del re di Francia, con sette conti,
centoventi cavalieri banderesi, e seicento uomini d’armi: giunto pien
di baldanza a Mortara, le forze maggiori e più i donativi del Visconti
lo fecero capitolare (1320). Deserto dai Francesi, Giovanni voltasi
agli Austriaci, e da Federico il Bello ottiene una spedizione comandata
da suo fratello Enrico d’Austria (1321); ma questo pure cedette
all’armi stesse.

Matteo Visconti, sorretto da quattro prodi figliuoli, Galeazzo, Marco,
Luchino, Stefano, e da tutti i Ghibellini, avea tratte a sua obbedienza
Bergamo, Pavia, Piacenza, Tortona, Alessandria, Vercelli, Cremona,
Como; riscattò per ventiseimila fiorini il tesoro della basilica di
Monza, che i Torriani aveano dato in pegno, e di propria mano ve lo
depose sull’altare; conobbe il cuore umano e i proprj tempi, e ne
profittò; dalle traversie non lasciossi fiaccare; e benchè in dominio
nuovo, risparmiò il sangue, e più che coll’eroismo preferì arrivare
a’ suoi fini colla prudenza e la simulazione. Banditagli addosso
la croce come dicemmo, imputandolo d’eresia, necromanzia ed altri
delitti, fra cui quello di aver messo impacci alle condanne della santa
Inquisizione, il cardinale Del Poggetto dannò lui, i figli, i fautori
alla confisca de’ beni e alla schiavitù della persona come fossero
Saracini; e Pagano della Torre patriarca d’Aquileja menò l’esercito
contro gli antichi emuli di casa sua.

Atterrito della scomunica, e vedendo i popoli poco disposti a soffrirla
per le ambizioni d’una famiglia, dinanzi alla gente raccolta in duomo
fa solenne professione di fede cattolica, manda a trattare col legato,
e poichè gli parvero esorbitanti le condizioni, esorta i figli a
rientrare nel grembo della Chiesa, poi si riduce nella canonica di
Crescenzago presso a Milano, ove muore (1322), lasciando nome di abile
capitano e destro politico.

Grave colpo alla causa. Galeazzo suo primogenito, malgrado le minaccie
papali e le trame degli scontenti, avea conseguito il titolo di capitan
generale; ma avendo tentato la moglie di Versuzio Lando gentiluomo
di Piacenza, questa città gli fu ribellata, e dietro le altre e fin
Milano, come a nemico della Chiesa. Principali attizzatori erano
il cugino Lodrisio Visconti e quel Francesco da Garbagnate ch’era
stato primario nel rimettere in dominio Matteo, e n’avea avuto grandi
compensi. Coll’esercito della lega, scorto dal legato pontifizio e
dal Cardona, essi batterono Marco Visconti, l’Ettore de’ Ghibellini, e
penetrarono fin sotto Milano, che tennero assediata due mesi (1323).
Marco guadagnò a denari molte bande tedesche che militavano coi
pontifizj, altre ne chiese all’imperatore Lodovico Bavaro, e così
allargò Milano; uccise di proprio pugno il Garbagnate cadutogli in
mano alla battaglia di Vaprio, fe prigioniero il Cardona. I nemici
tennero saldo alquanto in Monza, ma poi Galeazzo la ebbe, e vi fabbricò
un forte castello con ispaventevoli prigioni, chiamate _i forni_, di
pavimento convesso e di volta tanto bassa che il rinchiuso non potea
nè reggersi in piede nè coricarsi se non abbiosciato. — Fortezze e
carceri, necessarj corredi d’ogni tirannia.

Le turbolenze d’Italia erano aggravate dal non avervi più nè il
papa, assiso oltremonti, nè l’imperatore. Alla morte d’Enrico VII,
competerono la corona di Germania Federico il Bello duca d’Austria,
e suo cugino Lodovico di Baviera: divisi i voti, l’uno si pretendea
legittimo perchè coronato dall’arcivescovo di Colonia, cui sempre era
competuta questa solennità, l’altro perchè coronato a Francoforte
come i precedenti: e non avendo altre norme a chiarire il loro
diritto, ricorsero al giudizio di Dio, cioè alle battaglie, con otto
anni di guerra civile insanguinando le rive del Reno e del Danubio.
Federico, sostenuto dai nobili, mentre l’altro era dalle città libere,
a Mühldorf sull’Inn (1322 — 28 7bre) combattendo restò prigioniero:
allora Lodovico, bandita la pubblica pace in Germania, pensò venire a
ripristinare in Italia i diritti imperiali.

Papa Giovanni non aveva accettato veruno de’ due contendenti, ma quando
la vittoria diè ragione al Bavaro, si mostrò disposto a riconoscerlo;
se non che i consiglieri insinuarono a questo: — Qual bisogno ha della
sanzione papale un imperatore vittorioso?» Gli ascoltò; e dell’autorità
sua volle far assaggio mandando intimare al legato pontifizio che
non molestasse Milano: ma di quest’atto si adontò il papa, il quale
pretendeva toccasse a sè solo decidere fra i due competitori; onde
dichiarò sottratta l’Italia dall’imperiale giurisdizione, in modo che
non potesse essere incorporata o infeudata all’Impero[282]; alla chiesa
d’Avignone fece affiggere un _processo_ (1324), ove il Bavaro veniva
accusato di tutti gli atti che avea compiti nell’ingiusta qualità di
re de’ Romani, e intimandogli di deporre questo titolo. A vicenda il
Bavaro appellò ad un concilio, chiamando il pontefice con termini
indegnissimi, turbator della quiete, scandaloso, profanatore de’
sacramenti, eretico; sicchè questo lo denunziò scomunicato e deposto,
interdetti i paesi che seco avessero a fare; e cercò portare all’impero
il re di Francia.

Ecco scissa di ricapo la cristianità; le Università di Bologna
e di Parigi disapprovano il papa; giuristi e teologi, difendendo
l’imperatore, avventano dicerie scatenate contro la corte pontifizia;
le dottrine antipapali si diffondono, e le coscienze e la quiete sono
turbate in Germania e in Italia. A questa s’avviò Lodovico, ed arrivato
con pochi uomini a Trento (1327), s’affiatò coi principali Ghibellini,
Marco Visconti, Passerino Bonacolsi, Obizzo d’Este, Guido Tarlati,
Can della Scala, e cogli ambasciadori di Sicilia, di Castruccio, de’
Pisani; dai quali avuta promessa di cencinquantamila fiorini d’oro per
le spese, proseguì il viaggio per Brescia e Como, portando agli avversi
minaccie e crucci, ai fautori suoi l’interdetto papale. In Milano (30
maggio) fecesi porre la corona di ferro da Guido Tarlati e Federico
Maggi vescovi interdetti d’Arezzo e di Brescia: benchè sospettasse
Galeazzo Visconti d’intelligenze col papa, gli mostrò volto d’amico,
e lo confermò vicario; poi di botto lo fece arrestare coi fratelli
Luchino e Giovanni (quest’era prete; Stefano morì il giorno stesso) e
col figlio maggiore Azzone, e gittare nei forni di Monza. Le viltà sono
più stomachevoli nel forte: il mondo credette false le corrispondenze
che diceva sorprese a Galeazzo, e colle quali tentò giustificare questo
primo tradimento, a cui molti n’accompagnò, tenendo egli l’Italia
come un paese da manomettere e ingannare. Se n’avvidero i nostri, e lo
guardarono con diffidenza anche quando il favorirono per ispirito di
parte.

Posti a Milano un podestà tedesco (agosto), e un governo di
ventiquattro cittadini preseduti da un tedesco, i quali gli decretarono
cinquantamila fiorini pel viaggio, seguitava innanzi cavando denaro dai
Ghibellini, e fiancheggiato da Marco Visconti nimicato ai fratelli, e
da Castruccio, a’ cui consigli s’abbandonava con una confidenza che non
fa onore al suo discernimento, perchè Castruccio non volea che crescere
la propria autorità col traversar l’Italia a fianco dell’imperatore.

Pisa, sazia di favorire la parte ghibellina, che le attirava ingenti
spese, scomuniche dal papa, e infedeltà dagl’imperatori, offrì
sessantamila fiorini a Lodovico se non v’entrasse: ma Castruccio,
che si struggeva di possederla, persuase Lodovico ad assalirla, dopo
tenutone per ostaggi gli ambasciadori. Durato un mese l’assedio,
le urla del popolaccio costrinsero la città ad arrendersi, pagando
cencinquantamila fiorini; e l’imperatore ne conferì la sovranità a
sua moglie, ed eresse in ducato (1328) Lucca, Pistoja, Volterra e la
Lunigiana a favore di Castruccio.

I Fiorentini sentendosi minacciati, chiesero a signore Carlo
di Calabria unico figlio di re Roberto, il quale vi venne con
bell’esercito di Provenzali e Catalani, e col fiore de’ signori del
Reame e ducento cavalieri armati. Parendo quindi malagevole per allora
l’aggredir Firenze e sfidare il duca di Calabria, Lodovico per la
maremma grossetana[283] battè la marciata sopra Roma (gennajo). La
trovò tutto sossopra; malgrado la supremazia di Roberto che n’era stato
fatto senatore perpetuo, tutto guastavano gli oligarchi, i Colonna, i
Porcello, gli Orsini, i Savelli, i Frangipani; e gli animi erano sempre
peggio inaspriti contro il papa, che lasciava vedova la sposa. Sciarra
Colonna, che all’annunzio della calata di Lodovico aveva espulsi i
nobili e i Guelfi, ed erasi fatto eleggere capitano del popolo con
cinquantadue delegati de’ cittadini e degli agricoltori, avendo di
nuovo sollecitato invano il pontefice al ritorno, presentò al Bavaro
un’accusa contro di Giovanni; e il Bavaro, sempre ispirato da una turba
di eretici e di frati contumaci che a lui era accorsa, il fe citare
dai sindaci di Roma, accusare d’eresia e di molteplici delitti, e in
contumacia dichiarare decaduto, sostituendogli antipapa frà Pietro
Rainalduccio da Corvara col nome di Nicola V; e da questo si fece
incoronare (12 maggio).

«L’imperatore e la moglie, con tutta sua gente armata, si partirono la
mattina di Santa Maria Maggiore vegnendo a Santo Pietro, armeggiandoli
innanzi quattro Romani per rione, con bandiere, coverti di zendado i
loro cavalli, e molta altra gente forestiera, essendo le vie tutte
spazzate, e piene di mortella e d’alloro, e di sopra ciascuna casa
tese e parate le più belle gioje e drappi e ornamenti ch’avessono in
casa. Chi ’l coronò furono Sciarra della Colonna ch’era stato capitano
di popolo, Buccio di Porcello e Orsino degli Orsini stati senatori, e
Pietro da Montenero cavaliere di Roma, tutti vestiti a drappi a oro:
e coi detti a coronarlo furono cinquantadue del popolo e il prefetto
di Roma sempre andandogli innanzi, come dice il titolo suo; ed era
addestrato dai sopradetti quattro capitani senatori e cavalieri, e
da Jacopo Savelli e Tibaldo di Sant’Eustazio e molti altri baroni di
Roma; e tutt’ora si faceva andare innanzi uno giudice di legge, il
quale avea per istratto l’ordine dello imperio, e col detto ordine
si guidò infino alla coronazione; e non trovando niuno difetto fuori
la benedizione e confirmazione del papa che non v’era, e del conte
di palazzo di Laterano il quale s’era cessato di Roma, che secondo
l’ordine dell’imperio il doveva tenere quando prende la cresima
all’altare maggiore di Santo Pietro, e ricevere la corona quando la
si trae, si provvide innanzi di fare conte del detto Castruccio duca
di Lucca. E prima con grandissima sollecitudine il fece cavaliere,
cingendogli la spada con le sue mani e dandogli la collana; e molti
altri ne fece poi cavalieri pur toccandoli con la bacchetta dell’oro;
e Castruccio ne fece in sua compagnia sette. Ciò fatto, si fece
consecrare il detto Bavaro come imperadore da scismatici; e per simile
modo fu coronata la sua donna come imperadrice. E come fu coronato,
fece leggere tre decreti imperiali, primo della cattolica fede, secondo
d’onorare e riverire i cherici, terzo di conservare la ragion delle
vedove e de’ pupilli: la quale ipocrita dissimulazione piacque molto a’
Romani. E ciò fatto, fece dire la messa; e compiuta la solennitade si
partirono da San Pietro, e vennero nella piazza di Santa Maria Araceli,
dove era apparecchiato il mangiare; e per la molto lunga solennità,
fu sera innanzi che si mangiasse, e la notte rimasono a dormire in
Campidoglio»[284]. Lodovico sentenziò che i pontefici non potessero
rimanere due giorni fuori di Roma senza l’assenso del popolo romano: e
il popolo applaudiva a decreti che non aveano nè senso nè forza.

Allora meditava cavalcare sopra Napoli a punire quel re, e sostenere
Federico di Sicilia: ma i Ghibellini, o stanchi di tanti pesi e
dell’interdetto, o per naturale mobilità, gli venivano meno. Galeazzo
Visconti, per le istanze di Marco, il quale l’aveva tradito per
dividerne il potere, non per vedere umiliata la propria casa, avea
colla spesa di venticinquemila fiorini recuperata la libertà, e
passando a chiusi occhi le offese, veniva nel seguito di Lodovico,
sinchè morì a Pescia, scomunicato e a servizio altrui. Castruccio,
udito che i Fiorentini, mentr’egli pompeggiava a Roma, invadevano i
suoi dominj, volò a salvarli, ripigliò con orribile saccheggio Pistoja
e Pisa che tenne senza badare ai diritti imperiali, sicchè «trovossi
in sul colmo d’essere temuto e ridottato, e bene avventuroso di sue
imprese più che fosse stato nullo signore o tiranno italiano; signore
di esse città e di Lunigiana, e di gran parte della riviera di Levante,
e di più di trecento castella murate» (VILLANI). Quand’ecco nel meglio
del fare morì (1328), e Firenze e Toscana rimbaldirono d’allegrezza,
come cansate dal maggior pericolo che avessero mai corso.

Privo di questa sua mandritta e di denaro, privo per morte di Marsiglio
da Padova teologo, suo ispiratore nella sciagurata controversia
col papa, Lodovico, che non avea saputo se non farsi ridicolo e
vituperevole colle pompe e coi processi, e con que’ fastosi improperj
ai pontefici che alternava con abjette sommissioni, invece della
promessa flotta di Federico di Sicilia sentendo arrivar le truppe di
re Roberto, levossi di Roma più che di passo, inseguito a sassate dal
popolo cui aveva imposto trentamila fiorini, e che adesso gridava
— Viva santa Chiesa, giù Pier di Corvara, morte ai Tedeschi», dei
quali dissotterrò perfino i morti in quel frattempo, e buttolli nel
Tevere come scomunicati. Egli tornato a Pisa, e fattevi nuove scene
di congressi e deposizioni, vi si trovò fin nelle mura insultato dai
Fiorentini: le perfidie e le violenze con cui smungea denaro fin da’
suoi più devoti finirono di diffamarlo. Immemore de’ servigi ricevuti
da Castruccio, dopo aver fatto pagare a’ costui figli la conferma del
dominio, vendette Lucca a Francesco Castracani, parente e nemico di
quelli, che così trovaronsi ridotti al mestiero di condottieri. Molti
Sassoni suoi soldati non ricevendo le paghe, ruppero l’obbedienza, e
tentato invano sorprender Lucca, s’aggomitolarono sulla montagna del
Ceruglio che divide il paludoso pian di Fucecchio dal lago di Bientina,
donde signoreggiando il val di Nievole e il val d’Arno, interrompeano
le comunicazioni tra Lucca e Pisa, e viveano di rapine. Speditovi Marco
Visconti per chetarli, essi il tolsero a capo, ed occupata Lucca, la
esibirono al miglior offerente per risarcirsi delle paghe.

Quando Azzone Visconti succedette al padre, tant’era bassa la sua
famiglia che dovette a denaro comprar dal governatore la facoltà
d’entrare in Milano; ma quivi s’affrettò a recuperare l’autorità,
dall’imperatore comprò il vicariato per dodicimila fiorini alla mano
e mille al mese finchè restasse in Italia, poi presto ne cacciò
il governatore; e conoscendo Lodovico sullo sdrucciolo, e volendo
fraudargli il resto del pagamento, si buttò colla Chiesa, chiamandosi
vicario pontifizio. Anche i signori d’Este s’erano rappattumati col
papa; Brescia, datasi a re Roberto, snidava i Ghibellini a cui segno
era governata. L’imperatore, i cui soldati disertavano a chi più li
pagasse, a Lodi si vide chiuse le porte in faccia: accampò sotto
Milano, ma chetato a denaro, se n’andò oltr’Alpi, maledetto dagli
Italiani che, in grazia sua, lungo tempo erano dovuti stare senza
sacramenti, e lasciando svilita l’autorità imperiale, che egli avea
venduta a ritaglio, e pregiudicati gli amici più che i nemici suoi. Il
suo antipapa fuggì tra le maremme, ma scoperto nel suo nascondiglio,
abjurò al cospetto di tutta Pisa: spedito ad Avignone, vi fu assolto,
e finì la vita sotto custodia nel palazzo papale. E tutte le città
s’affrettarono a domandar la ribenedizione del pontefice: Lodovico
stesso propose più volte di venire all’obbedienza, purchè gli fosse
conservata la dignità imperiale; ma Giovanni negò sempre, guardandolo
come scaduto, e volendo una nuova elezione.

Sormontano allora in Lombardia la parte guelfa e Roberto; in Romagna le
città, profittando dell’assenza de’ pontefici, agitano una burrascosa
indipendenza; i Polenta assodano il loro dominio a Ravenna, a Rimini
i Malatesta, a Urbino i Montefeltro, i Varano a Camerino; da venti
altre signorie s’erano costituite fra l’Appennino, l’Adriatico e il
principato di Benevento, appena frenate d’ora in ora da qualche legato
pontifizio, che colle alleanze, colle armi, cogl’interdetti cercava
rintegrare l’autorità papale. Bologna, posta nel cuor d’Italia,
popolosa, trafficante, altera della sua Università, disputava con
Firenze la capitananza dei Guelfi, e conservavasi libera, benchè in
gran setta fosse e divisione. I signori ghibellini, vincitori de’
Guelfi toscani ad Altopascio, diedero ai Bolognesi una memorabile
sconfitta a Monteveglio (1328), uccidendo il podestà Malatestino da
Rimini e il fiore de’ cittadini: sicchè la città sgomentata si diede al
cardinale Del Poggetto, che quivi piantatosi in aspetto di proteggere
gl’interessi papali, mirava a formare per sè un principato: e già erasi
ridotte a devozione Parma, Reggio, Modena, altre città di Romagna.

Intanto Carlo di Calabria, senza riguardo a’ patti con cui Firenze
avea garantita la propria libertà, ne smungeva quattrocencinquantamila
fiorini d’oro annui invece dei ducentomila stabiliti; volle diritto
di guerra e pace, sorretto dai nobili cui il principato talentava
meglio che la democrazia; indulgeva ogni licenza a suoi parziali; e
coll’abolire le leggi che reprimevano il lusso delle donne, aggiunse ai
pubblici guaj le querele domestiche. La morte che avea salvato Firenze
da Enrico VII e da Castruccio, la campò anche da Carlo. Libera allora
di sè (1329), si diede a riformare di nuovi ordini la riavuta libertà,
tali che il popolo non governasse direttamente e universalmente, pure
nessuno ne fosse escluso con legge generale. Gli eleggibili erano
sinceramente riconosciuti da cinque magistrature, che rappresentavano
interessi diversi: i priori quei del Governo, i gonfalonieri quei della
milizia, i capitani di parte quelli dei Guelfi, i giudici di commercio
quelli de’ mercanti, i consoli delle arti que’ degli artieri. I quattro
consigli furono ristretti a due, uno di trecento guelfi e popolani
sotto il capitano del popolo, l’altro di cenventi plebei e cenventi
nobili sotto al podestà, rinnovabili ogni quattro mesi.

Allora prese nuovo fiore e preminenza. Pistoja, redenta dai Tedìci
e dai Castracani, si unì ad essa in perpetua amicizia, saldata con
reciproche cortesie, e così i castelli del ridente val di Nievole
già confederati tra loro. Marco Visconti le esibì Lucca, ed essa
improvvidamente la ricusò, nè lasciò l’accettasse una compagnia di
mercanti; onde la comprò Gherardino Spinola genovese. Esso Marco, privo
di quella fermezza per la quale soltanto il valore può riuscire ad
alcun fine, falliva alla causa ghibellina col trattare coi Fiorentini;
e forse al legato pontifizio offrì di tradirgli Milano; poi tornato
a questa città, cominciò a maggioreggiare, tanto che i suoi parenti,
tra per vendetta delle offese avutene, tra per sospetto di nuove, lo
invitano a un banchetto, e la mattina è trovato con una soga al collo
nella fossa.

Morti erano i caporioni tutti de’ Ghibellini, Castruccio, Gian
Galeazzo, Can Grande di malattia, Marco Visconti e Passerino
d’assassinio; Azzone Visconti, riconciliato col pontefice, otteneva
per lo zio Giovanni, fatto cardinale dall’antipapa, l’assoluzione e il
vescovado di Novara; insomma la bandiera ghibellina era dappertutto in
travaglio. Ma neppur la pontifizia stava in onore: i nomi di Guelfi e
Ghibellini non significavano più affezione all’uno e all’altro dei due
luminari del mondo, ma odio all’avverso; e sotto di quelli continuavano
a mutarsi le effimere signorie: unica aspirazione omai, al perdersi
della libertà.

Trovavasi di quel tempo nel Tirolo Giovanni di Luxemburg re di
Boemia, figlio d’Enrico VII, cavalleresco quanto il padre, e che
male acconciandosi ai costumi slavi, andava randagio, guatando ove
fossero litigi da accomodare o nozze da concludere; riconciliò il
Bavaro con casa d’Austria, cercò rappattumarlo anche col papa, ma
questo ricusò ogn’altra condizione se non che Lodovico scendesse dal
trono. A questo re della pace i Bresciani mandarono offrire la loro
città (1331), purchè li soccorresse contro i fuorusciti ghibellini,
che Mastin della Scala voleva rimettere in città. «Povero di moneta
e cupido di signoria», egli vi accorse, quietò le fazioni, indusse
Mastino a desistere; e la fama di sue romanzesche imprese, il nobile
aspetto, l’eloquenza, la generosità, il fare aperto e amichevole
affascinarono gli animi, meno sospettosi perchè egli non armava
diritti, ma dovea tutto alla libera elezione. Per quel solito farnetico
d’imitazione, i Bergamaschi l’invitarono a signore; e così Crema,
Cremona, Pavia, Vercelli, Novara, Parma, Reggio, Modena; anche Lucca,
senza rincrescimento abbandonata dallo Spinola che mai non avea potuto
godervi pace; perfin Milano, ove Azzone si rassegnò ad intitolarsi
vicario di lui, aspettando senza gelosia il tramonto d’un regno che
prevedeva effimero. Dappertutto egli ripatriava gli sbanditi, toglieva
via le guarnigioni lasciate dal Bavaro, le quali non poteano vivere che
di saccheggio. Ma lavorava egli pel papa o per l’imperatore? nessuno
lo sapeva, giacchè facendo bel viso a Guelfi e a Ghibellini, tutti
del pari sommetteva, pur professando non accettare le signorie che per
rimettere l’ordine e la concordia.

Pel quale desiderio di tener buoni tutti, pontifizj o imperiali,
Giovanni s’abboccò col legato. Bastò sì poco perchè gl’Italiani lo
prendessero in sospetto d’intendersi con costui onde spartirsi l’Italia
e tutti ridurre in servitù. Prima Firenze, che, più calcolatrice e men
passionata delle altre città, avea resistito alla moda, si restrinse
col re di Napoli; il papa indispettì del vederlo trattare da padrone
col suo legato, e gli avversò i Guelfi; i Ghibellini ne insusurrarono
il Bavaro, il quale si alleò coi duchi d’Austria e con altri signori
suoi avversarj per invadere gli Stati di quel che gli si era mostrato
intrinseco amico: sicchè il re della pace, divenuto causa di guerra
universale (1332), fu costretto tornare in Germania, lasciando i
dominj d’Italia a Carlo suo figlio, raccomandato ai duchi di Savoja.
Ma questi ben presto l’ebbero abbandonato; Ghibellini lombardi e
Guelfi toscani s’accordarono per ritorgli le città, e ad Orzinovi fu
tessuta una lega fra’ signori ghibellini, la repubblica di Firenze e re
Roberto, assicurandosi a vicenda i possedimenti. Carlo non oppose gran
resistenza, bastandogli cavar denaro, ed aver campo ad altre imprese.

Giovanni in Germania avea dissipato i sospetti, salvato i proprj
dominj, disperso Austriaci e Ungheresi; poi tornò per rimettere
in accordo il papa coll’imperatore, e se il suo fare fu indarno,
almeno riportò onore di molti tornei, e combinò nozze; e ottenuti
da Filippo IV di Francia centomila fiorini, soldò milleseicento
cavalieri (1333), e con questi ricomparve in Italia, ove tutti pareano
intenti a cancellare ogni ricordo della dominazione di lui, o a
farne lor profitto. Il papa, che voleva umiliare i Fiorentini avversi
al cardinale legato, lo favorì: ma scarso di denaro ed avvedendosi
di eccitar gelosie d’ogni parte, quanto a principio aveva ispirato
confidenza, provvide a far denaro; vendette Parma e Lucca ai Rossi per
trentacinquemila fiorini, Reggio ai Fogliano, Modena ai Pio, Cremona
a Ponzino Ponzone, la riviera di Garda ai Castelbarco, e se n’andò in
Francia a ferir torneamenti, conciliare parentele e paci; finchè nella
battaglia di Crécy (1346), vecchio e cieco, combattendo gl’Inglesi
che invaso aveano quel regno, obbligò molti cavalieri a legare i loro
cavalli col suo e spingersi avanti a corpo perduto, menando a caso,
finchè cadde nel fitto della mischia.

Poveri re e imperatori, che senza soldati nè denaro comparivano un
tratto fra questi signori e questi repubblicani ben forniti degli uni
e dell’altro; e non mostrando altro intento che di riguarnire alquanto
la borsa, mietevano odio e vilipendio. Che se conseguivano lode in
Germania, essi che nè tampoco sapeano leggere[285], fra la civiltà e la
finezza italiana pareano barbari, fra le costituzioni nostre tiranni.
Lodovico il Bavaro vendette ogni cosa e perfidiò; Giovanni di Luxemburg
fu più leale, ma altrettanto vendereccio; Carlo di Boemia vendeva
e impegnava: onde io non so che si volesse Dante quando invocava la
vendetta di Dio sopra Rodolfo d’Habsburg e Alberto suo figlio perchè
lasciavano deserto questo giardin dell’Impero, e non venivano a
ricomporre il freno di questa fiera indomita; o il Petrarca allorchè ad
esso Carlo dirigeva retorici inviti. Qual bene aveano mai gl’Italiani a
sperare dagli imperatori? quali mai dai papi? eppure di loro lontananza
continuavano a piagnucolare; e intanto si valevano del nome degli
uni e degli altri per parteggiare, ammantar le proprie ambizioni,
e tempestare in una libertà che nè sapeano stabilire nè voleano
rinunziare, e che soccombeva or alla tirannia delle moltitudini, or
alla tirannia d’un solo.



CAPITOLO CVII.

I tiranni. I figli di Matteo Visconti. Gli Scaligeri. Casa di Savoja.


Tutte ormai le antiche collegate lombarde sono ridotte a signoria di
principe. Il primo esempio fu dato da Ferrara, quando nel 1208, al
soccombere de’ Ghibellini e di Salinguerra Torello, conferì pieno
arbitrio ai marchesi d’Este (t. VI, p. 310): ma questi andarono in
dechino, ed Azzo VIII, effeminato e crudele, ribellatesegli Modena e
Reggio, fu ridotto a nulla più che Ferrara e il proprio patrimonio.
Morendo, invece del fratello chiamò erede il figlio d’un suo
sterpone; di che sorse guerra intestina, e i vicini ne profittarono
per cincischiar quella casa. I Veneziani, ausiliarj del bastardo,
occuparono Ferrara: Clemente V, sostenendo il fratello di Azzo, spedì
il cardinale Pellagrua suo nipote con un esercito, che predicò la
crociata come contro i Turchi, e fulminò contro de’ Veneziani la bolla
più smoderata, escludendoli sin alla quarta generazione da ogni dignità
ecclesiastica e secolare, confiscati i loro beni in qualunque parte del
mondo, libero il ridurli schiavi senza divario tra innocenti e rei;
e vi fu chi ne profittò. I Veneziani venuti a guerra coi Pontifizj
ed appoggiati specialmente da Bolognesi e Fiorentini, toccarono una
terribile rotta sul Po (1309), fin seimila uomini perdendo tra di
ferro e annegati: il Pellagrua fece impiccare quanti Ferraresi gli
aveano favoriti, e destinò vicario della città re Roberto, senza alcun
riguardo agli Estensi: i Veneziani dovettero comprare con centomila
fiorini l’assoluzione. I Provenzali di Roberto fecero pessimo governo
di Ferrara, che ribramando un signor proprio, si levò a rumore, espulse
gli stranieri, e rimise gli Estensi (1317), che all’uopo s’erano
collegati coi Ghibellini. Qui armi e scomuniche e processi d’eresia,
malgrado de’ quali gli Estensi tennero il dominio.

Agli Ezelini in Treviso, Feltre e Belluno era sottentrato Gherardo da
Camino, per bontà e beneficenza soprannomato _il semplice Lombardo_, e
come nobilissimo lodato da Dante. Riccardo suo successore fu nel 1312
scannato nelle proprie stanze da un villano.

Dopo finiti i Traversara capi de’ Guelfi, Ravenna era venuta a Guido
Novello, signore del castello di Polenta presso Brettinoro: cacciato
dai Bagnocavallo, vi rientrò e ne fu fatto signore il 1275; ospitò
Dante, e trasmise il reggimento ai figli Bernardino e Ostasio. Il primo
generò Guido e Rinaldo arcivescovo di Ravenna: l’altro signoreggiava
Cervia, della quale non contento, trucidò l’arcivescovo e s’impadronì
anche di Ravenna (1322).

Rimini con buona parte della marca Anconitana era tiranneggiata dai
Malatesta da Verucchio. A Pandolfo succedette il nipote Ferrantino;
ma Ramberto cugino suo l’invitò con altri parenti a cena, e li fece
prigioni, invano Polentesa madre di Ferrantino correndo la città colla
spada sguainata per levarla a rumore: se non che un altro figlio di
Pandolfo tra pochi giorni recuperò Rimini (1326), liberò i presi
e cacciò Ramberto. Questi procurò ogni via d’ottenere perdono; a
una caccia solenne buttossi a’ piedi di Ferrantino supplicandolo di
misericordia, e Ferrantino lo scannò.

De’ Montefeltro, i quali ebbero Sinigaglia e Forlì, Guido salì in
maggior fama; ed essendo mandato (1382) un esercito francese da papa
Martino IV ad assediare Forlì, consigliò i cittadini a riceverli entro,
distribuirsegli nelle case e avvinazzarli; la notte esso li sorprese,
e ne fe macello. Come capitano di ventura s’illustrò Federico, che
possedette Urbino e altre città ghibelline: ma avendole gravate per
sostenere la guerra contro i Guelfi, Urbino gli si rivoltò, lo fece a
pezzi con un figliuolo, e si diede al pontefice.

Mantova erasi fatta libera alla morte della contessa Matilde, coi
soliti rettori o consoli, e col podestà, al quale poi nel 1272
la generale assemblea dei Quattrocentonovanta surrogò due vicarj
cittadini, che furono Pinamonte de’ Bonacolsi e Federico conte di
Marcarìa. Pinamonte affettava il dominio, e prese via dal mandar voce
fra il popolo che il marchese di Ferrara volesse adunghiare anche
Mantova; onde il popolo, sempre credulo a chi disapprova e accusa,
bestemmiando il marchese ed esaltando il Bonacolsi, diede a costui
pieno arbitrio di sbandire chi credeva, cioè chiunque gli potesse
fare ostacolo, e massime i conti di Casaloldi. Allora chiaritosi
ghibellino, s’alleò con quel marchese di cui avea finto paura, fece
assassinare Ottonello da Zenecalli che l’assemblea gli avea posto
accanto, e gridarsi capitano perpetuo (1276) colla solita ciurmeria del
voto universale. I Casaloldi, gli Arlotti, gli Agnelli, i Grossolani
ed altri fuorusciti congiurarono per recuperare la città, e vi
s’introdussero armati; ma un traditore n’avea dato avviso a Pinamonte,
che li disperse.

Gli successe suo figlio Bardellone (1291), brutto d’ogni vizio; Taino
fratello di lui cercò l’appoggio degli Estensi per isbalzarlo: intanto
però Bottesella loro nipote, avute truppe da Alberto della Scala,
cacciò l’uno e l’altro a morire in esiglio (1299), e si fece signore
coi fratelli Butirone e Rinaldo Passerino. Quest’ultimo, rimasto solo
al comando, sparnazzò il denaro pubblico a favorire la parte imperiale,
tanto che ebbe in piedi dodicimila uomini, e da Enrico VII comprò il
titolo di vicario imperiale. Ottenne anche Modena, promettendo lasciare
in pace i signori della Mirandola che prima vi dominavano, poi li fece
prendere e morir di fame: così avuta a patti la Mirandola, la mandò
a sacco e fuoco. Tre scomuniche e venti anni di guerra gli facevano
avverso il paese; soffiava negli odj Luigi Gonzaga suo cognato,
inuzzolito di quella signoria, e anche di vendicare Filippino suo
figlio, alla cui moglie avea giurato far onta il figlio di Rinaldo
per vendetta d’una rapitagli amante. E poichè que’ tirannetti erano
sempre disposti a nuocersi a vicenda, il Gonzaga ebbe soccorsi dallo
Scaligero, intelligenze in città, e la mattina 16 agosto 1328 la invase
e corse, uccise Rinaldo, strappò dall’altare suo figlio Giovanni abate
di Sant’Andrea, e lo lasciò perir di fame nella torre dov’era morto il
signore della Mirandola: all’altro figlio Francesco furono strappati
i genitali e postigli in bocca. Il saccheggio fu orrendo, e la sola
parte toccata a Cane si fa ammontare a centomila fiorini. A proposta di
Claudio Agnello, uom ricco e creduto, il popolo elesse capitan generale
il Gonzaga. L’imperatore, che dianzi aveva approvato Rinaldo, allora
approvò lui come vicario; il Comune con ventimila fiorini ottenne che
il papa l’assolvesse dell’assassinio, e con annua festa solennizzò il
cominciamento di questi nuovi signori, che poi furono marchesi, poi
duchi, poi nulla.

Sole rimanevano governate a repubblica Bologna e Padova, le città
degli studenti. Questi a Bologna portavano vita e ricchezze, ma
insieme irrequietudine, a leggi nè a tribunali negando sommettere
i loro privilegi. Nel 1315 i rettori dell’Università, chiamandosi
offesi dal pretore, si ritirarono all’Argenta; e gli scolari davano
vista essi pure d’andarsene, se persone autorevoli non si fossero
interposte, facendo confermare le antiche franchigie dell’Università,
esentarla dal bargello, capo della polizia incaricato di tener quieta
ed onesta la città: all’Università e ai rettori non si tenesse porta in
palazzo; essi rettori con un compagno e quattro donzelli di loro scelta
potessero portare qualunque arma offensiva o difensiva; cancellato
ogni decreto o bando contro le persone che aveano dato occasione al
disgusto; cacciati quelli che avean fatto ingiuria ai rettori; niuno
scolaro potess’essere richiesto davanti al pretore od a’ suoi giudici.

Poco stante, Giacomo di Valenza studente rapisce la nipote del celebre
leggista Giovanni d’Andrea; e il podestà a viva forza lo prende e
condanna a morte. I condiscepoli fremono, romoreggiano, e nol potendo
salvare, migrano a Siena, giurando non tornare se non ricevano
soddisfazione. Bologna rimase squallida, finchè Romeo de’ Pepoli
indusse a mandare agli studenti le scuse volute, e rinunziare ogni
giurisdizione sopra di essi.

Questo Romeo, negoziante, dell’ingente rendita di cenventimila fiorini
si valea per primeggiare, e spesso per corrompere o eludere le leggi.
Crebbe allora di riputazione; onde i Gozzadini, i Beccadelli ed altri
gentiluomini credettero o dissero aspirasse a tirannia, e formato il
partito de’ Maltraversi, contro gli Scacchesi, così nominati dallo
stemma dei Pepoli, accusarono Romeo (1321), l’assalsero nella propria
casa, donde a pena ebbe tempo di fuggire col buttare alla folla sacchi
di denaro. La famiglia fu esigliata, abbattuti i palazzi, confiscati i
beni, relegati i partigiani: gran tempo durarono le paure e le trame,
ma Romeo, esule ad Avignone, non potè più recuperare la patria.

Anche Cremona, sobbissata da Enrico VII, come vedemmo, fu assalita
da Can della Scala e da Passerino Bonacolsi signore di Mantova e di
Modena; e per quanto Ponzino Ponzoni scaldasse a sostenere il governo
popolare, vi fu gridato signore Jacopo Cavalcabò (1315). Ma dopo sei
mesi i Ghibellini condotti dal Ponzoni l’assalsero, e costrinsero
a rinunziarla a Giberto di Correggio, altro capitano di ventura che
condusse le armi guelfe contro molte città, mentre le ghibelline erano
guidate da Federico di Montefeltro. Poco tardarono i Visconti di Milano
a sottoporre Cremona (1322).

Sarebbe difficile e nojoso il seguire le vicende di ciascuna
repubblica; ma il sin qui detto basta a mostrare come colla tirannide
non venisse pace. Non essendo quella fondata sopra una legge o un
pattuito statuto, non consolidata dall’opinione nè dal tempo, non
trasmessa per successione regolare, apriva campo alle ambizioni
di qualunque pretendente potesse addurre i titoli medesimi, cioè
l’avere osato; la medesima sanzione, cioè l’essere riuscito. Un
signor nuovo sbalzava l’antico; e questo, ricoverato a città amiche,
al papa, all’imperatore, tramava alla macchia, collegavasi con altri
di sua fazione, comprava bande, fomentava dissidj civili, che non
poteano decidersi per ragioni, ma solo colla forza, unica misura del
diritto: ma di prevalere una famiglia sola impediva il bilanciarsi
delle parzialità. Queste, pur conservando gli antichi nomi, aveano
cangiato scopo; o piuttosto scopo reale non s’avea che il proprio
trionfo momentaneo e la depressione degli avversarj. In generale
però i nobili erano ghibellini, il che volea già dire tedeschi,
perchè o aveano militato al soldo degli imperatori, o avutone titoli,
stipendj, possessi, ragioni d’acque, di pedaggi, di porti, cavalleria,
capitananze, e la gloria di portar nello stemma l’aquila imperiale, e
l’esenzione dai tribunali comuni.

Di dentro, ogni vincitore trovavasi inadeguato ai desiderj che aveano
concepito i suoi fazionieri, alle promesse ch’egli medesimo avea
prodigate, allo sbrigliamento che ciascuno erasi ripromesso. Il popolo,
che pel minor male avea confidato pieni poteri al tiranno, vedendolo
abusarne, ne moveva querele. I tiranni, benchè eletti popolarmente,
snervavano le libere consuetudini coll’avvilire i corpi che
rappresentavano il paese, invece di farsene una difesa e un appoggio.
Ed oltrechè con nessun buono statuto erasi provvisto a moderare il loro
potere, troppi mezzi possedeano essi di comprare, illudere, atterrire
la moltitudine; tenevansi armati fra gente pacifica; col pretesto delle
congiure uccidevano, spogliavano, esigliavano chi resistesse[286].
I migliori cittadini, trovandosi inetti a frenare la prepotenza,
s’astenevano dalle assemblee per non legittimarla, e si ritiravano in
violenta pace. Perfino qualche chiesa, che dapprima avea pregato Dio a
camparci dai tiranni, allora offriva supplicazione per essi, connivendo
a colpe che gli antichi pontefici fulminavano senza riguardo[287].

Ogni apparenza di elezione popolare scompariva poi, allorchè i tiranni
ottenessero il titolo di vicarj, che compravano dagli imperatori,
ben contenti di vendere a denaro un’autorità ch’essi non potevano
esercitare. Allora il tiranno gittava a spalle ogni rispetto ai
privilegi e consuetudini, nè alle comunità lasciava che di nominare
alcuni inferiori magistrati, curar le strade e le rendite proprie,
quali ad un bel circa sono oggi ridotte.

Come alla licenza non si era trovato altro rimedio che la servitù,
così alla tirannide non restava riparo che la cospirazione, e quei
signorotti duravano brevissimo; alzati da una rivoluzione violenta,
da una violenta abbattuti; ogni anno ne portava una nuova, sempre
fatta colla forza, cioè al despotismo surrogando il despotismo[288];
gridavasi _Popolo popolo_, e si finiva col dare la libertà in mano d’un
signore assoluto.

Guelfi e Ghibellini, nati dal cozzo dell’Impero col papato, nonchè
guarire con quello, incancrenirono, più non disegnando due partiti ben
distinti, la forza e le idee, l’indipendenza e l’unità, la democrazia
e l’aristocrazia, bensì un’eredità di antichi odj, dei quali erano
mancate le ragioni: tanto che i pontefici, quando dimenticarono
d’esser padre di tutti, stettero alcuna volta coi Ghibellini, e
contro di questi gl’imperatori; e mutando parte, a vicenda invocavano
d’essere dipendenti o dissoggetti all’Impero per convenienze ed
ambizioni particolari e giornaliere. I tirannelli inclinavano al segno
ghibellino, ma sciagurato l’imperatore che sul loro appoggio contasse!
Veniva di Germania? essi gli prodigavano accoglienze, la cui pompa
mortificava l’obbligata parsimonia di lui; porgevangli le chiavi delle
città, gli pagavano certe regalie, ma non gli lasciavano potere di
sorta, nè consentivano tampoco che troppo s’indugiasse nel loro paese;
partito appena, cessavano ogni dipendenza, e ordivano leghe contro di
esso.

Tali cambiamenti erano qualche volta prodotti dal rivalere d’una
parzialità sull’altra, poichè quella che trionfasse in una città faceva
propendere in suo senso le decisioni; spesso ancora venivano da un
intento più largo, qual era il cozzo fra le superstiti repubbliche e
gl’invadenti principati; intento che costringeva a parteggiare or con
questo or con quello, non più a norma di nomi o a simpatia di genti,
ma secondo che l’opportunità facea credere che meglio conducessero a
libertà i papi o i re, Francia o l’Impero, i Guelfi o i Ghibellini.

Di qui il sistema d’equilibrio, contro del quale si è tanto declamato,
e che pure recò all’Italia due secoli d’indipendenza e di civile
progresso, quali non ebbe più mai: minacciata d’immediata servitù
da questo o quel signorotto, riuscì sempre a reprimerlo. È vero
che così si trovò poi inferma a repulsare la servitù straniera; ma,
senza discutere se l’unità ne l’avrebbe salvata, chi dirà che fosse
possibile prevederla nelle condizioni dell’Europa d’allora? Francia,
allora assai più piccola, sudava per tutelare la propria nazionalità
contro gl’Inglesi: Spagna riscattava pezzi a pezzi la patria dalla
schiavitù araba: l’Impero greco disfacevasi di tabe senile; i Turchi
poteano spingere qualche correria sulle nostre coste, ma lo sforzo
principale drizzavano contro Bisanzio. Gl’imperatori aveano forze tanto
sproporzionate alle pretensioni, che di qua dall’Alpi non poteano
avventurarsi senza l’ajuto de’ Ghibellini nostri; così era venuto,
così partito Lodovico Bavaro, senza che pel suo venire prosperassero i
Ghibellini, o del partir suo vantaggiassero i Guelfi.

Capo nominale di questi come legato pontifizio, il cardinale Del
Poggetto, creato conte della Romagna e marchese d’Ancona, continuava
la sua tirannia, che spegnava gli spiriti repubblicani; e fingendo
allestire a Bologna un palazzo pel papa, il quale andava ripetendo
volesse restituirsi in Italia e stanziare in quella città, fece una
fortezza, e collocativi i suoi Guasconi, ed altri nelle cariche e fin
nell’arcivescovado, sbraveggiava quella repubblica. Tentò pure, coi
modi allora in uso, imprigionare i primarj cittadini: ma il popolo
tumultuante l’obbligò a rilasciarli.

Voleva anche sottrarre Ferrara al marchese d’Este, ma una segnalata
vittoria scompigliò i papalini e diè prigioni i principali signori
di Romagna che con essi militavano. Il marchese li rilasciò, ma dopo
esserseli guadagnati, onde presto cominciò tutta Romagna a rialzare
la testa. I Bolognesi, spinti da Brandaligi Gozzadini e Collazio
Beccadelli, uccidono parecchi soldati (1333), assediano il legato
stesso, che, salvo solo per l’interposizione de’ Fiorentini, dovette
ritornarsene in Avignone, dopo avere in Italia sprecato tanti milioni
e tanto sangue, nulla acquistando, molto sperdendo, e facendo aborrite
le sante chiavi e men gelosa la libertà. Di fatto i Bolognesi non
tardarono a ridursi a signoria di Taddeo Pepoli figlio di Romeo
(1337), il quale promise annuo tributo alla Chiesa purchè assolvesse
la città dall’interdetto ove era incorsa col cacciare il legato, e si
assodò colle solite persecuzioni e coll’appoggio solito delle bande
mercenarie.

Papa Giovanni XXII avea continuato a perseguitare Lodovico Bavaro. Il
quale vedea Polacchi e Lituani rompergli guerra, la Germania irrequieta
del trovarsi priva degli uffizj divini, sollevato come anticesare
Carlo di Boemia, figlio di Giovanni di Luxemburg: sicchè, temendo Dio
e gli uomini, offriva disfare quanto avea fatto contro della Chiesa e
degli alleati di essa, implorare l’assoluzione, e per isconto andare
crociato. Ma il re di Francia mandò ad Avignone, minacciando confiscare
i beni de’ cardinali e guaj al nuovo papa Benedetto XII, il quale ai
vescovi che lo supplicavano di pace rispose con lagrime agli occhi,
esserne impedito da re Filippo. Tali erano i papi in terra altrui.

Lodovico, a cui per prima condizione poneasi che abdicasse, vi
si disponeva; ma gli elettori e gli Stati non gliel soffersero,
cassarono la condanna papale, tolsero l’interdetto, e proclamarono
che l’autorità imperiale emana immediatamente da Dio, nè all’eletto fa
mestieri di conferma papale; vacante l’impero, n’è vicario l’elettor
palatino; basta essere coronato re dei Romani per valere quanto
l’imperatore coronato a Roma; e se il papa ricusi, può qualsivoglia
vescovo adempiere la cerimonia della coronazione. Benedetto, cui la
decisione fu notificata, dovette obbedire al re di Francia, e una
scomunica riboccante[289] d’imprecazioni avventare a Lodovico, che
del resto, ispirato da frati apostati, tornava dalla sommessione
all’arroganza: ma infine non faceva se non difendere l’indipendenza
del regno affidatogli. Cacciando all’orso presso Monaco, Lodovico cascò
d’apoplessia (1347), e imperatore incontrastato rimase Carlo di Boemia.

Papa Benedetto, lontano dall’ostinarsi all’abbassamento de’ Ghibellini
in Italia, che tanti tesori era costato al suo predecessore, nel
primo concistoro dichiarò non dovere nè la romana, nè altra Chiesa
sostenere i proprj diritti colle armi[290], e mandò Bertrando di Deux
arcivescovo d’Embrun perchè mettesse pace, come in molti luoghi riuscì.
Ma la pace è buona quando fondata su forti basi, e qui vedemmo come
invece servisse a consolidare tante piccole tirannie. Più non bastando
l’invecchiato re Roberto a mantenere la primazia ai Guelfi, rivaleva
la parte opposta. Principali n’erano i Visconti; e i Milanesi, grati
dell’averli salvi dallo straniero, elessero Azzone signor perpetuo
(1328) a voti unanimi, presto imitati da Bergamo, Pavia, Piacenza,
Cremona, Brescia, Pizzighettone, Borgo San Donnino, donde egli snidava
le guarnigioni forestiere; gli si diedero Crema, Lecco, Treviglio,
Vigevano, Caravaggio, Cantù; Como gli fu offerta da Franchino Rusca,
che si riservò il contado di Bellinzona; tolse Lodi ad un Tremacoldo
mugnajo, che l’aveva usurpata ai Vestarini. Suo zio Giovanni, vescovo
di Novara, fintosi malato, ricevette in palazzo le visite de’ cittadini
di primo conto, e di Caccino Tornielli signore della città; ed ivi
coltolo e imprigionato, introdusse in Novara il nipote.

Cessati i nemici esterni, i Visconti si molestavano tra di loro. Marco,
zio di Azzone, valoroso ma turbolento, dicemmo come fu tolto di mezzo
assassinandolo. Lodrisio suo cugino, al quale era toccato il contado
del Seprio, e che già due volte avea cospirato contro i parenti,
col denaro datogli da Mastin della Scala che volea sbrattare Vicenza
dai Tedeschi rimasti alla partenza del Bavaro, sotto un Raimondo di
Giver, detto il capitano Malerba, soldò costoro, gli aggomitolò in
una compagnia detta di San Giorgio (1339) e menolli sulla campagna
lombarda a rapire e taglieggiare; e fattosi forte nel suo contado,
minacciava Milano. I cittadini, vedendosi sovrastare il saccheggio e
gli altri guai d’una invasione, presero a stormo le armi, e condotti
da Azzone e da Luchino suo zio, affrontarono quei ribaldi a Parabiago
(21 febb.). Quivi, in sulla neve, si fece la battaglia più sanguinosa
che si combattesse prima di Carlo VIII; e già Luchino era stato preso
e l’esercito scarmigliato, quando una riserva di Savojardi si buttò
sopra i Tedeschi che si sbandavano a saccheggiare, li ruppe affatto, ed
assicurò la vittoria.

Tanto terrore aveva incusso quella masnada, che la battaglia di
Parabiago restò nelle tradizioni popolari più viva che non quelle di
Legnano e d’Alessandria: e consacrandola col meraviglioso, si disse
che Sant’Ambrogio era stato veduto in aria a cavallo, staffilando gli
stranieri: laonde d’allora in poi egli fu dipinto in quell’atto, così
dissonante dalla sua mansueta fermezza[291].

Que’ masnadieri si sparpagliarono per la campagna guastando, finchè
furono distrutti con orribili supplizj. «Ed io (dice un contemporaneo)
ne ho visti venire a Roma da dugencinquanta, a piedi, quai cogli sproni
attaccati alla coreggia, quai con una targhetta, e chi portando un
cimiero, chi cavalcando un ronzino secondo sua condizione». Il Malerba
prese servizio nel Canavese con trecento barbute, combattendo pei
signori di Valperga contro quelli di San Martino.

Di tale vittoria assai ringrandì Azzone: il quale, ricco di tutte le
virtù che possono stare coll’ambizione, comprese che il primo dovere,
come il primo accorgimento dopo le rivoluzioni, è il perdonare; il
secondo, indorar le catene. Tutto pace, alla città circondò buone mura
con cento e più torri e porte marmoree: le vie pulì e ammattonò; eresse
un palazzo e chiamò a dipingerlo Giotto ed altri minori, e vi sfoggiò
una sontuosità principesca; primo di sua famiglia pose il proprio nome
e la biscia sulle monete.

Morto (1339) di soli trentasette anni[292], il maggior consiglio pregò
gli zii Giovanni e Luchino a succedergli. Il primo continuò a far da
prete; Luchino, come il predecessore, ebbe briga cogli Estensi, cogli
Scaligeri, i Gonzaga, i Pepoli, dominanti nelle vicine città di Modena,
Verona, Mantova, Bologna. Dai Gonzaga comprò Parma: acquistò Asti,
distruggendovi la famiglia dei Solari guelfa, signora di ventiquattro
castelli; ebbe pure Bobbio, Tortona, Alessandria; a re Roberto tolse
Alba, Cherasco ed altre terre in Piemonte; ottenne fin l’alto dominio
sulla Lunigiana; e colla forza e l’astuzia crebbe la signoria, e
l’assodò a scapito delle giurisdizioni comunali e de’ privilegi delle
città. Fu severissimo contro i turbatori della pace; i masnadieri,
solito postumo delle guerre, con supplizj atroci sterminò; gli amici
di Azzone aborrì, i nepoti tenne relegati, non amò altri che i proprj
bastardi, e sì poco fidava degli uomini, che avea sempre a fianco due
mastini, pronti ad avventarsi a chi egli accennasse. Tuffò nel sangue
le congiure vere o supposte, e se ne valse per fiaccare la nobiltà,
della quale incamerando i larghissimi possessi, ingrossava l’erario
pubblico e il proprio. È singolarmente ricordato lo eccidio della casa
Pusterla, di derivazione longobarda, una delle più antiche e poderose
di Milano, e della quale egli mandò al supplizio Franciscolo con due
o tre bambini e colla moglie Margherita Visconti, odiata da lui perchè
repugnante dagli osceni suoi omaggi[293].

Delle sue scostumatezze fu ripagato. Sua moglie Isabella de’ Fieschi,
fingendo andare per voto a Venezia alle famose feste dell’Ascensione,
si fece accompagnare giù per il Po da fastoso corteo di dame e
cavalieri, di deputati di tutte le città suddite a Luchino, e da
interminabile caterva di camerieri e palafrenieri, quasi a far prova
e pompa della grandezza di casa Visconti, passando di città in città,
ricevuta con emulazione di tripudj. In realtà essa v’andava per
isbandarsi a’ suoi amori; nel che imitata dalle compagne, scandolezzò
fin quell’età poco scrupolosa. Luchino, informato del proprio scorno
dopo tutti gli altri, come è il solito, lasciossi intendere lo
laverebbe nel sangue; ma vuolsi che Isabella pigliasse il tratto
innanzi, e un giorno, di ritorno dalla caccia, lo ristorasse con una
bevanda della quale morì (1349). Riprovevole come uomo, fu principe
operosissimo; favorì ai poveri dispensandoli dal servizio militare, e
nella terribile carestia del 1340 ne manteneva quarantamila; non punì
i Guelfi benchè ghibellino; vietò di atterrar le case de’ ribelli;
istituì un podestà unicamente per nettare le vie dai ladri; dava facile
udienza a tutti; dalla peste nera salvò lo Stato con rigorosissimi
provvedimenti. Fabbricò suntuosamente, verseggiò, e ottenne lodi
dal facile Petrarca, che stette lungamente in quella corte e nella
suburbana campagna di Linterno.

Giovanni suo fratello, ch’era divenuto arcivescovo di Milano, allora
unì al pastorale la spada. Piacevole, liberale a dotti ed artisti,
destinò sei professori che commentassero la _Divina Commedia_; insieme
destro e oprante, arrivò a dominare diciotto città, fra cui Genova.

In questa irrequietissima repubblica re Roberto era riuscito
a rimpatriare Guelfi e Ghibellini, e fare che gli uffizj si
distribuissero in proporzioni eguali; ma ben tosto i Ghibellini
rivalsero, e cacciarono i Fieschi e il capitano postovi dal re di
Napoli. Allora fu ripristinato l’antico governo con due capitani del
popolo e un podestà di parte ghibellina, oltre l’antico abate: ma i
Guelfi, fatto nodo in Monaco, poco tardarono a ritornare. I nobili,
quasi soli capitani e piloti, vessavano la ciurma, usando prepotenze
sulle navi come in terra. Nella flotta mandata a servigio di Filippo
VI di Francia (1338) contro l’Inghilterra sotto Antonio Doria, i
marinaj, maltrattati perchè lagnavansi dei soldi fraudati, giunti a
terra chiedono vendetta, e colla gente di Voltri, Polcevera, Bisagno si
attestano a Savona, declamando contro l’oligarchia; gli artigiani fan
causa con loro, e nominano due consoli; i popolani di Genova levansi
anch’essi per ricuperare la libera elezione dell’abate. Si delibera,
e non venendosi a un fine, un battiloro grida: — Sapete che? eleggiamo
abate Simon Boccanegra» (1339). Tutti ricordano i servigi di sua casa,
e — Sì, sì, andiamo dal Boccanegra».

Questo, forse non a caso, si trovava là in mezzo alla folla; onde i
vicini lo alzano sulle braccia fra i viva e riviva. Egli, ottenuto
silenzio, rammenta: — Io son nobile ed i miei hanno sostenuto dignità
più elevate; onde, diventando abate, verrei a degradarmi». E il popolo:
— Ebbene, sii signor nostro». Ma egli: — Nol posso, perchè avete de’
capitani. — Sii dunque doge», e in trionfo lo portarono a San Siro
esclamando: — Viva il popolo, viva i mercanti, viva il doge», e tra
quel brio si sveleniscono contro le case dei Doria e dei Salvagi[294].

Da questa tumultuaria risoluzione, che volemmo addurre per esempio
delle altre, restò ferita di grave colpo la nobiltà, poichè il popolo
avea nominato, non più magistrati subalterni, ma il sommo. Era esso
però capace di soffrire un governo? I più dei nobili si ritirarono ne’
loro castelli, ma non sempre vi furono sicuri. Avendo il marchese Del
Carretto guasti i piani d’Albenga, il doge spedì gente contro di lui,
e specialmente nove vascelli che tornavano dalla guerra di Spagna,
non lasciando smontarne alcuno. Il marchese mandò scusarsi, ma il doge
rispose voleva vederlo in Genova. Ed egli, assicurato della vita, vi
venne; ma il popolo cominciò a gridargli _Mora, mora_, e il doge lo
fece buttare in prigione, donde rinunziò Varigotti, il Finale, il Cervo
e l’altre sue terre e feudi.

Per quanto il Boccanegra, attivo e sperimentato, in cinque anni
d’amministrazione rinvigorisse la giustizia, ed assoggettasse ai
magistrati il circostante territorio, non potè assodar la pace,
onde depose il comando (1345), che fu dato a Giovanni da Murta. Alle
scosse interne si mescolavano guerre esteriori, e il mare d’Azof e la
Propontide erano bagnate di sangue genovese; poi davanti Alghero di
Sardegna la loro flotta fu sbarattata dai Veneziani uniti co’ Catalani,
lasciando tremilacinquecento prigioni. Al tempo stesso Giovanni
Visconti affamava la città, proibendo di recarvi grani; del che
scoraggiati i Genovesi, presero il miserabile spediente di sagrificare
la libertà (1353) e si esibirono ad esso Visconti.

Gli ambasciadori dicevano al Petrarca: — Non paura de’ nemici, non
diffidenza delle forze nostre ci costringe, ma ribrezzo dell’intestina
sconcordia, perchè i principali nobili vogliono profittare
dell’occasione onde ridurre la patria al servaggio; sicchè il popolo,
perseguitato dai vincitori e da cittadini peggiori de’ nemici, ci
invia ad implorare la protezione d’un principe giusto e potente».
Introdotti nel consiglio, dissero al Visconti: — Veniamo per ordine
del popolo genovese offrirvi la città di Genova e i suoi abitanti,
il mare, la terra, gli averi, le speranze loro, le cose divine e le
umane, quanto insomma è da Corvo a Monaco, coi patti convenuti». Il
Visconti rispose, accettava non per estendere i suoi confini, ma per
compassione a un popolo oppresso; si obbligava proteggerli, rendere
giustizia, soccorrere la repubblica contro chi che fosse, e pregava per
ciò Iddio e tutti i santi, dei quali recitò una litania[295]. E subito
mandò vettovaglie, fece aprir comunicazioni fra il suo paese e questo,
rappattumò le fazioni, diede quanto bastasse per raddobbare la flotta,
colla quale, avendo invano intromesso la mediazione del Petrarca,
entrati nell’Adriatico sotto il comando di Paganino Doria (1353), i
Genovesi sconfissero e presero l’ammiraglio veneto Niccolò Pisani con
cinquemila ottocensettanta uomini, e obbligarono i Veneziani a chieder
pace, pagare ducentomila fiorini d’oro, e rinunziare per tre anni al
commercio sul mar Nero, eccetto Caffa.

Adunque i Visconti possedevano tutta Lombardia, la Liguria, parte
del Piemonte e della Romagna, e minacciavano la Toscana. Tanta
potenza era bilanciata dai signori della Scala di Verona, i primi
che, senza possedere antichi feudi ereditarj, aspirassero ad estesa
signoria. Succeduti in una parte de’ dominj di Ezelino, stettero
capitani de’ Ghibellini contro Roberto re e Giovanni XXII, e favoriti
dagl’imperatori (1312). Cane, che da’ suoi partigiani ottenne il nome
di Grande, seppe sostenerlo nella non lunga vita; abbellì Verona;
letterati ed artisti accoglieva; savio in consigli, e, cosa rara fra
que’ signorotti, fedele alle promesse; prode e fortunato in armi,
sicchè, oltre Verona sua sede, recossi in mano Feltre, Belluno,
Treviso. Ma non teneva assodata la propria grandezza finchè non
acquistasse anche Padova.

Questa città, rifattasi dalla tirannia di Ezelino al favore della
libertà, avea sottomesso Vicenza e Bassano, e fioriva di studj per
la sua Università; ma trasmodando nella democrazia, escludeva dal
governo tutti i nobili: eppure affidava larghi poteri alla famiglia
de’ Carrara, sopravissuta alle altre della Marca. Come guelfa, era
incorsa nell’ira di Enrico VII, che incitò Vicenza a sottrarsele, e
che diede questa a governare a Can della Scala, suo braccio destro.
Cane vi introdusse soldati mercenarj, soprusò militarmente e aprì
guerra ai Padovani. Il territorio n’andò guasto; file di contadini
vedeva lo storico Ferreto condotti tratto tratto in Vicenza colle mani
legate alle reni, e trattati alla peggio finchè si riscattassero; nè
maggiore umanità mostravano i mercenarj di Padova. Frequenti tornavano
a battaglie, ciascuno coi proprj alleati; e Padova riuscì a mettere in
piedi quarantamila fanti e diecimila cavalli[296]; tant’era in fiore
sinchè non la guastò una terribile epidemia.

Dentro v’erano perseguitati i Ghibellini; e i Carrara, blandendo alle
invidie del vulgo e gridando — Viva il popolo, morte ai traditori»,
assalsero chi ostava alle loro ambizioni (1314), e massime Pietro
Alticlinio, ricco e creduto avvocato, nella cui casa, allora data al
saccheggio, si pretese trovar le prove dei più atroci delitti[297].
Esso e i parenti e gli amici furono mandati a strazio; lo storico
Albertino Mussato, reo d’aver proposta una tassa e di starne formando
il catasto, a fatica si salvò.

Intanto continuava la guerra collo Scaligero, sebbene più di oltraggi e
latrocinj che d’uccisioni; e nell’assalto di Vicenza, Giacomo Carrara,
caduto prigioniero di Cane, s’intese con esso per darsi di spalla nelle
mutue ambizioni. Di fatto, valendosi della stanchezza prodotta dalle
lunghe ostilità, Rolando di Piazzola giureconsulto[298] con una brava
arringa persuase i Padovani a scegliersi un principe, e Giacomo Carrara
fu proclamato. Marsiglio suo nipote non tardò a guastarsi con Cane,
e a’ danni di lui invitò il duca di Carintia e Ottone d’Austria. Con
Tedeschi e Ungheresi, che i cronisti fanno ascendere a quindicimila
cavalli, vennero quelli saccheggiando il Friuli come Dio vel dica;
e il Padovano e tutta Lombardia spedivano soldati per arrestare quel
flagello: ma Cane riuscì meglio col denaro, facendoli dar volta senza
che avessero danneggiato altro che gli amici. Poi si vendicò dei
Padovani guastando se alcun che vi era rimasto non guasto; e seguitò le
nimicizie tanto, che indusse Marsiglio a cedergli Padova (1328), e così
si trovò contentato del lungo desiderio.

Mastino II, succeduto a lui con coraggio eguale e ambizione maggiore,
ebbe Parma a patti, occupò Brescia cacciandone il vicario di Giovanni
di Luxenburg, e abbandonando i Ghibellini alla vendetta de’ Guelfi.
Tenea corte splendidissima; lo storico Cortusio lo trovò circondato
da ventitre principi, spossessati dalle catastrofi consuete; durante
il pranzo, musici, buffoni, giocolieri; le sale erano coperte di
quadri rappresentanti le vicende della fortuna; appartamenti aveva
allestiti con simboli e insegne convenienti alla varia condizione di
chi gli cercava ricovero, il trionfo pe’ guerrieri, la speranza per
gli esuli, le muse pei poeti, Mercurio per gli artisti, il paradiso pei
predicatori[299].

Lucca era stata da re Giovanni venduta ai Rossi, e Firenze diè
commissione a Mastino (1335) di trattarne per essa la compra: egli
strinse la pratica, poi per le spese e l’incomodo pretese trentaseimila
zecchini. Sperava sgomentarli coll’enorme domanda, ma i Fiorentini
senza dibattere un soldo accettarono: se non che egli allora soggiunse
non aver bisogno di siffatte miserie, e tenne per sè la lieta città.
Così sopra nove ebbe balìa, le quali gli rendeano l’anno settecentomila
fiorini, quanti neppur la Francia al suo re. E meditava nulla meno
che farsi signore di tutta Italia; intanto Lucca gli sarebbe scala
a sommettere la Toscana, mediante l’alleanza co’ signorotti degli
Appennini.

Firenze legossi al dito l’affronto ricevuto da Mastino, e gli ruppe
guerra; dove, se sottostava di valor militare e d’alleanze, avea denaro
e volontà di spenderlo per l’onor nazionale. Avrebbe dovuto sostenerla
la lega guelfa; ma re Roberto era invecchiato; Bologna non pareva aver
recuperato la libertà che per tempestare sanguinosamente fra Scacchesi
e Maltraversi; Siena e Perugia erano minacciate da Pier Saccone de’
Tarlati signore di Pietramala, che, avendo spossessato la famiglia
d’Uguccione della Faggiuola, gli Ubertini, i conti di Montefeltro
e Montedoglio, dominava su tutte le montagne della Toscana e della
Romagnola, oltre Arezzo possedeva Castello e Borgo Sansepolcro, ed
essendosi alleato con Mastino, di molto pregiudizio poteva essere ai
Fiorentini. Essi dunque cercarono un amico lontano.

I Veneziani, che fin allora non s’erano mescolati alle vicende del
continente italiano se non come stranieri, e che nessun’ombra prendeano
dalla vicinanza de’ vescovi di Padova, di Vicenza, d’Aquileja, vennero
sospettosi dell’incremento degli Scaligeri. In fatti Mastino pensò
sottrarre i suoi paesi alla privativa che i Veneziani s’arrogavano di
somministrare il sale; onde eresse fortezze sul Po per esigere gabelle
da chi lo navigasse, e proteggere le saline colà stabilite. Ne venne
rottura, e Venezia pigliò concerto con Firenze, la quale pagando metà
delle spese, si obbligava a lasciarle tutti gli acquisti. Capitanò la
loro lega Pietro de’ Rossi, famiglia già signora di Lucca e Parma, la
qual ultima pure era stata obbligata a cedere a Mastino dopo che si
vide tolti anche i castelli aviti attorno a Pontremoli. Pietro, che
aveva rinomanza del cavaliere più perfetto d’Italia, appoggiato a molte
bande tedesche, condusse prosperamente i collegati contro lo Scaligero.
Intanto i Fiorentini indussero il Saccone a vender loro la signoria
d’Arezzo, dove costituirono una magistratura propria. In Lombardia poi
sollecitavano quanti erano nemici allo Scaligero; e Azzone Visconti,
i Gonzaga, i Carrara, gli altri da lui spodestati collegaronsi _ad
desolationem et ruinam, dominorum Alberti et Mastini fratrum de la
Scala_, spartendosene in fantasia i possessi e ribellandogli le città.
Padova fu presa (1338), arrestandovi Alberto: ma l’essere morto in
battaglia Pietro de’ Rossi troncò il corso alle vittorie. Mastino,
ridotto alle strette, maneggiò la pace, cedendo molti acquisti;
Padova tornava ai guelfi Carraresi, Brescia al Visconti; i Veneziani
occupavano Treviso, Castelfranco e Céneda, primi loro possessi di
Terraferma, e otteneano libera la navigazione del Po.

Mastino, amareggiato dai disinganni, infellonì; sospettando del vescovo
Bartolomeo della Scala, per istrada lo ammazzò, donde fu scomunicato
dal papa; poi, fatta onorevole ammenda, ricevè il titolo di vicario
pontifizio.

Anche Parma gli fu tolta (1341) dai Correggio suoi zii a cui l’avea
fidata; sicchè, interrottagli la comunicazione con Lucca, esibì questa
a Firenze, che con ciò avrebbe potuto rifarsi dei seicentomila fiorini
che le era costata la guerra di Lombardia. Ma mentre essa stitica sul
prezzo, i Pisani, che se ne sentivano minacciati, la prevengono e la
occupano coll’ajuto dei Visconti e d’altri Ghibellini e massime di
fuorusciti, lieti di sottrarsi dalla incomoda vicinanza. I Fiorentini,
tardi riconsigliati, vollero ricuperarla facendo sforzi ingenti; ma
alfine le bande da essi assoldate furono sconfitte alla Ghiaja.

Gli Scaligeri più non fecero che decadere (1387) e disonorarsi, finchè
ai tempi di Gian Galeazzo perdettero le restanti giurisdizioni, e
cessarono d’essere dominanti. Verona ne attesta ancora co’ monumenti la
grandezza, e le loro tombe sono chiari testimonj delle arti risorte e
non ancora svigorite colla servile imitazione[300].

Al contrario, gli Estensi (1317), gridati nuovamente signori di
Ferrara, come dicemmo, vi aggiunsero Modena per cessione di casa Pio,
e da Carlo IV ottennero la conferma de’ feudi imperiali di Rovigo,
Adria, Aviano, Lendinara, Argenta, Sant’Alberto, Comacchio importante
per le saline. Barcheggiando fra i papi, Venezia e Milano, Obizzo
III s’acconciò col papa, retribuendo un annuo canone per Ferrara
(1344). Comprò Parma da Azzone Correggio per settantamila fiorini;
ma mentre andava a prenderne possesso, Filippino Gonzaga di Mantova,
ajutato da Luchino Visconti, l’appostò, molti della sua scorta uccise,
settecentoventidue condusse prigioni. I più liberò a prezzo; ma Giberto
da Fogliano e suo figlio Lodovico tenne in una gabbia di ferro, ove
morto questo dalle ferite, il padre dovette rimanere col suo cadavere.
Filippino mosse guerra ad Obizzo e a Mastin della Scala, e dopo gran
viluppo di leghe e di guerre, Parma fu comprata da Luchino (1340).

Oltre questi tiranni creati dal popolo, altri provenivano dall’antica
feudalità, e principale tra questi fu la casa di Savoja. Da un cumulo
di favole inventate o raccolte da frà Jacopo d’Acqui (1003?), par di
dedurre che capostipite di quella fosse un Umberto Biancamano, forse
discendente da Vitichindo emulo di Carlo Magno, o da un sassone Beroldo
nipote di Ottone III, che fu vicerè d’Arles e conte di Moriana e del
Ciablese. Quest’origine argomentò il Guichenon per ordine di Cristina
di Francia vedova di Vittorio Amedeo I, quando ella, aspirando a far
salire quella casa al trono di Germania, trovava opportuno il mostrarla
oriunda da una germanica.

L’altro concetto di Enrico IV d’unire sotto ai principi savojardi
tutta l’alta Italia, fece trarli da famiglia italiana, cioè dai conti
d’Ivrea: asserto portato dal giudizioso Lodovico Della Chiesa, ed
appoggiato nel secolo scorso dal Napione, quando il perire di tutte le
dinastie italiche concentrava gli sguardi su quest’unica superstite;
poi nel secolo nostro colle nuove speranze di fare di quel principato
il piedistallo della futura Italia. Supposero dunque che il Beroldo o
Geroldo, favoleggiato padre di Umberto, sia Ottone Guglielmo duca di
Borgogna[301], figlio di re Adalberto e nipote di Berengario II, re che
furono d’Italia; pronipote di Gisla, figlia di Berengario I imperatore;
abnepote d’Anscario marchese d’Ivrea, figlio di Guido di Spoleto,
fratello di Guido re d’Italia. Il Cibrario, che con viaggi e documenti
appoggiò quest’assunto, conchiude che «s’aspettano documenti che
forniscano la prova diretta di ciò»: e di fatto, come in tutte coteste
genealogie, non manca se non l’anello che congiunga il ramo discendente
coll’ascendente. Del resto, che la famiglia regnante in Piemonte
indagasse avi incerti per ricordarsi e ricordare ch’è d’origine
italiana, è la più perdonabile delle vanità.

Che che sia de’ primi, ornati col titolo di conti di Moriana, i
successivi vi aggiunsero nuovi dominj anche di qua dall’Alpi e
nominalmente Aosta. La posizione fra queste rendeva importante il
marchesato di Susa, il quale per le nozze della contessa Adelaide,
celebre nelle lotte de’ concubinarj e dell’imperatore Enrico IV, fu
unito al contado di Moriana (1045) nel figlio di lei Amedeo II; pel
quale innesto la casa di Savoja metteva un piede in Italia. Quando
Enrico IV veniva a invocar l’assoluzione da Gregorio VII, Amedeo
per concedergli libero passo ne pretese cinque vescovadi in Italia e
un’ubertosa provincia della Borgogna, che forse fu il Bugey. Molti
sorsero pretendenti all’eredità di Adelaide, donde si formarono
parecchi contadi rurali e principati, e segnatamente quelli di
Monferrato e Saluzzo; e varj paesi si stabilirono a Comune, fra cui
Asti, riconosciuta libera (1098) da Umberto II il Rinforzato[302],
il quale, a detta di sant’Anselmo di Aosta, «usava del principato
a mantenere la pace e la giustizia», e fu forse il primo che
s’intitolasse conte di Moriana e marchese d’Italia.

Amedeo III, figlio di questo (1103), diede carta di Comune a Susa, e ad
onore di san Bernardo fondò in riva al lago del Borghetto l’abbazia di
Altacomba, celebre pei sepolcri de’ principi di Savoja, sperperata al
fine del secolo scorso, restaurata ai dì nostri; come il padre, fu alla
crociata, e morì a Cipro. Umberto III, detto il Santo pel tenore di sua
vita (1148), vedendo il Barbarossa voler attenuare le giurisdizioni
di lui colle ampie concessioni fatte al vescovo di Torino, avversò
quell’imperatore, poi mediò la pace fra esso e i Lombardi. Tommaso
I ampliò le franchigie a Susa, le diede ad Aosta (1188), acquistò
Testona, Pinerolo, Carignano, e fu vicario di Federico II in Italia,
valendosi di tali dignità per reprimere i prelati e i baroni. Ad
Amedeo IV esso Federico conferì il titolo di duca del Ciablese e conte
d’Aosta, e una costui figlia sposò al suo Manfredi che fu re di Sicilia
(1233): legati così agli Svevi, que’ duchi ebbero a patire dalla venuta
di Carlo d’Angiò, talchè si restrinsero di nuovo fra le Alpi. Pietro,
già ministro d’Enrico III d’Inghilterra, tornò alla propria devozione
i paesi di qua dell’Alpi (1263) fino a Torino; conoscendo la necessità
d’essere forte, munì il paese, condusse truppe, regolò le finanze e la
giustizia, e fu detto il Piccolo Carlo Magno.

Salda alla monarchia, quella casa compresse i germi di libertà
comunale, che l’esempio delle lombarde confinanti sviluppava nelle
città subalpine; e nè guelfa nè ghibellina, dalle altrui gare traea
profitto per consolidarsi di governo, di possessi, di forze. Nè
poeti, nè storici ne tramandarono i fasti, ma incerte tradizioni e
contraddicentisi, e soprannomi capricciosi.

Lungo sarebbe a seguire il dividersi e ricomporsi di essa. Nel ramo
di Piemonte Tommaso II era detto anche conte di Fiandra e di Hainault
perchè sposo a Giovanna erede di que’ paesi e figlia di Baldovino IX
imperatore di Costantinopoli. In sette anni ch’egli regnò colà, estese
molto i Comuni (_keure_) al modo d’Italia: perduta poi la moglie, tornò
in patria, ed ampliò i possessi (1244), e non solo ebbe dal fratello
Amedeo IV il Piemonte proprio, cioè il paese fra l’Alpi, il Sangone e
il Po, di cui era principal terra Pinerolo, ma Federico II imperatore
se l’amicò concedendogli Torino col ponte e col castelletto, Cavoretto,
Castelvecchio, Moncalieri, stato sostituito a Testona distrutta
da Astigiani e Chieresi; onde con questa linea sulla destra del Po
dominava le strade commerciali di Asti e di Genova con oltremonte
(1248): aggiunse il Canavese, Ivrea ed altre terre, e fu nominato
vicario imperiale dal Lambro in su.

Caduto Federico, egli corteggia il papa Innocenzo IV, che
dall’imperatore Guglielmo d’Olanda gli ottiene concessioni nuove, e
feudi, e diritto di moneta, di mettere pedaggi, d’aprire mercati. Molto
ebbe a cozzare con Asti, e seppe interessare nel litigio Luigi IX di
Francia, il quale fece arrestare quanti Astigiani trovavansi colà. A
vendetta questi occuparono fin Moncalieri, a Montebruno sconfissero
Tommaso (1257), contro del quale essendosi rivoltati i Torinesi, lo
presero e consegnarono agli Astigiani. Di Francia, d’Inghilterra, di
Fiandra, dal papa vennero preghiere a favor di lui; ma non fu voluto
rilasciare finchè non ebbe rinunziato a tutti i diritti sopra Torino ed
altri luoghi, dando statichi agli Astigiani i proprj figliuoli.

Due nobili sposi tedeschi pellegrinavano a Roma, quando, giunti
nel Monferrato, la donna partorisce un bambino, e quivi il lascia a
nutrire. Essi muojono in viaggio, e il fanciullo Aleramo acquista
nome di valore; e ito a soccorrere l’imperatore Ottone il Grande
contro Brescia, invaghisce di sè Adelaide figlia d’esso imperatore,
e con lei fugge tra i carbonaj de’ liguri monti; finchè Ottone gli
perdona, e gli assegna le terre fra l’Orba, il Po e il mare, facendone
i sette marchesati di Monferrato, Garessio, Ponzone, Ceva, Savona,
Finale, Bosco. A un nuovo assedio di Brescia, Aleramo uccide senza
conoscerlo il proprio figlio Ottone; dagli altri fratelli Bonifazio e
Teodorico derivano le famiglie di Bosco, Ponzone, Occimiano, Carretto,
Saluzzo, Lanza, Clavesana, Ceva, Incisa, e da Guglielmo i marchesi
di Monferrato. Questi furono cantati spesso dai poeti, dei quali è
fantasia una tale origine, viemeno probabile perchè nessuna figlia
d’Ottone il Grande ebbe uno sposo di quel nome. Qualunque però si
fosse e di qualunque tempo questo Aleramo, la sua discendenza dominò il
pendìo dell’Appennino ligure dalla riva destra del Po fino a Savona;
e ne vennero le famiglie che dominarono il Monferrato, Saluzzo verso
le sorgenti del Po, e le città occidentali di Torino, Chieri, Asti,
Vercelli, Novara, disputandole ai Visconti e alla libertà comunale.

I marchesi di Monferrato vedemmo mescolarsi alle vicende dell’Italia
superiore e nelle crociate, tanto che vennero i più illustri di quei
dintorni, cercata l’alleanza loro, temuta la nimicizia. Ma ristretti
fra le ambizioni de’ duchi di Savoja e de’ signori di Milano, non
poterono ampliarsi; intanto che una nobiltà potente, la quale si
vantava d’origine pari ai dominanti, li contrastava dentro, non
lasciando che il paese prendesse ordinamento nè monarchico nè a popolo.

Bonifazio IV, essendogli tolto dai Musulmani (1222) il suo principato
di Tessalonica, per ricuperarlo cercò novemila marchi a Federico II,
dandogli in pegno i proprj Stati; col che non solo dimezzò la propria
potenza, ma pose a repentaglio l’indipendenza del Piemonte, se la casa
Sveva non fosse perita. Anche a signori e Comuni cedette le ragioni
sopra molte città.

Guglielmo VI, detto il gran marchese, figlio a Margherita di Savoja
(1254), sposo ad Isabella di Glocester, poi a Beatrice di Castiglia,
maritò la figlia Jolanda al greco imperatore Andronico II Paleologo,
dandole in dote l’infruttuoso regno di Tessalonica, e ricevendone
grosse somme e la promessa di cinquecento cavalieri, mantenuti a suo
servizio in Lombardia. Con questi egli facea pendere la bilancia a
favore de’ Guelfi o de’ Ghibellini, secondo che vi si accostava. Per
tradimento entrato in Torino, molti uccise, molti imprigionò, fra
cui il vescovo Melchiorre, che sempre avea contrariato i disegni
del marchese sulla sua patria, e che, non volendo far rilasciare
i suoi castelli al vincitore, fu ucciso. Mentre egli andava in
Spagna a trovare il suocero, Tommaso III di Savoja lo arrestò a
tradimento, e costrinse rinunziare i diritti sopra Torino. Tornati
con alquanti uomini e denari, prometteva conquistar tutta Italia, ma
vide ribellarsegli le città, e fu preso dagli Alessandrini (1292),
che quanto visse lo tennero in una gabbia di ferro; morto, vollero
accertarsene col fargli sgocciolare sul corpo del lardo bollente e del
piombo fuso.

Allora le città di sua dipendenza consolidarono le loro franchigie;
molto paese fu occupato da Matteo Visconti, che si vendicava del
suo nemico, e che fu dai popoli dichiarato capitano del Monferrato;
sicchè il figlio Giovanni II, succedutogli a quindici anni, si trovò
ristretto nel primitivo dominio. Questi fu l’ultimo di quella linea;
e morto improle (1305), doveva ereditarne la sorella Jolanda. Se non
che Manfredi di Saluzzo, del sangue stesso, aspirava a quel dominio,
e l’occupò armatamano; e perchè prese anche molte delle terre ch’erano
state di Carlo d’Angiò, chetò i reali di Napoli coll’accettare da loro
come feudo il Monferrato, sebbene non v’avessero titolo di sorta.
L’imperatore greco spedì Teodoro suo secondogenito, che sposata una
figlia d’Obizzino Spinola genovese per averne appoggio, coll’armi
recuperò l’eredità, e per combattere a vantaggio i Visconti, dai
vassalli esigette uomini e denaro di là dal convenuto.

La casa di Savoja, che distesasi oltr’Alpi verso l’Elvezia e la
Francia, voltava le sue ambizioni all’Italia, presto si trovò in gara
coi marchesi di Monferrato; e il possesso d’Ivrea fu seme di guerra,
in cui arrivarono ad acquistare sovranità sopra i conti di Piemonte e
i marchesi di Saluzzo. Nel 1285, morto Tommaso III, che dai marchesi
di Monferrato avea ricuperato il Piemonte, dovea succedergli il nipote
Filippo; ma Amedeo V di Savoja suo zio governò il paese come suo,
mentre a Filippo non restò che il titolo di principe d’Acaja, col quale
i suoi successori s’ingegnarono di dominare qualche parte del Piemonte.

Esso Amedeo (1287), che assistette a trentacinque assedj, e battagliò
continuo col Delfino, col conte di Ginevra, col sire di Faucigny e
con altri, fu creato principe dell’impero da Enrico VII suo cognato,
che gli assegnò pure la contea d’Asti, gloriosa repubblica scaduta
dalla sua grandezza: ma questa fu tenuta da Roberto di Napoli finchè
il marchese di Monferrato gliela tolse per sorpresa, e se ne chiamò
signore. Amedeo stabilì l’indivisibilità della monarchia di Savoja
e l’esclusione delle femmine, e cominciò a pigliare il titolo di
principe: ebbe da Enrico anche Ivrea e il Canavese, e Fossano dal
marchese di Saluzzo. Allora detta monarchia comprendeva otto baliaggi;
Savoja, con cui la Moriana, la Tarantasia e diciotto castellanie; la
Novalesa con nove castellanie; il Viennese con altrettante; la Bressa
con dieci; il Bugey con sette; il Ciablese con sedici; val d’Aosta con
cinque; val di Susa con tre.

Amedeo VI, detto il Conte Verde (1343) dal colore onde comparve
divisato egli e il cavallo in un torneo a Chambéry, tolse alla
contessa di Provenza Chieri, Cherasco, Mondovì, Savigliano, Cuneo; bene
amministrando le finanze per l’abilità del ministro Guglielmo De la
Beaume, potè ottenere il Faucigny, comprare la baronia di Vaud, e le
signorie di Bugey e Valromey. Vedendo agli antichi Delfini surrogata
la Francia, potenza più robusta, non sperò ingrandire ulteriormente da
quel lato, e si volse più specialmente all’Italia.

Passando l’imperatore Carlo IV dalla Savoja, Amedeo l’accolse con
sommi onori, gli mosse incontro con sei cavalieri banderesi riccamente
in addobbo, lo convitò suntuosamente, egli stesso e i suoi a cavallo
servendolo di vivande quasi tutte dorate, mentre due fontane giorno e
notte sprizzavano vin bianco e chiaretto, che ognuno poteva prendere
a piacere[303]. In ricompensa fu costituito vicario imperiale, e fe
pace con Giovanni Paleologo di Monferrato, spartendosene il possesso.
Ito a Costantinopoli (1366) a soccorrere questo suo cugino, conquistò
Gallipoli, Mesembria, Lemona sopra i Turchi, assediò Varna, e costrinse
i Bulgari a far pace con esso imperatore. Il papa abilitò i vescovi ad
assolvere da usure e mali acquisti chi contribuisse per essa impresa,
concesse al conte le decime ecclesiastiche, mentre ciascun feudo
dava armi ed oro. Il conte se ne valse per continuare anche poi le
esazioni; col papa entrò in lega a danno de’ Visconti qual capitano
generale; e neppure alla pace volle restituire alcuni castelli ad essi
occupati, avido sempre di gloria e denaro; ma per ottenere la prima
rovinò le finanze, ed oltre impegnare a lombardi ed ebrei le gemme e
gli argenti, vendette gli uffizj. Aspirava a formare uno Stato solo,
riunendo a Savoja il Piemonte tolto ai principi d’Acaja, e mozzando
le giurisdizioni feudali: ma in quanto acquistava verso l’Italia
introduceva forme d’amministrazione alla francese, restringeva in senso
principesco i liberi statuti; moltiplicò le imposizioni, fallì alla
fede quando gli giovò, servì agli stranieri nel conquisto di Napoli
(1383), dove morì miseramente (Cap. CXIV). Dell’ordine dell’Annunziata,
da esso istituito, abbiamo già parlato[304].

Amedeo VII, soprannomato il Conte Rosso, più valente in armi che in
consigli, si tenne all’amicizia di Francia come il padre. Ai tempi
di Carlo Magno, la Provenza già era divisa in contadi, due dei quali
formavano quel che ora dicesi di Nizza. I popolani di questa, mentre
Raimbaldo loro conte stava oltremare crociato, si vendicarono in
libertà; e quegli, reduce, si accontentò d’esservi console. Non era
spenta però la soggezione, e Nizza nel XII secolo obbediva ai conti di
Arles, il restante paese a quelli di Tolosa, di Forcalchieri, d’Orange,
del Balzo, finchè i conti di Barcellona si fecero marchesi di Provenza.
I Nizzardi spesso tentarono, alfine riuscirono a sottrarsene nel 1215
giurando la _compagnia_ di Genova, e i marchesi di Provenza giuravano
rispettare i loro statuti. Con Beatrice, figlia di Raimondo Berengario,
passò quel dominio a Carlo d’Angiò, che ne fece fondamento alla futura
sua grandezza in Italia. Frattanto le fazioni non risparmiavano Nizza,
e la città era divisa fra nobili che abitavano la villa di sopra, e
cittadini della villa di sotto. I mali cui andò soggetta la stirpe di
re Roberto di Napoli, furono risentiti dai Nizzardi, finchè regnando
il fanciullo Ladislao, essi per opera dei Grimaldi chiesero ad Amedeo
VII di venire aggregati al suo dominio. Amedeo vi riunì i contadi di
Ventimiglia e Villafranca (1388) e la valle di Barcellonetta, allegando
o crediti verso le due case d’Angiò, o dedizione de’ baroni, o il
titolo di vicario imperiale.

Amedeo da un ciarlatano lasciossi dare un beveraggio che rifiorisse la
sua debolezza, e gliene costò la vita (1391). Bona di Berry sua vedova
e sospetta autrice della morte di lui, fatta reggente, tempestò in
contese di potere colla suocera e coi grandi, in guerre coi conti di
Ginevra, coi vescovi di Sion, con Berna, con Friburgo, coi parenti;
e menò pace. Amedeo VIII, loro figlio, detto il Pacifico perchè
all’armi preferì la politica, con questa vantaggiò assai, attento
a tor via i feudi, trarre a sè il Monferrato e Saluzzo, rodere il
Milanese. Ebbe in fatti omaggio dagli Avogadri di Quinto, di Quaregna,
di Valdengo, di Casanova, di Collobiano, di Pezzana, dagli Alciati,
dagli Arborj, dai Dionisj, dai Pettinati, da molti monasteri e Comuni,
tra cui val d’Ossola, e infine anche da Vercelli. Questa città, che
vedemmo (vol. VI, p. 201) una delle prime ad acquistar le franchigie
municipali, e delle più gloriose nel sostenerle, straziò le proprie
viscere nelle fazioni degli Avogadri coi Tizzoni, della società nobile
di Sant’Eusebio colla popolana di Santo Stefano, e infine cadde in
signoria de’ Visconti di Milano. Amedeo VIII, il cui avo già aveva
acquistato Santhià, San Germano e Biella, e che riceveva omaggio dai
tanti Avogadri di quel paese, soggettava or per forza or a persuasione
alcuni Comuni, profittando delle discordie scoppiate nel Milanese
alla morte di Gianmaria Visconti; poi dal costui successore ottenne
Vercelli, col patto di spiccarsi dalla lega con Venezia e Firenze.

Acquistò inoltre il Genevese (1414), disputato fra molti dopo finita la
stirpe dei prischi conti; e il Piemonte quando si estinsero i principi
d’Acaja. A questo titolo erasi dovuto accontentare Filippo di Savoja
(1294); ma sebbene del Piemonte giurasse vassallaggio alla Savoja,
lo tenne come indipendente, e così suo figlio Jacopo; onde i signori
di Savoja miravano sempre a tarparli, intanto che il paese era mal
condotto dal dover obbedire a due padroni, e soddisfarne i bisogni o
l’avidità. Lodovico, il quale di buoni ordini confortò il Piemonte e di
studj Torino, fu l’ultimo principe d’Acaja (1418); Amedeo VIII occupò
il paese di lui, e da quell’ora principe di Piemonte fu il titolo del
primogenito di Savoja.

I signori d’Acaja e quelli di Savoja aveano sempre avuto l’occhio
a sottomettere i marchesi di Saluzzo e di Monferrato. I primi, dopo
lunghe persecuzioni, prestarono omaggio al conte di Savoja, ricevendo
il paese come feudo (1413). Nel Canavese fra le due Dore dominavano i
conti di Biandrate, di cui già parlammo, e i marchesi del Canavese,
forse discendenti da Arduino re d’Italia, divisi ne’ due rami di
Valperga e di San Martino, suddivisi in moltissimi altri col titolo
di conti, quali erano i Valperga di Masino, di Cuorgnè, di Salassa, di
Rivara, di Mazzè, e i San Martino d’Agliè, di Brosso, di Strambino, di
Sparone, di Castellamonte. Le due famiglie divennero nemiche, e colla
bandiera ghibellina i Valperga, colla guelfa gli altri si recarono
guerre micidiali, cui presero parte i vicini. Anche i popolani del
Canavese, stanchi di queste baruffe, insorsero col nome di Tuchini, e
trascorrendo agli eccessi consueti della plebe attizzata, uccisero,
violarono, rubarono, arsero castelli, posero al tormento feudatarj,
sinchè furono domati colle armi dal duca di Savoja, che raccomandò
ai signori di trattar meglio i villani, e meglio stabilì i doveri de’
vassalli. Eguali moti popolari erano scoppiati nella Tarantasia, nel
Vercellese, nella Moriana.

Di tali scompigli volle fare suo pro Giovanni marchese di Monferrato, e
appoggiandosi a bande mercenarie, acquistò Alba, Asti, il Vercellese,
il Novarese, e fin Pavia e Valenza, chiavi della Lombardia; ma gli
accordi suoi co’ signori di Savoja tornarono a danno di lui e dei suoi
successori. Fra questi vogliam nominare il marchese Secondotto, che
abbandonavasi agli eccessi comuni ai principotti d’allora, emulando
il tristo Gian Galeazzo Visconti. Il quale invitato da lui ad ajutarlo
nel domare la città di Asti ribellatagli, si fece da questa riconoscer
signore. Poco poi Secondotto, che a volte piacevasi di far da boja,
volle strozzare di propria mano un ragazzo del suo seguito; ma un
costui compagno trafisse a morte il marchese. Accorre allora da
Napoli Ottone di Brunswick, ch’era stato tutore di lui, e che assume
la tutela di Giovanni suo successore; e per impedire il ritorno di
somiglianti tirannie si raccoglie il parlamento generale in Moncalvo,
dove, a tacere gli affari particolari su cui si deliberò, venne presa
risoluzione che al giovane marchese si giurasse fedeltà sol fino
ai venticinque anni, quando si potrebbe già prevederne la riuscita;
inoltre che, se mai il marchese uccidesse o ferisse alcun suddito, o
gli facesse violenza nella roba o nella persona o nelle donne, subito
cessasse ogni obbligo di fedeltà; essendo ben giusto che, se i sudditi
rendono fedeltà, n’abbiano in compenso protezione, custodia, difesa
delle persone, delle cose, dei diritti loro.

Aveano dunque rappresentanza e privilegi que’ paesi. I signori di
Savoja, che di questi conosceano l’importanza, or s’allearono a danno
loro coi Visconti, or li vollero in protezione per difenderli da
essi Visconti; intanto ne cincischiavano i dominj e li riducevano a
vassalli.

Allora unito l’intero Piemonte, Amedeo VIII dominava dal lago di
Ginevra al Mediterraneo, e da Sigismondo imperatore (1416) acquistò
il titolo di duca di Savoja mediante il dono di vasi d’argento
pesanti ducento marchi; quattromila scudi d’oro, e sei cani mastini,
e nella solennità sventolavano dieci stendardi, cinquecento pennoni,
millecinquecento bandiere collo stemma di Savoja in argento; ma
Sigismondo stesso salvò dall’avidità di lui Ginevra, dichiarandola
membro dell’Impero. Dopo esercitato personaggio importante nelle
vicende italiche, pubblicato lo Statuto generale, assodata l’autorità
sovrana sopra l’anarchia feudale e lo sminuzzamento comunale, e
istituito l’ordine di San Maurizio (1434), si pose a Ripaglia,
delizioso paesetto sul lago di Ginevra presso Thonon, in devoto e
voluttuoso ritiro. Quando i venturieri diventavano signori, egli
ambì diventare pontefice, e lo vedremo sostenere l’infelice parte
d’antipapa; deposta la quale, morì (1451) decano dei cardinali[305].

Egli avrebbe voluto l’unità monarchica rappresentata con unica
capitale, scegliendo Ginevra, collocata fra la Savoja, la Bressa, il
paese di Vaud, il basso Vallese, ma non potè ottenere che il vescovo
di quella cedesse i diritti sovrani che vi aveva. Creato papa, conferì
quel vescovado a uno di sua casa, il che continuò a praticarsi fino al
tempo della Riforma.

Neppur qui la dominazione d’un principe spegneva i privilegi de’
Comuni, i quali continuavano ad avere vita propria, in alcuni degna di
storia, in altri d’imitazione[306]. Ai Comuni era riservato il diritto
di votare le imposte, e in casi straordinarj bisognava domandarle come
grazia speciale. Ma i signori d’Acaja o di Savoja, come si sentirono
forti, gli obbligavano a queste prestanze volontarie; e Amedeo,
fratello dell’ultimo Lodovico, il marzo 1396 scriveva al vicario di
Torino: — Col piacer di Dio, saremo domattina a Torino; e ti comandiamo
di far che quelli della città deliberino nel loro consiglio, e deputino
due o più persone con facoltà di concederci sussidio e alloggio pe’
nostri soldati e guerra, come gli altri delle città nostre han fatto
e faranno a ragione di tre grossi per fuoco. Sappiate che quelli di
questa città ce l’hanno concesso»[307].

Chieri, potente per commercio non meno che per armi, ebbe sottoposti
fin quaranta castelli. I Balbo, fondatori o principali di quella
repubblica, rincorarono a difendersi contro i marchesi di Monferrato e
il Barbarossa, cooperarono alle vittorie de’ Lombardi su questo, e vi
piantarono un governo conforme alle altre repubbliche. Esservi podestà
non poteano i Balbo, carica da forestiere, ma per compenso sceglievano
nella propria famiglia il capo del consiglio. Tale superiorità fu
invidiata dalle sei case o _alberghi_ primarj della città, i quali
si collegarono (1220) a danno di essa, unendosi anche nobili minori,
onde venne a formarsi la società di San Giorgio, che lungo tempo
regolò gli affari di quella repubblica (vol. VI, p. 204). I Balbo si
restrinsero in un albergo, convenendo di fabbricare un palazzo e una
torre per ricovero comune, e con facoltà a ciascuno di essi di farvi
portare il letto in tempo di turbolenze. Altri alberghi vi opposero
il Gribaldenghi, gli Albuzzani, i Merli, i De Castello, i Mercadilli
ed altri, unendosi contro la plebe, e insieme contro chi volesse
sormontare; onde ne vennero guerre intestine, e sol dopo cinquant’anni
di conflitto si conchiuse la pace (1271), nella quale appajono centotto
Balbo, divisi in trenta rami.

Mezzo secolo più tardi ripigliarono le ostilità, e poichè allora
l’andazzo era a tirannia, pensarono porre un termine a’ guai col
sottoporsi a casa di Savoja (1347). Con questa stipularono che Chieri
conserverebbe le proprie consuetudini, diritto di batter moneta e dare
l’investitura dei feudi; al rappresentante del principe nell’esercizio
di sua autorità si unirebbero quattro savj di guerra, eletti nelle case
d’albergo, e il primo sarebbe sempre un Balbo, scelto con voti della
sola sua famiglia; verun atto legale avrebbe forza se non improntato
con cinque suggelli, del principe, del popolo, dei Balbo, delle sei
case d’albergo unite, della città.

Parve ancora soverchia l’autorità di casa Balbo, e si pretese torle il
diritto di apporre il suggello. Il principe d’Acaja venne in persona
per metter pace, e confermò ai Balbi tal privilegio che ab immemorabili
possedeano, con che però riconoscessero averlo ricevuto dal Comune di
Chieri. Siffatto lodo segnò la decadenza di quella casa, che veniva a
considerarsi non più come indipendente, ma come autorizzata dal Comune.
Quando, sessant’anni dopo, Valentina figlia, ed Aimonetta nipote di
Galeazzo Visconti, sposarono una Luigi d’Orléans fratello del re di
Francia, l’altra Luigi di Bertone capo del secondo ramo dei Balbo,
le gelosie de’ costoro nemici rincalorirono, e vie più per l’alleanza
di quelli con Venezia; i duchi di Savoja n’ebbero sospetto; si tornò
a contender loro il diritto di suggello, e sebbene Luigi nel 1455
li parificasse agli altri nobili d’albergo, perdettero quel segno di
primazia.

Uscente il XII secolo, Tommaso di Savoja con atto pubblico _consegnava
alla libertà_ la città d’Aosta e i sobborghi, promettendo nè egli nè
i successori levarne taglie _non consentite_; e ci sono testimonj del
diritto antico le franchigie che quella valle conservò anche sotto il
dominio della casa di Savoja. Negli stati, o come oggi diremmo, nel
parlamento, presiedeva alla nobiltà uno delle famiglie di Vallesa e
di Challant, prendendo il seggio quel che primo arrivasse: il secondo
avea diritto di sedersegli sulle ginocchia. Vi si tenevano assise
per risolvere le liti di maggior momento e promulgare le ordinanze
per esecuzione della legge, assistendovi il sovrano, il cancelliere
savojardo, i pari, gl’impari, i consuetudinarj. Pari dicevansi i nobili
di case primarie: impari i vassalli banderesi o semplici gentiluomini
e dottori in diritto; gli altri erano castellani, causidici, pratici
di legge. Il duca dovea convocarli ogni sette anni, ed egli entrava
nella valle pel piccolo Sanbernardo, e toccato il confine, spediva due
baroni ordinando ai vassalli di consegnare tutte le rôcche, le quali
rimanevano occupate da gente di lui per tutto il mese che duravano
le assise. Entrato in città dalla porta San Genesio, sull’altare
della cattedrale giurava proteggere la chiesa, il clero, gli orfani,
i privilegi e le consuetudini del ducato. L’udienza tenevasi nel
vescovado, in una sala dov’erano undici sedili di legno, tutti
senza ornamenti, anche quello del duca; in man di questo rinnovavano
l’omaggio vassalli e feudatarj, si confermavano gli statuti, poi si
procedeva a rendere giustizia.

Rompendosi guerra, la valle soleva stipulare neutralità, massime colla
Francia, per mediazione dei Vallesani e degli Svizzeri, ai quali
giovava tener da sè lontana l’invasione; onde fino al 1691 nessuno
straniero violò quella valle, che era detta perciò _la pulzella_[308].

Il 13 aprile 1360 ad Amedeo VI di Savoja si presentarono alcuni
nobili, a nome degli altri tutti del Piemonte, chiedendo rinnovasse
le concessioni ch’essi già teneano dai principi precedenti. Assentì
egli, e giurò osservar loro privilegi siffatti: potessero dare
asilo nelle loro terre ai banditi dal territorio del conte, salvo se
fossero felloni o ladri; sostenersi l’un l’altro contro ai proprj
nemici, e collegarsi all’usanza de’ nobili savojardi, purchè non
fosse a danno del conte o di casa sua; esercizio amplissimo d’ogni
maniera di giurisdizione civile e criminale, quale l’aveano nelle
lor terre, proibendo agli ufficiali del conte di penetrarvi, fuori
del caso di negata giustizia; dei castelli e delle fortezze di loro
dominio non potessero venire spogliati se non nel caso di confisca,
nel quale, non altrimenti che in ogni altra inquisizione criminale,
si doveva procedere a termini di ragione; qual si fosse lite civile
o criminale insorta fra nobili, oppure fra nobili ed altri sudditi
del conte, fosse giudicata da tribunali costituiti in terra del
conte al di qua dell’Alpi; se occorresse la confisca per misfatto
dell’investito, il conte rilascerebbe il feudo ai consorti, mediante
un equo correspettivo, per verun titolo potendo ritenerlo se non con
assenso dei consorti, senza il quale non poteva egli comprar feudi; il
conte dovesse conoscere in via sommaria sopra i vassalli ingiustamente
spogliati dei feudi; tolto ed abolito in perpetuo il malaugurato dazio
di transito, origine di recente guerra; il conte non riceverebbe tra i
borghesi delle sue terre gli uomini de’ feudi nobili se non trascorso
un anno e un giorno dacchè n’erano usciti, e il vassallo non avesseli
richiamati; i nobili sariano obbligati a far oste col signore soltanto
in occorrenza di guerra, secondo le vecchie consuetudini, ricevendone
soldo e risarcimento dei danni.

Da queste limitazioni ai governanti, da questo sentimento d’una libertà
necessaria e connaturale al popolo, il savio editore dedusse novelle
prove di quell’asserto, che ogni giorno vien confermando, cioè che
negli ordini politici d’Europa la libertà si può chiamare antica,
mentre il despotismo non è che de’ governi ammodernati, siano assoluti
o costituzionali.



CAPITOLO CVIII.

Le Compagnie di ventura.


L’assiduo avvicendarsi de’ signorotti in Italia trova spiegazione
nelle mutate guise dell’arte militare. Nessuna n’aveano i Barbari; poco
atti agli assedj, poco alla tattica navale, la forza personale facea
tutto, e l’intento riducevasi a recare il peggior danno al nemico. Ai
soli conquistatori il privilegio di portare le armi, tenendo gli altri
nell’oppressione inerme. Stabilita la feudalità, ogni vassallo era
obbligato dare al signore un numero di combattenti[309]; egli stesso
ne teneva per proprio servizio e difesa: talchè gli eserciti restavano
sminuzzati in piccoli corpi, diversi secondo l’importanza del feudo,
e differentemente vestiti, armati, esercitati. Vi era possibilità di
accordare gli sforzi ad uno scopo comune?

Prevaleva la cavalleria; e solo in quella addestrandosi i nobili, la
fanteria non componeasi che di villani. Studio principale metteva il
cavaliero nel coprirsi in guisa, che armi ordinarie nol ferissero;
onde s’inventarono armadure a tutta botta, e che pure non impedissero
i movimenti del corpo. Pesavano tanto che non le avrebbe rette un uomo
a piedi: per ismontare e salire a cavallo con esse, s’inventarono
le staffe; e per reggere alle lunghe marcie e difendere le reni,
s’introdussero gli arcioni; due essenziali progressi. Sotto questa
scaglia ferrata i cavalieri sfidavano i tiri degli arcadori e le picche
della fanteria, la quale rimaneva senza riparo esposta alle mazze
ferrate o agli spadoni dei cavalieri nemici, o serviva di siepe agli
amici, qualora stanchi si ricoverassero in mezzo di essa.

Occorreva un assalto? o di dover guerreggiare, cioè saccheggiar le
terre del vicino? chiamavansi all’armi i vassalli, ma bastava sapessero
ferire e reggersi al posto; se il nemico prevalente li scompigliava,
non poteasi temere diserzione, giacchè, legati com’erano alla gleba,
forza era che tornassero alle capanne, dove il feudatario li rinveniva
ad ogni nuovo occorrente. Questo metodo, eccellente alla difesa, non
valeva all’attacco, e le crociate e le spedizioni degl’imperatori in
Italia ne chiarirono l’imperfezione. I feudatarj poi, scostati che
fossero dalle loro terre, più non aveano modo di surrogare uomini a
quei che perissero; presto avevano consumato i loro mezzi nel vestirli
e nutrirli, qualora non vi supplisse il bottino; e non potendo il
signore ritenerli di là dal tempo prefisso, li vedeva partire spesso
nel maggior suo bisogno.

Si dovette dunque provvedere a mutamenti, che il despotismo, a cui
vantaggio riuscirono, intitolò miglioramenti. Già nelle crociate
ciascun uomo acquistava importanza, sì perchè guerriero di Dio,
sì perchè bisognava introdurre accordo nel numero, disciplina
nell’entusiasmo; e quantunque lo sforzo maggiore si facesse ancora
col sagrificare la pedonaglia, pure fu duopo disporla meglio ed
esercitarla, fornire magazzini, assegnar paghe e quartieri comuni
e divise. Gli Ordini militari religiosi dovettero avere tra loro un
accordo di comandi, d’esercizj, di movimenti, la cui mercè prevalevano
alle altre truppe. Ivi anche troviamo negli assedj rinnovati gli
artifizj degli antichi, e l’unirsi in numerose masse, e le battaglie
grosse; pure gli eroi di quelle imprese mai non ci vengono lodati per
abili condottieri, se non sia nel classico poema del Tasso.

La prevalenza dell’individuo sopra la moltitudine, distintivo della
feudalità, fu dai Comuni combattuta coll’opporre la moltitudine alla
forza individuale; sicchè i pedoni riagirono contro ai cavalieri,
contro alle masnade del castellano la milizia municipale. Ma conveniva
sistemarla; e l’invenzione del carroccio, tentativo d’imporre qualche
ordine ai nuovi liberi e agl’inesercitati artieri, convince come
nessun migliore ne esistesse: tuttavia i Comuni, e massime quelli
di Lombardia, valsero a resistere all’esperienza disciplinata de’
cavalieri franconi, sassoni, svevi.

Dagli statuti municipali appajono gli ordinamenti per la milizia. Una
nazionale se n’era procurato Genova sin dal 1163; e rinomati n’erano
i balestrieri, sottomessi a consoli particolari; ben diecimila di essi
combattevano alla sanguinosa giornata di Crecy fra Inglesi e Francesi,
e perirono perchè la pioggia avea guaste le cocche. Ogn’anno il doge e
il suo consiglio eleggeva due, valenti al tiro, i quali doveano cercare
giovani balestrieri ed esercitarli quattro volte l’anno, dando in
premio ogni volta una tazza d’argento da venticinque genovine[310].

I quartieri o sestieri, in cui era divisa ciascuna città, formavano
le divisioni anche dell’esercito, e ciascuna provvedevasi di carri,
munizioni, armi, guastatori. Per lo più non uscivano che alcuni
quartieri, e nelle imprese diurne si alternavano. A Bologna ciascuna
parrocchia, secondo l’importanza, eleggeva due, quattro o sei uomini
da’ quarant’anni in su, e un notaro non minore de’ venticinque, i quali
giuravano di formare una venticinquina caduno nella sua parrocchia
d’uomini fra i diciotto e i settanta. Più tardi tutta la città era
partita in venti compagnie di sedicimila settecensettantasette uomini
e milleseicentrentotto balestrieri. Pel contado erano disposti dei
fortini con guardie che davano i segnali mediante bandiere diversamente
colorate, e con lucerne la notte. Al tocco della campana, tutti che
avessero cavalli doveano comparire sotto i loro vessilli in piazza. I
cavalieri portavano panziera, guanti di ferro, corazzina, schinieri
e cosciali, cappellina di ferro o bacinetto con nasale. Sopra la
guerra si eleggevano due savj per tribù[311]. Pisa era compartita in
compagnie vecchie e nuove, comandate da gonfalonieri eletti nel proprio
gremio. Al suon dello stormo, ciascuno raccoglievasi alla bottega del
proprio gonfaloniere; e lo statuto fissava qual dovesse dirigersi al
palazzo, quale alla tal porta; e così dalla campagna quali postarsi
a un crocicchio, quali a un ponte. A Como dodici cittadini per turno
custodivano il castel Baradello.

La cavalleria, più importante quanto più piccole sono le schiere,
richiede più lunghi esercizj, sicchè quell’arma era affidata di
solito ai meglio stanti, o a gente stipendiata; Milano fin dal 1227 vi
assegnava soldo; Firenze v’aggiungeva premj e medaglie, e ne formava
una o due compagnie: seguivano due corpi di balestrieri e di fanteria
pesante, con lancia, palvese e cervelliera: gli altri cittadini,
ripartiti in compagnie con spada e lancia, doveano trovarsi in arme
al posto assegnato quando toccasse la squilla; la quale, dopo sonato
continuo per un mese, era posta sopra un carro, e serviva a guidare
la marcia. Il supremo comando spettava ai consoli; sotto di loro
i capitani di quartiere, il gonfaloniere, il capitano di ciascuna
compagnia. Con tali armi uscivasi o alla _gualdana_, correria per
guastare le terre; o alla _cavalcata_, corta impresa di cavalli e
arcieri; carroccio e gonfalone andavano solo a _oste_, ch’era un
esercito compiuto.

Ci rimangono in latino i _preparativi per la guerra_ de’ Fiorentini
nel 1285, che dicono presso a poco: — Quest’è il modo di far esercito
pel Comune di Firenze contro i Pisani, trovato dai mercanti di Firenze
per lo migliore stato della città e delle arti. E prima, far chiudere
tutte le botteghe e i fondaci sinchè l’esercito si muova: suoni ogni
giorno la campana del Comune, e si bandisca per la città che ognuno si
prepari di quanto occorre all’esercito: si eleggano quattro persone in
ogni canonica, e due in ogni cappella, e facciano cinquantine d’uomini
dai quindici ai settant’anni, e li mettano in iscritto: da ciascuna
cinquantina si scelga quali devono rimanere in città per custodia, e
quali andare nell’esercito: a quei che rimangono s’imponga quantità di
denaro conveniente, e così agli assenti: i trascelti vadano e restino
nell’esercito a loro spese proprie: nel contado poi restino alcuni
a custodia delle pievi e delle ville e de’ popoli, e gli altri tutti
vadano e stiano nell’esercito a spese di quei che rimangono»[312].

Ordini consimili troverebbe, chi li cercasse, nelle varie città; e
al sommar de’ conti unico comando era il combattere, unica regola non
iscostarsi dalla bandiera o dal carroccio, unico scopo il vincere.

Ma già fin dai primi tempi de’ Comuni v’era chi specialmente si
ammaestrava e sistemava per la guerra, e tali erano que’ Gagliardi, che
nel 1235 a Milano giurarono difendere il carroccio; tali i Coronati,
che cinque anni dappoi, gridando _A morte, a morte_, traevano tutta
Milano a combattere; tali i Cavalieri delle bande, che Firenze
istituì quando temeva d’Enrico VII, e che poi si volsero a spassi
e sollazzi[313]; tali altre compagnie in diversi Comuni, le quali
facilmente acquistavano importanza politica, e privilegi, e ingerenza
nel pubblico maneggio. L’uomo ama la libertà perchè gli rechi la pace;
e i nostri cittadini, bramando applicarsi alle arti, desideravano
esimersi dalla milizia. Si cominciò dunque a non chiamar più alle armi
l’intero popolo, ma solo chi avesse un dato censo, o chi si esibisse,
o chi l’accettasse per ingaggio. Da ciò venne che si potessero meglio
esercitare e disciplinare; laonde come superfluo si lasciò da banda
il carroccio, e primo Ottone Visconti vi surrogò lo stendardo bianco
con sant’Ambrogio, poi tutti i Comuni spiegarono la propria insegna.
Ma già prima essi Comuni aveano introdotto di prendere al soldo
uomini meglio addestrati nell’arme che non i borghesi; e nel capitale
problema statistico di fare che la guerra non isfrutti i vantaggi della
pace, si figurarono tornasse a pro l’avere una forza stipendiata e
forestiera, la quale dispensasse i cittadini dal togliersi alle arti e
alle campagne; e che, condotta in occasione di guerre, fosse congedata
durante la pace senza logorar le finanze; riducesse insomma la guerra
ad una quistione di denaro.

Gl’imperatori svevi, menando a spedizioni più lontane e più prolungate
che nol portasse il servizio feudale, dovettero ricorrere a truppe
mercenarie, e con esse si fecero forti Federico II, e più Manfredi e
Corradino, e per contrasto a loro Carlo d’Angiò. Le accantonavano essi
qua e là per Italia, all’uopo di favorire l’uno i Ghibellini, l’altro
i Guelfi; sicchè passando da terra a terra, da bandiera a bandiera,
costoro s’avvezzarono alle imprese di ventura. Con siffatti trionfarono
Ezelino, Salinguerra, Buoso da Dovara, Oberto Pelavicino; ad essi
furono dovute le vittorie di Tagliacozzo e di Benevento, poi gli
alterni successi dell’interminabile guerra di Sicilia.

In quest’ultima, singolar rinomanza di valore e fierezza acquistarono
i Catalani e gli Aragonesi; e quando, sospeso il combattere, Federico
re di Trinacria volle rimandarli in patria, risposero essere liberi
di sè, manomisero l’isola per proprio conto, e presero a capo Ruggero
di Flor, generato da un gentiluomo tedesco del seguito di Corradino
in una nobile di Brindisi, lo perchè dai nostri è appellato Ruggero
di Brindisi. Perduto il padre alla battaglia di Tagliacozzo, colla
madre cresceva negli stenti, finchè, menato via da un Templare, presto
meritò divenir egli pure friere. Alla presa di Tolemaide (1291) salvò
molte persone e le ricchezze del suo Ordine: ma accusato d’essersene
appropriato qualche porzione, fuggì in Sicilia. Creato viceammiraglio,
fatto esercito di avveniticci italiani, tedeschi e principalmente
catalani, e da re Federico, desideroso di sbrattarne l’isola, avute in
dono dieci galee, che egli crebbe fino a trentasei, passò in Grecia,
ove l’imperatore Andronico II (1304) l’accolse con tanto onore, da
sposargli fino una nipote. Contro i Turchi prestò eccellente servigio:
ma i liberatori nocevano non meno che i nemici; non risparmiavano
onore, robe, vite; e per lunghi anni, col nome di _esercito de’ Franchi
regnante in Tracia e Macedonia_, fecero ogni loro arbitrio su quel
confine dell’Asia e dell’Europa, e gravi jatture recarono alle colonie
genovesi.

Piacque tale esempio al genio andarino e venturiero d’allora,
quando, non essendo accentrata ne’ governi ogni attività, ciascuno
disponeva ad arbitrio della propria, siccome abbastanza ci fu veduto
nelle spedizioni de’ Normanni, nelle crociate, nelle conquiste di
Genovesi e Veneziani in Levante. Non era questa la forma, con cui i
Germani erano sbucati addosso all’antico impero romano? non erano
tali gli Ordini cavallereschi? Nell’indipendenza degli individui,
e nella niuna protezione che poteano ripromettersi dai governi,
ognuno doveva provvedere alla sicurezza propria, e chi non si volesse
rassegnare all’oscurità, dovea procacciarsela coll’armi. Spesso,
come dice il cronista di Cola Rienzi, «non c’era altra salvezza se
non che ciascheduno si difendeva con parenti e con amici»; e queste
associazioni di famiglie e di clienti facilmente dalla difesa passavano
all’attacco.

A migliaja, lo vedemmo, le persone erano bandite da alcune città; le
quali, sviate dai mestieri e cupide di vendetta, si applicavano alle
armi, e restando unite dalla comunanza di sventure e di speranze, si
offrivano a chiunque preparasse impresa contro la loro patria[314], o
stanziavansi in altre città, come fecero i Guelfi fiorentini dopo la
battaglia di Monteaperti, i quali poi raccozzatisi in un’armatetta,
coadjuvarono alla spedizione di Carlo d’Angiò.

D’altra parte la nobiltà castellana teneva studio unico le armi, e vi
esercitava i suoi villani onde averli pronti al bando feudale o nelle
private baruffe. Accomandati a più d’un Comune, bilanciavansi tra
i varj in modo di non obbedire a nessuno, e ingrandirsi a danno dei
confinanti. I podestà, che andavano ad esercitare nelle città il potere
esecutivo, doveano condurvi un pugno d’armati, e ne davano per lo più
la cura ad alcuno di questi castellani; od un castellano veniva podestà
o capitano del popolo colla propria masnada.

La feudalità avea risolto in modo insigne il problema supremo di
fissare al suolo le genti da tanto tempo vagabonde, e di allestire
alla difesa senza possibilità di conquiste. Ma ormai i feudi si
venivano fondendo; quelle molecole politiche, per così esprimermi,
si cristallizzavano attorno ad alcuni nuclei; alle guerre private
succedeano quelle di Stato a Stato, più grosse e regolari; del sistema
monarchico consolidatesi nella restante Europa, si risentiva pure
l’Italia; e i re e gli imperatori che s’accingevano a lunghe e lontane
imprese, non potendo pretendere i servigi de’ loro vassalli, doveano
ricorrere a un valor mercenario. Dopo che la libertà comunale era
riuscita a ridurre cittadini i guerrieri, i guerrieri ed i principi
dovendo comprimere i sudditi, ricorrevano a quel che n’è mezzo supremo,
una forza regolare e stabile, non più disposta a tutelare i borghesi
che in pace trafficassero o lavorassero, ma a tenere in soggezione i
sudditi, nè lasciare che sentissero la propria gagliardia.

Generale divenne dunque l’uso delle truppe mercenarie, e persone e
paesi si applicarono specialmente a quest’arte. Nella bassa Germania
e in quella che poi formò la Svizzera, sminuzzata tra innumerevoli
signorotti, e con più popolazione che mezzi di sostentarla, presto
divenne un mestiere il servire coll’armi; e come capobande era comparso
in Italia quel Rodolfo d’Habsburg, la cui discendenza dovea darle tanti
regnanti[315]. Allorchè Enrico VII morì a Buonconvento, i Tedeschi che
con lui aveano passato le Alpi rimasero improvvisamente senza soldo e
senza padrone, e vissero di saccheggiare, finchè si allogarono con chi
li pagasse: altrettanto fecero i seguaci di Lodovico Bavaro, e quei
che erano venuti col duca di Carintia, col re di Boemia, al ritorno
ne’ loro paesi preferendo il rimanere nel nostro: con loro si univano
i nostri maneschi, e gente necessitata a misfare per fuggire castighi.
I tirannetti preferivano sempre i Tedeschi, perchè stranieri ai
partiti nazionali, e perchè più ostinati, come quelli che non poteano
disertare, e che aveano mestieri della guerra per vivere. Questi
venderecci, non combattendo nè per sentimento nè per obbedienza ma per
guadagneria, riuscivano terribili ad amici e nemici.

In Italia i cittadini eransi mostrati eroi nell’acquistare contro il
primo e difendere contro il secondo Federico la loro indipendenza;
ma quando le guerre si prolungarono, e divennero schermaglie di
partiti, o da un signore decretate per proprio interesse e capriccio,
essi prendeano le armi di tanto minor voglia, quanto più venivansi
avvezzando alle dolcezze della quiete e all’applicazione delle arti.
Ai signori nulla poteva tornare più desiderevole che questo svogliarsi
dalle armi, le quali in man de’ cittadini sono terribile ritegno alle
prepotenze: onde di lieto animo li sgravarono di tal peso, cambiandolo
con un tributo, del quale si valeano per condurre truppe a stipendio.

Si trovò dunque chi speculasse su questo nuovo lucro, e uomini disposti
a «versar l’alma a prezzo», e _condottieri_ che li comprarono, rizzando
una bandiera di ventura per far guerra dove avessero maggior derrata.
Costoro, trovandovi guadagno e fama, esercitarono meglio le bande, che
applicate per elezione alle armi, dovettero possederne l’abilità, se
non il vero coraggio che nasce dal sentimento del dovere. La milizia
cessava dunque d’essere, come deve, una istituzione dello Stato,
e diveniva mestiere d’individui: da gente poi senza patria, senza
causa, senz’altro movente che l’oro, poteasi più aspettare nè cortesia
cavalleresca, nè lealtà, nè l’altre doti che sceverano il masnadiero
dal campione?

Questa genìa nuova, principal parte sostenne nelle guerre non solo, ma
nelle vicende politiche del periodo sul quale ora ci esercitiamo, e che
forma una nuova fasi della vita signorile. Perocchè da prima vedemmo
i castellani imperare sul suolo sbocconcellato. Dappoi che furono la
più parte costretti a divenire cittadini, cercarono primeggiare nei
Comuni colle magistrature o col capitanare le fazioni; e Giano della
Bella, Vieri de’ Cerchi, Corso Donati, non meno che i Torriani, i
Carrara, i Da Camino, andarono podestà o capitani del popolo in varie
città o nella natìa col mescere partiti. Or ecco nuovo campo aprirsi
ai gentiluomini, il condurre soldati a servizio di questo o di quel
belligerante, col nome in prima di capitani, poi di condottieri: e
già per tal via vedemmo ingrandire Uguccione, poi Castruccio: e fu
col costoro ajuto che le città, divezzate dalle armi, si sottoposero a
principi.

I Comuni dovettero anch’essi adottare questo sistema, e appunto colle
bande Firenze resistette a Castruccio, poi ai Visconti e al papa. Nel
1322 alcuni, partiti dal soldo de’ Fiorentini, si unirono a Deo Tolomei
fuoruscito di Siena, che, raccoltine oltre cinquecento a cavallo e
moltissimi a piedi, corse infestando il Senese[316], finchè il verno e
la fame li sbrancò. Narrammo le vicende e la baldanza di quei che dal
Ceruglio pericolarono Lucca e Pisa.

Guarnieri duca di Urslingen, con molti altri tedeschi a cavallo
condotto a provvigione dai Pisani contro Firenze nella guerra di Lucca,
congedato assunse imprese per proprio conto, e spinto (1343) o anche
pagato dai Pisani e dai signori lombardi per danneggiare i principotti
di Romagna, unì a sè le bande di Ettore Panigo e di Mazarello da Cusano
bolognesi, e intitolandosi _signore della Gran Compagnia, nemico di
Dio, di pietà, di misericordia_, taglieggiava tutt’Italia, dando mano
a ribelli e vendicativi. Tremila barbute lo seguivano con infinita
ciurma, ogni dì cresciuta dalla schiuma de’ paesi traversati; correvano
a man salva sopra chiunque differisse a dare quanto pretendevano; e
incendj, devastazioni, e quantità di villani appiccati agli alberi
segnavano il loro passaggio. Alfine Guarnieri pel Friuli se n’andò
ben arricchito: ma quando i pochi resti della sua banda ebbero al
giuoco, ai bagordi, a postriboli sguazzato le prede, egli tornò
con Luigi d’Ungheria venuto a conquistare il regno di Napoli, e che
blandiva questo masnadiero al punto di volere da esso ricevere l’ordine
cavalleresco. Accordatosi col vaivoda di Transilvania e con altri
capibanda, fino a raccorre diecimila armati, Guarnieri taglieggia la
Capitanata e la Terra di Lavoro (1348), e ogni luogo dove trapiantasse
gli alloggiamenti; e il bottino che i suoi spartirono alla fine si
valutò mezzo milione di fiorini, non contando l’armi, i cavalli, i
panni e le cose d’uso o trafugate; e dopo strazj infandi traendosi
dietro prigionieri e donne rapite, attraversarono la spaventata Italia.

Fra queste bande e nelle guerre del Napoletano (1351) si era segnalato
Monreale d’Albano frate spedaliere, che, affidatisi alcuni masnadieri
ed esibendosi a un signore o all’altro, era venuto in fiducia che
nulla fosse impossibile alla forza; onde mandò inviti e promesse
a quanti erano mercenarj per Italia, e arrolati millecinquecento
cavalli e duemila fanti, mise a sacco la Romagna. Avvezzò egli i
suoi a rubare e assassinare con ordine: teneva tesoriere, segretarj,
consiglieri con cui discutere; giudici che mantenessero fra i soldati
una giustizia a modo suo, e reprimessero i saccardi: il bottino doveva
essere compartito equamente tra uffiziali e soldati, poi venduto a
certi mercanti privilegiati: una repubblica insomma di masnadieri
disciplinati. E per tutto se ne parlava; i venturieri non vedeano
l’ora d’aver finito la propria condotta per mettersi ne’ ruoli di
frà Moriale, e fin principi e baroni di Germania. Così aggomitolò
da settemila cavalli e millecinquecento fanti scelti, ma l’ondata
seguace saliva sin a ventimila; e ognun pensi come i paesi doveano
rimanere in isgomento, e se pagavano di grosso acciocchè non venissero
a far di loro Dio sa che. Le città toscane si serrarono in lega per
difendersi, ma egli bravando di volerne far quel peggio che mai,
seppe sconnetterle, ciascuna tagliando di pingui riscatti: Siena di
sedicimila fiorini, d’altrettanti Pisa, di venticinquemila Firenze
per rimanerne lontano due anni, oltre i regali ai capi. E corsa per
sua la campagna, andò a servire la lega formata contro i Visconti,
patteggiando cencinquantamila fiorini per quattro mesi di servizio.
Finito il quale (1354), traversò Italia onde andare ad accaparrarsi
imprese per la nuova stagione; ma Cola Rienzi il colse, come vedremo.

Tal modo di guerra aggeniava agli Stati piccoli e trafficanti, che
col denaro sapeano di avere in pronto truppe ad ogni occorrenza, e
ripristinavano in certo qual modo l’equilibrio, rotto dal crescere
d’alcune potenze. Ai tiranni conveniva onde perfidiare la pace,
giacchè, se volessero nel cuor di questa rovinare un loro nemico,
congedavano una banda con segreto concerto che la si gettasse sulle
terre di quello. Il condottiere tornava opportunissimo alla diffidenza
di Stati non eretti saldamente sopra le istituzioni: e l’aristocrazia,
temente la popolarità d’un guerriero vittorioso; la democrazia, gelosa
di non affidare il comando a un cittadino; i principi, che repugnavano
dall’armare nè i nobili nè la plebe, trovavano al caso loro questo
nomade eroe, che combatteva perchè pagato, che se ne andava al cessar
degli stipendj, che alla peggio potevasi reprimere collo stipendiare
un suo emulo. Venezia, che, per gelosia, ai proprj nobili non avea mai
consentito i comandi, menò soldati a mercede in tutte le campagne di
terraferma; Firenze si piacque di un sistema, che i cittadini lasciava
attendere alla mercatura e alle industrie di mano e d’ingegno; se ne
piacque Roma pretesca: e così si estese questo vil modo, che della
guerra faceva una speculazione, togliendole quel decoro che la rende
men trista.

E fu un nuovo e gravissimo flagello della patria nostra. Que’
venturieri, terribili per barba, per cimieri strani, per nomi
strepitanti, unendosi improvvisi e guerreggiando senza ragione, nessun
più lasciavano sicuro della pace. Combattendo senza sentimento nè
onore, ispiravano diffidenza anche ai proprj compratori, disposti
com’erano ad abbandonarli appena ne trovassero uno più generoso. Ad
ogni impresa ben riuscita, pretendeano _paga doppia e mese compiuto_;
se finita la loro _ferma_ non fossero ricondotti, o la pace li
mettesse _in aspetto_, i capitani assumevano imprese per conto proprio:
riuscivano? ecco terre da saccheggiare, prigionieri da taglieggiare,
conquiste da rivendere: fallivano? aveano scemato le bocche da
mantenere. Dietro a loro traeva sempre una ribaldaglia di spie,
saccomanni, guastatori, che sperperavano il paese, non peritandosi
fra pace e guerra, fra amici e nemici. Aveano l’accortezza di non
badarsi in un paese tanto da eccitare i natii a difesa disperata, e
gl’inducevano a soffrire colla lusinga che presto ripartirebbero.

Nerbo degli eserciti restava sempre la cavalleria pesante, poco
reputandosi la fanteria, cernita fra vulgari, e che supponevasi
incapace a sostenere l’urto de’ corazzieri. Ma la grave armadura,
disposta alla difesa anzichè all’offesa, rendeva i militi più
formidabili per massa che per agilità; e se dai molti arcieri e
pochi balestrieri che erano allora negli eserciti non poteva essere
trapassata, disserviva però ne’ paesi caldi; e caduto che uno fosse,
più non poteva rialzarsi, e rimanea prigione o ucciso o soffocato.
Qualunque ostacolo poi frangeva quelle massicce ordinanze, nulla
poteano fra le montagne, poco al varco de’ fiumi; in conseguenza
evitavano le battaglie in campagna rasa, o bisognava che i due generali
nemici si mettessero d’accordo per scegliervi luogo opportuno, come si
farebbe in duello o in un torneo.

Rare perciò le giornate campali, limitandosi a _cavalcate_ sul terreno
nemico per bottinare, distruggere, coglier prigioni; e consumavasi
talvolta la guerra senza neppure una battaglia. Pertanto i paesani
ritiravansi entro terre castellate, quali allora faceansi tutte, e che,
per la natura delle armi d’allora, erano a gran vantaggio superiori
nella difesa, e anche i villani poteano sostenervi raffrontata sinchè o
si fosse patteggiato coi condottieri, o questi stancati non volgessero
sopra un altro castello. Imperocchè una tela continua ne trovavano
sui loro passi, e vicino un breve spazio alla piccola terra di
Sanminiato contavansene ventotto, ventitrè nel contorno di Montecatino,
ventiquattro ne possedeva attorno ad Asti la famiglia Solari; e
la Toscana, che oggi non ha tampoco una piazza, non sariasi potuta
conquistare che dopo tre o quattrocento assedj. La difficoltà d’essere
espugnati rendeva animosi a resistere, come oggi la certezza del dover
soccombere predispone a capitolare.

Intanto, a differenza di ciò che si fa o si cerca oggi, il danno cadeva
non sugli eserciti, ma sul popolo, lasciando costoro dappertutto luridi
segni di gola e di lussuria, e per lo meno mercatando degli alloggi
risparmiati, del cammino cansato. Dopo la vittoria di Meleto (1349) il
vaivoda di Transilvania, i conti Landò e Guarnieri doveano alle bande
doppia paga, montante a cencinquantamila fiorini; e non trovandoseli,
abbandonarono ad esse i gentiluomini prigionieri, che distesi su travi
per terra, vennero a furore flagellati finchè non s’obbligassero a
quel tributo. La Compagnia Bianca, capitanata dall’inglese Giovanni
Acuto (Hawkwood), allorchè prese Faenza (1376), pose in catene trecento
signori, undicimila cittadini cacciò, e sulle robe e sulle donne
avventossi furiosa: due connestabili si contendeano una monaca rapita,
quando l’Acuto sopravenne, e — Abbiatela metà per uno», disse, e la
tagliò in due. Un’altra banda mandavasi avanti un villano, di cui aveva
arrostito un fianco sopra la graticola, perchè i costui strilli ne
annunziassero l’avvicinarsi.

Racconta Franco Sacchetti, che, essendo iti due frati Minori ad esso
Acuto, lo salutarono al loro modo dicendo, — Monsignore, Dio vi dia
pace»; e quegli subito rispose: — Dio vi tolga la vostra elemosina»; e
meravigliandosi essi dello scortese ricambio, — Non sapete (soggiunse)
ch’io vivo di guerre, come voi di elemosine, e la pace mi disfarebbe?»
Dove l’autore, meno frivolo del solito, riflette: «Guaj a quelli uomini
e popoli che troppo credono a’ suoi pari, perocchè popoli e Comuni
e tutte le città vivono e accrescono della pace; ed eglino vivono
e accrescono della guerra, la quale è disfacimento delle città, e
struggonsi e vengon meno. In loro non è nè amore nè fede; peggio fanno
spesse volte a chi dà loro i soldi, che non fanno ai soldati dell’altra
parte; perocchè, benchè mostrino di voler pugnare e combattere l’uno
contro all’altro, maggior bene si vogliono insieme, che non vogliono a
quelli che gli hanno condotti alli loro soldi; e par che dicano, _Ruba
di costà, ch’io ruberò ben di qua_. Non se n’avveggono le pecorelle,
che tuttodì con malizia da questi tali sono indotte a far guerra, la
quale è quella cosa che ne’ popoli non può gittare altro che pessima
ragione. E per qual ragione sono sottomesse tante città in Italia a
signore, le quali erano libere? per qual cagione è la Puglia nello
stato ch’ella è? e la Sicilia? e la guerra di Padova e di Verona ove le
condusse, e molte altre città, le quali oggi sono triste ville?»[317].

Una milizia che si proponea per fine il saccheggio e lo stupro,
di rado conduceva a risultamenti decisivi; principi e repubbliche
rimanendo a loro arbitrio, supplicavano, in vece di comandare; donavano
titoli, stemmi, parentele ai capitani, e per reprimerli non sapeano
che ricorrere a inganni e veleni; e il rigore che era necessario
per isgomentar le bande, introduceva nuova ferocia negli statuti
criminali. Armeggiando per mestiere, i venturieri non dimenticavano
che domani forse servirebbero a quello che oggi combattevano; onde
s’accordavano di nuocersi il men possibile, far prigionieri più che
uccidere, sovrattutto risparmiare i cavalli, meno facili a rifarsi che
gli uomini; e quando facessero de’ prigionieri, se li scambiavano.
Essendo una volta Francesco Piccinino trascorso incautamente fra’
nemici, «subito che questi lo conobbero, gittarono le armi, e coi capi
scoperti riverentemente lo salutarono; e qualunque poteva, con ogni
riverenza gli toccava la mano, perchè lo imputavano padre della milizia
e ornamento di quella» (CORIO). Dopo il fatto di Montorio, Roberto
Sanseverino rimandò i fatti prigioni, ma con lettera in cui si doleva
che i soldati avversi «con poco rispetto l’avessero sonato, e datogli
molte punte di spada»[318].

Con tali cortesie la guerra si trovò ridotta ad una scherma da
scacchiere, a una manovra di marcie e contromarcie; le battaglie
a un accalcarsi piuttosto che azzuffarsi; nè versavasi sangue che
per inavvertenza, e un’abbaruffata in città costava di più che una
giornata campale; ingegno e astuzia sottentrarono al coraggio, e molti
invecchiarono nell’armi senza trovarsi mai esposti a pericolo. Nel
capitano però richiedevasi abilità personale; atteso che le truppe,
massime di fanteria, non erano tenute alla bandiera da punto d’onore,
non da vergogna de’ commilitoni coi quali trovavansi accozzati per
un solo momento, onde si sbandavano appena perduta la speranza della
vittoria o del bottino.

Alcuni capitani di ventura fondarono chiese e cappelle, massime a san
Giorgio, del qual titolo è un ospedale a Firenze, posto il 1347 dagli
stipendiati della Compagnia di quel nome; una cappella a Pisa del
1346, fondata da due degli Scolari; Bonifazio Lupo istituì a Firenze
l’ospedale che conserva il suo nome; Pippo Span il tempio degli Angeli;
Percival Doria l’Annunziata a Genova; Bartolomeo Coleoni ricchissima
cappella e pie istituzioni a Bergamo e a Venezia. Anna Elena, dopo la
tragica fine di Balduccio d’Anghiari suo marito, in Borgo San Gattolino
a Firenze fonda un ospizio di vedove e povere, da lei denominato
convento d’Annalena. E (ciò ch’è inonesto più che raro) in guerre di
speculazione ottennero gloria; all’Acuto Firenze poneva il ritratto e
un mausoleo nella propria cattedrale; esequie splendidissime rendeva
a Niccolò da Tolentino, con venti bandiere e più di tremila libbre di
cera, poi il ritratto in essa chiesa; statue equestri al Gattamelata
Padova, al Coleoni Venezia, anche dopo che il sepolcro avea tolto che
paressero formidabili.

Talora invece erano condotti a trista fine: si sa come Venezia si
disfece del Carmagnola; i Fiorentini fecero dipingere impiccato per un
piede il conte Francesco di Pontadera, capo di bande avversarie; Giovan
Tomacelli fratello del papa, marchese delle Marche, fatto chiamare il
famoso Boldrino da Panicale, lo fe trucidare, di che le costui bande
vollero vendetta su quanti uomini della Chiesa colsero. Trionfi e
supplizj, vicende d’ogni condizione avventuriera.

Le popolazioni non restavano assolte da ogni peso guerresco, anzi
doveano far la guardia delle città e dei contorni, custodire e
difendere le fortezze, dare i carri e i servigiali, preparar le
strade. Ciò pesava piuttosto sulla gente del contado; quei di città
contribuivano invece tasse o gabelle, con cui pagare le masnade.

Così il grosso della nazione italiana disusavasi del valore in
mezzo alle battaglie; arbitro delle nimicizie e delle paci restava
un gentame vendereccio; e le guerre non terminavano mai, perchè non
toglievano le forze ai vinti, i quali al domani d’una solenne sconfitta
poteano riaffacciarsi con esercito più poderoso, purchè avessero
onde comprarlo. Ai condottieri medesimi stava a cuore di non lasciar
soccombere i piccoli Stati ed i rivali, perchè non venisser meno
le occasioni di guadagni. Quando i Fiorentini volevano obbligare re
Ladislao di Napoli a restituir le terre tolte alla santa Sede, egli
domandò: — Che truppe avete ad oppormi?» ed essi: — Le tue medesime».



CAPITOLO CIX.

Incrementi di Firenze. Il duca d’Atene. La Morte nera. Petrarca e
Boccaccio.


Da costoro furono agitate le guerricciuole di Toscana. Dalla campagna
devastata accorreasi per sussidj a Firenze: eppure l’industria dentro
e i banchi di fuori le recavano tal floridezza, che, aggrandita
di possessioni, di castelli, di moneta, potè rappresentare parte
principale nelle vicende di tutta Italia.

Per la guerra contro Mastin della Scala, Firenze spediva a Venezia
venticinquemila fiorini d’oro il mese, oltre tenere al soldo mille
cavalieri, e guarnigioni nelle terre e castelli, de’ quali ben
diciannove sorgeano nel solo contado di Lucca, uno ad Arezzo, a
Pistoja, a Colle. Ma i soldi della cavalleria cessavano al cessar della
guerra, e ai magistrati invece di stipendj bastava l’onore di servire
alla patria. Quarantasei terre murate ne dipendevano, oltre quelle
di cittadini e le aperte: non grossa l’entrata diretta, ma le gabelle
fruttarono fin trecentomila fiorini annui, che oggi si valuterebbero il
quadruplo, e che sorpassavano l’entrata dei re di Sicilia, di Napoli,
d’Aragona. La zecca coniava da trecencinquanta in quattrocentomila
fiorini d’oro l’anno, e ventimila lire di moneta erosa: le spese
non arrivavano a quarantamila fiorini d’oro, tra le quali, oltre
le uffiziali, figurano le limosine a monaci e spedali, le feste al
popolo e ad illustri avveniticci, e il mantenimento de’ leoni, animali
pregiati colà non meno che a Venezia.

In città v’avea centodieci chiese, di cui cinquantasei parrocchiali,
cinque badie, due priorati con ottanta regolari, ventiquattro
monasteri con cinquecento religiose, settecento monaci d’ordini
differenti, ducencinquanta e più cappellani, trenta spedali con mille
letti. Lievissimo il tributo; bisognando denaro, se ne cavava dal
vendere spazio da fabbricar case; e s’ampliava la cerchia della mura
comprendendovi Borgognissanti e il Prato. Fra il 1284 e il 1300 si
ergevano la loggia dei Lanzi, Santa Maria del Fiore, Santa Croce,
futuro panteon de’ grandi Italiani.

Venticinquemila persone da quindici in settant’anni erano capaci
dell’armi, fra cui millecinquecento nobili, sottoposti alle rigide
cautele delle ordinanze di giustizia; non più di settantacinque
cavalieri di corredo, atteso gli ordinamenti democratici;
millecinquecento forestieri, ottantamila abitanti in contado. Ottanta
in cento persone componevano il Consiglio de’ giudici, seicento
quello de’ notaj: sessanta fra medici e chirurghi, cento droghieri,
cenquarantasei mastri di muro e di legname, cinquecento calzolaj,
e senza numero merciajuoli ambulanti. Da otto a diecimila fanciulli
frequentavano le scuole di leggere, da mille a milleducento quelle
d’aritmetica, un seicento quelle di grammatica e logica. Volgendo
a morale perfino l’astrologia, i Fiorentini diceano la loro città
esser nata sotto la costellazione dell’ariete, e perciò predestinata
al commercio, e che già Carlo Magno l’avesse divisa in arti; volendo
l’industria favolose genealogie, come l’aristocrazia. V’erano dunque
ducento e più esercizj d’arte della lana, e venti fondachi di panni
forestieri occupavano più di trentamila operaj: ventiquattro case
trafficavano di banca.

I contorni erano popolati di ville, deliziose per posto, e arricchite
di capi d’arte; e «uno forestiere non usato (conchiude Giovan Villani
questo lusinghiero ritratto della sua patria) venendo di fuori, i più
credeano per li ricchi e belli palagi ch’erano a tre miglia a Firenze,
tutti fossero della stessa città, al modo di Roma; senza dire delle
case, torri, cortili e giardini murati più da lungi, talchè si stimava
che intorno a sei miglia vi aveva tanti ricchi e nobili abituri, che
due Firenze non n’avrebbono tanto».

Da così bel crescere la tracollarono gravissime sventure. Nel novembre
1333 piogge interminate flagellarono molti paesi, e peggio Firenze,
ove l’Arno traripando guastò mura, ponti, casamenti, e molte vite e
ricchezze inestimabili; e seguì devastando il Casentino, il val d’Arno
superiore e l’inferiore, e per tutto ove tenne sua corrente fin al
mare. Incalcolabile il danno de’ privati; quel che ricadde sul pubblico
passò i ducencinquantamila zecchini: ma la città si affretta al
riparo, spendendo cencinquantamila zecchini ne’ soli ristauri, sebbene
contemporaneamente menasse la sciagurata guerra per l’acquisto di Lucca
e quella contro Mastin della Scala. Pure, non avendo mai il granchio
alla borsa ne’ pubblici comodi, eleva anche il magnifico palazzo sopra
le logge d’Or San Michele, e getta le fondamenta del meraviglioso
campanile.

Ma ecco la squassano grossi fallimenti. I Bardi banchieri nel 1345
doveano avere novecentomila fiorini d’oro dalla corona d’Inghilterra,
e centomila da quella di Sicilia; i Peruzzi seicentomila dalla prima,
centomila dall’altra; e avendo il re inglese lasciato scadere le
cambiali, le due case furono ridotte a fallire, e i Bardi diedero ai
creditori il settantotto per cento, assai meno i Peruzzi. Anche gli
Scali fallirono di quattrocentomila fiorini, e dietro a loro i minori
mercanti, «e fu (dice il Villani) a’ Fiorentini maggiore sconfitta,
senza danno di persone, che quella d’Altopascio».

Di quel tempo Firenze fece un primo assaggio di tirannia. Già quando la
guerra con Mastino metteva a repentaglio lo Stato, e invaleva la paura
che i Ghibellini di dentro gli desser mano, si provvide ad un’autorità
dittatoria, invece dei sette bargelli istituendo un capitano della
guardia o conservatore del popolo, con cento uomini a cavallo e il
doppio pedoni, e la provvisione di diecimila fiorini annui; la cui
giurisdizione non solo si estendeva illimitatamente sopra i fuorusciti,
ma era disobbligata dagli ordini della giustizia, e dal render conto ad
altri che ai priori delle arti. Il primo fu Jacopo Gabrielli da Gubbio,
che severo e tirannico, a contemplazione della plebe oppresse i nobili,
tendendo a privarli delle castella venti miglia attorno alla città,
cercando al castigo alcuni de’ Bardi e Frescobaldi che studiavano a
novità; e n’acquistò tale odio, che, quando scadde, fu stanziato che
nessun da Gubbio si eleggesse più a pubblica funzione.

Avrebbero dovuto accertarsi che mal si ripara la libertà all’ombra
del dispotismo: eppure, scontenti della lentezza de’ magistrati
e della perdita di Lucca, conferirono la signoria a Gualtiero di
Brienne (1342). Proveniva costui da quel Brienne che campeggiò in
Italia, suocero poi nemico di Federico II: re titolare di Gerusalemme,
per donne avea conseguito il ducato d’Atene, donde cacciato dalle
bande catalane, si era posto al mestiero più lucroso, la guerra di
ventura, e con cenventi uomini e gran fama di valore stava al soldo
de’ Fiorentini, quand’essi il domandarono capitano e conservatore
del popolo, per quella funesta propensione che i vulghi hanno
verso i capi militari. «Non senno, non virtù, non lunga amicizia,
non servigi a meritare, non vendicate loro onte, ma la loro grande
discordia»[319] riduceva i Fiorentini a dominio di questo forestiero,
il quale, avaro quanto ambizioso, perfido, ostinato, senza pietà nè
confidenza, pensò vantaggiarsi delle passioni di tutte le sêtte,
e tutte ingannarle. Bardi, Frescobaldi, Cavalcanti, Buondelmonti,
Adimari, Donati, Gianfigliazzi ed altri nobili antichi, esclusi di
governo dalla mercantile oligarchia, e continuamente rimorsi per
un potere che più non aveano, aizzavanlo contro i popolani grassi,
dominatori superbi, ed esosi anche alla plebe; ed egli in fatto ne
processò alcuni, come Altoviti, Medici, Rucellaj, Ricci, rivedendo
antiche ragioni; e trovando aveano trassinato il denaro del Comune,
li mandò al supplizio. Ne sbigottì quella fazione: nobili e plebe
s’allegrarono che Dio avesse finalmente mandato un uomo (1342), il
quale non mirava in viso a nessuno, nè si lasciava metter la mano sotto
da tirannetti. Incontrandolo dunque, gli gridavano _Viva il signore_,
ne magnificavano la integrità, ne dipingevano l’arma su tutti i canti;
ond’egli carezzando chi lo favoriva, salvando i falliti dalla prigione,
s’acquistò tanti fautori, da poter fidarsi a interrogare il voto
universale.

Radunato il parlamento, fattasi la proposta di dargli la signoria per
un anno, «il popolo cominciò a rugghiare, com’era deliberato per li
traditori; e gridarono, _A vita a vita, viva il signor duca, in tutto
sia signore_; e così pesolone preso e portato alla porta del palagio»
(STEFANI), ottenne il potere (8 7bre) senza verun termine o salvo,
bruciandosi i libri degli ordinamenti della giustizia e i gonfaloni
delle compagnie, tra feste incredibili: Arezzo, Pistoja, Colle, San
Geminiano, Volterra secondarono l’esempio. Egli (primo fondamento
d’ogni tirannia) soldò ottocento cavalieri francesi, eppure fe pace
con Pisa mentre i Fiorentini speravano la ricuperasse; si legò cogli
Estensi, coi Pepoli, cogli Scaligeri, garantendosi reciprocamente i
dominj, mentre nelle cariche ai gentiluomini preferiva i ciompi, cioè
la gente bassa: con ciò e coi mangiari e colle giostre otteneva la
vulgare reputazione di democratico, e con questa esercitò tirannia.
Allora seguirono i soliti corredi; prestiti forzati, divieto delle
armi, nuove inventie di gabelle ed imposte, giudizj ingiusti,
prepotenze, e tentar donne oneste, e cingersi di Francesi assetati
di preda e di femmine; fraudò i creditori del pubblico per ammassare
denaro che asportava: e puniva senza pietà chiunque appuntasse il suo
dominio, «sicchè (conchiude il Rinuccini), carissimi miei cittadini,
guardatevi di venire a tiranno».

Non tardò a prorompere la pubblica indignazione; e mentre i piccoli
artieri e il vulgo lo fiancheggiavano (1343), i grandi, i popolani
grassi e gli artefici, stanchi di vedersi sempre innanzi agli occhi
la mannaja e l’oltraggio, formarono tre congiure, una ignorando
dell’altra: poi unitisi nell’intento comune, e levando popolo al grido
di _Libertà_, in un batter d’occhio (luglio) misero fuori tutte le
bandiere, abbarrarono le strade, assalsero in palazzo il duca e per le
vie i suoi scherani: Guglielmo d’Assisi, Cerrettieri de’ Visdomini ed
altri di quegli abjetti che mai non mancano per assistere e invelenire
i tiranni contro la propria patria, furono uccisi con rabbia sì
furibonda, da mordere e mangiar persino delle loro carni, «che, secondo
che si legge, in inferno non si fa peggio di un’anima» (STEFANI). Il
duca, per intromessa dell’arcivescovo, potè ritirarsi, rinunziando a
qualsifosse diritto: si prese che il giorno di sant’Anna fosse festivo
come Pasqua; ed oggi ancora si commemora sventolando in Or San Michele
i ventuni gonfaloni delle arti.

A denaro i Fiorentini recuperarono molte rôcche, dal duca concesse ad
altri: ma quasi la libertà acquistata da Firenze invitasse le costei
suddite a ricuperarla esse pure, Arezzo, Colle, San Geminiano si fecero
di propria balìa; Volterra tornò a Ottaviano de’ Belforti; Pistoja,
in nome alleata, in fatto serva, cacciò il capitano e la guarnigione
fiorentina per darsi a Pisa, che ridiveniva capo della Toscana; mentre
Siena durava indipendente e metteva freno a’ nobili campagnuoli.

In quei disastri, ciascuno trovandosi obbligato a riparare colle
forze proprie, le conosce e vuole esercitarle, sicchè la democrazia
prevale. E già ne’ passati tempi per mozzare la potenza dei nobili
si agevolavano ai servi le guise di venir liberi, od accogliendoli
ne’ Comuni, o sorreggendoli nelle querele contro i padroni. Ora
a quattordici persone coll’arcivescovo fu data balìa di riformare
d’uffizj Firenze; e giacchè tutti aveano cooperato a spezzare la
tirannide, accomunarono a’ magnati un terzo delle cariche. Ma questi,
appena uscirono dallo anteriore svilimento, trascesero la civile
modestia, non soffrendo eguali ne’ privati o superiori ne’ magistrati;
sicchè da un lato crescendo le insolenze, dall’altro i dispetti, il
popolo, inizzato da Giovan della Tosa, insorse contro le famiglie,
abbattendone i palazzi, segnatamente que’ de’ Bardi e Frescobaldi, e
riordinò a signoria di plebe la città, divisa in quartieri, invece
dei sesti. I nobili restavano esclusi dalle magistrature; finchè,
lentato il rigore, si accettarono molti casati fra’ popolani. «E nota
e ricogli, lettore (avverte qui il Villani), che in poco più d’un anno
la nostra città ha avuto tante rivolture, e mutati quattro stati di
reggimento: prima signoreggiò il popolo grasso, e guidandosi male, per
loro difetto venne alla tirannica signoria del duca; cacciato il duca,
ressono i grandi e popolani insieme, tutto fosse piccolo tempo e con
uscita di gran fortuna; ora siamo al reggimento quasi degli artefici e
minuto popolo. Piaccia a Dio che sia esaltamento e salute della nostra
repubblica; ma mi fa temere per li nostri peccati e difetti, e perchè i
cittadini sono vuoti d’ogni amore e carità tra loro, ed è rimasa questa
maledetta arte in quelli che sono rettori, di promettere bene e fare il
contrario».

Qui nuovo flagello percosse non la Toscana sola ma tutto il mondo. Per
la nessuna precauzione nel comunicare coi paesi di Levante, facilmente
ricorreva la peste, che il 1340 rapì dodicimila persone alla sola
Firenze, moltissime e delle meglio stanti a Siena, talchè fu vietato
di sonar le campane, o radunarsi a mortorio, o mandare attorno, come
si soleva, banditori ad annunziare i defunti. Poco poi una nevata
straordinaria corruppe i seminati, donde seguì gravissima strettezza
di vettovaglie. Firenze non badò a spese, e consumati cinquantamila
fiorini d’oro a tirare grano, lo distribuiva in tal quantità, che
novantaquattromila persone riceveano pane dal pubblico, non negandolo
a verun forestiero nè pellegrino o villano; furono sciolti di carcere
gl’indebitati verso il Comune, concesso di redimersi col quindici
per cento dalle vecchie multe. Pure la fame affralì i corpi, e li
predispose ai guasti di quella che chiamarono la morte nera. La
precedettero stranissime meteore, disastrosi tremuoti, vascelli
sobbissati, voragini aperte, che per più giorni arsero infiniti spazj;
poi il nembo spinse innumerevoli cavallette in mare, i cui cadaveri
rigettati sulla riva, finirono d’appuzzare e corromper l’aria; e un
nebbione coprì lungamente la Grecia.

Il morbo scoppiò nella Cina (1348), poi nell’India, nella Persia,
nell’Armenia, nell’Egitto e nella Siria con tal furore, che al Cairo
perivano da dieci a quindicimila persone al giorno; ventiduemila ne
perdette Gaza in sei settimane, e quasi tutti gli animali. A Cipro fu
recato dal vivissimo commercio; così nelle altre isole dell’Arcipelago
e alla foce del Don. I mercanti italiani, numerosi per tutti quei
porti, cercarono salvezza fuggendo; ma otto galee genovesi, salpate dal
mar Nero, approdando in Sicilia, aveano già perduto tanto equipaggio,
che quattro furono abbandonate; gli altri sbarcando comunicarono il
male, che presto ammorbò quell’isola, la Corsica, la Sardegna, le coste
del Mediterraneo, la Toscana.

I sintomi variavano secondo i paesi, anzi dal cominciamento al
dechino della malattia. Da noi per lo più manifestavasi con febbre
violenta, poi delirio, stupore, insensibilità; la lingua e il
palato illividivano; fetidissimi il fiato, il sudore, le dejezioni;
insaziabile sete; a molti sopragiungeva violenta peripneumonia con
emorragie di pronto esito; e macchie nere e sozzi gavoccioli rivelavano
la cancrena. Alcuni cadeano come di colpo; i più perivano il primo
giorno; fortunato cui succedevano ascessi esterni: ma rimedj umani
non menomavano il male, e il minimo contatto bastava a comunicarlo.
Invano si fecero processioni di reliquie, si portò il tabernacolo
devotissimo dell’Impruneta attorno per Firenze gridando misericordia, e
davanti a quella facendo gran paci di quistioni e di ferite. Fuggivasi
alla campagna, ma la morte veniva a disabbellirla. I medici che
sopravivessero, voleano smisurato prezzo in mano, a appena col viso
addietro stendere le dita a tastar il polso, e da lungi veder le orine
con essenze odorifere al naso. Quei medesimi che a principio per arte,
per carità, per prezzo studiavano gl’infetti, gli abbandonavano poi a
morire nell’isolamento, fossero anche i padri, i figli, i mariti; se
l’infermo si trovasse confortato, facevasi alla finestra, e stava buon
tempo innanzichè passasse persona; e quando fosse udito, o non gli
era risposto, o non soccorso; molti morivano così senza sacramenti,
e stavano sul letto finchè la puzza annunziasse che là entro erano
cadaveri, e i vicini per borsa mandavano a raccoglierli e sepellire
senza pietà d’esequie. I becchini esigevano tal ricompensa, che molti
vi arricchirono, come arricchirono speziali, pollajuoli, trecche di
malva, d’ortiche e d’altre erbe d’impiastri: smisuratamente valevano
i confetti, e lo zucchero fin tre in otto fiorini la libbra, e bazza
chi ne trovasse: non aveasi più cera, non bare e stamigne, delle quali
usavasi ai morti: lanajuoli e ritagliatori che si trovarono panni
bruni, li vendettero a peso d’oro[320].

A tal modo Firenze perdette centomila abitatori, altrettanti Venezia,
Pisa sette ogni dieci, Siena ottantamila in quattro mesi se si credesse
a un cronista, il quale soggiunge che «morivano uomini e donne quasi di
subito; ed io Angelo di Tura sotterrai i miei figliuoli in una fossa
con le mie mani, ed il simile fecero molti altri»[321]. Quarantamila
ne pianse Genova, Roma censessantamila, e così Napoli, e fra tutto il
Regno cinquecentotrentamila; in molti luoghi non rimase che un decimo
degli abitanti, a Trapani nessuno: cinquecentomila perirono in Sicilia,
quasi tutti quelli di Cipro. Trovaronsi vascelli erranti a grado
dell’onde, essendo perito tutto l’equipaggio; la messe e la vendemmia
infradiciarono non côlte; a Bologna Taddeo Pepoli faticò a tirar grano
e tenerlo a basso prezzo, ma entrato il morbo, moltissime famiglie
terminarono, delle quali dà la lista il Ghirardacci.

Luchino Visconti orlò i confini del Milanese di forche, dove appendere
chiunque li varcasse, col che tenne immune il paese, come fu pure di
Parma e del Piemonte[322]. Passò poi la morte nera in Savoja, nella
Spagna, nelle Baleari, in Francia, ove la sola Parigi dava cinquecento
vittime al giorno, Vienna d’Austria milleseicento; ad Avignone durò
sei mesi, uccidendo sette cardinali e duemila persone: in Inghilterra
per nove anni mietè cinquantamila vite l’anno; l’Irlanda ne rimase
deserta: insomma dicesi che se ne portasse un terzo d’Europa; ove
rimase spaventevolmente ricordata. «Non fia creduto ai posteri che
siavi stata un’età in cui il mondo rimase quasi totalmente spopolato, e
le case di famiglia vuote, e di cittadini le città, e le campagne senza
lavoratori. Come lo crederanno gli avvenire, se noi medesimi a fatica
prestiamo fede ai nostri occhi? Usciti di casa, scorriamo le vie, e le
troviamo piene di morti e di morenti: tornati fra le domestiche pareti,
più nessuno troviamo di vivo, essendo tutti morti nella breve nostra
assenza. Fortunati i posteri, a cui tali calamità sembreranno finzioni
e sogni»[323].

Le analogie de’ sintomi con quelli dell’avvelenamento fecero supporre
che una malizia, smisurata quanto il male, propagasse ad arte la morte:
principalmente imputavansi gli Ebrei di avvelenare le fonti, e per
Germania e Spagna fu fatto strazio di questi infelici, dei quali papa
Clemente VI attestò l’innocenza e diede loro ricovero in Avignone.

Alcuni vedevano in quel flagello la punizione divina perchè si
violavano la domenica e il digiuno, e si commettevano adulterj, usure,
bestemmie; e si bucinò che in Gerusalemme fosse arrivata una lettera
dal cielo, ove diceasi che Cristo non concederebbe misericordia se
ognuno non si flagellasse e andasse ramingo per trentaquattro giorni.
Pertanto moltissimi buttavansi alle penitenze, alle macerazioni, e
si rinnovarono le scene de’ Flagellanti, che a centinaja passavano di
terra in terra, con litanie e miserere, ed anche con superstizioni di
miracoli e liberazione d’ossessi, e dogmi nuovi e strani. Fu profuso a
cause pie quel che ritenere non si potea, e di venticinquemila fiorini
l’ospedale di Santa Maria Nuova, di trecencinquantamila la Compagnia
d’Or San Michele restarono eredi in Firenze: la Compagnia della
misericordia, istituita un secolo prima dai facchini che servivano
all’arte della lana, prestò intrepidamente soccorsi, e ne fu compensata
con lasciti dell’ammontare di trentacinquemila fiorini.

Altri, all’opposto, si persuasero che rimedio fosse lo svagarsi e il
darsi buon tempo; e ne seguì un enorme rilassamento di costumi, volendo
ciascuno godere una vita che fuggiva, o allietarla d’ogni piacere, se
l’avea campata; i popolani vestivano delle robe lasciate dai ricchi;
eredità improvvise mutando fortune, davano spirito ad abusarne, come
appiglio a complicatissime liti; i latrocinj al par che gli amori
furono agevolati dal pericolo e dagli abbandoni. E quel misto di
devozione e d’allegria può dirsi rappresentato nei _Balli dei morti_,
stravaganti pitture ove si effigiano scheletri che menano danze o
s’atteggiano bizzarramente con persone vive, papi, re, belle, mercanti,
letterati, fanciulli, vegliardi, per intimare a tutti la necessità
del morire. La Svizzera e la Germania ne abbondano, non ne manca
l’Italia[324].

Questa peste fu anche deplorabile pel numero di valentuomini che
l’Italia perdette, fra i quali mentoveremo Giovan Villani e Giovanni
Andrea canonista peritissimo; ma «tiranni e grandi signori non morì
nessuno»[325]. Fu poi descritta nel primo lavoro di prosa italiana
elaborata, il _Decameron_ di Giovanni Boccaccio. Finge egli che sette
gentildonne, durante la peste, scontratesi in chiesa con tre loro
amanti, prendano accordo di uscire alla campagna[326], e tuffare
i timori e la compassione nella vita sollazzevole e nel raccontar
novelle: le quali, distribuite in dieci giornate, finite ognuna con
una canzone, formano appunto quel libro. Precede la descrizione della
peste, ma come d’uomo che non la vide, adoprando le riflessioni e le
particolarità di Tucidide e di Lucrezio, e su queste diffondendosi
in modo, che sono in quantità assai meno e in parole assai più che
nell’originale. E il concetto e le parti dell’opera risentono d’un
colto egoismo; e laide avventure, e la facilità delle donne e la
spensierataggine degli uomini insinuano di goder la vita e non darsi
altro pensiero. La pittura stessa della peste finisce con un’idea
scherzevole e affatto pagana[327]. Piacque alla società gaudente; ma
gli spiriti serj ne restarono scandolezzati, e il certosino Gioachino
Cino si presentò al Boccaccio dicendogli come il suo compagno Pier
Petroni da Siena morendo gli avesse lasciato l’incarico di venire a
richiamarlo a coscienza. Ne rimase tocco Boccaccio, e dato migliore
indirizzo all’ingegno, fece libri di pietà, e a Mainardo Cavalcanti
scriveva: — Lascia le mie novelle ai petulanti seguaci delle passioni,
che sono bramosi di essere creduti dall’universale contaminatori
frequenti della pudicizia delle matrone. E se tu non vuoi perdonare
al decoro delle tue donne, perdona all’onor mio, se tanto mi ami
da sparger lagrime pe’ miei patimenti. Leggendole, mi reputeranno
turpe mezzano, incestuoso vecchio, uomo impuro e maledico, ed avido
raccontatore delle altrui scelleraggini. Non v’ha dappertutto chi
sorga e dica per iscusarmi: _Scrisse da giovane, e vi fu astretto da
autorevole comando_».

Ebbe amicissimo Francesco Petrarca, che nato (1304) in Arezzo da un
Petracco sbandito di Firenze coll’Alighieri, visse poveramente colla
madre all’Incisa in val d’Arno, poi si avviò nelle scienze a Pisa sotto
Convenevole, a Bologna sotto Giovanni d’Andrea, a Montpellier sotto
il celebre giurista Bartolomeo d’Osio bergamasco: ma dagli studj del
diritto impostigli da suo padre divagavasi per la lettura di Cicerone
e la compagnia di Cino da Pistoja e Cecco d’Ascoli, dai quali prese
vaghezza della poesia italiana. Rimasto orfano e scarso di patrimonio,
si acconciò allo stato ecclesiastico, e stabilì mutarsi ad Avignone
a cercarvi fortuna come faceano tutti (1326). Il trattar cortese e
il limpido ingegno lo fecero il ben arrivato alla Corte pontificia,
dove ai principali prelati lo introdusse l’amico suo Jacopo Colonna,
vescovo che fu poi di Lombez. Il papa, a cui diresse un’elegante
prosopopeja di Roma che lo richiamava, gli assegnò un canonicato a
Padova, e l’aspettativa della prima prebenda che vacasse. Comprossi
anche un poderetto presso la fontana di Valchiusa, e vi si ritirò co’
suoi libri. A questi applicò allora tutto l’animo, e venuto idolatro
dell’antica civiltà, fantasticava sempre i vetusti eroi e la città di
Romolo e d’Augusto in quella che i pontefici abbandonavano alle masnade
dei Colonna e degli Orsini; ed applaudiva a chi tentasse restaurarvi il
buono stato.

Era capace di apprezzare le bellezze dei classici, e non ostante
presunse poterle raggiungere, e scrisse l’_Africa_, poema sul
soggetto stesso di Silio Italico. È un racconto senza macchina, nè
episodj nuovi, nè sospensione curiosa: ma versi di così buona lega
non si erano più uditi da Claudiano in poi, tanto avea convertito
in sostanza propria quella de’ classici meditati. Riesce più poetico
nelle _Egloghe_, ove sotto nomi pastorali allude a fatti d’allora, non
rifuggendo dall’adulazione.

Da questi versi latini promettevasi egli l’immortalità, che invece gli
venne da un usuale incidente. Bell’uomo, accuratissimo nel vestire,
frequente ai convegni, in una chiesa d’Avignone (1327) s’invaghì di
Laura, figlia d’Odiberto di Noves e moglie ad Ugo di Sade[328]; amore
ben poco romanzesco, giacchè ella seguitò a vivere in pace col marito,
cui partorì undici figliuoli, ed egli, pur assediandone la virtù
cogl’istinti d’un temperamento riottoso, non si distolse da studj nè
da amori più positivi, dal maneggiarsi alla corte, e dal vagheggiare
la gloria, prima e preponderante sua passione. Se non che per Laura
tratto tratto componeva o imitava dal provenzale qualche sonetto o
canzone, che il nome dell’autore e l’intrinseca loro soavità facea
cercare e ripetere, e gli guadagnava anche presso al bel mondo quella
fama, per cui era insigne fra i dotti. Da questa pubblicità gli venne
una specie d’obbligo a perseverare ne’ sentimenti stessi verso Laura,
la quale pare si guardasse dall’impedirli soddisfacendoli; poi quando,
dopo venti anni, ella soccombette alla morte nera, il Petrarca si
fece onore della costanza al cenere di lei, «di sua memoria e di dolor
pascendosi».

Nella bella Avignonese piacevangli le vaghezze corporee, i bei crini
d’oro, le mani bianche sottili, e le gentili braccia, e il bel giovanil
petto, e le altre leggiadrie per le quali essa diveniva superba[329]
e stancava gli specchi a vagheggiarsi; e lei vedeva nelle _chiare,
fresche e dolci acque_; e lei sopra l’erba verde, e in bianca nube; e
colla mente ne disegnava nel sasso il viso leggiadro. Tanto basterebbe
a smentire coloro che supposero ente simbolico questa Laura; che anzi
quel sempre mostrarcela come persona vera, lo salvò dallo sfumare in
astrazioni come i suoi seguaci. Amò, bramò[330], e nel dialogo con
sant’Agostino confessa le irrequietudini, i trasporti, le veglie, le
noje di quella sua passione, e implora soccorso per disvincolarsene.
Ben è vero che a Cicerone, a Virgilio, a Varrone, a Seneca, a Livio
egli dirizzava lettere spiranti un ardore forse più verace, certo più
vivamente espresso che non per Laura: poi nelle prose in tutt’altro
tenore favella delle donne; doversi il matrimonio schifare chi a studj
intende, al più accettar la concubina; pazzo chi deplora la defunta
moglie, quando ne dovrebbe menare tripudio[331].

Da quell’affetto suo uscì un canzoniere, tutto d’amore se togli dodici
sonetti e tre canzoni oltre le due a bisticci. Nella forma si piacque
delle difficoltà, sia colle sestine, disposizione provenzale ove da
nessun’armonia è redenta la fatica del replicare le medesime desinenze;
sia col sonetto, ordito per lo più sopra quattro sole rime; sia colle
canzoni, legate a norme impreteribili. Soggiunse i _Trionfi_, sogni
allegorici ed erotici, ove in terzine divisa i trionfi dell’Amore sopra
il poeta, della castità di Laura sopra Amore, della Morte sopra Laura,
di Laura sopra la Morte, della Fama sopra il cuore del poeta ch’essa
divide coll’Amore; in ultimo il Tempo annichila i trofei dell’Amore, e
l’Eternità quelli del Tempo.

Sono concetti e forme secondo l’età; ma per quanto si provi che da
altri, massime da Provenzali e Spagnuoli e nostri anteriori, togliesse
molti pensieri suoi, altri si appuntino d’esagerati, di lambiccati,
di falsi, resta al Petrarca la lode d’una lingua candidissima,
fresca ancora dopo cinque secoli, d’uno stile vivo e corretto,
d’una inesauribile varietà nell’esprimere quei miti dolori, quelle
placide repulse, quelle pitture monotone eppur varianti, passionate
insieme e sottili; della soave melanconia e della casta delicatezza
con cui trattò la più sdrucciolevole delle passioni. Studiò egli
moltissimo ciascun sonetto; eppure sembrano messi fuori d’un fiato,
e colla squisitezza che nell’espressione riproduce le gradazioni del
sentimento, con quella grazia d’elocuzione che allo spirito presenta
l’attrattiva della novità insieme col merito della limpidezza.

Più altre opere condusse il Petrarca: nella raccolta di _Memorabili_
imita Valerio Massimo: nella _Vera sapienza_ mette un di cotesti
saccenti a fronte d’un idioto di buon senso, onde svergognare la
dialettica d’allora, frivola, nè giovevole al cuore nè all’ingegno.
Certi garzonetti veneziani, trinciatori delle reputazioni più sode
come tanti se n’incontra, avendolo sentenziato uom dabbene ma di
piccola levatura, egli rispose col libro _Dell’ignoranza propria e
dell’altrui_, ove qualche sentenza buona può pescarsi in un mare di
sottigliezze e d’erudizione facile e presuntuosa, e dove conchiude
che «la letteratura a molti è stromento di follia, di superbia a
quasi tutti, se non cada in anima buona e costumata». Ribattendo un
Avignonese, vitupera tutti i medici, come incettatori di scienza vana
e ambiziosi nell’andare in volta con un vestone di porpora e anella
smaglianti, e sproni dorati quasi aspirino al trionfo, benchè pochi
abbiano ucciso i cinquemila che la legge romana richiedeva.

Il libro _Degli uffizj e delle virtù d’un capitano_ chiama alle
labbra il riso d’Annibale; quello _Del governare uno Stato_ barcola
su luoghi comuni, che nè rischiarano i savj, nè correggono i ribaldi.
A conforto di Azzo Correggio spodestato espose i _Rimedj d’ambe le
fortune_, dialoghi prolissi e scolorati fra enti di ragione, ove
sfoggia argomenti ed erudizione per mostrare che i beni di quaggiù
sono fallaci, e che le sventure si possono colla ragione disacerbare e
convertire a bene. Due libri _Della vita solitaria_ diresse a Filippo
di Cabassole vescovo di Cavaillon, i tedj del cittadino comparando
alle dolcezze del solitario: antitesi non troppo sociale, dover nostro
essendo l’operare anche in mezzo a questa ciurma che c’impaccia,
frantende e calunnia.

Coll’amore e colla filosofia, terza sua ispiratrice fu la devozione.
Anche nei tempi del suo _primo giovanile errore_ pregava Dio a _ridurre
a miglior vita i pensier vaghi_; delle bellezze di Laura si fa scala
al suo Fattore; e dopo morte spera vedere il Signor suo e la sua donna,
per la quale, dice un contemporaneo, «ha facto tante limosine et facto
dir tante messe et orationi con tanta devotione, che s’ella fosse
stata la più cattiva femina del mondo, l’avrebbe tratta dalle mani del
diavolo; benchè se rexona che morì pura et santa». Questo sentimento
gli dettò il _Disprezzo del mondo_, specie di confessione, scevra dalla
sguajataggine ostentata da certuni, e dove, a imitazione della _Vita
nuova_ di Dante, commenta i proprj carmi, ed analizza i sentimenti
profondi e i dilicati.

Di maggior conto è la raccolta di sue epistole _famigliari, senili,
varie, e senza titolo_, carteggio coi migliori dell’età sua. Prolisso
sempre e ammanierato, perchè sapeva che quelle circolavano, e spesso
erano state lette da cento prima che giungessero al loro indirizzo;
tocca però gli avvenimenti, i costumi, le missioni sue, massime i
disordini della Corte avignonese, e certi difetti del suo tempo che
sono pure del nostro. Or riprova i _moderni filosofi_, cui non pare
essere a nulla approdati se non abbajano contro Cristo e sua dottrina:
«soltanto da timore di temporali castighi rattenuti dall’impugnare la
fede, in disparte se ne ridono, adorano Aristotele senza intenderlo,
e disputando professano di prescindere dalla fede»; or move querela di
coloro «che s’appellano dotti delle scienze, nei qual degno di riso è
tutto, e soprattutto quel primo ed eterno patrimonio degl’ignoranti,
la boria sfolgorata»; or quelli rimorde che «mentre si dicono italiani
e sono in Italia nati, fanno ogni opera per sembrar barbari: e se
non basta a questi sciagurati l’aver perduto per ignavia propria
la virtù, la gloria, le arti della pace e della guerra che fecero
divini i padri nostri, disonestano ancora la nostra favella e fino le
vestimenta»[332].

Con quelle lettere è curioso seguirlo ne’ viaggi che fece alle _città
de’ Barbari_, le cui costumanze delineò pelle pelle. Parigi trovò
veramente gran cosa, ma inferiore all’aspettazione, più sucida e
puzzolenta di qual altra città sia, eccetto Avignone, e che tutto
deve alle ciancie de’ suoi[333]. Passò buon tempo a discernere il
vero dal falso su quell’Università, «simigliante a paniere, ove si
raccolgono le più rare frutte d’ogni paese..... Oserà comparar la
Francia all’Italia chi abbia la minima nozione di storia? Discuter
sulle doti intellettuali de’ due paesi sarebbe ridicolo, quando s’ha il
testimonio de’ libri. Se qualche straniero produsse alcuna cosa sopra
l’arti liberali, la morale, la filosofia, l’ha scritta o studiata in
Italia; ambo i diritti furono stabiliti e spiegati da Italiani; fuor di
qui non si cerchino oratori, non poeti; qua nacquero, qua si formarono
letteratura, politica, tutto insomma qui si perfezionò. A tanti lavori,
a studj così serj e variati cosa possono opporre i Francesi? Le scuole
nella via degli strami (_rue du Fouarre_, dov’era l’Università). Son
gente lepida, sempre soddisfatti di se stessi, bravi sonatori, allegri
cantanti, intrepidi bevitori, buoni convitati, lo concedo. Beata
nazione, che pensa sempre male degli altri e bene di sè: chi non le
invidierebbe coteste illusioni?»[334]

Vaglia a mostrare in che i tempi sono cangiati, e come allora non men
che adesso rendesse ingiusti il patriotismo. Eppure in quella Francia
che gli pare così barbara, il Delfino, di precoce maturità, amava
metterlo a disputa coi dotti e cogl’ingegnosi del suo paese, accettò
l’omaggio dei _Rimedj d’ambo le fortune_, e li fece tradurre dal
suo precettore. Chiestogli da Guido Gonzaga qualche libro francese,
Petrarca gli mandò il _Romanzo della rosa_ di Giovanni de Meun, della
natura della Divina Commedia, cioè che abbraccia tutto lo scibile,
con sottigliezze scolastiche, misticismo, personificazioni, allegorie
abusate, digressioni scientifiche, e che era commentato, lodato,
biasimato in Francia, quanto Dante da noi. — La superiorità della
letteratura nostra (gli scrisse) è provata da questo libro, che la
Francia leva a cielo, e pretende comparare ai capolavori. L’autore vi
racconta i suoi sogni, la possa dell’amore, le fiamme giovanili, le
senili astuzie, le pene di chi serve a Venere, le frequenti lacrime
sopra gioje passeggere. Qual vasto e fecondo campo al talento del
poeta! eppure narrando i suoi sogni e’ sonnecchia. Quanto meglio
non espressero la passione que’ divini cantori dell’amore, Virgilio,
Catullo, Properzio, Ovidio e tant’altri, che l’antico o il moderno
tempo vide sulle nostre rive italiane? Tu però riceverai con giubilo
questo libro; poichè, se ne desideravi uno straniero e in lingua
vulgare, non potevo offrirtene un migliore, se pur Francia tutta non
s’inganna sul merito di esso»[335].

Nelle Fiandre e nel Brabante, Petrarca vide il popolo occupato dietro
a tappezzerie e lavori di lana: a Liegi penò ad avere inchiostro onde
trascrivere due orazioni di Cicerone: a Colonia stupì di scorgere
urbanità tanta in città barbara, e onesto contegno negli uomini,
studiata lindura nelle donne; e non di Virgilio, ma vi trovò copie
d’Ovidio. Gli amici il trassero ad ammirare il tramonto del sole in
riva al Reno, ed essendo la vigilia di san Giovanni, un’infinità di
donne ne empivano la spiaggia, senza tumulto, coronate di fiori, colle
maniche rimboccate fin al gomito, per lavare le mani e le braccia
nella corrente, recitando versi in loro favella, e dandosi a credere
che quella lustrazione le assicurasse da calamità nel corso dell’anno.
Traversare la _fámosa Ardenna_ non si ardiva allora senza buona scorta,
tra pei ladroni, tra per le nimicizie del conte di Fiandra col duca di
Barbante. Lieto fu dunque allorchè, uscendo da que’ monti, rivide _il
bel paese e ’l dilettoso fiume_ del Rodano ed Avignone. Quivi fremeva
nell’udire alcuni cardinali aborrire dal tornare in Italia, perchè non
vi gusterebbero il vin di Francia[336].

Nulla però incontrava che lo facesse scontento d’essere nato italiano.
La Francia ottenne da Roma i doni di Bacco e di Minerva, ma non vi si
coltivano che pochi ulivi e nessun arancio; i montoni non danno buona
lana; non miniere od acque termali la terra. In Fiandra non bevesi
che idromele, in Inghilterra birra e sidro. Che dire dei climi gelati
cui bagnano il Danubio, il Bog, il Tanai? ebbero matrigna la natura;
quali senza legna, sicchè vi si riscaldano solo con torba; quali tristi
da fetide esalazioni de’ paduli, senz’acqua a bere; quali di erica e
sterile sabbione; quali di serpi e tigri e lioni e leopardi (?). Italia
sola fu prediletta dal cielo, che le largheggiò il supremo impero,
gl’ingegni, le arti, e principalmente la cetra, per cui i Latini
sorpassarono i Greci; nè cosa le mancherebbe se Marte non nocesse.

A Roma trova che a dritto quelle donne si preferiscono a tutt’altre
per pudore, modestia femminile e virile costanza; gli uomini son buona
pasta, affabili a chi li tratta con dolcezza; ma v’è un punto sopra
cui non intendono celia, la virtù delle mogli; e non che in ciò sieno
conniventi come gli Avignonesi, han sempre in bocca il motto d’un loro
antico: — Batteteci, ma la pudicizia sia salva». Stupì di trovarvi
sì pochi mercanti ed usurieri, forse perchè il commercio n’era sviato
coll’andarsene della Corte.

Firenze mandò Giovan Boccaccio ad annunziargli come avesse determinato
di elevare la propria repubblica, secondo avea fatto Roma antica, di
sopra delle altre città d’Italia anche mediante l’istruzione. E «per
tuo mezzo soltanto può essa raggiungere il suo desiderio, e perciò ti
prega a scegliere qualunque libro ti piaccia interpretare, qualunque
scienza tu trovi confacente alla tua fama e alla tua quiete. Altri
senni elevati forse dal tuo esempio prenderan coraggio a pubblicarvi i
loro versi. Intanto lascia che ti confortiamo a terminare l’immortale
tuo poema dell’_Africa_, sicchè le Muse, da secoli neglette, ripiglino
stanza fra noi. Abbastanza viaggiasti, hai veduto abbastanza costumi
e caratteri di nazioni; or ascolta a’ tuoi magistrati, a’ concittadini
tuoi nobili e popolo, e torna all’antica casa, al patrimonio avito che
ti restituiranno».

Anche oggi è impossibile leggere il Petrarca e non amarlo: quanto più
allora! e massimamente che egli non s’abbandonava a quella superbia,
che spesso è dignità necessaria, ma che aliena le simpatie, e stuzzica
le invidie. Dappertutto era una gara a chi meglio l’onorasse, «e
principi d’Italia (dic’egli) con forza e con preghiere cercarono
ritenermi, si dolsero della mia partita, e impazienti attendono il
mio ritorno». Francesco Carrara il vecchio lo volle amico, mosse ad
incontrarlo fin alle porte di Padova, e spesso il visitava ad Arquà,
onde Petrarca gl’intitolò il libro _Del governare uno Stato_, esordendo
con un elogio di lui pomposissimo, e per cenno di esso intraprese le
vite degli uomini illustri. Alla morte di Ugo d’Este rammentava che gli
era stato signore umanissimo per dignità, per amore ossequiosissimo
figlio, e quanti favori ne avesse ritratto. Luchino Visconti gli
chiese versi, e frutte ed erbe del suo giardino; e n’ottenne lodi
le meno meritate[337]. Giovanni Visconti lo ricevette baciandolo, e
tanto fece che lo trattenne a Milano, e lo deputò a conchiudere pace
col doge Andrea Dandolo. Galeazzo II se l’ebbe a fianco nel solenne
ingresso del cardinale Albornoz, e vedendolo in pericolo di essere
rovesciato da cavallo, smontò per camparlo; gli affidò un’ambasciata a
Carlo IV imperatore; nelle nozze di sua figlia con Lionello figlio del
re d’Inghilterra il volle a mensa con loro. Luigi Gonzaga di Mantova
deputò ad Avignone chi l’invitasse e offrissegli denaro; e quando venne
alla sua corte, il ricevette con ogni migliore onoranza. Azzo Correggio
gli mostrò tenerezza da fratello, dicendolo il solo che non avessegli
recato noja o dispiacere con alcun detto o atto. Il guerresco Paolo
Malatesti prima di conoscerlo inviò un pittore a cavarne l’effigie;
scontratolo poi in Milano, mai non sapeva spiccarsi da’ suoi colloquj,
nè avea bene che dello stare con lui; scoppiata la peste, gli offrì un
ricovero; rottasi guerra fra i Carraresi e Veneziani, gl’inviò cavalli
e uomini che lo scortassero fin a Pesaro. Il gran siniscalco Niccolò
Acciajuoli non finiva di visitarlo a Milano, «come Pompeo visitava
Posidonio col capo scoperto e chinandosi per rispetto», sicchè trasse
le lacrime al poeta. Fu dunque indovino un astrologo, il quale al
Petrarca ancor fanciullo avea presagito la famigliarità e l’insigne
benevolenza di tutti i principi e illustri personaggi dell’età sua.

Quest’entusiasmo propagavasi ai minori. Un vecchio cieco, maestro
di grammatica in Pontremoli, viaggiò fino a Napoli per udirlo, e
trovatolo partito, riprese sua via «disposto a cercarlo fin nelle
Indie»; se non che lo imbattè a Parma, e con indicibile trasporto
l’abbracciava, non cessando di baciar la testa che avea concepito, la
mano che avea vergato sì soavi cose. Arrigo Capra, orafo Bergamasco,
beato d’aver conosciuto il Petrarca a Milano, de’ ritratti di esso
empì sua casa, ne comprò le opere, e dismessa l’arte, raccolse libri,
nè più conversava che con dotti; poi tanto s’ingegnò, che indusse il
poeta a venire da lui, e gli fu incontro con quanti v’aveva eruditi
nel contorno; e sebbene il podestà e i maggiorenti gli destinassero
alloggio nel palazzo pubblico, il Capra lo volle a sè, ed avea disposta
sala a porpora, letto a oro, nel quale giurò nessun mai avea dormito o
dormirebbe; poi tali furono le dipartite, che la gente temeva non colui
impazzasse.

Roberto, re pedante lodato dai dotti, avendo scritto l’epitafio di
Clemenza regina di Francia, lo mandò per giudizio al Petrarca, il quale
in una lunghissima epistola lo incensò smaccatamente, e — Non avrei
mai creduto potessero dirsi cose tanto sublimi con tanta concisione,
gravità, eleganza. Beata quella morte che ottiene un tal lodatore,
e conseguisce due eternità, l’una dal celeste monarca, l’altra dal
terrestre». Applausi non disinteressati, giacchè miravano a indurre
Roberto a coronarlo poeta; di che non s’asconde in altra lettera a
Dionigi da Sansepolcro, dove nuovi encomj prodiga a Roberto, dicendo
che alla lettera di lui, scritta con regio stile, avea risposto in tono
plebeo, sentendosi tanto inferiore di forza e di cetra.

Quel desiderio, eccitatogli da ricordanze classiche, fu adempito
allorchè a lui, che a trentasei anni era venerato dagli eruditi e dal
vulgo, in Avignone giunsero contemporanee lettere di Roberto de’ Bardi
fiorentino, cancelliere dell’Università di Parigi, e del senato di
Roma che l’invitavano a ricevere la corona di poeta. Al Petrarca viepiù
lusingava quest’onore perchè il serto di _lauro_ tenea somiglianza di
nome colla donna sua ancor viva; e alla _città del fango_, dov’egli
avrebbe pel primo avuto tale onoranza, preferì quella dove aveano
trionfato Pompeo e il suo Scipione. Volle crescervi fasto e solennità
col chiedere esaminatore e giudice del suo merito re Roberto. Venne
dunque a lui, che in presenza de’ principi e cortigiani l’interrogò; e
la prima quistione fu sull’utile della poesia, al quale poco credeva,
neppure gran fatto stimando Virgilio. Il Petrarca dimostrò ne’ poeti
stare depositato il senno dei tempi, e d’immagini sensibili vestir
essi le filosofiche contemplazioni. Chi avrebbe osato non dirsene
convinto? Il domani l’esame versò su tutto lo scibile, sui libri
metafisici e naturali d’Aristotele, sui pregi de’ varj storici latini
e greci, dove il Petrarca mostrò entusiasmo per Tito Livio, ed esortò
Roberto a rintracciarne le deche perdute. E Roberto l’assicurò, ben
più del regno essergli care le lettere, e quello torrebbe di perdere
piuttosto che queste. Al terzo e più solenne e affollato convegno il
Petrarca lasciossi pregare a leggere alcuni passi della sua _Africa_,
e quantunque non ancora limati, tanto piacquero, che Roberto il chiese
di dedicarla a lui. Così, al modo solito degli onori accademici, gli
si facea merito d’un componimento di cui l’autore stesso arrossì più
tardi, invece delle rime italiane per cui la sua fama non vedrà mai
sera.

La Pasqua del 1341, il Petrarca, in veste di porpora donatagli da
esso re, corteggiato da paggi delle primarie famiglie romane[338], a
suon di trombe e fra solenni acclamazioni salì al Campidoglio, che
da dieci secoli più non vedea trionfi, e ginocchione dal senatore
ricevette la laurea, mentre popolo infinito gridava: — Viva il poeta
e il Campidoglio». Il serto gli fu accompagnato con questa patente: —
Noi senatore conte di Anguillara, a nome nostro e del nostro collegio,
dichiariamo grande poeta e storico Francesco Petrarca: e per ispeciale
indizio della sua qualità, colle nostre mani poniam sulla sua fronte
una corona d’alloro, concedendogli, col tenore delle presenti, e per
autorità del re Roberto, del senato e del popolo di Roma, nell’arte
della poesia e dell’istoria e in tutto ciò che a queste arti si
appartiene, tanto nella santa città, quanto altrove, libera e intera
permissione di leggere, analizzare, interpretare tutti i libri antichi,
farne di nuovi, e comporre poemi, che, a Dio piacendo, vivranno pe’
secoli de’ secoli». Il Petrarca, andato nel maggior tempio, depose
l’alloro sull’altare.

[Sidenote: 1374]

Così visse lungamente onorato e benvoluto, finchè ad Arquà, dov’egli
erasi procacciata una villa per essere vicino al suo canonicato
di Padova, fu trovato morto sopra un Virgilio. Avea per testamento
chiamato erede Francesco da Brossano, marito d’una sua figlia naturale;
legò cinquanta fiorini d’oro al Boccaccio onde si facesse un vestone da
camera per le invernali sue veglie; al principe Carrarese una madonna
di Giotto, «la cui bellezza non si comprende dagli ignoranti, ma empie
di meraviglia i maestri dell’arte».

Noi dovevamo fermarci a lungo su questo insigne, del cui nome è
piena l’età che descriviamo. E già di qui ci trapela l’importanza che
acquistavano le lettere; le quali, mentre tutt’altrove balbettavano
appena, in Italia già erano state portate a tanta altezza da
Dante, Petrarca, Boccaccio, insigne triumvirato, che alla nazionale
letteratura impresse il carattere che tuttora conserva. Non è dunque
soltanto un còmpito letterario, ma civil dovere dello storico il
badarsi su loro, come chi alle fonti studii il fiume che irriga,
impingua o devasta un paese.

La poesia di Dante e del Petrarca fu modificata dall’indole dei tempi
e dalla lor propria. Visse l’Alighieri cogli ultimi eroi del medio evo,
robusti petti, tutti patria, tutti gelosia del franco stato, cresciuti
fra puntaglie di parte, esigli, fughe, uccisioni; in repubbliche,
dove le passioni personali non conosceano freno di legge o d’opinione,
onde ciascuno sentiva la potenza propria, concitata alle grandi cose.
Bastava dunque guardarsi attorno per trovare tipi poetici da atteggiare
nel gran dramma di cui sono scena i tre mondi, i quali allora teneano
da vicinissimo alla vita, ogni opera facendosi in vista di quelli.
L’età del Petrarca erasi implicata ne’ viluppi della politica; non
più a punta di spade, ma per lungagne d’ambascierie e per insidie
e veleni si consumavano le vendette; a Federico II, a san Luigi,
a Sordello, a Giotto, a Farinata, a Bonifazio VIII erano succeduti
re Roberto, Stefano Colonna, Cola Rienzi, Clemente VI, Simon Memmi;
alla imperturbata unità cattolica il miserabile esiglio avignonese;
e preparavasi l’età della colta inerzia, dei fiacchi delitti, delle
fiacche virtù, delle sciagure senza gloria nè compassione.

Nelle traversie Dante s’indispettì, e sprezzando la fama e _ciò che
quivi si pispiglia_, professava che _bell’onore s’acquista a far
vendetta_ (_Convivio_); agli stessi amici ispirò piuttosto riverenza
che amore, lo che è la gloria e la punizione de’ caratteri ferrei e
degl’ingegni singolari. Il Petrarca benevolo, dava e ambiva lodi, avea
supremo bisogno dell’opinione; e se nel generale mostra scontento
degli uomini o di qualche classe, individualmente godeva di tutti
e tutti lodava, appassionavasi per un mecenate, per un autore,
per la famiglia rustica che lo serviva in Valchiusa. Non vede che
armonie, getta l’iride poetico sulle tempeste di tutti i partiti, e
sempre conciliatore, nasce in repubblica e canta gli uccisori delle
repubbliche, esalta Cola Rienzi e i Colonna da lui fatti trucidare;
i Visconti e frà Bussolari ch’essi mandano a morte, i Carrara e
i Veneziani, re Roberto e Carlo IV; anzi trasforma in eroi sino i
dappoco. Piegando all’aura che spirava, anche quando rimprovera egli
s’affretta a dichiarare che il fa per amore della verità, _non per
odio d’altrui nè per disprezzo_: Dante teme di perdere fama presso i
tardi nepoti se sia timido amico del vero; che se il suo dire avesse da
principio _savor di forte agrume_, poco gliene caleva, purchè da poi ne
venisse _vital nutrimento_. Petrarca mille volte prometteasi fuggire
i luoghi funesti alla sua pace, e sempre vi tornava: mentre Dante,
mal accordandosi colla moglie Gemma, «partitosi da lei una volta, nè
volle mai ov’ella fosse tornare, nè ch’ella andasse là dov’ei fosse»
(BOCCACCIO), e di lei nè de’ suoi figli mai lasciò cadersi menzione.

Il primo, se fastidisse l’età sua, raccoglievasi nella solitudine o
nello studio degli antichi, ch’egli preferiva alle attualità, dalle
quali affettavasi alieno[339]: l’altro spingeva lo sguardo su tutto il
mondo per cogliere dappertutto quel che al suo proposito tornasse[340],
nè notte nè sonno gli furava _passo che il secolo facesse in sua
via_. Entrambi (elezione, o forza, o moda) trovaronsi avvicinati ai
signorotti d’Italia: ma Petrarca si abbiosciò a chi il carezzava, e
i suoi encomj direbbe vili chi non li perdonasse all’indole di lui e
all’andazzo retorico; Dante conservò la sua alterezza anche a fronte
de’ benefattori[341]: quel che più loda, è nella speranza che ricacci
in inferno la lupa per cui Italia si duole.

Ambidue rinfacciano agl’Italiani le ire fraterne: ma Dante sembra
attizzarle, cerca togliere alla sua Firenze fin la gloria della
lingua, e par si vergogni essere fiorentino d’altro che di nascita;
nel Petrarca, Laura ha un solo rincrescimento, quello d’esser nata
in troppo umil terreno, e non vicino al _fiorito nido_ di lui. Dante
incitava Enrico VII a recidere Firenze, testa dell’idra; Petrarca
chetava le liberali declamazioni di frà Bussolari, appoggiò gli
Scaligeri quando spedirono in Avignone a chiedere la signoria di Parma,
e andava _gridando pace, pace, pace_, senza ricordare che questa ben
si muta anche coll’armi quando non sia dignitosa, e quando al decoro
nazionale importi respingere il «bavarico inganno» e il «diluvio
raccolto di deserti strani per inondare i nostri dolci campi».

Usciti ambidue di gente guelfa, sparlarono della corte pontifizia; ma
Dante pei mali che credea venirne all’Italia e alla Chiesa, Petrarca
per le dissolutezze di quella: e sebbene per classiche reminiscenze
lo vedremo applaudire a Cola Rienzi che rinnovava il tribunato, ed
esortare Carlo di Boemia a fiaccar le corna della Babilonia, pure
continuò a viver caro ai prelati, e morì in odore di santità; mentre
l’Alighieri errò sospettato di empio, e poco fallì si turbassero le
stanche sue ossa.

Secondo quest’indole, Dante, malgrado la disapprovazione e la novità,
osò in lingua italiana _descriver fondo a tutto l’universo_; Petrarca,
benchè venuto dopo un tanto esempio, non la credette acconcia che
alle _inezie_ vulgari, cui bramava dimenticate dagli altri e da se
stesso[342]. Questi con dolcissima armonia cantò la più tenera delle
passioni; Dante le robuste, «gittando a tergo eleganza e dignità»,
come il Tasso gli appone; e _rime aspre e chioccie_ trovò opportune a
servir di velame alla dottrina che ascondeva _sotto versi strani_: se
anche tratta d’amore, sì il fa per imparadisare la donna sua. Petrarca
verseggia lindo e forbito come parlava e con gioconda abbondanza,
sicchè la forma poetica v’è tanto superiore al pensiero; a differenza
dell’Alighieri, che ruvido e sprezzante, non lasciasi inceppar dalla
rima, per comodo di questa e del ritmo mutando senso alle parole e
traendole d’altra favella e dai dialetti.

Quello soffoga talvolta il sentimento sotto un lusso d’ornati e di
circostanze minute; questo unifica gli elementi che l’altro decompone,
coglie le bellezze segregate, traendole meno dai sensi che dal
sentimento, nè mai indugiandosi intorno a particolarità[343]. La costui
lingua tiene della rozza e libera risolutezza repubblicana: quella
del Petrarca riflette l’affabilità lusinghiera e l’ingegnosa urbanità
delle corti. Nel primo prevale la dottrina, nell’altro la leggiadria;
nell’uno maggiore profondità di pensieri e potenza creatrice,
nell’altro maggior lindura ed artifizio; quello genio, questo artista;
uno finisce come l’Albano, l’altro tocca come Salvator Rosa; uno inonda
di melanconia pacata[344] come le cavate di notturno liuto, l’altro
colpisce come lo schianto della saetta.

L’un e l’altro seppero quanto al loro secolo si poteva, anzi si volle
trovarvi divinazioni o presentimenti di scoperte posteriori[345],
e Dante in astronomia fece uno sfoggio che, quand’anche non erra,
costringe a lunghissimo ragionamento per raggiungere il senso delle
frasi con cui designa le ore e i giorni delle sue avventure. Ma egli
conoscea appena di nome i classici greci, e poco meglio i latini[346];
l’altro era il maggior erudito de’ tempi suoi, e sceglieva pensieri
e frasi da’ forestieri e da’ nostri[347], e massime da Dante, di
cui pure affettò disprezzo; sicchè dove credi il linguaggio mover da
passione, riconosci la traduzione forbita: benchè coll’arte raffinasse
le gemme che scabre traeva dal terreno altrui; laonde que’ Provenzali e
Spagnuoli perirono, egli vivrà quanto il nostro idioma. E fu veramente
il primo letterato moderno che togliesse a considerare la vita non
coll’austerità del medioevo, ma in modo largo e lieto, come i classici
antichi.

È naturale che le poesie del Petrarca fossero divulgatissime, per
la limpida facilità[348] e perchè esprimenti il sentimento più
universale: il poema dell’Alighieri non era cosa del popolo[349], ma
appena morto si posero cattedre per ispiegarlo, spiegarlo in chiesa,
come voce che predica la dottrina, scuote gl’intelletti, eccita i
buoni coll’emulazione, i rei svergogna, ed insinua le idee d’ordine,
tanto allora necessarie. Petrarca sapeva che il Po, il Tevere, l’Arno
bramavano da lui _sospiri_ generosi, ma continuava ad esalarne di
gracili; e poichè il fondo della vera bellezza, come della virtù vera
e del genio è la forza, e senza di questa la grazia presto avvizzisce,
e l’andar sentimentale inciampa facilmente in difetti di gusto,
potè, perfino nella sua castigatezza, dare occasione ai traviamenti
de’ Secentisti[350]. Egli ebbe a torme imitatori che palliarono
l’imbecillità delle idee e il gelo del sentimento sotto la compassata
forma del sonetto, e che, mentre la patria cercava conforti o almeno
compianti, empirono gli orecchi con isdulcinate querele in vita e
in morte[351]. Lo studiar Dante richiese gravi studj, di filologia
per paragonare e ponderare frasi e parole; di storia per trovare
le precedenze de’ fatti, di cui egli non porge che le catastrofi;
di teologia per conoscere il suo sistema e raffrontarlo co’ santi
padri, co’ mistici, cogli scolastici; di filosofia per librarne le
argomentazioni, la precisione del concetto, gli elementi della scienza:
onde aprì una palestra di critica elevata e educatrice; e Benvenuto
da Imola e il Boccaccio allargano le ale quando hanno a viaggiare con
esso.

Primo genio delle età moderne, egli scoperse quanti pensieri profondi
e quanta elevata poesia stessero latenti sotto la scabra scorza del
medioevo, rivelò ai concetti popolari la loro grandezza, e costringe
a continuamente pensare, persuadendo che la poesia è qualcosa meglio
che forme vuote e combinazioni sonore[352]. Di qui la grande efficacia
sull’arti belle, giacchè, pur ammirando l’antichità, credea fermamente
ai dogmi cattolici, e tra quella e questi forma una mitologia in parte
originale, che poetizzò le tradizioni fin allora conservate fra gli
artisti; e il modo ond’egli aveva coordinato i regni invisibili, offrì
oggetti nuovi ai pittori, che i santi medesimi improntarono di passioni
più profonde, invece di quell’aria di beatitudine soddisfatta o di
ascetica compostezza, da cui sin allora non sapeano spogliarsi.

Dante è interprete del dogma e della legge morale, come Orfeo e Museo;
Petrarca interprete dell’uomo e dell’intima sua natura, come Alceo,
Simonide, Anacreonte: quello, come ogni vero epico, rappresenta una
razza e un’epoca intera, e il complesso delle cose di cui consta
la vita; l’altro dipinge il sentimento individuale. Perciò questo è
inteso in ogni tempo; l’ammirazione dell’altro soffre intermittenze e
crisi[353]; ma vi si torna ogniqualvolta si aspira a quella bellezza
vera, che sulla forza diffonde l’eleganza e la delicatezza.

La prosa italiana vedemmo come a Dante dovesse esempj e precetti; ma
se molti la adoperarono, pochi la coltivarono. I vulgarizzamenti hanno
sempre un’azione importantissima ne’ primordj delle lingue scritte; e
l’abbondanza loro in Italia, ed anche di opere moderne, attesta come
fosse secolarizzato il sapere, e come sentisse bisogno di rendersi
popolare. Fra i molti che ce ne restano di quel tempo, citiamo a caso
il primo dell’_Oratore_ di Cicerone per Brunetto Latini, le carissime
_Vite_ dei santi Padri del deserto, il _Sallustio_ male attribuito a
frà Bartolomeo da San Concordio, le _Pistole_ di Seneca, le _Avversità
della fortuna_ di Arrigo da Settimello, il _Guerino detto Meschino_,
la vita di Barlaam, la leggenda di Tobiolo, i _Fatti d’Enea_ per frà
Guido da Pisa, tutti d’incomparabile ingenuità toscana. Albertano,
giudice di Brescia, stando prigione di Federico II, dettò tre trattati
morali in latino, la cui versione per Soffredi del Grazia notaro,
anteriore al 1278, è vetustissimo monumento di nostra favella[354].
Negli Ammaestramenti degli antichi, raccolti e vulgarizzati da frà
Bartolomeo da San Concordio, rimbalza continuo il toscano, benchè qua e
là avviluppati in frasi latine.

Pier Crescenzi, «uscito di Bologna per le discordie civili, si aggirò
per lo spazio di trent’anni per diverse provincie, donando fedele
e leal consiglio ai rettori, e le cittadi in loro quieto e pacifico
stato a suo poter conservando; e molti libri d’antichi e dei novelli
studiò, e diverse e varie operazioni de’ coltivatori delle terre vide
e conobbe»; indi rimesso in patria, settagenario scrisse dell’_Utilità
della villa_, dedicandolo a Carlo II di Napoli. Delira cogli
aristotelici nel proporre teorie; ma buone pratiche suggerisce, come
uomo sperimentato. Pare dettasse in latino, ma di corto fu tradotto
da un Fiorentino, fortuna che lo fece vivere e studiare; e Linneo ad
onoranza denominò dal Crescenzi una pianta americana.

Jacopo Passavanti domenicano tradusse egli stesso il suo _Specchio
della penitenza_, dove, insieme con ubbie vulgari, mostra intendere
il cuore umano; i racconti sono d’altrui, e massime di Elinando e di
Beda, onde hanno per teatro le Fiandre, Parigi, il deserto; ma non
turba mai per affettazioni la cara limpidezza, che era consueta prima
del Boccaccio. Frà Cavalca si ricorda sempre che predica al popolo;
molti de’ suoi racconti non la cedono al Villani nè al Boccaccio; e
i suoi _Atti apostolici_ son tale tesoro di schiettissime eleganze,
ch’io vorrei dirlo il perfezionatore della prosa italiana[355]. Le
prediche di frà Giordano da Rivalta bollono di zelo contro il pubblico
disordine. Di santa Caterina da Siena abbiamo versi infelici e lettere
care alle anime pie, non meno che profittevoli agli studiosi del bello
e ricco scrivere[356]. Qual natìo candore di lingua e «semplicità
colombina» nei _Fioretti di san Francesco_! Che se noi siam costretti
a cercare la miglior lingua in autori di cui smettemmo le idee, questa
non è la più piccola delle sciagure d’Italia.

Lo studio de’ Trecentisti, racconcie solo e riformate poche
parole, e tolte via quelle desinenze in _aggio_, in _anza_ derivate
soverchiamente dal provenzale, sarà sempre opportunissimo a riparare
al neologismo moderno e all’erudito arcaismo, e porgere la primitiva
accettazione e il logico collocamento delle parole, il senso ingenuo
e vero, la grazia ornata solo di se stessa, affine di dare al nostro
idioma quella franca naturalezza che è la voce del genio. E tali
scrivevano quei buoni, e tali principalmente gli storici, ignorando
però l’arte degli incidenti, delle sospensioni, di ciò che alla frase
reca forza e varietà. L’arte che le mancava, fu data alla prosa del
Boccaccio, non già per meditazione sull’indole del parlar nostro, bensì
per erudizione, della quale fu vago quanto il Petrarca. Nasceva egli
(1313-75) a Parigi dall’amore d’un mercante di Certaldo, il quale seco
l’avviò alla mercatura e al viaggiare, poi per le liete speranze di sua
giovinezza l’applicò alle lettere sotto valente professore. La vista
della tomba di Virgilio lo invaghì degli studj; del _sulmontino_ Ovidio
si professa devoto[357]; profitto maggiore trasse dall’amicizia de’
migliori contemporanei e dalla lettura di Dante, «mio duce, face mia, e
da cui tengo ogni ben, se nulla in me sen posa».

Di greco fece stabilire una cattedra in Firenze per Leonzio Pilato,
calabrese vissuto lungamente in Levante, e venire una copia d’Omero e
d’altri autori non prima conosciuti sull’Arno. Pilato era di schifosa
apparenza, «orrido e per lunga meditazione inselvatichito, ma un
archivio ambulante inesausto delle storie e favole greche», e da’
costui colloquj il Boccaccio trasse notizie per esporre in latino
la _Genealogia degli Dei,_ opera per la quale intimava ai posteri
d’avergli pubblica benemerenza. Scrisse pure in latino casi d’illustri
infelici, virtù e vizj di donne; e un’opera sui monti, le selve, i
fonti, i laghi e i fiumi, che, qual essa sia, fu il primo dizionario
geografico. In queste, come nelle sedici egloghe, sta ben di sotto al
Petrarca in latina eleganza. Le molte liriche in vulgare composte da
giovane, bruciò come vide le stupende di questo. Maturo, condusse la
_Teseide_, epopea in dodici cantari e in ottave sugli amori d’Arcita e
di Palemone per l’amazzone Emilia ai tempi di Teseo; il _Filostrato_
su quelli di Troilo con Briseide alla guerra di Troja, con istile
stentato, rotto e non di vena. Nell’_Amorosa visione_ finge che nel
tempio della felicità gli appaja il trionfo della Sapienza, della
Gloria, della Ricchezza, dell’Amore e della Fortuna; cinquanta canti,
cadauno di ventinove terzine, le iniziali di ciascuna delle quali
vengono a formare un sonetto e una canzone. Il _Ninfale fiesolano_
versa sui lacrimevoli amori d’Africo e Mensola; ma neppur le lascivie
seducono a rileggerlo.

La gloria al Boccaccio dovea venire dalla prosa; e come Petrarca volle
nel verso introdurre l’armonia di Virgilio, così egli nella prosa il
periodo di Marco Tullio; e le descrizioni, che prima di lui non si
conosceano. Nel _Filocopo_ narrò le avventure di Fiorio e Biancafiore,
invenzione cavalleresca, sorretta da macchina mitologica, prolisso
senza ingenuità, tutto enfasi ed assurda mescolanza di antico e
moderno, o di cose moderne dette all’antica: eppure ebbe prestamente
sedici edizioni, e fu tradotto in ispagnuolo e in francese; grande
avviso a non giudicare i romanzi dalla subitanea divulgazione. Meno
ampolle gittò nell’_Amorosa Fiammetta_, sotto il qual nome designava
Maria figlia naturale di re Roberto, colla quale egli intendevasi
d’amore. Burlato da una vedova, si svelenì contro le donne nel
_Corbaccio o Labirinto d’Amore._ Pretta retorica è la consolatoria a
Pino de’ Rossi, dalle miserie dell’esiglio confortandolo coll’esempio
d’altre miserie. Nell’_Ameto_, sette ninfe dell’antica Etruria
narrano i proprj amori, finendo con un’egloga ciascuna, mescolanza
di prosa e versi, che poi in altri idillj fu adottata dal Bembo, dal
Sannazaro, dal Menzini: come agli epici egli avea dato il primo esempio
dell’ottava; come della prosa didattica fece la più antica prova nel
commento a Dante. La vita che scrisse di questo, fra declamazioni e
digressioni serbò preziosi aneddoti sul gran poeta. Nei commenti, che
accompagnano solo i primi diciassette canti della Divina Commedia,
spiega passo a passo il sentimento letterale, poi l’allegorico; e
sebbene alcune chiose siano trivialissime, fino a indicare chi fossero
i primi parenti, e chi Abele e Caino, palesa però buon intendimento
della grammatica, della storia e delle dottrine. Ma se a Parigi
Dante avea studiato i teologi e gli scolastici, Boccaccio vi cercava
i _fabliaux_, udiva Rutebeuf, Gianni de Boves, Gaurin; leggeva
i _Dolopathos_, romanzo indiano, di fresco tradotto da un monaco
d’Altacomba in latino, e in francese dal trovero Herbers[358]; e da
queste letture e dall’umor suo dedusse un’arte affatto pagana, volta ai
gaudj della vita presente, non ai presentimenti della avvenire.

Comincia la _Teseide_ dall’invocare le _sorelle Castalie che nel monte
Elicona contente dimorano_; nella caccia di Diana, sotto questo nome
divinizza Giovanna regina di Napoli, e sotto quel delle seguaci di lei
la Cecca Bazzuta, la Marietta Melia ed altre di quella corte; fa che
Pamfilo, vedendo a messa la Fiammetta, sia spinto da Giunone ad amarla;
nel _Filocopo_, chiama il papa gran sacerdote di Giunone, e parla
dell’incarnazione del figliuolo di Giove e dei pellegrinaggi in Galizia
a visitare il Dio che vi si adora.

Ad eguali sentimenti s’ispira il _Decamerone_, suo capolavoro, di
cui abbiamo già fatto cenno. Le novelle che vi fa raccontare, sono le
più d’invenzione altrui, lascive e inumane, talchè i contemporanei lo
intitolarono il principe Galeotto. La donna, da Dante era stata scelta
ispiratrice e guida nella _selva selvaggia_ della vita e nel viaggio
alla verità; Petrarca l’avea velata di pudore e di melanconia, e posta
esempio di pacata resistenza, che pur sentendo la passione non la
lascia prevalere alla ragione, e provvede soavemente a salvar la vita
dell’amante e il proprio onore; la sua Laura «inclina e adora come
cosa santa», e trova che «non vi sente basso desire, ma d’onore e di
virtù», e attesta che «ogni basso pensier dal cor gli avulse»[359]. Ed
ecco il Boccaccio converte la donna in sollazzevole cortigiana, ebbra
ne’ piaceri sensuali, insiememente credula e superstiziosa, che va a
messa ma per far all’amore[360]; che quando si muor d’ogni parte, non
conosce migliore spediente che novellare e godere. La fedeltà maritale
e la castimonia monastica bersaglia esso continuamente: irreligioso
nel ser Ciappelletto e nel frà Cipolla, deista nel Melchisedec giudeo,
sempre lusinga l’egoismo: fa i personaggi cedere alla passione senza
quel contrasto da cui viene nell’arte il drammatico, nella vita il
sagrifizio, che è fonte dell’ordine.

Chi lo scusa col supporre che il novellar di que’ tempi si nutrisse
di lubricità, ha dimenticato il _Novellino_, che sono cento novelle
antiche, di cui alcuna scritta poco dopo la morte d’Ezelino, dove
in semplice dettatura è ritratta la vita d’allora, facendo «memoria
d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie, e di belli risponsi, e
di belle valentìe, di belli donari e di belli amori, secondo che per
lo tempo passato hanno fatto già molti». Neppure si può scagionarlo
per giovane, trovandosi egli nella maturità dei quarant’anni, e forbì
quel libro colla diligenza che ognun vi sente, tal fatica sostenendo
per ordine d’una principessa. Alcuno volle purgare il Decamerone
per uso dei giovani[361]: ma si prese, come spesso, immoralità per
lascivia; e tolte frasi e racconti sconci, se ne lasciarono altri
non meno pericolosi. S’è detto non bisognerebbe darlo a leggere se
non a chi avesse fatto qualche bell’azione per la patria; vuol dire
non sarebbe più letto. Vedemmo come se ne rimordesse; e fatto prete,
visse esemplarissimo, e in testamento lasciava i suoi libri a un
frate eremitano «sì veramente che sia tenuto e debba pregare Iddio per
l’anima mia»; molte reliquie ai frati di Santa Maria di San Sepolcro
fuor di Firenze «acciocchè quante volte reverentemente le vedranno,
preghino Iddio per me»; un’immaginetta di Nostra Donna d’alabastro e
molti arredi da chiesa a San Jacopo di Certaldo, coll’obbligo «di far
pregar Iddio per me»; a madonna Sandra «una tavoletta, nella quale
è dall’una parte dipinta Nostra Donna col Figliuolo in braccio, e
dall’altra un teschio di un morto».

Fu dunque egli il primo, non che scrivesse bene in prosa, ma che
scrivesse bene di proposito, sapendo quel che faceva e conservando
l’arte dal principio al fine, senza quelle mescolanze di rusticità
che offendono in tutti gli altri. Nè verun prosatore fin allora avea
posto industria allo stile, bastando esprimere i proprj sentimenti,
non ornati che della loro semplicità, a guisa d’amici schiettamente
parlanti; forma tanto più conveniente, in quanto i libri allora erano
men cosa pel pubblico, che confidenze domestiche e cittadine. Il
Boccaccio volle attribuire allo stile la magnificenza che prima non
conosceva, configurarlo ai diversi soggetti, e spurgatolo di quanto
tenea di vieto e sgraziato, maestare il periodo e darvi numero e
movenza variata, e pastosità e contorno e leggiadria al possibile.
Lodevole divisamento: se non che mal distinse la natura degli idiomi, e
appigliatosi al latino, tondeggiò la frase con arte troppo apparente ed
ambiziosa. Ricchezza, abbondanza gioconda, variata armonia, chi n’ebbe
altrettanta? ma la nuova prosa, logica e perspicua, quale innamora
nel Compagni, nel Villani, nel Passavanti, intralciò cogli incisi,
con raggirate trasposizioni, coll’anelante periodare, repugnanti alle
moderne favelle, che, sprovviste di desinenze, amano la sintassi
diretta; e fece parer vile la sapiente parsimonia, la famigliarità
franca e dignitosa, la nobile sprezzatura. Stile ricercato è sempre
cattivo; e quel fare pompeggiante s’accomoda ancor meno alla leggerezza
delle materie assunte dal Boccaccio, onde ti par dall’acconcia toga
romana vedere sporgere il tôcco del trovadore o il battocchio del
giullare. Ed anche quel suo intarsiare frasi e sin versi interi di
Dante e d’altri, introdusse o scusò un vezzo malaugurato nella prosa
nostra sia di mescolarvi locuzioni poetiche, sia di vestire i proprj
pensieri colle forme altrui.

Ammirano la varietà di caratteri; direi piuttosto di condizioni:
ma fra tante frondi invano cercheremmo il ritratto della vita e
dell’indole italiana, nè la curiosità v’è sostenuta. Ha stupenda novità
di prologhi, canzoni, descrizioni del mattino, divertimenti varj ad
ogni giornata; ha inesauribile dovizia di modi: ma gli manca fantasia
pittrice, comunque nettissima sia la sua tavolozza, ed eccellenti
i dettagli[362]; colla perifrasi nuoce all’evidenza che otterrebbe
colla voce propria; quello scialacquo di parole, elettissime ma non
necessarie, quell’inzeppamento di eleganze, quella sinonimia viziosa,
impastoiano il racconto; quell’incessante splendore abbaglia più
che non riscaldi, colorisce più che non delinei, titilla più che
non iscuota. Chi mai versò una lacrima a que’ racconti, che pur sono
talvolta mestissimi? Quando gli domandi l’affetto, t’avvedi ch’egli
studia solo la parola, il periodo, la cadenza; vero caposcuola di
coloro che s’ascoltano da sè.

E perchè questi furono molti, massime nel Cinquecento, non v’ha encomio
iperbolico che non siasegli profuso. I suoi imitatori rifuggirono dalla
naturalezza de’ pensieri o dell’espressione; una delle cause per cui
ci mancarono la commedia ed il romanzo, e per cui tanta fatica occorre
ai moderni onde richiamare sul semplice. E fosse solo grammaticale il
guasto!

Eppure il Boccaccio sapeva gustare le dolcezze campestri, e a Pino
de’ Rossi descrive come tornò a Certaldo, e «qui ho cominciato con
troppo men difficoltà che non mi pensava a confortar la mia vita, e già
principianmi li grossi panni a piacere e le contadine vivande; e il non
veder le spiacevolezze, le finzioni, li fastidj de’ nostri cittadini mi
è di tanta consolazione nell’animo, che se io potessi far senza udirne
alcuna cosa, credo che il mio riposo crescerebbe d’assai. In iscambio
de’ solleciti continui avvolgimenti de’ cittadini, veggio campi, colli,
arbori di verdi fronde e di fiori varj vestiti, cose semplicemente
da natura prodotte; dove ne’ cittadini son tutti atti fittizj: odo
cantar usignuoli ed altri uccelli con non minor diletto, che fosse più
la noja di udire gl’inganni e le difficultà de’ cittadini nostri. Co’
miei libricciuoli, quante volte mi piace, senza alcun impaccio posso
liberamente ragionare: e in poche parole vi dico che mi crederei qui,
mortale come sono, gustare e sentire della eterna felicità se Dio mi
avesse dato un fratello».

Già di sette lingue s’era a quell’ora impadronita la letteratura
nuova; la castigliana, la portoghese, la valenziana o provenzale,
la francese, la tedesca, l’inglese e l’italiana: le altre si
abbandonavano all’istinto, anzichè studiassero l’arte; nessuna può
offrire capolavori; le opere di quelle son rivangate solo per istudio
filologico, le nostre rimasero classiche, non soltanto per noi, ma e
per gli altri popoli. Ed è gran prova d’incivilimento questo apparire
quasi contemporaneo di tre genj, così differenti l’uno dall’altro, e
ciascuno inventore o tipo di generi, di cui doveano restare modelli
insuperati. Ma Dante si proponeva una poesia nazionale e religiosa;
come i veri ingegni, ha più franchezza che arte; tormentato da grandi
pensieri, fatica ad esprimerli in una lingua già formatasi, ma non
educata ad esporre poeticamente tanta dottrina; e col suo cantare
eccita, anzi obbliga il lettore a pensare da sè. Petrarca forbì poi
quella lingua, dandole una rigogliosa gioventù, che nulla perdè fin ad
oggi della natìa freschezza. L’uno e l’altro fissarono il linguaggio
poetico, bellissima veste, che bastò al lepore dell’Ariosto come
alla gravità del Tasso, alle dolcezze di Metastasio come ai fremiti
dell’Alfieri. Quanto alla prosa, forse è colpa di Boccaccio o de’
suoi idolatri se ancora non n’abbiamo una nazionale, colta insieme
e popolare, corretta e sicura, ferma ed ingenua, più candida che
azzimata, più viva che compassata, acconsentita dai dotti, e insieme
affabile al popolo, il quale vi incontri le sue forme ma ingentilite,
i suoi vocaboli ma artisticamente disposti; atta ad esprimere tanto la
famigliare ingenuità, quanto i grandi bisogni e i grandi sentimenti.

Da principio tutti corsero dietro a Dante; Petrarca gli porta invidia
pur negandola, e lo imita; Boccaccio ne tessella la sua prosa, ne
farcisce la sua poesia[363]. Cecco Stabili d’Ascoli nell’_Acerba_[364],
poema filosofico nè bello di poesia nè dotto di scienza, denticchia
l’Alighieri colla stizza dell’impotente, e fu poi per mago bruciato
a Firenze. Fazio degli Uberti nel _Dittamondo_ espone un viaggio
che fa dietro al geografo Solino, tela mal ordita e peggio tessuta.
Federico Frezzi da Foligno nel _Quadriregio_ descrive in terza rima
i quattro regni dell’amore, del demonio, dei vizj, delle virtù,
dove Minerva viene a diverbio con Enoc ed Elia profeti. Francesco da
Barberino leggista nei _Documenti d’amore_ tratta di filosofia morale,
politica, civiltà, perfino tattica, in metro vario e stile nè facile
nè elegante, non ajutando tampoco la cognizione de’ costumi quanto il
titolo prometterebbe. Scrisse anche _Del reggimento e dei costumi delle
donne_, ove in versi stiracchiati misti a prosa, se pur tutta prosa
non sono, ammanisce precetti alle donne delle diverse condizioni ed
età: prolisso, stucchevole, ma con buon intento e bella lingua[365].
Giusto de’ Conti canta la _bella mano_ della donna sua[366], sbiadito
imitatore del Petrarca. Nè gloria nè compiacenza alla patria; sol
ricordati perchè vecchi.

Francesco Sacchetti fiorentino, uom di toga e di mercatanzia, pel leone
coronato al pulpitino di Palazzo vecchio fece questa divisa:

    Corona porto per la patria degna
    Acciocchè libertà ciascun mantegna;

ed era sì reputato, che essendosi esclusi dalle magistrature i padri,
figli, fratelli di coloro ch’erano stati sbanditi, si eccettuò lui
solo _per esser tenuto uomo buono_[367]. Mal calcate le orme del
Petrarca, dietro a quelle del Boccaccio avviò ducentoquarantotto
novelle, di stile dimentico e scorrevole, slegate fra loro, nè
per intreccio, vivacità e pompa simili a quelle del Certaldese, ma
piuttosto ad aneddoti senza idealità, burlevoli e pittoreschi. Lasciam
via le sconcezze e le scempie riflessioni, ma fanno ritratto della
vita d’allora que’ piacevoli motti scoppiati alla sprovvista; quegli
uomini di corte, che coll’improntitudine subbiellano doni; que’ lepidi
ostieri, che fanno cronache di chi non usa la parola propria; quelle
burle e risa sopra magistrati ignoranti o tirchi; quelle braverie di
soldati tedeschi con nomi bisbetici; quella meschinità degl’imperatori,
che senza denaro scendevano in Italia; que’ leggisti smaniosi
d’azzeccar liti, onde uno di Metz si meraviglia che Firenze non sia
disfatta con tanti giudici, mentre un solo era bastato a rovinare la
sua patria; insomma quella vita piena, pubblica, vivace, procacciante,
di gente che non subì ancora i miasmi della pacifica oppressione.

Purezza di lingua, proprietà di parole e vezzi di stile accostano al
Boccaccio ser Giovanni fiorentino (-1375), il quale nel Pecorone finge
che Auretto, innamorato di suor Saturnina, vada frate, e divenuto
cappellano, s’accordi con lei di passare ogni giorno alcun tempo
raccontandosi in parlatorio una novella a vicenda. Con sì misero
appicco e senza varietà d’incidenti vanno alle cinquanta, storiche le
più, esposte con istile semplice, e velando le sconcezze. E in generale
ai narratori di quel secolo mancano la rapidità e la precisione, e lo
spirito arguto che s’acquista col lungo frequentare gli uomini e la
scelta società.

Così la letteratura accampavasi sotto due bandiere, dietro quei
campioni. Petrarca e Boccaccio dovettero l’immortalità a lavori
fatti quasi per trastullo o distrazione, di mezzo a studj più gravi;
questo obbediva ai comandi d’una principessa, quello non avrebbe mai
_creduto che sì care fossero le voci dei sospir suoi in rima_. Dante
applicò tutto sè al poema che _per molti anni lo fece magro_; e quando
a lui esulante furono riportati i primi canti del divino poema, —
Emmi (disse) restituito lavoro massimo con perpetuo onore»[368], e
confidava mercè di quello poter coronarsi poeta sul battistero del
suo San Giovanni. Boccaccio e Petrarca nell’età grave si doleano
delle inezie e delle lubricità scritte, e quasi si vergognavano della
gloria conseguita; Dante confida di aver fama appo coloro che il suo
tempo chiameranno antico, e che vital nutrimento deriverà dall’agro
de’ versi suoi. Egli aveva dischiuso i tempi nuovi, gli altri due
respinsero verso gli antichi; egli inventivo, essi imitatori; egli
biblico, essi classici; egli scotendo, essi addormentando la patria.
Ed è non ultima colpa del Boccaccio l’avere o incitato o scusato i
nostri a moltiplicare in un genere di letteratura affatto immorale
come sono i novellieri. Ma egli fu addobbo di corte, corifeo di coloro
che appigionano l’ingegno a chi paga, sia principe o plebe: Dante si
considerava educatore delle nazioni, e i suoi seguaci credettero tale
l’uffizio della letteratura. Anche i Petrarchisti empirono di belati
questa povera Italia, la quale ogni qualvolta pensasse a scuotere il
letargo, e sviarsi dai torbidi rivi, tornò ai vigorosi difetti e alle
incomparabili bellezze dell’Alighieri.



CAPITOLO CX.

Roma senza papi. — Cola di Rienzo.


Di quel papa Clemente V che spiegò fermezza contro Enrico VII forse
per debolezza verso il re di Francia, e che scomunicò i Veneziani
perchè aveano comprato Ferrara, dominio diretto della santa Sede, non
v’è iniquità che non si scriva; colle simonie, o meglio coll’aggravare
esorbitantemente le chiese accumulò tesori, che profondeva poi fosse ai
parenti, fosse in un fasto insolito a’ suoi predecessori, e che credea
forse necessario per rialzare il papato, errante fuor del teatro di sua
grandezza. Appena morto (1314), il popolo ne saccheggiò il palazzo, e
pel cadere d’una candela appiccatasi la fiamma al feretro, niun badò
a spegnerlo, e appena un cencio rimase per ricoprirne il semiusto
cadavere.

Lungo e procelloso conclave seguì, qual poteasi aspettare da
quell’esiglio e dalle modificazioni del concistoro, dove gli otto
cardinali italiani voleano un papa che tornasse a Roma, guaschi e
francesi il contrario. Una banda di mercenarj guasconi indisciplinati
minacciò e saccheggiò i mercanti nostri in Carpentrasso, malmenò ed
incendiò le case de’ prelati italiani, violentò il conclave, sicchè
i cardinali fuggirono per una breccia, e si dispersero. Giacomo
d’Euse, figlio d’un ciabattiere di Cahors, piccolo e deforme di
corpo, ma di senno acuto, studioso, perseverante, era ito a Napoli
per cercar fortuna, dove entrò maestro dei figli del re, ed ebbe
la gloria di formare Roberto, che fu tenuto il re più sapiente de’
suoi giorni, e Luigi vescovo di Tolosa, da poi canonizzato. A grande
istruzione nei due diritti Giacomo univa molta destrezza negli affari,
e adoprato presso i papi e i re di Francia, salì vescovo di Fréjus,
poi grancancelliere a Napoli e vescovo d’Avignone. La presenza della
Corte pontifizia gli diè campo a mostrare i suoi talenti; fu di grande
sussidio nel concilio di Vienna a Clemente V, che l’ornò della porpora;
poi già vecchio, col favore di re Roberto e mediante largizioni e
promesse, ottenne la tiara (1316), col nome di Giovanni XXII. Benchè
abituato in Italia, e benchè vel chiamassero i larghi suoi divisamenti,
si stabilì in Avignone, città appartenente ad esso suo protettore;
talmente pareva una funesta necessità rimuovere la santa Sede da
Roma, in preda a violenti fazionieri[369]. Già vedemmo come Giovanni
fosse trascinato fra quelle contese, ed avesse con Lodovico Bavaro
dissensioni agitate con armi e con violenti diatribe.

Fra le quali come sapere quanto abbiano di vero le accuse appostegli
di simonia, di scostumatezza e d’avidità? Fin d’eretico fu tacciato;
e Germania e Italia reclamavano un concilio che pronunciasse, e che
speravano deporrebbe quel papa, e tornerebbe la sede a Roma. Però
storici serj dicono che Giovanni vivea ritiratissimo, fuor d’ogni pompa
o spasso; studioso e intelligente di scienze sacre e profane, caldo nel
diffondere le missioni fino all’estremità dell’Asia; se non istituì,
diede ordinamenti al tribunale della Sacra Rota e alla cancelleria
romana, donde un vicecancelliere, che è la maggior dignità di corte,
spedisce le lettere apostoliche.

Giovan Villani, contemporaneo e mercatante, che allega l’autorità
de’ tesorieri adoprati a far l’inventario, dice lasciasse venticinque
milioni di zecchini[370], somma sì sproporzionata al numerario allora
in corso, che vuolsi metterla in conto delle dicerie popolari; pure
possiam credere avesse riposto un tesoro quale non poteva a gran pezza
averlo nessun altro potentato, e che esso Villani dice destinato «per
fornire il santo passaggio d’oltremare».

Ma a quali fonti attingeva sue ricchezze la Corte romana?

La prima erano le offerte che i fedeli recavano sull’altare della
confessione di San Pietro, al sacro palazzo, al papa stesso, in denaro,
arredi sacri, biancheria, cera: Vittore II cedette al cardinale Umberto
le offerte d’un giovedì e sabbato santo, che bastarono a montare una
chiesa. Varj regni si erano messi sotto la protezione della santa
Sede, alla quale tributavano, l’Aragona ducencinquanta oboli d’oro, il
Portogallo due marchi, cento la Polonia, mille d’argento l’Inghilterra,
oltre il denaro di san Pietro che fruttava ducentonovanta marchi,
e forse altrettanti quello di Svezia, Norvegia e Danimarca. Feudi
suoi erano Napoli, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica: e il
primo pagava ottomila oncie; tremila la Sicilia, da cinque zecchini
l’oncia; duemila l’Aragona, cui erano infeudate le altre due isole.
La Camera apostolica traeva pure guadagno dall’infeudare qualche
città per un tempo determinato. Molti possessi tenea negli Stati
pontifizj: ma solo conosciamo che il ducato di Spoleto le rendeva
milleottanta libbre, milletrentotto soldi, dieci bisanti, e alcuni
valori in natura; il contado di Narni e d’Aurelia quarantanove libbre,
cinquecentoquarantotto soldi, netti da spese di percezione; la Sabina
cencinquantaquattro libbre, soldi dieci; il contado Venesino diecimila
fiorini. Il _Liber censuum_, compilato nel 1192 dal cardinale Cencio
tesoriere apostolico, enumera un’infinità di possessi e di rendite in
tutto il mondo: ma l’incertezza del valore delle monete, e l’essere
una gran parte in natura ci tolgono di raccorne un computo, neppure
approssimativo; se non che siam fondati a credere superasse la rendita
di qualunque altro Stato.

Eppure la Corte romana trovavasi in gran distretta; e colpa
l’ingordigia o anche l’infedeltà de’ collettori, la difficoltà e il
ritardo delle trasmissioni, i sotterfugi per non pagare, ben poco
ne giungeva sin alla cassa papale. Innocenzo II dovette impegnare le
città d’Orvieto, Gubbio e Casale per ducento libbre pavesi; Adriano
IV Città di Castello per cenventi marchi d’argento; nel 1265 Clemente
IV scriveva d’avere, per la spedizione di Carlo d’Angiò, messe in
pegno tutte le ricchezze delle chiese di Roma eccetto San Pietro e
San Giovanni Laterano, ed essersi obbligato per un valore di centomila
libbre di proventi, _si ea poterimus invenire_.

Bisognò dunque ricorrere a spedienti, ignoti alle altre finanze.
Innocenzo IV pose tasse sulle dispense e le esenzioni; ma dopo
portata la sede oltremonti, maggiori spese occorsero: i beni d’Italia
erano quasi perduti; i censi si stentavano dai re, per paura che
ne vantaggiasse la Francia: onde Clemente V cominciò a riservarsi
per tre anni tutti i benefizj dell’Inghilterra, e diede in commenda
moltissime chiese, tanto che potette morendo lasciare un tesoro di un
milione settantaquattromila ottocento zecchini. Giovanni XXII camminò
più franco su questa via, e non inventò, ma sistemò le annate, cioè
la riserva dei frutti d’un anno d’ogni benefizio vacante in tutta
la cristianità _pro Ecclesiæ romanæ necessitatibus_; ed aumentò tale
rendita col promovere sempre da un benefizio inferiore; di modo che
ogni nomina portava una lunga serie di vacanze.

Aggiungi le aspettative; lettere dapprima _monitorie_ poi
_precettorie_, infine _esecutorie_, che davansi a un ecclesiastico
perchè ottenesse un benefizio quando verrebbe vacante: erano vendute
da cinquanta zecchini, e divennero una delle entrate più pingui della
Camera, finchè il concilio di Trento le abolì. Inoltre il papa poteva
imporre la decima su tutti i beni ecclesiastici; come, per esempio, nel
1336 fece su quelli di Francia per sostenere la guerra in Lombardia.

Ma non sempre i fondi giungevano alla destinazione; una volta furono
predati in Lucca; un’altra Paganino conte di Panico bolognese si
accordò con diversi nobili, e mentre il guascone Raimondo d’Aspello
marchese d’Ancona e nipote del papa attraversava il Modenese con
settanta o novantamila fiorini a gran fatica raccolti, e benchè già
gli avessero venduto il salvocondotto, lo assalirono e uccisero con
quaranta uomini della scorta, e si spartirono i cavalli e le spoglie:
il papa non potè che metter Modena all’interdetto. Venendo un altro
legato da Avignone colle paghe pe’ soldati, convogliato da cencinquanta
cavalieri, i Pavesi lo colsero in agguato, e almeno metà del tesoro ne
pigliarono.

Giacomo Fournier di Saverdun, quando fu acclamato papa col nome di
Benedetto XII (1334), disse ai cardinali: — Eleggeste il più asino tra
voi». Datosi a medicar tante piaghe, abolì le aspettative: e non avendo
sciupato in guerre, l’erario non risentì la mancanza di questa pingue
rendita; d’altra parte vi suppliva col vendere in Italia il titolo di
vicario, pel quale riscoteva annualmente da Luchino Visconti diecimila
fiorini, tremila dagli Scaligeri per Verona e altrettanti per Vicenza,
diecimila dai Gonzaga di Mantova e dai Carrara di Padova, altrettanti
per Ferrara da Obizzo d’Este.

Nel primo concistoro dichiarò che nè la romana nè altra chiesa dovea
sostenere i suoi diritti colle armi, rimandò alle loro parrocchie
quanti curati erano in Corte, revocò le commende, voleva egli stesso
esaminar quelli che chiedevano benefizj, e tanto in ciò procedeva
severo, che lasciava questi scoperti piuttosto che darli a indegni.
Essendosi presentato un tal Monozella, lodato musicante, a chiedere
l’abbadia di San Paolo in Roma, esso gli domandò: — Sapete cantare? —
Santità sì. — Sarei curioso d’udire qualche canzone. — E canzoni io so.
— Sonate anche qualche istromento? — La ghitarra». Allora Benedetto
cangiando tono: — Come! un saltimbanco pretenderebbe diventare il
venerabile capo del monastero di San Paolo?» e lo cacciò. Voleva si
ascoltasse chiunque a lui ricorrea, e faceva giustizia, e diceva che un
papa deve somigliare a Melchisedech, il quale non conoscea nè padre nè
madre nè genealogie.

Pari alla virtù non avea la scienza degli uomini e degli affari; e
credette a un pontefice bastasse la bontà senza la politica, mentre
cotanta ne occorreva per barcheggiare fra gli andirivieni della
mondana. Benedetto prefisse di tornare a Roma, ma i cardinali francesi
nel dissuasero. Caduto in grave malattia, rinnovò il proposito,
ma gl’Italiani dovettero perderne ogni speranza quando lo videro
fabbricare quel grandioso palazzo fortificato, con architettura di
Pietro Obreri e pitture di Simon Memmi; e subito i cardinali fecero
altrettanto, e la meschina Avignone si convertì in bella città,
dove anche i gran signori di Francia e i re aveano palazzi. Sì bene
riuscivano le arti di Filippo di Valois, il quale, col sospendere le
prebende ai cardinali e minacciar di trattare Benedetto come Bonifazio
VIII, impedì che questo si riconciliasse con Lodovico Bavaro.

Dopo la vacanza di soli tredici giorni fu eletto papa (1342) Pietro
Roger limosino, che volle esser chiamato Clemente VI, e che, più
condiscendente ai cardinali e oprante nelle cose temporali, spiegò
pompa regia, diceva non doversi nessuno ritirare malcontento dal
cospetto del papa, e invitò alla Corte i cherici sprovvisti di
benefizio onde potessero coprire i tanti lasciati vacanti dal
precessore. In pochi mesi vuotò l’erario impinguato dall’abilità di
Giovanni XXII e dalla parsimonia di Benedetto XII; e a chi l’appuntava
de’ mezzi con cui provvedeva a nuove liberalità, vogliono dicesse: —
I miei predecessori non seppero esser papi». Comprò da Giovanna di
Napoli per ottantamila zecchini la città d’Avignone; e quivi, per
quanto strillassero i Romani, passavano le ricchezze e i proventi
curiali. La corte assunse quel tono, e i cardinali sfoggiarono di
lusso principesco: gl’intriganti, le donne potevano tutto, se pur la
malignità de’ tanti suoi avversarj nol calunniò.

Intanto Roma soffriva non si potrebbe dir quanto dalla lontananza di
quei papi, ch’essa suole molestare vicini e rimpiangere perduti; a
vicenda trambustata da una plebe turbolenta e da una nobiltà faziosa,
conculcate la giustizia e l’amministrazione, le vie ingombre da rovine
di rovine, le chiese sfasciantisi, denudati gli altari, i sacerdoti
senza il necessario decoro de’ paramenti; signori romani faceano
traffico di monumenti antichi, di cui abbellivano le città vicine e la
_indolente_ Napoli[371]. Colonna e Orsini erano corifei di due fazioni,
azzuffantisi ogni giorno in città e fuori; e per parteggiare con loro
o per non restarne oppressi, anche gli altri signorotti aveano mutato
in fortezze i palagi e il Coliseo e gli altri avanzi della magnificenza
romana; e pretendendosi superiori ai vassalli dell’impero, esercitavano
baldanzosamente la guerra privata, minacciavano e rapivano, deturpavano
gli asili delle vergini sacre, traevano a disonore le zitelle,
involavano le mogli dalla casa maritale; i braccianti, quando andavano
fuori a opera, erano derubati fin sulle porte dalle masnade che
infestavano la campagna: laonde il Boccaccio diceva che Roma, come
già fu capo del mondo, così allora era coda[372]; e il Villani, che
«i forestieri e i romei v’erano come le pecore tra lupi, ogni cosa in
rapina e in preda».

Il popolo aveva sistemato un governo municipale, divisa la città
in tredici rioni, ciascuno con un banderale; quattro membri per
rione componevano il consiglio del popolo, che aveva anche un altro
collegio di venticinque membri, con un capitano delle forze, ma
senza partecipazione agli interessi civili. A capo del popolo come
politica comunità stava il prefetto di Roma[373]; mentre il senatore
rappresentava la legge, superiore anche ai nobili, sempre scelto fra
i maggiori di essi; fra quell’ordine cioè, contro del quale avrebbe
dovuto esercitare la sua autorità, che invece sfogava in private
nimicizie.

L’autorità di re Roberto non avea forza; e il popolo, credendo soffrir
meno sotto l’immediata amministrazione del papa, a Benedetto XII offrì
la dignità di senatore, capitano, sindaco, difensore: ma bentosto una
sommossa cacciò di Campidoglio i due suoi rappresentanti. Il vicario
pontifizio sedente a Orvieto restringevasi nell’autorità spirituale: al
papa mandavansi deputati quando fosse eletto[374], poi non vi si badava
più.

Questa decadenza ridestava più vive le memorie dell’antica grandezza, e
ne fu tocco principalmente Nicola figlio di Lorenzo, uno de’ ciucciari
che portavano l’acqua in città, prima che Sisto V vi conducesse la
Felice, e che Roma diventasse la città delle fontane. Fu costui «di sua
gioventute nutricato del latte di eloquenza, buono grammatico, migliore
retorico, autorista bravo. Deh come e quanto era veloce lettore!
Molto usava Tito Livio, Seneca e Tullio e Valerio Massimo; molto gli
dilettava le magnificenzie di Julio Cesare raccontare; tutto lo dì si
specolava negl’intagli de’ marmi li quali giacciono intorno a Roma.
Non era altri che esso che sapesse leggere gli antichi pitafj, tutte
scritture antiche vulgarizzare, queste figure di marmo giustamente
interpretare». Da tali studj aveva attinto ammirazione per l’antica
repubblica romana; ed accorandosi del vederla dai papi abbandonata in
balìa di masnadieri, aspirò a quel ch’è il più grande e più difficile
assunto, resuscitare un popolo già cadavere. Bella figura, portamento
nobile, fisonomia espressiva, voce sonora, parola facile e passionata,
sagacia nel vedere i mezzi opportuni, abilità a mostrarsi ispirato
unicamente dal pubblico bene, cosa vi richiedeva di più per essere un
rivoluzionario?

I Tredici lo deputarono ad Avignone (1342) per supplicare Clemente VI
del ritorno; e Cola Rienzi (così lo chiamavano) parlò francamente al
papa, che prima lo sgradì, poi lo fece notaro della Camera apostolica,
uffizio lucroso, nel quale esso non usava penne d’oca ma di argento,
per significare la nobiltà di quest’uffizio. Ai degeneri nipoti di
quelli che aveano udito Gracco e Cicerone, egli parlava delle glorie
vetuste; ponea sott’occhio ai signori iscrizioni e simboli atti a
stimolare la vanità nazionale[375] e scandagliarne la risolutezza;
e fantasticava i diritti del popolo, sempre dietro alle reminiscenze
antiche[376]. L’uccisione d’un suo fratello (1344) fatta dai Colonna
e rimasta impune finì di rendergli esecrata quell’aristocrazia, non
meno corrotta e più prepotente e compatta che l’antica; sicchè pensava
ripristinare i tribuni della plebe, ed associando alle classiche le
ricordanze di Crescenzio e di Arnaldo, reprimere i baroni non solo, ma
anche i pontefici disertori dell’ovile.

Sempre nobile è l’intento di rigenerare la patria; ma quanto è facile
il credere che i nomi grandi suppliscano alle grandi cose, e lo
scambiare le memorie per speranze! Il popolo romano poi, le cui idee
sono, come l’orizzonte della sua città, circoscritte fra i sette colli,
dà orecchio volenteroso a chi gli rammemora le grandezze di quelli che
considera come suoi avi. I letterati, che allora tornavano leggere
in Livio e Sallustio, dilettavansi di riudire gli antichi nomi; e
Cola salì in credito come chiunque offre uno specifico in gravissima
malattia: poi, côlta un’occasione che i baroni erano fuori, invitò
il popolo ad un’adunanza (1347), ove parlerebbe loro del passato e
del presente, de’ mali e de’ rimedj. Era uno spettacolo, e perciò fu
graditissimo. Cola veglia la notte in chiesa orando; poi sentito tre
messe, armato tutto fuorchè la testa, sale al Campidoglio, tra giovani
infervorati e tra una pompa di bandiere, pennoni, emblemi, e tutto
quel chiassoso tripudio che in niun luogo si sa fare quanto a Roma.
Dalla gradinata donde vedeva i luoghi delle arringhe di Cicerone e dei
trionfi degli Scipj e de’ Cesari, non ragiona come deve un riformatore,
ma declama come sogliono i demagoghi; e preso alla solita illusione
che l’idolo della plebe riuscirebbe a reprimerla e ordinarla, legge
una riforma del _buono stato_, assicurando agli altri e forse egli
stesso persuadendosi che il papa (il cui vicario stavagli a fianco) gli
saprebbe grado di sottrar Roma sua dalla tirannide de’ baroni.

I regolamenti di Cola consistevano in garantire i cittadini contro le
trapotenze della nobiltà, ordinare milizie urbane in Roma e vascelli
sulle coste, assicurare ponti e vie, abbattere le rôcche e gli steccati
da cui i baroni minacciavano; giustizia pronta e vita per vita, granaj
pel povero, pubblici soccorsi per le vedove e gli orfani, massime di
quelli morti combattendo. Invitò ciascun Comune a spedire due sindaci a
un generale parlamento; primo esempio d’un’assemblea rappresentativa:
sicchè con questo e colla federazione italiana ch’e’ proponeva sotto
al senato romano, «il quale non avea perduto se non per forza l’antica
supremazia di fare e interpretar leggi», un’êra nuova potevasi aprire
all’Italia, posta un’altra volta a capo dell’Europa.

Queste ultime finezze non le intendeva il popolo, bensì la sicurezza,
il buon mercato, i sussidj, il ritorno del papa; sicchè in concordia
esultante diede a Cola l’incarico (maggio) di attuare quella
costituzione col titolo di tribuno, e gli offerse braccia per ridurre
ad effetto i consigli. Ed esso s’impadronisce delle porte, intima agli
armati d’uscire, e fa impiccare alcuni masnadieri côlti in città.

I Colonna ci si presentano con qualcosa della grandezza de’ patrizj
di Roma antica. Vedemmo la persecuzione che contro di loro esercitò
Bonifazio VIII, nella quale Stefano, côlto dai satelliti e sdegnando
il simulare, rispose: — Sono cittadino romano»; della qual fermezza
colpiti, essi il lasciarono libero. Perduta Palestrina e tutti gli
altri castelli, a chi gli domandava qual fortezza ancor gli restasse,
rispose — Questa» toccando il cuore. I papi succeduti restituirono
possessi e dignità a quella casa, che parteggiò con Enrico VII,
avversò Lodovico Bavaro, dopo la cui partenza Stefano prevalse
agli emuli Orsini; la quale vittoria cantò il Petrarca, protetto da
questa famiglia, che egli non rifiniva di lodare. Giovanni, cardinale
munificentissimo, era l’anima della corte d’Avignone. Jacopo osò in
Roma presentarsi con un pugno di risoluti, ed affiggere la scomunica
contro il Bavaro mentre questo vi stava; poi rifuggito ad Avignone, fu
fatto vescovo di Lombez. Agapito, e dopo lui Giordano, furono vescovi
di Luni, Pietro canonico lateranense, Enrico famoso battagliero.

Contro di questi or sorgeva Cola di Rienzo; e il vecchio Stefano, il
quale non sapeva indursi a temere del lepido ciucciaro, dell’imbelle
erudito, alle prime stracciò l’intimazione mandatagli d’andarsene di
città; ma poi che Cola a suon di martello raccoglieva le compagnie del
popolo, n’ebbe assai a potere trafugarsi con un unico servo nella sua
Palestrina. Il barone primario di Roma! pensate quanto ne rimasero
sgomenti gli altri, che se n’andarono, abbandonando i loro bravacci
alla giustizia pronta, inesorabile.

Gli Orsini, altra famiglia antichissima, che diede cinque papi, trenta
cardinali, senza numero senatori e capitani, erano stati principalmente
cresciuti da Nicola III, e si suddivisero in molti rami, illustri poi a
Napoli, in Francia, in Germania. Giordano di Montegiordano e Nicola di
Castel Sant’Angelo, per odio ai Colonna, fiancheggiavano il tribuno; lo
avversavano Rinaldo e Giordano signori di Marino, Bertoldo signore di
Vicovaro.

Ridotta a quiete la città, Cola mandò uscieri alle insolite rôcche dei
Colonna, degli Orsini, dei Savelli, citandoli a comparire e giurar
la pace; e molti sul Vangelo promisero non molestar le vie, non
nuocere al popolo o al tribuno, non ricettare malfattori, e ad ogni
richiesta presentarsi colle armi al Campidoglio. Altrettanto dovettero
giurare i gentiluomini, i giudici, i notaj, gli artigiani. Giovanni
da Vico, signore di Viterbo e prefetto di Roma, fu pur costretto
venire ad invocar la grazia di Cola; al quale di voglia o per forza si
sottomisero le altre fortezze ond’era seminato il Patrimonio.

Gongolava il buon popolo romano di vedere applicata a tutti la
giustizia e il taglione, quantunque arbitrariamente; i corrieri che il
tribuno spediva, riferivangli: — Abbiamo portato questa verga per città
e foreste; migliaja d’uomini si posero a ginocchio e la baciarono con
lacrime, riconoscenti della sicurezza restituita alle strade, e della
dispersione degli assassini». I Cristiani, che d’ogni parte d’Europa
accorrevano alle soglie degli Apostoli, meravigliavano dell’inusata
sicurezza, e reduci in patria, magnificavano la robustezza del tribuno.

La Corte d’Avignone erasi impaurita al vedere estendersi quel moto; ma
Cola, «severo e clemente, di libertà, di pace, di giustizia tribuno,
della romana repubblica liberatore illustre», le spacciò lettere
dove prometteva fedeltà alla santa Sede. Altre ne spedì ai potentati
di Francia, di Germania e per tutta Italia; e ai Fiorentini diceva:
— Fu dono dello Spirito Santo l’avere avuto misericordia di questa
città, sovvertita da malvagi e crudeli reggitori, anzi distruttori,
sicchè ne era compressa la giustizia, espulsa la pace, prostrata la
libertà, tolta la sicurezza, condannata la carità, oppressa la verità,
profanate la misericordia e la devozione; onde non solo gli estranei,
ma nè tampoco i cittadini e i provinciali poteano venirvi e starvi in
sicurezza, ma dentro e fuori nimicizie, sedizioni, guerre, micidj,
rube, incendj. Voi dunque rendete grazie al Salvatore e ai santi
Apostoli, e unitevi con noi per esterminare la tirannia de’ ribelli e
la peste dei tiranni, e riformare la libertà, la pace, la giustizia
in tutta la sacra Italia. Vi preghiamo pure a mandare due sindaci e
ambasciadori al parlamento che intendiamo celebrare per salute e pace
di tutta Italia; e un giurisperito, che terremo con stipendio nel
nostro concistoro».

Del tentativo parve bene a quei molti che pasceansi di rimembranze più
che d’opportunità: il Petrarca prese entusiasmo per Cola; ma mentre
nella canzone direttagli è tanto sublime quanto sobrio[377], nella
lettera al tribuno tesse una prolissa filatera, tutta fiori retorici
(come quegli la lodava) e luoghi comuni ed esempj di antichi: — La
magnifica tua soscrizione annunzia il ristabilimento della libertà; il
che mi consola, mi ricrea, m’incanta..... Le tue lettere corrono per le
mani di tutti i prelati, voglionsi leggere, copiare; par che discendano
dal cielo o vengano dagli antipodi; appena arriva il corriere, il
popolo fa ressa per leggerle, nè mai gli oracoli d’Apollo delfico
ebbero tanto diverse interpretazioni. Quel tuo tentativo è sì mirabile,
da porti in salvo da ogni rimprovero, e mostrare la grandezza del tuo
coraggio e la maestà del popolo romano, senza offendere il rispetto
debito al sommo pontefice. E da uomo savio ed eloquente come tu sei
il conciliar cose in apparenza cozzanti..... Nulla che indichi basso
timore o folle presunzione..... Non si sa se più ammirare le azioni tue
o il tuo stile; e dicono che operi come Bruto, parli come Cicerone...
Non lasciare la magnanima tua impresa..... Fondamenta eccellenti
ponesti, la verità, la pace, la giustizia, la libertà... Com’io mi
verso contro chiunque osa mettere dubbj sulla giustizia del tribunato
e la sincerità delle tue intenzioni!... A te, unico vindice della
libertà, penso la notte, a te il giorno, vegliando e dormendo». Ma fra
tante parole non sa dargli altri consigli se non questi: «di ricevere
l’eucaristia ogni mattina, prima di mettersi agli affari, lo che sa che
egli pratica di già, e l’avrebbero certamente praticato Camillo e Bruto
se ai loro tempi ne fosse stato l’uso; e di leggere tutte le volte che
può, o farsi leggere, come praticava anche Augusto».

Questa lettera e i versi fecero, sulla parola del Petrarca, ammirare
Cola dal mondo letterato; molte città gli si sottoposero, altre
il sostennero; Firenze, Siena, Perugia mandarongli forze, le città
dell’Umbria deputati, Gaeta diecimila fiorini d’oro; Venezia e Luchino
Visconti se gli chiarirono alleati, Giovanna di Napoli onorò i suoi
messi, l’imperatore Lodovico non meno: pur non mancavano città che
il trattassero da mentecatto, e i Pepoli, gli Estensi, gli Scaligeri,
i Gonzaga, i Carrara, gli Ordelaffi, i Malatesta ne faceano canzoni;
tanto più il re di Francia.

Parve egli giustificare questi ultimi mostrando più vanità nella
testa che vigore nel carattere, col fare seguire ambiziose scede a
que’ cominciamenti così leali. Volle circondarsi di fasto, forse per
abbagliare il popolo; vivea di costosissime splendidezze; «faceva stare
dinanti a sè, mentre sedeva, li baroni tutti in piedi, ritti, colle
braccia piegate, e colli cappucci tratti. Deh come stavano paurosi!
Aveva moglie molto giovane e bella, la quale quando iva a San Pietro,
iva accompagnata da giovani armati; delle patrizie la seguitavano; le
fantesche colli soliti pannicelli nanti al viso le facevano vento, e
industriosamente rostavano, chè sua faccia non fosse offesa da mosche.
Aveva un suo zio, Janni avea nome, barbiere fu, e fatto fu grande
signore, e iva a cavallo, forte accompagnato da cittadini romani. Tutti
li suoi parenti ivano a paro». Pensò anche farsi ornare cavaliere
con una solennità che mai la maggiore[378]; assunse la dalmatica,
usata dagli antichi imperatori alla loro coronazione; e col bastone
del comando e con sette corone in capo, simbolo delle sette virtù,
brandendo la spada verso le quattro plaghe del cielo, intonava: — Io
giudicherò la terra secondo la giustizia, e i popoli secondo l’equità».

In virtù di questo dominio che pretendeva sul mondo, citò Luigi
d’Ungheria e Giovanna di Napoli, Lodovico imperatore e Carlo anticesare
perchè producessero al suo tribunale i titoli di loro elezione, «la
quale, come sta scritto, non appartiene che al popolo romano»; intimò
al papa di tornare alla sua sede; elevandosi all’idea dell’unità
nazionale, dichiarò libere tutte le città d’Italia, alle quali,
«volendo imitare la benignità e libertà de’ Romani antichi», concesse
la cittadinanza e il diritto di eleggere gl’imperatori; e insisteva
perchè gli Stati Italiani, il papa, l’imperatore mandassero legati
a Roma onde convenire della pace e del bene di tutta Europa[379].
Come avviene a cotesti rifatti, cui l’altezza dà le vertigini, cercò
parentele illustri; e non che allearsi con qualche barone, non curò
disonorare sua madre pretendendo essere bastardo di Enrico VII[380].

Clemente VI, che da principio l’avea intitolato rettore pontifizio,
s’irritò del vederlo trasmodare in poteri e pretensioni; il vicario
pontifizio, che sin allora lo aveva secondato, protestò contro
quell’intimata al papa e ai principi; l’opinione, che non vuol durevoli
i suoi idoli, toglieva a rinnegarlo; ed esagerando nella contraddizione
come già nell’applauso, gli si rinfacciavano le disordinate spese, di
cui dicevansi conseguenza le tasse che ogni governo nuovo è obbligato
rincarire. Ad un banchetto ch’e’ diede alla primaria nobiltà, si pose
in disputa se meglio valga ad un popolo il governo di un avaro o d’un
prodigo; e Stefano Colonna, rialzando il lembo dorato e gioiellato
della vesta del tribuno, — Ben a te starebbero meglio i modesti abiti
de’ pari tuoi, che non coteste magnificenze». Cola irritato ordinò
fossero presi tutti i nobili convitati, e dando voce d’una congiura,
li condannò al taglio della testa. A ciascuno fu mandato il frate per
disporlo; ma convocato il popolo, il tribuno cominciò una diceria sul
_Dimitte nobis debita nostra_, e invocò che esso popolo gli assolvesse.
I detenuti si presentarono un dietro l’altro a capo chino implorando
grazia (1347), e Cola li pose in prefetture e in altre cariche nella
Campania e in Toscana.

Irritare e non uccidere, mezza misura che perde i tiranni. I baroni,
non anelando che vendetta, s’afforzano nelle rôcche, raggomitolano gli
scontenti, e portano guerra ai contorni, e guasto alle raccolte vicine
alla falce. Il buon letterato, il pacifico tribuno, indarno citatili a
scagionarsi in giudizio, si vide costretto prendere le armi; accadde
sanguinosa battaglia (20 9bre), ove il popolo prevalse ai guerrieri;
combattendo perirono il vecchio Colonna col figlio Giovanni e alcuni
nipoti ed altri signori; sul campo il tribuno armò cavaliere il proprio
figlio, aspergendolo col sangue di que’ grandi; e invece di proseguire
l’inaspettata vittoria, andò a trionfare in Campidoglio, e in Araceli
asciugando la propria spada, le disse: — Hai mozzato orecchia di tal
capo, che non la potè tagliare papa nè imperatore».

Ma al popolo che giovavano più questi trionfi? Il tribuno trovavasi
assottigliato del denaro e della rendita; i mezzi di procurarsene
inasprivano; onde il cardinale legato Berferudo di Deux, ripreso
ardire, sentenziò Cola traditore ed eretico, e s’accordò coi baroni
per affamare Roma. Coi discorsi e colla campana a stormo tentò
Cola ravvivare l’entusiasmo popolesco; ma non gli bastò coraggio da
sostenere la pena maggiore, quella dell’abbandono; pregò, pianse,
tremò, infine abdicò il potere (16 xbre), e si chiuse in Castel
Sant’Angelo coi parenti e coi pochi fedeli, sinchè trovò via a fuggire.
Rimbalditi i suoi avversarj e quei che tremavano dell’esserglisi
mostrati amici, lo appiccarono in effigie, e distrussero in un fiato
quanto in sette mesi aveva faticosamente compiuto.

Il tribuno, errante ma non malvagio, vissuto alcuni anni fra gli
eremiti francescani di Monte Majella negli Appennini, ove serpeggiavano
gli errori dei Fraticelli, specie di Puritani che declamavano contro
all’autorità e al fasto dei pontefici, nell’entusiasmo della solitudine
si credette chiamato a cooperare ad una riforma universale del mondo,
che Dio stava per compire: frà Angelo lo preconizzò come destinato a
grandi cose, e ad effettuare quel regno dell’amore, di cui i Fraticelli
aspettavano la venuta. Per avacciare l’opera si presentò all’imperatore
Carlo IV, dicendo avergli a confidare gravi segreti, incoraggiarlo a
liberare l’Italia, e fornirlo d’armi, senza cui la giustizia non vale;
presto un papa povero fabbricherebbe a Roma il tempio dello Spirito
Santo, fra quindici anni il mondo si troverebbe unito in uno stesso
ovile sotto un sol pastore, e Carlo impererebbe sull’Occidente, Cola
sull’Oriente. Carlo, che avea le pretensioni non la generosità di suo
padre, vilmente il fece prendere, e tradurre ad Avignone (1352).

Sarebbe stato condannato se alcuno non avesse suggerito ch’egli era
poeta, e il poeta è cosa sacra, a detta di Cicerone, e perciò non si
deve mandare a morte. — Io esulto (scrive Petrarca) che uomini ignari
delle muse concedano ad esse il privilegio di salvare di morte un uomo,
odiato dai suoi giudici. Che cosa avrebbero elle potuto ottenere di più
sotto Augusto nel tempo in cui ad esse si tributavano sommi onori, ed i
poeti accorrevano da ogni banda per vedere quel principe unico, signore
dei re ed amico dei vati? Io mi congratulo colle muse e col Renzi: ma
se tu mi domandi quel che penso, ti dirò che Renzi è buon dicitore,
dolce, insinuante, che si trovano pochi pensieri ne’ suoi componimenti,
ma molta amenità ed un assai vago colore: credo abbia letto tutti i
poeti, ma di poeta non merita il nome, più che non merita il nome di
ricamatore chi porta abito ricamato. Pure tu, come me, ti gonfierai
di bile al sapere che un uomo è in pericolo per aver voluto salvare la
repubblica, e sorriderai udendo che il nome di poeta salvò lui, che non
ha giammai composto un verso»[381].

È ancora la solita retorica; ma intanto voi intendete che il Petrarca,
dopo udito che Cola «non amava il popolo, ma la feccia del popolo
obbediva e secondava», dopo vistolo perseguitare i suoi Colonna, si
dolse che cadesse il proprio idolo, ma non fece come coloro che più
fieramente conculcano chi più ciecamente elevarono, nè si vergognò di
mostrarsi amico allo sventurato. — Amavo (dic’egli) il suo valore,
approvavo i disegni suoi, ammiravo il suo coraggio; mi congratulavo
coll’Italia che Roma ripigliasse l’impero d’altre volte, e ne prevedevo
la pace del mondo. Nè d’averlo lodato mi pento. Così avess’egli
proseguito come cominciato!... Quest’uomo, che faceva tremare i ribaldi
per tutto l’universo, che di bellissime speranze rallegrava i dabbene,
entrò in questa Corte umiliato e vilipeso; egli una volta cinto dal
popolo romano e da cospicui signori, procedea fra due satelliti; e il
popolaccio accorreva per rimirare costui di cui tanto avea inteso. È
il re dei Romani che lo manda al pontefice di Roma; qual dono! qual
baratto! Il pontefice affidò la causa di lui a tre insigni prelati, per
deliberare qual supplizio meriti colui che volle libera la repubblica.
O tempi! o costumi! Non sarebbe mai punito soverchiamente del non
aver proseguito con fermezza; non annichilato in un colpo solo, come
poteva, tutti i nemici della libertà; non afferrato un’occasione che
la pari a nessun imperatore si era presentata. Strano accecamento! si
faceva appellare severo e clemente quando la repubblica avea bisogno
di severità, non di clemenza. O se voleva essere clemente verso
que’ pubblici parricidi, non dovea privarli dei mezzi di nuocere, e
cacciarli dalle fortezze da cui traggono tanto orgoglio? Sperai ch’egli
risarcirebbe la libertà dell’Italia; dacchè entrò in un sì bel disegno,
lo riverii ed ammirai s’altro mai: quanto più mi arrise la speranza,
tanto più m’affligge il vedermi deluso; pure non cesserò di ammirare il
cominciamento. Ma che un cittadino romano si affligga nel vedere la sua
patria, da regina del mondo, divenuta schiava degli uomini più vili, è
titolo di accusa?»[382].

E ai Romani scriveva: — Se in luogo sicuro, davanti equo giudice,
si dibattesse l’affare, io spererei chiarire che l’impero romano,
benchè conculcato ed oppresso lungamente dalla fortuna, ed invaso
da stranieri, esiste ancora in Roma e non altrove; e quivi starà,
quand’anche di tanta metropoli non rimanesse che il nudo sasso del
Campidoglio, se è una verità che il possessore di mala fede non
può acquistare il diritto di prescrizione. Dunque, o cittadini, non
abbandonate il vostro compatrioto in estremo pericolo, mostrate che
egli è vostro, ridomandandolo con solenne ambasciata: che se in qualche
cosa peccò, peccò in Roma; e a voi soli appartiene il giudizio delle
colpe commesse in Roma, se a voi fondatori e cultori delle leggi, che
le dettaste a tutte le genti, non si negano i comuni diritti. Che se
il vostro tribuno, come i buoni son d’avviso, è degno non di supplizio
ma di premio, ove più acconciamente lo riceverà che nel luogo in cui
lo meritò?... Recate l’ajuto che potete e che dovete al tribuno, o (se
svanì questo nome) al vostro cittadino, benemerito della repubblica per
avere risuscitata quella quistione grande, utile all’universo, sepolta
molti secoli, che è l’unica che conduca alla riforma dello Stato ed a
cominciare un secolo d’oro. Accorrete a salvezza di chi per la vostra
incontrò mille pericoli e si fe segno d’immensa invidia: pensate al
suo coraggio ed al suo intento, a che ne fossero le cose vostre, e come
all’improvviso, per consiglio ed opera di un solo, sia stata eretta a
grandi speranze, non che Roma, l’Italia tutta; quanto grande sonasse
in un subito il nome italiano; quanto diversa la faccia del mondo e
l’inclinazione degli animi. Io credo che appena dall’origine del mondo
in poi siasi tentata impresa più grande; e se essa fosse andata a
prospero riuscimento, piuttosto divina che umana sembrerebbe»[383].

L’intercessione del Petrarca valse perchè il tribuno, assolto dalla
scomunica, fosse lasciato vivere in pace.

Roma riprese freno di temperanza sotto al legato e a due senatori; e
la peste sopravvenuta, buon ausiliario agli oppressori, depresse gli
spiriti bollenti; vi attirò gente e denaro il giubileo (1350), che
il papa avea voluto rinnovare dopo cinquant’anni, affinchè ciascuno
nel corso d’una vita comune potesse goderne, promettendo indulgenze
plenarie anche a quelli che fossero morti per via, e comandando agli
angeli di portarli subito in paradiso[384]. Coloro che lo spettacolo
di tanti morti della peste avea richiamati a coscienza, o che nel
pericolo aveano fatto voti, accorreano alle soglie degli apostoli, nè
il rigidissimo verno li trattenne.

«Il dì di Natale (dice Matteo Villani, scrivendo quel che ne
vide) cominciò la santa indulgenza a tutti coloro che andarono in
pellegrinaggio a Roma, facendo le visitazioni ordinate per la santa
Chiesa alla basilica di Santo Pietro, e di San Giovanni Laterano, e
di Santo Paolo fuori di Roma; al quale perdono uomini e femmine d’ogni
stato e dignità concorse di Cristiani, con maravigliosa e incredibile
moltitudine, essendo di poco tempo innanzi stata la generale mortalità,
e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli Cristiani.
Con tanta devozione e umiltà seguivano il romeaggio, che con molta
pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era uno smisurato freddo,
e ghiacci e nevi e acquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte;
e i cammini pieni di dì e di notte; e gli alberghi e le case sopra
i cammini non erano sufficienti a tenere i cavalli e gli uomini al
coperto. Ma i Tedeschi e gli Ungheri, in gregge e a turme grandissime
stavano la notte a campo, stretti insieme per lo freddo, atandosi con
grandi fuochi. E per gli ostellani non si potea rispondere, non che a
dare il pane, il vino, la biada, ma a prendere i denari. E molte volte
avvenne che i romei, volendo seguire il loro cammino, lasciavano i
denari del loro scotto sopra le mense, loro viaggio seguendo: e non era
de’ viandanti chi li togliesse, infino che dello ostelliere venia chi
li togliesse. Nel cammino non si facea riotte nè romori, ma comportava
e ajutava l’un all’altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni
ladroni in terra di Roma a rubare e a uccidere, dai romei medesimi
erano morti e presi, ajutando a soccorrere l’uno l’altro. I paesani
faceano guardare i cammini, e spaventavano i ladroni; sicchè secondo
il fatto assai furono sicure le strade e cammini tutto quell’anno.
La moltitudine de’ Cristiani ch’andavano a Roma era impossibile a
numerare: ma si stima da coloro che erano residenti nella città, che
il dì di Natale e ne’ dì solenni appresso, e nella quaresima fino alla
Pasqua della santa resurrezione, al continovo fossono in Roma romei
dalle mille migliaja alle dodici centinaja di migliaja, e poi per
l’Ascensione e per la Pentecoste più di ottocento migliaja. Ma venendo
la state, cominciò a mancare la gente per l’occupazione delle ricolte,
e per lo disordinato caldo; ma non sì che, da quanto v’ebbe meno romei,
non vi fossono continovamente ogni dì più di dugento migliaja d’uomini
forestieri. Alla visitazione delle tre chiese, le vie erano sì piene
al continovo, che convenia a catuno seguitare la turba a piedi e a
cavallo, che poco si potea avanzare; e per tanto era più malagevole. I
romei ogni dì della visitazione offerivano a catuna chiesa, chi poco,
chi assai, come gli parea. Il santo sudario di Cristo si mostrava nella
chiesa di San Pietro, per consolazione de’ romei, ogni domenica e ogni
dì di festa solenne; sicchè la maggior parte de’ romei il poterono
vedere. La pressa v’era al continovo grande e indiscreta: perchè più
volte avvenne che quando due, quando quattro, quando sei, e talora fu
che dodici vi si trovarono morti dalla stretta e dallo scalpitamento
delle genti. I Romani tutti erano fatti albergatori, dando le sue case
a’ romei a cavallo; togliendo per cavallo il dì un tornese grosso,
e quando uno e mezzo, e talvolta due, secondo il tempo; avendosi a
comprare per la sua vita e del cavallo ogni cosa il romeo, fuori che
il cattivo letto. Sul fine dell’anno vi concorsono più signori e grandi
dame e orrevoli uomini, e femmine d’oltre ai monti e lontani paesi, ed
eziandio d’Italia; e nell’ultimo, acciocchè niuno che fosse a Roma e
non avesse tempo a potere fornire le visitazioni, rimanesse senza la
indulgenza de’ meriti della passione di Cristo, fu dispensato infino
all’ultimo dì, che catuno avesse pienamente la detta indulgenza».

Lo spossamento causato dalla peste, e la ricchezza prodotta dal
giubileo davano animo a Clemente VI di umiliare la rimbaldanzita
nobiltà. Bertoldo Orsini e Stefano Colonna, posti a reggere la città,
erano stati l’uno lapidato, l’altro vôlto in fuga dalla plebaglia, che
chiedeva pane: poi la guerra tra le parti erasi rinfocata; sorsero
tiranni nobili e tiranni vulgari, finchè, valendosi de’ concetti
non riusciti a Cola Rienzi, erasi messo secondo tribuno del popolo e
console augusto Francesco Baroncelli già scrivano del senato, che molti
sediziosi mandò al supplizio, e che ben tosto da un’altra sedizione
fu trucidato. Allora comparve il cardinale Egidio Albornoz (1353)
nobilissimo spagnuolo, che come arcivescovo di Toledo guerreggiando
i Mori nella famosa battaglia del Rio Salado, avea guadagnato gli
sproni d’oro, e adesso dal papa era mandato a sottomettere la Romagna,
«spegner l’eresia, reprimere la licenza, restaurare l’onore del
sacerdozio, rialzare la maestà del culto divino, chetare la discordia,
porgere soccorso agl’infelici, procurare la salute delle anime, disfare
le alleanze ordite contro la Chiesa romana, obbligare gli usurpatori
a rendere il mal tolto, e rintegrarne l’autorità colla pace o colla
guerra». Tanti erano i mali da riparare, tanta la confidenza del papa
nel suo legato. Più che la scarsa masnada e il denaro, lo rendevano
potente la dignità, il merito personale, lo scontento dei popoli, ai
quali veniva a restituire il buono stato, abbattendo gli Ordelaffi, i
Manfredi e gli altri tirannelli, contro cui Clemente VI prima di morire
avea lanciato la scomunica. Egli costrinse il prefetto Giovanni di Vico
a cedere le città di Viterbo, Orvieto, Trani, Amelia, Narni, Marta,
Camino, che aveva occupate, e ne trasse in sè la signoria.

Il popolo allora (1354) lo pregò volesse dargli per rettore Cola Rienzi
che seco era venuto, ed egli in fatto lo istituì senatore, perchè
colla sua popolarità ravviasse qualche ordine; e Cola, trovato chi
gli prestasse, comprò una banda di ducencinquanta cavalieri e ducento
fanti Al solito, fu ricevuto con tanto entusiasmo, con quanto sprezzo
era stato espulso; i nobili, che lo esecravano, si tennero chiotti,
ed egli diede un terribile esempio col cogliere e processare il famoso
capo di ventura (29 agosto) frà Moriale. Costui da molti anni desolava
l’Italia colla sua banda; e temuto dai popoli, rispettato dai principi,
non avrebbe mai creduto che un villano osasse cercare al castigo e
all’infamia lui cavaliero, e che gli avea prestato grosse somme. Come
conobbe apparecchiarsegli da senno il supplizio, pregò, minacciò,
esibì; tutto invano; sicchè contrito, e con tutte le esteriorità
di penitente andò alla morte, baciando il ceppo fatale, e dicendo:
— Salve, o santa giustizia». Il papa fece sequestrare sessantamila
fiorini che costui avea messi a frutto presso mercadanti veneziani, e
invece di renderli ai popoli cui gli avea smunti, li versò nel tesoro
pontifizio[385].

Cola fu da Innocenzo VI riconosciuto nobile cavaliero; e se avesse
profittato della stanchezza de’ Romani, poteva ottenere la gloria ch’è
la più bella dopo una rivoluzione, quella di restauratore. Ma egli
erasi buttato al mangiare e bevere eccessivo; il terrore che ispirava,
lo credette sommessione; dacchè poi esercitava la potenza a nome del
papa, cessava di essere il balocco del popolo. Condusse le truppe ad
assediare Palestrina, dov’erasi afforzato il giovane Colonna, ma fu
costretto distogliersene per manco di denari. Per farne, mise imposte
sul sale e sul vino, le quali colmarono lo scontento de’ Romani, che
sollevatisi e gridando: — Mora il traditore che ha fatto la gabella»,
l’assalirono in palazzo. Non credendo gli minacciassero la vita,
egli aspettò quella sfuriata in abito senatorio e col gonfalone del
popolo in mano; e chiese di parlare: ma preso a sassi e fuoco, cercò
trafugarsi, e scoperto (1354 8bre) fu trucidato e appeso alle forche.
Così il popolo spezza i proprj idoli: eppure l’altezza del concetto
e una certa generosità nell’attuarlo sceverano Cola dai sommovitori
ordinarj, e lo lasciano anc’oggi tema di studj, di meditazioni, di
simpatie.

Il cardinale Albornoz e Rodolfo di Varano signore di Camerino,
comandante all’esercito pontifizio, rimisero il freno a Roma; indi
colla dolcezza e colla forza continuarono a sottomettere il patrimonio
di san Pietro, il ducato di Spoleto, la marca d’Ancona e l’altre
piccole città, in ciascuna delle quali avea fatto nido un tiranno.



CAPITOLO CXI.

Carlo IV. Il cardinale Albornoz. I condottieri italiani. Le arme da
fuoco.


I reali di Napoli stavano occupati nella guerra intestina, della
quale vedremo appresso la causa e le vicende; il papa trescava in
Avignone; l’alito repubblicano s’andava spegnendo, sicchè i tirannelli
prevalevano in ogni parte. Fra essi maggioreggiava Giovanni Visconti.
Oltre Milano di cui era arcivescovo, quindici grosse città possedeva:
Lodi, Piacenza, Borgo San Donnino, Parma, Crema, Brescia, Bergamo,
Novara, Como, Vercelli, Alba, Alessandria, Tortona, Pontremoli, Asti;
e lasciando alla cheta svampar l’amore della comunale indipendenza e
l’ira delle fazioni, a cose maggiori aspirava.

Taddeo de’ Pepoli, bell’uomo, dottore e cavaliere aurato, umano di
costumi, sereno d’aspetto, studioso e degli studiosi amico, liberale
e caritatevole, sollecito per gli amici, erasi fatto gridare signor
di Bologna (1337); le schede di tutte le corporazioni lo confermarono;
il letterato Ferino Gallucci predicò sulla felicità di una repubblica
governata da un capo. Colla libertà terminava la grandezza di Bologna,
che languì sotto dominj l’uno più stupefacente dell’altro.

I figli di Taddeo secondavano Ettore Duraforte, il quale, col titolo
di conte, era stato deputato dal papa a sottomettere i signorotti di
Romagna, e v’adoprava le bande mercenarie e tradimenti. Ma avendo
arrestato Giovanni Pepoli, Giacomo, costui fratello, prese le armi
(1350), e vedendo non potere altrimenti salvar la città, la vendette a
Giovanni Visconti. Il popolo gridava: — Noi non volemo esser venduti»;
Clemente VI facea mostra di accingersi a ripigliarla: ma le sue bande
passavano a servizio del Visconti, che le retribuiva più lautamente.
Ricorso ad altre armi, Clemente processò d’eresia costui, intimando
rilasciasse Bologna, e scegliesse fra il potere temporale e lo
spirituale. Il Visconti fece assistere i legati alla messa, che celebrò
colla magnificenza di quel capo di rito; e voltandosi a dare la finale
benedizione col pastorale in una, la spada nell’altra mano, disse a
quelli: — Riferite al papa che colla spada difenderò il pastorale».
E poichè questo insisteva a citarlo in Avignone, vi mandò forieri che
accaparrassero abitazioni, e magazzini di fieno e grano per dodicimila
cavalieri e seimila fanti: di che sgomentato, il papa gli fece
intendere bastargli la buona volontà mostrata; e per raccomandazione
e denaro lo ricomunicò (1352 — 5 maggio), e lasciogli per dodici anni
Bologna, purchè retribuisse dodicimila fiorini l’anno.

Vi fu posto governatore Giovan d’Oleggio, cherichetto del duomo
di Milano, che i Visconti aveano allevato con tanta benevolenza da
dargli il proprio nome; e accortissimo politico non men che provveduto
capitano, di là menava guerra e intrighi. Lo sorreggevano i signorotti
di Romagna, che avendo armi proprie e sapendo esercitarle, se ne
valevano sì per proprio conto, sì per guadagnare al soldo altrui;
e affine di sottrarsi all’autorità più vicina, attaccavansi al
Visconti. Firenze perseverava a sostenere la libertà pericolante, sia
prima coll’incorare Bologna, sia ora coll’opporsi al Biscione, che
cercava avvolgerla nelle sue spire. Giovan d’Oleggio invase le valli
dell’Ombrone e del Bisentino, e favorito dagli Ubaldini di Mugello, dai
Pazzi del Valdarno, dagli Albertini di Valdambra, dai Tarlati d’Arezzo,
rialzava dappertutto la bandiera ghibellina, tanto più da che i reali
di Napoli avean altro a fare che contrastarlo. Però Siena, Perugia,
Arezzo s’accomunarono con Firenze in una lega guelfa che resistette
generosamente a Giovanni, finchè a Sarzana (1353) fu conchiusa
pace[386].

Non meno che le repubbliche, i signori ingelosivano dell’incremento dei
Visconti; e quei di Mantova, Ferrara, Verona, Padova, a sollecitazione
della signoria di Venezia, fermarono alleanza per reprimerli, e
chiesero appoggio all’imperatore Carlo IV. Fingendo prendere a cuore
le sorti d’Italia, ma in fatto perchè ricordava che si potea smungerne
danaro, diede egli ascolto ai nemici di casa Visconti e ai Fiorentini
che lo invitavano; e col consenso di papa Innocenzo VI, al quale avea
promesso cassare tutti gli atti di Lodovico il Bavaro, passò le Alpi
con alquanti baroni (1354 — 8bre), de’ cui obblighi feudali il più
ilare appunto era questa pomposa comparsa in Italia. Ma quali rimasero
e amici speranti e nemici paurosi quando il videro giungere a Udine
con nulla più che trecento cavalieri, e «traversar l’Italia sopra un
ronzino fra gente disarmata, quasi un mercante cui preme d’arrivare
alla fiera!» (M. VILLANI).

Strani imperatori codesti! venivano con forza? erano odiati; senza?
disprezzati. Pure a questo porporato fantoccio i letterati prodigavano
latine adulazioni, i giuristi rammemoravano i diritti imperatorj,
Ghibellini e tiranni volontieri faceano capo a lui, invocandolo giudice
ne’ litigi. Mentre ambasciadori di tutti i paesi sciorinavangli
erudite dicerie, sua maestà baloccavasi a sbucciare col temperino
virgulti di salice: mal dissimulò la paura quando i Visconti faceano
due o tre volte il giorno sfilare seimila cavalli e diecimila pedoni
in armi e ben in arnese davanti al palazzo ove l’aveano accolto ad
onoranza. S’intromise di qualche pace: a Giovanni Paleologo marchese di
Monferrato confermò la signoria di Torino, Susa, Alessandria, Ivrea,
Trino, e d’oltre cento castelli, e il titolo di vicario imperiale:
quanto ai diritti, egli non istava a guardare per minuto; chè questi,
e il titolo regio e l’imperiale gli piacevano soltanto per avere alcuna
cosa da poter farne denari onde abbellire la sua Praga.

A Lucca era stato governatore al tempo di suo padre, e v’avea
fabbricato la bellissima fortezza di Monte Carlo, che chiude il
territorio verso val di Nievole, fronteggiando i Fiorentini (1355).
Ora i Lucchesi sperarono essere da lui rimessi in libertà; ma egli già
s’era obbligato con Pisa, che gli avea esibito sessantamila fiorini
per le spese di sua coronazione. Venuto a questa città, straziata
fra Bergolini e Raspanti, e gridatone sovrano, per sospetto manda
al supplizio la casa Gambacurti, che per lui s’era sagrificata: ma
poco poi essendosene pentiti i Pisani, egli rinunzia alla sovranità.
Altrettanto gli avviene di Siena, la cui oligarchia artigiana v’era
stata indotta, come l’altra, dal timore di Firenze.

E Firenze, che dapprima l’avea chiamato, si sgomentò vedendolo
farsi capo della nobiltà avversa alle istituzioni cittadine (1355),
e lusingare il basso popolo col promettere giustizia. I partigiani
dell’imperatore asserivano che i governi municipali s’intendessero
costituiti soltanto in sua assenza, e al comparire di lui cessasse
ogni autorità, ogni restrizione, come avveniva (diceano) degli antichi
imperatori romani. I Guelfi di rimpatto frugavano nell’erudizione la
libertà, mostrando che Augusto e Tiberio s’erano mantenuti subordinati
al senato e al popolo; mentre tutte le genti erano ad essi tributarie,
_essi ai cittadini obbedivano_, la cui autorità li creava. I Comuni
toscani, ammessi fra i primi alla romana cittadinanza, traevano di
là il diritto a godere della libertà del popolo romano, in nessun
modo sottoposta alla libertà dell’impero; e questo popolo medesimo,
non da sè, ma la Chiesa per lui, in sussidio de’ fedeli cristiani
concedette l’elezione degl’imperatori a sette principi d’Alemagna[387]:
e consideravano come peccato il sottomettersi agli imperatori. Pure
Firenze credette che poco nocesse il riconoscere la supremazia d’un
principe che presto se n’andrebbe, e col denaro risparmiarsi una
guerra; laonde giurò vassallaggio a Carlo, purchè egli la assolvesse
da tutte le condanne lanciatele da Enrico VII, confermasse le leggi e
gli statuti fatti e da farsi; i membri della Signoria fossero vicarj
dell’imperatore, e in nome di lui esercitassero la giurisdizione;
egli non mettesse piede nè in Firenze nè in altra città murata, ma
s’accontentasse di centomila fiorini per riscatto delle regalie, poi
di quattromila annui, finchè vivesse. I Guelfi (Matteo Villani ce
l’esprime) trovavano obbrobriosa questa soggezione, sebben nominale;
il popolo la sentì fra gemiti e singhiozzi; non s’interveniva alle
adunanze, non si sonavano campane, e ci volle tutta la erudizione de’
prudenti per mostrare che l’indipendenza della patria non era perduta.

Il Petrarca amava Carlo IV perchè in Avignone avea voluto vedere
madonna Laura, e per ammirazione baciarla, mostrato molta riverenza
al poeta stesso, e chiestogli la dedica del suo libro _Degli uomini
illustri_; esso gli regalò alquante medaglie d’oro e d’argento
d’imperatori, dicendogli: — Ecco a chi tu succedi; ecco i modelli
che devi seguire. Io conosco i costumi, i titoli, le imprese di
costoro; tu se’ obbligato non solo a conoscerle, ma a imitarle». Tutto
classiche reminiscenze, il Petrarca desiderava restaurata la dignità
d’Augusto e di Costantino, e avea scritto sollecitando Carlo: — Invano
all’impazienza mia tu opponi il cangiamento de’ tempi, e lo esageri
in lunghe frasi che mi fanno ammirare in te piuttosto l’ingegno di
scrittore, che l’animo d’imperatore. Possono forse i mali nostri
paragonarsi a quei degli antichi, quando Brenno e Pirro e Annibale
sperperavano Italia? Le piaghe mortali che nel bel corpo io veggo
dell’Italia, son colpa nostra e non natural cosa. Il mondo è ancora
lo stesso, lo stesso il sole, gli stessi gli elementi; soltanto il
coraggio diminuì. Ma tu sei eletto ad uffizio glorioso, a togliere le
disformità della repubblica, e rendere al mondo l’antica sua forma:
allora agli occhi miei sarai Cesare vero, vero imperatore».

Consigliandolo di porsi a capo degli uomini dabbene, gli dava per
esempio Cola di Rienzo. — Egli non era re nè console nè patrizio,
ma appena conosciuto per cittadino romano; e benchè non distinto da
titoli di antenati nè da virtù proprie, osò chiarirsi risarcitore
della pubblica libertà. Qual titolo più illustre? La Toscana subito
a lui si sottomise; Italia tutta seguì l’esempio; l’Europa, il mondo
intero si commosse: e già la giustizia, la buona fede, la sicurezza
erano tornate, già ricompariva l’età dell’oro. Aveva egli assunto il
titolo più infimo, quel di tribuno; col quale se tanto potè, che non
potrebbe il nome di Cesare?» E quando l’udì arrivato, non capiva in sè
dalla gioja, e — Che dirò? donde comincierò? Longanimità e pazienza
io desiderava nell’aspettanza mia: or comincio a desiderare di ben
comprendere tutta la mia felicità, di non essere inferiore a tanta
gioja. Più non sei tu il re di Boemia; il re del mondo sei, l’imperator
romano, il vero cesare. Tutto ritroverai disposto com’io t’assicurai,
il diadema, l’impero, gloria immortale, e la strada del cielo aperta.
Io mi glorifico, io trionfo d’averti colle parole mie animato. Noi ti
reputiamo italiano; nè importa dove sii nato, ma a quali imprese. E
non io solo verrò a riceverti nel calar dall’Alpi, ma meco infinita
turba, tutta Italia madre nostra, e Roma capo dell’Italia, ti si fanno
incontro cantando con Virgilio: _Venisti tandem, tuaque expectata
parenti Vicit iter durum pietas_»[388].

Or bene, questo re glorioso avea dovuto lasciare in pegno a Firenze
il proprio diadema, finchè i Senesi glielo riscattarono per mille
secentoventi fiorini: avea promesso al papa di non badarsi in Roma
più che una sola giornata; onde, essendovi giunto alquanto prima,
entrò incognito da pellegrino, tanto per visitarne i monumenti.
Splendidissima fu la solennità della coronazione, gareggiando di
sfarzo l’arcivescovo di Salisburgo, i duchi di Sassonia, d’Austria,
di Baviera, i marchesi di Moravia e Misnia, il conte di Gorizia ed
altri, calati coll’imperatore. Il quale, per nulla geloso d’abbassare
la dignità imperiale davanti alla pontifizia, addestrò il cavallo del
papa insieme con Giovanni Paleologo imperatore d’Oriente, venuto ad
abjurare lo scisma; servì da diacono alla messa, ebbe la corona, e il
dì medesimo uscì per andarsene. — Fugge senza che alcuno l’insegua
(esclamava il disingannato Petrarca); le delizie d’Italia gli fanno
ribrezzo; per giustificarsi dice aver giurato di non rimanere che una
giornata a Roma: oh giornata d’obbrobrio! oh giuramento deplorabile!
il papa, che rinunziò a Roma, non vuole tampoco che altri vi
s’indugi!»[389].

I signorotti e le truppe ch’erano venute con esso, si sbandarono da
che lo spettacolo fu terminato. A Pisa, di cui nominò cavaliere e
vicario Giovanni d’Agnello, volle fare una scelta, coronando il retore
fiorentino Zanobio Strada coll’alloro, che non valse a mantenergli la
gloria di poeta. Per via, a Siena, dove volea riformare il governo, è
assediato in palazzo, poi datigli ventimila fiorini perchè se ne vada:
dappertutto lo insultano, ed egli inghiotte; i Visconti gli chiudono
le porte in faccia, ed egli inghiotte; a Cremona è tenuto due ore fuor
delle mura mentre si esaminava la sua gente, di cui solo un terzo si
lasciò entrare e senz’armi; a Soncino altrettanto, e a Bergamo[390]; ed
egli inghiotte, consolandosi nel pensare ai tesori che riporta nella
sua Boemia. Così giunse bramato dai deboli, temuto dai forti, e partì
sprezzato da tutti, sempre più convincendo che queste calate imperiali
riuscivano di reciproca ruina.

Allora dalla corona germanica si staccarono e il contado Venesino,
venduto da Giovanna di Napoli ai papi, e il Delfinato, ceduto al re di
Francia, e la Provenza, che pur essa divenne provincia francese; poi,
per raccogliere i centomila fiorini che ciascun elettore pretendeva in
pagamento del dare a suo figlio Venceslao il voto per l’impero, egli
cedette dominj, città, diritti imperiali, sicchè ben si disse aver lui
rovinato la sua casa per ottenere l’impero, poi per ringrandire sua
casa rovinato l’impero, dove parve anche, colla sua predilezione per la
Boemia, volere far prevalere la stirpe slava alla tedesca.

Eppure forse nessun imperatore potè vantarsi d’avere goduto estesa
quanto lui la prerogativa imperiale. Condusse in Germania il celebre
Bàrtolo da Sassoferrato, «stella della giurisprudenza, maestro
della verità, lanterna del diritto, guida de’ ciechi», e gli conferì
l’allora nuovo, poi prodigato titolo di conte palatino[391], e da
lui fece compilare la Bolla d’oro (1356), costituzione dell’Impero,
dove venivano determinati i diritti sempre perplessi degli elettori,
rendendo stabili anche le grandi dignità secolari; e il modo d’eleggere
i re e coronarli ad Aquisgrana; oltre molte norme per la pace pubblica
e per le diete. Con ciò sodandosi le attribuzioni e il potere degli
elettori, restavano impiccioliti gli altri principi di Germania, e
stabilita la divisione di questo paese in varj Stati sovrani, nel tempo
che gli altri regni d’Europa stringevansi all’unità e all’ereditaria
successione; si escludevano i papi dal vicariato che negl’interregni
pretendevano, destinandolo al palatino del Reno e all’elettore di
Sassonia.

Più che non la discesa di Carlo giovò ai Fiorentini e ai Guelfi la
morte dell’arcivescovo Visconti. I nipoti Bernabò e Galeazzo II
succedutigli (1354) non cessarono d’ambire Firenze, ma ne furono
impediti dalle guerre che ripullulavano coi signori di Monferrato,
d’Este, della Scala, di Gonzaga, di Carrara. A Pavia tiranneggiavano
i Beccaria, signori delle terre e dei tredici colli sulla destra
del Ticino, ed ora si faceano vicarj de’ Visconti (1356), ora del
marchese di Monferrato. Rottasi guerra fra questi, Pavia si chiarì
pel marchese, onde fu dai Visconti assediata. E cadeva, se Jacopo
Bussolari, frate eremitano che vi predicava quella quaresima, e
d’uomini e donne erasi guadagnata la devozione, non avesse incorato a
difendere l’indipendenza, accagionando di tutti i mali le disoneste
portature femminili, la scostumatezza, l’egoismo de’ dominanti e
dei dominati. Ne pianse il popolo e si emendò; i signori dapprima ne
risero, poi s’ingrossirono, e dopo ch’egli ebbe guidato la gioventù
a respingere gli assediatori, essi fecero opera di torgli la fama e
la vita. Se ne rincalorì il valente frate, e persuadendo i Pavesi
a qualunque sagrifizio per sostenere la libertà, fece cacciare i
Beccaria, che allora unitisi ai Visconti, cavalcarono la città. A forze
tanto superiori non potendo questa resistere, il Bussolari capitolò,
stipulando il perdono ai cittadini e nulla per sè; onde, preso (1359
— 8bre), fu mandato a consumar nel _vade in pace_ d’un monastero di
Vercelli[392].

Ma altrove le fortune viscontee chinavano. Genova, che nelle traversie
avea fatto getto di sua libertà, nelle vittorie ne ripigliò l’amore,
e si sottrasse al Visconti, risarcendo il governo a comune e il doge
Boccanegra, che continuando a sottigliare la nobiltà, stette in dominio
fin agli ultimi suoi giorni (1356 — 15 9bre); e i Fieschi e loro amistà
dovettero acconciarsi al nuovo ordine di cose.

Il cardinale Albornoz avea proseguito la guerra in Romagna, più
agevolmente dopo ch’ebbe con lunga campagna sottomesso il prefetto
Giovanni da Vico. Mal provveduto a denaro dalla Corte d’Avignone, vi
suppliva coll’arte, coll’alternare rigore e clemenza, col guadagnarsi
i signorotti per mezzo di concessioni che davano una specie di
legittimità al loro dominio, e col sostenere i minori contro i grossi,
e secondare le rivalità e le vendette. Eccellente cooperazione,
massime contro i Malatesta, gli prestò Gentile da Mogliano signore di
Fermo, che poi gli si rivoltò. Giovanni Manfredi signore di Faenza,
Malatesta signore di Rimini, i Polenta di Ravenna, gli Ordelaffi di
Forlì conobbero tardi il bisogno d’unirsi nel comune pericolo (1354),
ma furono costretti a cedere un dopo l’uno, per lo più riservandosi di
governare a vita i paesi che aveano tiranneggiati.

Solo resisteva Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì,
Forlimpopoli, Cesena, Castrocaro, Bertinoro ed Imola; quando udì la
campana che annunziava la sua scomunica, fece sonare tutte le altre,
scomunicando egli a vicenda papa e cardinali; agli amici diceva:
— Non per questo ci sa men buono il pane e il vino»; e martorò
molti preti che vollero osservare l’interdetto. Insieme sollecitava
tutti i Ghibellini d’Italia, assoldò le bande del conte Guarnieri,
e dichiarossi disposto a difendere sin all’estremo una città dopo
l’altra. Affidò Cesena a sua moglie madonna Cia (1356), degli Ubaldini
signori di Susinana, «che si chiuse nella rôcca con Sinibaldo suo
giovane figliuolo, e con due piccoli nipoti, e con una fanciulla
grande da marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano, e
cinque damigelle. Ed essendo stretta d’assedio, e combattuta da otto
edificj che continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo
sentimento d’alcun soccorso, e sapendo che le mura della rôcca e
delle torri di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si
teneva, atando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa
durezza, Vanni suo padre andò al legato, e impetrò grazia di andar
a parlare colla figliuola, per farla arrendere con salvezza di lei
e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre e uomo di grande
autorità e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dèi credere
ch’io non sono venuto qui per ingannarti, nè per tradirti del tuo
onore. Io conosco e veggo che tu e la tua compagnia siete agli estremi
d’irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro che di
trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la rôcca al
legato. E sopra ciò le assegnò molte ragioni perchè ella il dovea fare,
mostrando ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe vergogna,
trovandosi in così fatto caso. La donna rispose: _Padre mio, quando
voi mi deste al mio signore, mi comandaste che sopra tutte le cose
io gli fossi ubbidiente: e così ho fatto in fino a qui, e intendo di
fare fino alla morte. Egli m’accomandò questa terra, e disse che per
niuna cagione io l’abbandonassi, o ne facessi alcuna cosa senza la sua
presenza, o d’alcun secreto segno che m’ha dato. La morte e ogni altra
cosa curo poco, ov’io obbedisca a’ suoi comandamenti_. L’autorità del
padre, le minaccie degli imminenti pericoli, nè altri manifesti esempj
di cotanto uomo poterono smovere la fermezza della donna; e preso
commiato dal padre, intese con sollecitudine a provvedere la difesa
e la guardia di quella rôcca che rimasa l’era a guardare, non senza
ammirazione del padre e di chi udì la fortezza virile dell’animo di
quella donna»[393].

Alfine essa fu costretta a capitolare (21 giugno); l’Ordelaffi stesso,
perduta ogni speranza nelle bande mercenarie, si rese a discrezione,
e fu assolto; e la Romagna, ove l’Albornoz non avea trovati soggetti
che Montefalco e Montefiascone, tutta rientrò nell’obbedienza del
pontefice. A ragione dunque il cardinale era ricevuto con sommi onori
dappertutto, massime ad Avignone, ove fu acclamato _padre della Chiesa_
in senso così diverso dall’antico.

Restava ancora Bologna sotto la verga di ferro di Giovanni d’Oleggio,
il quale, dopo che, a un suo ordine, vide affluire l’onda di cittadini
a consegnare le armi, prese tanta baldanza che li menò in campo con
soli bastoni, e colà distribuì loro le armi, che poi ritogliea dopo
la battaglia. In tempo di tante ambizioni riuscite, perchè egli
pure non avrebbe tentato sua ventura? Ribellatosi a’ Visconti, si
fece gridare signore di Bologna; reprimeva con estremo rigore le
trame interne, mentre guardavasi dagli stili e dalle lusinghe di
Bernabò, cui nel tempo stesso mandava blandizie e soccorsi contro
il marchese di Monferrato. Bernabò, che mai non conobbe gratitudine,
non gli sapeva perdonare la rivolta; e sbarazzatosi del marchese di
Monferrato col sottrargli a denaro i mercenarj del conte Lando e di
Anichino, li lanciò addosso all’Oleggio (1360). Questi, assalito da
tremila cavalieri, millecinquecento Ungari, quattromila fanti, mille
alabardieri, non amato dai popoli, non soccorso da vicini, esibì
vendere Bologna a chi la volesse; e l’Albornoz strinse il contratto,
assegnando a vita all’Oleggio Fermo e il suo territorio.

In Bologna fra i soliti schiamazzi di _Viva la Chiesa_ fu rimesso il
governo municipale e richiamati gli esuli: ma Bernabò adontato proseguì
guerra di devastazione; e l’Albornoz, non potendo trar soccorsi nè da
Avignone nè dai vicini potentati, dopo consunti trentamila ducati e
gli argenti suoi proprj, chiamò settemila Ungheri, feccia di gente,
che sperando le indulgenze assassinarono il bel paese. Bernabò seppe
comprarle per sè, e mentre ad Avignone movea lamenti che gli si negasse
una città per dodici anni concessa a suo zio, si sfogava perseguitando
gli ecclesiastici; nè quelle codarde guerre furono cessate tampoco
dalla peste, che recata dalle bande inglesi, qui si rinnovò nel 1361, e
vuolsi che nella sola Milano troncasse settantasettemila vite.

Bernabò, che se n’era schermito col sequestrarsi rigorosamente nel
castello di Melegnano, appena essa cessò ricomparve, e gridò — Voglio
Bologna», e cercò sorprenderla, comprando bande e rialzando i vinti
signorotti: sicchè l’Albornoz (1362) rannodò i signori della Scala,
d’Este, di Carrara a difendere la Chiesa, di cui non erano ombrosi,
contro il Visconti temuto, e allora scomunicato da Urbano V: la
lega contro di lui fu sostenuta da una bandiera imperiale, e prese a
stipendio la Grande Compagnia; e la battaglia di San Rafaello (1363 —
16 aprile) tolse a Bernabò la speranza di sovrastare ai pontifizj.

Egli non cessava di negoziare ad Avignone, mentre combatteva
con variati successi. Godeva allora gran reputazione di santità
Pier Tommaso di Sarlat, dalla povertà salito colla virtù e colla
predicazione al favore del papa, che lo deputò nunzio apostolico nel
regno di Napoli, poi in Germania, in Bulgaria, e che infervoratosi
a crociar l’Europa contro i Turchi allora minaccianti, riconciliò
i Veneziani col re d’Ungheria, cercò riunire la Chiesa greca colla
latina, guidò spedizioni contro que’ barbari, e trasse il re di Cipro
in Europa per sollecitare la crociata. A questa recava impedimento
la guerra contro Bernabò, logorando le entrate della Chiesa, onde si
cercò pacificarlo inviando a Milano Pier Tommaso[394]; e fu segnato
un accordo (1364 — 8 marzo) ove Bernabò rinunziava a Bologna, ma
contro l’enorme prezzo di cinquecentomila fiorini, la restituzione dei
prigionieri, e che l’Albornoz fosse rimosso da quella legazione.

Costui, destro anche nella politica, avea raccolto in Roma i deputati
di tutte le città sottoposte, e pubblicate per loro le _Costituzioni
egidiane_ (1357), che rimasero il vero diritto pubblico della Romagna:
accolte con applauso unanime, ebbero credito pari al gius canonico, e
i papi ne raccomandarono poi sempre l’osservanza, come opportunissima
agli Stati pontifizj. Non impiantava di nuovo, come si pretende oggi,
ma riformava il vecchio col senso pratico e colla conoscenza degli
uomini e delle cose.

Avendo il papa domandato conto all’Albornoz delle somme spese in
quei quattordici anni, esso gli mandò un carro di chiavi delle città
soggettate. Alla morte di Innocenzo VI avrebbe potuto facilmente
succedergli; ma non se ne diè briga, e continuò a regolare le Marche e
il Patrimonio di san Pietro finchè morì a Viterbo (1367 — 24 agosto),
legando moltissime limosine e di che fondare in Bologna un collegio con
giardino e sale e ogni occorrente per ventiquattro giovani spagnuoli.

L’Italia restava ancora alla mercede de’ venturieri. Corrado Wirtinger
di Landau militava nelle bande di frà Moriale; e allorchè questi perì
sotto la mannaja di Cola Rienzi, le conservò attorno a sè coll’ordine
a cui quegli le aveva abituate, e rese terribile all’Italia i nomi di
conte Lando e di Grande Compagnia, che fu dato a lui ed a’ suoi.

Una bella Tedesca pellegrinando a Roma pel giubileo, era stata a
Ravenna violentata da Bernardino da Polenta, e non volle sopravvivere
all’oltraggio. Due suoi fratelli scesero in Italia, senz’altra
provvigione che il proprio sdegno; lo comunicarono al conte Lando, il
quale, a vendetta de’ suoi compatrioti, menò la Compagnia a desolare
il Ravennate. Ma avendo il tiranno raccolte le persone e i viveri
nelle terre murate, la Compagnia penuriando dovette passare altrove, e
mandò a sperpero gli Abruzzi, la Puglia, Terra di Lavoro, ingrossata
dai molti a cui giovava quel facile e impunito rubare. Re Luigi di
Napoli patteggiò vilmente darle settantamila fiorini in due termini,
fin allo scadere de’ quali rimanesse pure a carico del Reame. Uscitone,
minacciò or questo or quello, finchè si allogò colla lega contro
Bernabò Visconti; ma invece di uniformarsi ai divisamenti de’ suoi
compratori, fermavasi dove più roba e miglior vino e più belle donne,
e raccoglieva gente rea e famosa di malfare. Bernabò trasse fuori dalla
lunga cattività Lodrisio Visconti, il gran vinto di Parabiago; e costui
coll’autorità del nome suo raccolse molte barbute, e al passaggio del
Ticino vinse i nemici (1365), sino ad avere prigioniero il conte Lando.
I venturieri lo riposero subito in libertà; ma Bernabò ebbe l’arte di
trarlo dalla sua.

Fatta la pace, la Compagnia rimasta sciopera battè la marciata verso
Toscana. Quivi era morto Saccone de’ Tarlati, che fino ai novantasei
anni dal castello di Pietramala dava il motto ai Ghibellini di tutta
Toscana; i quali dominavano ancora in Pisa, sempre astiosa a Firenze.
Come questa sopra Pistoja, Prato, Volterra, Colle, San Miniato, così
Perugia voleva principare sopra Todi, Cortona, Città di Pieve, Chiusi,
Assisi, Foligno, Borgo San Sepolcro. Ma Cortona, allora padroneggiata
da Bartolomeo di Casale, si difese valorosamente; e Siena (1358), presa
parte con essa, chiamò Anichino Bongardo, altro famoso avventuriero,
ed essendo questo battuto, invitò la Grande Compagnia. Il conte
Lando, che già dai Fiorentini aveva riscosso cinquantamila zecchini
per lasciarli quieti tre anni, allora li richiese del passo sul loro
territorio; ma essi, presone giusto sgomento, s’accordarono coi conti
Ubaldini e Guidi per afforzare i varchi degli Appennini. La banda
si difilò dunque per val di Lamone; ma giunta che fu al sentiero
affatto scosceso della Scalella (24 luglio), i contadini cominciarono
a rotolare dalla montagna sassi, munizione plebea, sicchè sgominarono
quel corpo, trecento cavalieri uccisero, fecero moltissimi prigionieri
e lauto bottino, e il Lando stesso ferirono. I Fiorentini non vollero
mentire la fede impegnata di non molestarla, sicchè la Compagnia, dopo
gravissime perdite, si raggomitolò, e Lando, troppo presto guarito,
ebbe raunati cinquemila cavalieri, mille Ungheri, duemila uomini di
masnada, oltre dodici migliaja di servi e bagaglioni, coi quali diede
addosso ai Fiorentini (1379), disopportunamente umani. Risoluti di
por termine a quel nuovo e schifoso genere di tirannide, essi fecero
appello agli Italiani, che, come per imitazione aveano tremato, allora
per imitazione ripigliarono coraggio. S’avvide del pericolo il Lando,
ed esibì fin compensare a denaro se alcun guasto i suoi facessero
nell’attraversare le terre de’ Fiorentini; ma essi ricusarono, e
mandato a dare alle armi per tutto, gli uscirono incontro guidati da
Pandolfo Malatesta di Rimini. Quando vennero trombetti da parte del
Tedesco, recando un guanto sanguinoso su bronconi spinosi, e provocando
levarlo chi si sentisse cuore di combattere col conte, Pandolfo lo
prese, e schierò l’esercito in modo, che Lando diede addietro quanto
il più tosto potè, bruciando il campo, e a forza di tattica riuscì a
sfilare verso il Monferrato.

Da quel punto la Grande Compagnia andò sfrantumata; ma «pare che la
penna non si possa passare senza far memoria delle compagnie; chè
maravigliosa cosa è il vederne e udirne tante creare l’una appresso
dell’altra in flagello de’ Cristiani, poco osservatori di loro legge e
fede» (M. VILLANI). Perocchè allora salse in grido quella di Anichino
Bongardo. Traditore di amici e di nemici secondo gli conveniva,
primamente avea servito al marchese di Monferrato contro Galeazzo
Visconti, poi gli ruppe amistà e fede; sicchè quello chiamò nuovi
pedoni, e furono Inglesi, che la pace di Bretigny tra la Francia e
l’Inghilterra avea lasciati senza condotta. Costoro ebbero nome di
Compagnia Bianca, e per capitano Alberto Sterz. «Caldi e vogliosi,
usi agli omicidj ed alle rapine, erano correnti al ferro, poco avendo
loro persone in calere. Ma nell’ordine delle guerre erano presti ed
obbedienti ai loro maestri, tuttochè nell’alloggiarsi a campo, per
la disordinata baldanza e ardire poco cauti, si ponessero sparti e
male ordinati, e in forma da lievemente ricevere da gente coraggiosa
dannaggio e vergogna. Loro armadura quasi di tutti erano panzeroni,
e davanti al petto un’anima d’acciajo, bracciali di ferro, cosciali e
gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lancia da posta, le quali,
scesi a piè, volentieri usavano, e ciascuno di loro aveva uno o due
paggetti e tale più, secondo che era possente. Come s’avieno cavato
l’arme di dosso, i detti paggetti di presente intendevano a tenerle
pulite, sì che, quando comparivano a zuffa, loro arme pareano specchi,
e per tanto erano più spaventevoli. Altri di loro erano arcieri,
e i loro archi erano di nasso e lunghi, e con essi erano presti ed
obbedienti, e facevano buona prova. Il modo del loro combattere in
campo era quasi sempre a piede, assegnando i cavalli ai paggi loro,
legandosi in schiera quasi tonda, e tra due prendieno una lancia, a
quello modo che con gli spiedi s’aspetta il cinghiale; e così legati
e stretti colle lancie basse a lenti passi si facieno contro i nemici
con terribili strida, e duro era il poterli snodare. E per quello se
ne vide per la sperienza, erano più atti a cavalcare di notte e furare
terre, che a tenere campo; felici più per la codardia di nostra gente,
che per loro virtù. Scale avieno artificiose, che il maggior pezzo era
di tre scaglioni, e l’un pezzo prendeva l’altro a modo della tromba, e
con essi sarebbero montati in su ogni alta torre»[395].

Questa banda, che trent’anni continuò a campeggiare per chi la pagasse,
cominciò dal fare tal guasto nel Novarese, che Galeazzo II Visconti,
non avendo potuto opporle altrettante masnade, stimò meglio ardere
dodici castelli, incapaci a difendersi. Ben cinquantatre ne distrussero
gl’implacabili Inglesi, e per due anni seguitarono le devastazioni,
piacendosi di troncare i corpi, finchè gli abbandonavano ai cani o
al fuoco. Nel combatterli a Briona periva il conte Lando (1363), e i
suoi seguitarono Lucio Lando fratello di lui, il quale occupò Reggio,
e invece di darlo agli Estensi, a cui soldo stava, lo vendette per
venticinquemila fiorini a Bernabò.

La Compagnia Bianca passò poi a servire i Pisani, cioè a menare ad
eguale sperpero la media Italia. A loro si congiunse il Bongardo, e
una notte Firenze atterrita dall’alto delle mura li vide consumare
un infernale bagordo al chiaror di fiaccole e degl’incendj, e quivi
Bongardo farsi cingere gli sproni di cavaliero, poi egli stesso
cingerli ai più prodi del campo.

Esso Bongardo e lo Sterz formarono la Compagnia della Stella, della
Bianca restando a capo quel Giovanni Acuto di cui già parlammo (Cap.
CVIII); e fu una gara di far peggio: Provenzali, Guaschi, Bretoni
furono condotti giù da altri, e per lunghi anni la penisola restò
in costoro balia, qualunque parte guerreggiante avendo al soldo
truppe di diversissima nazione. Aggiungi di diversissima disciplina,
conservando ognuna le native usanze. Ma per l’ordinario gli eserciti
si componevano di militi e di barbute: queste, così dette dall’elmo
che portavano senza cimiero, ma con ventaglia davanti e criniera in
alto, si servivano d’armi semplici, piccoli cavalli e un solo sergente
col palafreno; a differenza del milite, armato pesante e seguito da
due o tre cavalli. Vi si unirono poi gli Ungheri, aventi ognuno due
piccoli cavalli, lungo arco, lunga spada, pettiera di cuojo, agili al
corso e trascuranti d’ogni agio. L’Acuto, superiore d’accorgimento e di
militare maestria ai capi antecedenti, primo introdusse qui di contare
i cavalieri per lancie, ognuna delle quali componevasi di tre uomini,
con cotte di maglia, petti di acciajo, di ferro gli schinieri, l’elmo,
i bracciali, grande spada e daga, e una lunga lancia che sostenevano
tra due[396]. Le marcie facevano a cavallo per cagione delle gravi
armature; ma sul campo per lo più combatteano pedestri, unendo così
alla prontezza della cavalleria la solidità della fanteria.

Neppur la pace sospendeva i mali de’ popoli, anzi i disordini di
quella erano meno sopportabili che non i sofferti nella guerra; e quel
brutale valore, non accessibile a verun sentimento nobile di patria
o di libertà, aveva indebolito la stima dovuta al vero coraggio, che
nasce dalla coscienza di una causa giusta. Urbano V papa esortava
i Fiorentini e gli altri a una lega contro le bande; e con ordini
e brevi insistette, finchè fu conchiusa coll’accordo di formare una
milizia nazionale (1366 — 7bre), e ridurre tutti i viveri in luoghi
castellati[397]. Ma nè scomuniche nè indulgenze tolsero che presto la
lega si scomponesse; e nerbo e obbrobrio delle guerre restarono ancora
i mercenarj.

I costoro guasti non meno che i guadagni aveano presto eccitato i
nostri a formare bande, e mettersi anch’essi a servizio di ventura,
per utilizzare l’attività e il coraggio, cui erano mancate più nobili
occasioni, e per acquistare preda o anche dominj. Abbiamo già veduto
Lodrisio Visconti ergersi capo d’una compagnia di Tedeschi: Ambrogio,
bastardo di Bernabò Visconti, rinnovò la compagnia di San Giorgio, ma
ben presto fu vinto e carcerato a Napoli; e de’ suoi, seicento rimasero
prigioni a Roma, ove il papa ne fece strozzare trecento, e poi anche
gli altri perchè tentarono fuggire[398].

Ma que’ signori romagnuoli che dicemmo dediti alle armi, furono i primi
che unissero bande nostrali. Astore Manfredi signore di Faenza radunava
sul Parmigiano la Compagnia della Stella di venturieri romagnuoli;
ed essendosi avventato sopra Genova, nella valle del Bisagno fu
sterminato. Giovanni d’Azzo degli Ubaldini, uno dei meglio esercitati
guerrieri, ne accozzò un’altra sugli Appennini, ma precoce morte il
rapì: altre Pandolfo Malatesta, altre Boldrino da Panicale, accorrendo
ove fosse da combattere o da rapinare. Qualche gentiluomo coi soli
suoi uomini allestiva una lancia spezzata, e quando l’avesse compita,
cioè di trenta lancie che formavano sessanta uomini a cavallo, andava a
servire da volontario a questo o a quello. Talvolta una famiglia intera
metteasi a tal guadagno; come nel 1395 il Comune di Firenze soldava la
squadra de’ Tolomei di trenta lancie da tre cavalli ciascuna[399].

Allora i nostri si videro aperta un’altra via di guadagno, si
generalizzò una razza di bravacci, aventi per mestiero la guerra e
per sistema la prepotenza, tutti arme e far soldatesco e discorsi
di valenteria, gran barba, cimieri immaginosi, nomi altisonanti,
come Fracassa, Fieramosca, Lanciampugno, Animanegra, Spaccamontagna,
Maccaferro, Rodimonte, Abbattinemici.

Alberico di Barbiano, signore delle vicinanze di Bologna, ne’ fatti di
guerra senza pari valoroso, raccolta una banda tutta di suoi vassalli
ed amici, potè affrontare le oltramontane; vintele a Marino, entrò in
Roma, che dopo secoli vedeva un primo trionfo d’Italiani; meritò dal
papa un’insegna con iscritto _Italia liberata dai Barbari_; anzi fu
detto non arrolasse se non chi giurava odio agli stranieri. Quella
banda divenne semenzajo d’insigni capitani, quale Jacopo Del Verme
milanese, Facino Cane di Casal Monferrato, Ottobon Terzo, e più famosi
Braccio di Montone e Attendolo Sforza, che furono istitutori di due
scuole di guerra.

L’introduzione di capitani nostrali portò un miglioramento, giacchè
essi, cernendo non i primi venuti e feccia d’uomini malfattori,
ma persone conosciute, o parenti e vassalli e fazionieri, poterono
meglio mantenere la disciplina; si apprese ad osservar fedeltà a una
bandiera, e non volerla disonorata; e l’emulazione degli avanzamenti,
le cure del buon nome, la riverenza ai capi, imposero qualche regola
a quel valore brutale. D’altro lato però i nostri non istettero
paghi a spogliare amici e nemici come faceano gli oltramontani, ma vi
mescolarono passioni proprie, ire di parte, vendette ereditarie, studio
di novità, ambizione di qualche brano d’un paese che ormai si spartiva
a sciabolate. E di fatto tra poco furono veduti acquistar signorie, e
il più fortunato di loro ereditare il trono visconteo.

Ma all’arte antica dell’uccidere e farsi uccidere veniva a dare il
crollo l’invenzione della polvere.

Del vero nitro e degli effetti suoi non mostransi conoscenti gli
antichi, nè del fabbricare il salnitro, cioè tramutare il nitrato
di calce in nitrato di potassa. Forse all’Europa ne pervenne notizia
dall’India e dalla Cina, ove il salnitro incontrasi naturale; ma chi
insegnasse a mescolarne settantacinque parti con quindici e mezzo di
carbone, e nove e mezzo di solfo, e formarne la polvere tonante, non
consta; il frate Schwarz tedesco, che dicono lo trovasse a caso, pare
da collocarsi tra gli enti ideali. Più probabile è siasi appresa dagli
Arabi, i quali la tenessero dalla Cina; e poichè quel popolo toccava in
diversi punti la cristianità, in più d’un luogo introdusse le pratiche
sue; onde la vediamo comparire in distanti contrade a un tratto, e
senza che veruna pretenda al vanto dell’invenzione.

Il primo ingegno di applicar la polvere alla guerra furono i cannoni;
avanti il 1316 li menziona Giorgio Stella, autore ufficiale di storie
genovesi; e un documento fiorentino del 1326 parla di palle di ferro
e _cannones de metallo_[400]. Nel 58 alla guerra di Forlì i papali
lanciavano bombe, e una fonderia di cannoni aveasi a Sant’Arcangelo
in Romagna: nel 76 Andrea Redusio porge esatta descrizione della
bombarda[401]. Nell’84, in cui primamente gli Ottomani adoprarono
artiglierie, i Veneziani se ne valsero contro Leopoldo d’Austria, poi
nella guerra di Chioggia, che mal si crede la prima ove servissero:
secondo il Corio, Gian Galeazzo nel 1397 possedea già da trentaquattro
pezzi fra grossi e sottili.

I cannoni, che non abolirono affatto i tormenti bellici antichi,
si faceano di lastre, incassate entro doghe di legno e cerchiate di
ferro; dappoi si fusero di ferro; indi si arrivò a farli d’una lega
di rame e stagno. Al principio del 1400, il più grosso non eccedeva le
cenquindici libbre; ma verso il 1470 ne apparvero di giganteschi[402].
Allegretto Allegretti, al 1478, narra come a Siena «si provò la nostra
bombarda grossa di due pezzi, la quale fece Pietro detto il Campana,
ed è lunga tutta braccia sette e mezzo, cioè la tromba braccia cinque,
e la coda braccia due e mezzo; pesa il cannone libbre quattordicimila,
e la coda undicimila, somma in tutto libbre venticinquemila; gitta
dalle trecensettanta alle trecentottanta libbre di pietra, secondo
pietra»[403]; e segue a dire della bombarda del papa, lunga braccia sei
e un terzo, di palla libbre trecenquaranta.

Coi cannoni non si pensava in origine che a pareggiare le bricolle,
i mangani e le altre macchine della balistica antica, della quale si
raccontano prodigi[404]; laonde credeasi meglio riuscire col darvi
enorme grossezza; ed anche eliminando le asserzioni vaghe, troviamo
precisa menzione di smisurati projetti di pietre, o anche di ferro e di
bronzo[405].

Talvolta, oltre il nome terribile di Vipera, Lionfante, Diluvio,
Rovina, Terremoto, Grandiavolo, Non-più-parole, davansi loro figure
stravaganti; una nel castello di Milano fu colata di ferro «in forma
d’un lione, proprio a vedere pare che a giacere stia» (FILARETE); e vi
si scriveva o il proprio lor nome o qualche motto[406]. Anche sulle
palle faceansi parola o figure, lo che rendeva sempre meno esatti i
tiri. Si variavano pure di costruzione, e la serpentina, la colubrina,
il falconetto, il basilisco, l’aquila, il girifalco, l’aspido, il
saltamartino, il cacciacornacchia... indicavano differenti foggie di
pezzi che non prima del secolo passato ebbesi l’accorgimento di tutti
ridurre a un calibro solo o due.

Per caricarli svitavasi la coda dalla tromba, vi si versava la
polvere, chiudendola con un cocchiume, indi si tornava ad avvitare, e
si sovrapponea la palla; tutto ciò dopo aver rinfrescata la canna con
acqua o coltri bagnate. Quanta fatica e perditempo! Piantati poi in un
luogo, non si sapea mutarli giusta il bisogno; e si notò come un gran
caso che Francesco Sforza, assediando Piacenza, traesse in una notte
sessanta colpi di bombarda. Valeano dunque soltanto contro le mura,
fabbricate per resistere alle catapulte, e che allora si dovettero
ingrossare; ma per tutto il secolo XV non si provò bisogno di mutar
le fortificazioni da semplici fossi e torri rotonde in bastioni ad
angoli ed opere avanzate. Agli eserciti poi sarebbero stati piuttosto
d’impaccio quando fin venti paja di bovi si voleano per tirare una
colubrina da 60, la quale poi non facea meglio di quaranta colpi al
giorno. Infine si trovò l’artiglieria volante, e il Davila ne fa merito
a Carlo Brisa bombardiere normanno; ma fra noi la vediamo già alla
battaglia della Molinella nel 1468. I Francesi, oltre quelli montati
su carretti, fecero cannoni fin da portarsi da un soldato solo, e
nella guerra d’Italia n’adoperarono d’agevolissimi, fatti d’una canna
di rame spessa quanto uno scudo, e chiusa in un astuccio di legno che
si vestiva di cuojo. Un par di bovi li traeva, un altro pajo menava il
carro colle munizioni e colle palle di pietra, che nel 1500 si fecero
poi abitualmente di ferro.

Sigismondo Malatesta nel 1460 formò le bombe di bronzo, in due emisferi
connessi con zone di ferro, e coll’esca al bocchino, lanciandole da
mortaj coll’anima incampanata. Nel 1524 Giambattista Dellavalle di
Venafro insegnò a fondere queste granate[407]. Non si tardò a collocare
bombarde sulle navi.

Strade sotterranee per cui traforarsi nelle piazze, cunicoli con cui
scalzar le mura e le torri sicchè diroccassero, erano in uso fra gli
antichi e nel medioevo, e presto si pensò applicarvi la polvere. Il
primo concetto ne nacque il 1405 durante l’assedio di Pisa, ma senza
effetto nè seguito; e solo i Genovesi ne vantaggiarono all’assedio di
Sarzanello nel 1487, poi gli Spagnuoli per far volare Castel dell’Ovo
nel 1502. L’illustre e sfortunato Pier Navarro perfezionò quest’arte
delle mine.

Secondo la cronaca del canonico Giuliano, i fuorusciti di Forlì
nel 1331 _balistabant cum sclopo versus terram_: la estense al 34
racconta che il marchese Rinaldo d’Este contro Bologna _præparare
fecit maximam quantitatem sclopetorum, spingardarum, etc._; nel 46 era
munita di schioppi la torre al ponte di Po a Torino. Ed erano canne
di bronzo, poi di ferro, con un forellino, al quale s’applicava una
miccia. Evitavasi il rimbalzo mediante un risalto che appoggiavasi
contro la forcina di ferro, entro la quale si fissava l’archibuso per
iscaricarlo.

Avendo il fantaccino occupata una mano all’arma, l’altra alla forcina,
si dovè provvedere alla miccia col porla in bocca ad un draghetto, che
allo scattare d’una molla scoccava sopra la polvere dello scodellino.
La macchina pesava da cinquanta libbre, onde difficilissima a far
giocare. S’aggiunga che rozzamente fabbricavasi la polvere, rozzamente
le canne; non sapevasi nè mantenere il fuoco, nè usare il fucile come
arma difensiva; e il maggior vantaggio derivava dallo spaventare
i cavalli. Perciò non si dismisero le armi antiche, nè lo Svizzero
avrebbe deposto la sua picca, o il Genovese il suo arco. Il milanese
Lampo Birago, in un trattato manoscritto sul far guerra ai Turchi,
antepone la balestra allo schioppo, atteso che questo non vaglia se non
usato da vicino e con comodità; in battaglia mal si riesce a caricarlo,
e peggio a toglier la mira; l’umidità guasta la polvere e spegne la
miccia, nè ha gittata maggiore della balestra, e lascia scoperto il
soldato mentre carica.

A tali sconci riparavasi via via, per modo che i balestrieri andavano
scemando e crescendo gli schioppi: nel 1422 Sigismondo imperatore menò
in Italia cinquecento moschettieri, nel 49 la milizia de’ Milanesi
n’avea ventimila, ma solo al 1680 si generalizzarono gli archibusi
colla pietra focaja. La carabina sembra dovuta agli Arabi, e altri
vogliono ai Calabresi, che ne armavano le barche dette carabe.
Fin dal 1550 trovansi le pistole, forse denominate da Pistoja ove
s’inventarono.

L’Italia non ignorava le cartuccie, e Gianfrancesco Morosini
ambasciador veneto in Savoja, nel 1570 riferisce alla Signoria: —
Oltre alli marinari che mette sua eccellenza (Emanuel Filiberto)
per ogni galera, suole mettervi sino a ottanta ovvero cento soldati
per combattere, e a questi fa portar due archibugi per uno, con
preparazione di cinquanta cariche, acconciate in modo con la polvere
e palla insieme ben legate in una carta, che, subito scaricato
l’archibugio, non ci è altro che fare, per caricarlo di nuovo, che
mettere in una sola volta quella carta dentro la canna con prestezza
incredibile; e ciò in tempo di bisogno fa fare da uno delli forzati,
avvezzato a questo per ogni banco; onde, mentre che il soldato attende
a scaricar l’uno archibugio, il forzato gli ha già caricato e preparato
l’altro, di maniera che senza alcuna intermissione di tempo vengono a
piovere l’archibugiate con molto danno dell’inimico e utile suo»[408].

Ma l’arma da fuoco pareva ed inumanità per le micidiali ferite, e
vigliaccheria perchè l’ultimo fantaccino poteva uccidere il meglio
valoroso ed esercitato campione. Di fatto essa poneva in formidabile
eguaglianza il villano col barone, il quale sin allora l’aveva
calpestato impunemente dal catafratto destriero. Per tali cagioni
lentamente si perfezionarono le armi da fuoco, e tardarono a portare
radicale mutamento nell’arte della guerra. Come a proteggere dal
cannone s’ingrossarono enormemente le muraglie, così i cavalieri
rinforzarono le armadure da parere incudini: ma presto se ne vide lo
sconcio, e principalmente per insinuazione del capitano Giorgio Basta
vennero le corazze abbandonate ai supremi comandanti e ad un corpo
distinto[409]; sicchè crebbe la difficoltà di sostenere un posto, e le
battaglie divennero più speditive.

  FINE DEL TOMO SETTIMO



INDICE


  LIBRO NONO

  Capitolo   XCIV. L’Italia dopo caduti gli Hohenstaufen.
                     I Feudatarj. Torriani e Visconti.     _Pag._ 1
      »       XCV. Toscana                                   »   33
      »      XCVI. Le repubbliche marittime. Costituzione
                     di Venezia                              »   57
      »     XCVII. Prosperamento delle repubbliche in
                     popolazione, ricchezze, istituti        »   91
      »    XCVIII. Costumi. — Liete usanze. — Spettacoli     »  114
      »      XCIX. Belle arti                                »  160
      »         C. Lingua italiana                           »  205
      »        CI. Italiani letterati. Primordj della
                     poesia nostra fino a Dante              »  225
      »       CII. Ingerenza francese. — I Vespri siciliani,
                     e la guerra conseguente                 »  262
      »      CIII. Bonifazio VIII. — Dante politico e
                     storico                                 »  280

  LIBRO DECIMO

  Capitolo    CIV. Gli storici del medioevo                  »  321
      »        CV. Calata di Enrico VII                      »  365
      »       CVI. Roberto di Napoli. — Uguccione. —
                     Castruccio. — Lodovico il Bavaro. —
                     Giovanni di Luxemburg                   »  382
      »      CVII. I tiranni. I figli di Matteo Visconti.
                     Gli Scaligeri. Casa di Savoja           »  404
      »     CVIII. Le compagnie di ventura                   »  448
      »       CIX. Incrementi di Firenze. Il duca d’Atene.
                     La Morte nera. Petrarca e Boccaccio     »  467
      »        CX. Roma senza papi. — Cola di Rienzo         »  520
      »       CXI. Carlo IV. Il cardinale Albornoz. I
                     condottieri italiani. Le arme da
                     fuoco                                   »  552



NOTE:


[1] _Archivio storico_, XV. 53; SAVIOLI, _St. di Bologna_ ad ann. 1266,
e doc. 749.

[2] Dante fra i negligenti in Purgatorio mette Rodolfo, c. VII.

    Colui che più siede alto, e fa sembianti
      D’aver negletto ciò che far dovea,
      E che non move bocca agli altrui canti,
    Rodolfo imperator fu, che potea
      Sanar le piaghe ch’hanno Italia morta.

[3] Nel 1111 Enrico IV concede alla _città_ di Torino e a’ suoi
abitanti la strada romana, dalla terra di Sant’Ambrogio in giù, talchè
nessuno possa molestarceli (_Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 737); e
nel 1116 le conferma la libertà che godeva al tempo di suo padre; _in
eadem libertate in qua hactenus permanserunt, deinceps permanere et
quiescere collaudamus_; salva la solita giustizia, cioè giurisdizione
del vescovo (_Ib._ 742). Nel 1136 Lotario II concedeva altrettanto.
_Quemadmodum _antiquitus_ ipsis statutum et sancitum est, ut
eandem quam ceteræ civitates italicæ libertatem habeant_. Viene poi
l’immunità di Federico Barbarossa, ma sembra che i Torinesi se ne
redimessero, poichè nel 1193 Arduino vescovo concede ai consoli di
Torino diritto di guerra e pace sul castello e borgo di Rivoli e
Testona, e su tutti gli altri del vescovado, e gli assolve dal pedaggio
che pagavangli a Testona (_Ib._ 1003). Alla Lega Lombarda non prese
parte Torino fin al 1226; poi presto cadde ai duchi di Savoja. I
ricchissimi possessi di quel vescovo sono divisati nel privilegio del
Barbarossa del 26 gennajo 1159 (_Ib._ 815).

[4] Nel 1111 già troviamo regolarmente costituito il popolo d’Asti;
nel qual anno i canonici della cattedrale fecero una convenzione col
popolo, giurata e comunicata al vescovo, ai consoli di tutta la città
e al popolo, tendente a restituire ai canonici la terra di Garsia a
quelli appartenente. L’aveva il popolo occupata, sicchè i canonici
voleano abbandonare la città; quando il vescovo, avuti a sè i consoli e
i più prudenti, con ammonizioni e preci li divisò da tale proposito.

Nel 1123 i consoli d’Asti, che erano Oberto _Vexillifer_ (probabilmente
Alfieri), Giuseppe giudice, Marchio della Torre, Bonomo di Vivario,
Pietro Gallo, Belbello, Bailardo, Ainardo di San Sisto, Ribaldo
curiale, vendano alla chiesa di Santa Maria una pezza di terra di sette
tavole per dieci lire di denari pavesi; e l’anno stesso un pezzo di
bosco. _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I.

[5] Nel 999 Ottone III conferma al vescovo di Vercelli il contado:
_Liberalitas nostri imperii pro Dei et sancti Eusebii amore donavi
Leoni episcopo, omnibusque successoribus suis in perpetuum totum
comitatum vercellensem in integrum cum omnibus publicis pertinentiis,
et totum comitatum Sanctæ Agatæ_ (Santhià) _in perpetuum cum omnibus
castellis, villis, piscationibus, venationibus, sylvis, pratis,
pascuis, aquis, aquarumve decursibus, et cum omnibus publicis
pertinentiis, cum mercatis, cum omnibus teloneis, et cum omnibus
publicis functionibus; ut remota omnium hominum omni contrarietate,
tam Leo sanctæ vercellensis sedis episcopus, quam omnes sui
successores, ad honorem Dei omnipotentis et ad reverentiam sancti
Eusebii magnifici episcopi, invicti contra heresiarcas militis, et in
civitate vercellensi intus et foris, et in toto comitatu Sanctæ Agatæ,
et in omnibus eorum pertinentiis liberam habeat potestatem placitum
tenendi, legem omnem faciendi, omnem publicum honorem, omnem publicam
potestatem, omnem publicam actionem, et omnem publicam redditionem
habendi, exigendi, et secundum propriam voluntatem et potestatem
judicandi, et omnem potestatem, et omne dominium publicum quod ad nos
pertinuit, in potestatem et in dominium sanctæ vercellensis ecclesiæ
et Leonis nostri episcopi et omnium sibi successorum dedimus, largiti
sumus, ut omnino concessimus in perpetuum_. Seguono le minacce perchè
nessun conte, marchese, vescovo, grande o piccolo, tedesco o italiano,
turbi tale possesso. _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 326.

Però in una carta del 1146 (_Ib._ 788) il delegato apostolico dichiara
che, degli stromenti prodotti in una pretesa del vescovo sovra i
porti de’ fiumi Servo e Sesia, _major pars falsa propter sigillorum
impressionem ac literarum mutationem a nobis jure suspecta est_.

[6]

    In sul paese ch’Adige e Po riga.
                       DANTE, _Purg._, XVI.

    Che Tagliamento e Adige richiude.
                       _Par._, IX.

                          Intra Rialto
    E le fontane di Brenta e di Piava.
                       _Ivi._

[7] Vedi _Trento città d’Italia_, ragionamento del C. B. GIOVANNELLI.
— HORMAYR, _Säml. Werke_. — BARBACOVI, _Mem. storiche_. — PEZ, _Rerum
austriacarum_. — PERINI, _I castelli del Tirolo_.

[8] Fano, Pesaro, Camerino pagavano ciascuno cinquanta libbre
d’argento, che sarebbero lire cinquemila: Jesi quaranta. Vedi _Ep.
Innocenti III_, lib. III. N. 29. 35. 53, lib. VIII. N. 211.

[9] Ap. AMARI, _Un periodo di storia siciliana_, docum. II e III.

[10] MURATORI, _Antich. estensi_, part. I, c. 1.

[11] CORIO, II. Merita pure d’essere studiata l’amplissima pace fatta
nel 1241 dai Comuni d’Asti e d’Alba coi Comuni di Cuneo, Mondovì,
Fossano, Savigliano, riferita nei _Monum. Hist. patriæ_, Chart. II.
1419.

[12] _Quod illustris et inclitus dominus Azo marchio estensis sit
et habeatur et gubernator et rector et perpetuus dominus civitatis
Ferrarie._

_Anno domini millesimo ducentesimo octavo. Ad honorem Dei, et sancte
et individue Trinitatis, et ad laudem ejus matris sanctissime Virginis
Marie, et ad reverentiam beati Georgii martiris, et omnium sanctorum.
Ad bonum statum civitatis Ferrarie, et ad laudem et commodum amicorum,
ut civitati eidem salubriter sit provisum, non solum in presenti
tempore, sed etiam in futuro: volumus et duximus inviolabiliter
observandum, et per hanc nostram legem municipalem per nos et heredes
nostros perpetuo decrevimus observari, quod magnificus et inclitus vir
dominus Azo Dei et Apostolica gratia estensis et anconitanus marchio
sit et habeatur gubernator, et rector, et generalis et perpetuus
dominus in omnibus negotiis providendis et emendandis et reformandis
ipsius civitatis ad sue arbitrium voluntatis; et jurisdictionem,
et potestatem atque imperium intus et extra ipsius civitatis gerat
et habeat dominandi, faciendi atque disfaciendi, et statuendi, et
removendi, et reformandi, et precipiendi et puniendi, et disponendi,
prout placuerit, et eidem utile visum erit. Et generaliter possit et
valeat, sicut perpetuus dominus civitatis et districtus Ferrarie, omnia
et singula facere, et disponere ad suum beneplacitum et mandatum, ita
quidem quod ipsa civitas, et districtus, et homines habitantes nunc et
in posterum in ipsa civitate et districtu cum jurisdictione dominii
eidem domino marchioni, sicut suo generali domino perpetuo obediant
et intendant. Quæ omnia et singula supradicta habere locum volumus,
et perpetuam firmitatem non solum in persona domini Azonis marchionis
predicti, donec vixerit, verum etiam post ejus decessum heredem ipsius
esse volumus in locum sui gubernatorem et rectorem et generalem dominum
civitatis et districtus, et habeat dominium, imperium, et potestatem,
et jurisdictionem plenam, sicut supra continetur in omnibus et per
omnia in persona domini marchionis predicti. Adjicientes, quod de anno
in annum hoc statutum firmetur et cetera supradicta, et scribantur
annuatim in corpore statutorum, ita quod rectores, et potestates futuri
et homines Ferrarie jurent predicta omnia precise, sicut supra scriptum
legitur observare._

Questo era uno statuto; il Muratori poi, nel vol. II delle _Antichità
Estensi_, adduce i decreti originali, con cui in varj tempi venne
conferita ai marchesi d’Este la signoria di Modena e di altre città.

Ivrea nel 1278 sottoponeasi alla signoria di Guglielmo marchese di
Monferrato, facendo carta dei patti. Ogn’anno s’elegga dagli uomini
d’Ivrea un podestà, che sia delle terre del marchese o suo vassallo o
amico; ed esso il confermi: il quale poi eserciti la giurisdizione in
Ivrea a nome di esso marchese, senza che questi vi ponga impedimento o
divieto; giudichi secondo gli statuti che la credenza d’Ivrea crederà
fare, e _in difetto di statuti, secondo il diritto_. Il marchese
abbia in essa città i bandi e le condanne, i pedaggi, le macine, la
gabella del sale, e qualunque altra rendita stabilissero gli uomini
del Comune; nè possa gravarli di militare, di viaggio o cavalcata od
altra esazione senza loro consenso. Il massajo (_clavarius_) che esiga
le varie gabelle, sia eletto dai comunisti, come pure il castellano
che custodisca Castelfranco di Polenzo. Il marchese potrà fabbricare
in Ivrea una casa; il Comune giurerà fedeltà al marchese, ma non
gli individui. Alla morte del marchese potranno esser casse queste
convenzioni. Tralasciamo le stipulazioni su oggetti particolari. La
carta empisce sette colonne dei _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 1512.

[13] MARCHIONNE STEFANI, al 1316, e rubr. 875.

[14] Cornelio Nipote, in _Milziade_, avverte _omnes et haberi et dici
thyrannos, qui potestate sunt perpetua in ea civitate, quæ libertate
usa est_. E Giovan Villani, IX. 154: «Matteo Visconti fu un savio
signore e tiranno».

[15] Consoli trovatisi a Lucca il 1124, a Volterra il 1144, a Siena il
1145 ecc.; a Pisa già nel 1094.

[16] Non ripudio del tutto il racconto dei cronisti circa
l’espugnazione di Fiesole; ma già prima dell’età da loro assegnata
Fiesole e Firenze formavano un solo contado.

[17] Così i cronisti, ma il castel di Prato è nominato anteriormente.

[18] _Arch. delle riformagioni_, lib. XXIX, carte 35. Il Targioni
Tozzetti, ne’ suoi _Viaggi di Toscana_, fu diligentissimo a dare la
storia de’ Comuni toscani; nel che lo imitò poi il Repetti, e sarebbe
desiderabile si facesse dappertutto. Di molti schiarimenti la illustrò
il Manni nei _Sigilli_.

[19] _Prout unicuique contigit ipsorum per soldum et libram._ Delizie
degli eruditi toscani, tom. VIII.

[20] Suddivideansi in Ubaldini da Coldaria, della Pila, di
Montaccianico, da Senno, da Gagliano, da Spugnole, da Querceto,
dalla Torà, da Susinana, da Castello, da Feliccione, da Peniole, da
Ascianello, da Ripa, da Pesce, da Villanuova, da Farneto, da Vico,
da Molettiano, da Palude, da Barberino, da Carda, da Palazzuolo, da
Carinca, da Apecchio, da Mercatello.

[21]

    Ciascun che della bella insegna porta
      Del gran barone, il cui nome e il cui pregio
      La festa di Tommaso riconforta,
    Da esso ebbe milizia e privilegio.
                     DANTE, _Par._, XVI.

[22] MALEVOLTI, _Istorie sanesi_, part, I e II.

[23] Il nome di Bellincion Berti ne richiama la storiella della
Gualdrada sua figlia. Ottone IV imperatore vedendola, chiese di chi
fosse quella bellissima fanciulla; e Bellincione, che gli era accanto,
rispose: — È figliuola di tale, che gli darebbe l’animo di farvela
baciare». Ma la fanciulla arrossendo soggiunse: — Padre, non siate
sì libero promettitore di me; chè non mi bacierà mai chi non sia mio
legittimo sposo». Del che lodandola, l’imperatore la fece sposare a un
conte Guido con lauta dote.

[24] Allora i Pisani furono costretti cedere il forte di Motrone, posto
al mare presso la cittadina che fu detta Pietrasanta, dal podestà di
quell’anno Guiscardo da Pietrasanta milanese. I Fiorentini stanziarono
distruggerla, come costosa e difficile a tenersi. I Pisani, temendo la
conservassero, e così tenessero un piede sul mare, spedirono a Firenze
chi segretamente persuadesse a demolirla. L’incaricato si diresse
ad Aldobrandino Ottobuoni, cittadino povero, molto ascoltato; e gli
offerse quattromila zecchini se inducesse i suoi colleghi a ciò che
appunto il giorno innanzi era stato risolto. Aldobrandino argomentò
che, se i Pisani desideravano tanto la distruzione di quel forte,
segno era che tornava meglio conservarlo; onde agli anziani seppe ciò
persuadere, e la sua generosità non fu conosciuta se non per opera dei
nemici. G. VILLANI, VI. 63. I vincitori di Monteaperti lo cavarono dal
sepolcro ove da tre anni posava, e lo trascinarono in una cloaca.

[25] _Guelfi et Ghibellini_, ms. della biblioteca Riccardi, n.º 1878 f.
19.

[26] NICOLÒ VENTURA, _La sconfitta di Monteaperti_.

[27] _Cronache_ del VENTURA. Di tali miracoli sono piene le cronache
delle città. Quando i Cremonesi furono assaliti dai Milanesi il giorno
di san Pietro e Marcellino del 1213, uscirono divisi in quattro porte;
e intanto le donne e i restanti si raccolsero in San Tommaso, dove
sono i corpi di que’ santi. Sconfitta essendo la porta San Lorenzo,
si estinse la quarta parte delle lampade accese dinanzi ad essi
santi; sconfitta anche porta Natale, si spense un altro quarto delle
lampade; e così fu per porta Pertusa. Restavano quei di porta Ariberta,
quando dall’arca uscirono due colombe, che volarono all’esercito
cremonese, poi tornarono nell’arca stessa; e subito le lampade tutte si
riaccesero, e la vittoria fu piena pei Cremonesi.

[28] Chi abbia veduto la valle fra l’Arbia e il Biena, di appena mezzo
miglio quadrato, crederà che il Malespini, quando vi fa combattere
trentamila pedoni e mille cavalieri della sola lega guelfa, abbia
fatto come tutti i gazzettieri e i narratori vulgari; nè che _tutta_
quell’oste potesse rifuggirsi nel castellotto di Monteaperti, ove
appena alloggerebbe un reggimento.

[29] Dante colloca Farinata (che pur era del partito suo) all’inferno
tra gli Epicurei, cioè tra coloro _che l’anima col corpo morta fanno_.
Mostra gran venerazione per lui e per altri seco dannati, i cui onorati
nomi dice aver sempre raccolti e ripetuti con riverenza. Farinata gli
domanda perchè Firenze durasse così avversa alla famiglia sua in ogni
decreto, giacchè gli Uberti restavano sempre esclusi dalle tregue che
tratto tratto si faceano. Dante gli rammenta la battaglia dell’Arbia; e
Farinata,

    Poi ch’ebbe sospirando il capo scosso,
      A ciò non fui io sol (disse), nè certo
      Senza cagion sarei con gli altri mosso.
    Ma fui io sol colà dove sofferto
      Fu per ognun di tôrre via Fiorenza
      Colui che la difesi a viso aperto.
                     _Inf._, X.

[30] Si ha la stima dei danni recati dai Ghibellini ai Guelfi, che
furono valutati 132,160 fiorini d’oro, vale a dire un milione e mezzo.
Delle moltissime case distrutte, alcune sono stimate appena quindici
fiorini: palazzi chiamansi quelle che valgono più di trecento.

Anche negli statuti di Calimala è prefisso che «tutti i consoli dei
mercanti siano quattro, e il camerlingo sia uno; e tutti siano ad esser
debbiano guelfi, e amatori di santa romana Chiesa». § VI.

I Fiorentini nel 1277 faceano statuto, _Quod nullus ghibellinus possit
esse in aliquo officio in civitate vel comitatu Florentiæ: et si
quis eum elegerit, puniatur in libris XXV: et si talis ghibellinus
receperit, puniatur in libris XXV: et sit precisum. Addatur quod
nihilominus removeatur ab officio, et possit probari quod sit
ghibellinus per publicam famam, et quilibet possit eum accusare et
teneatur secrete_.

[31] DATI, _Cron._, pag. 55.

[32] DINO COMPAGNI.

[33] Si leggano nell’_Archivio storico_.

Le famiglie primamente escluse dal Governo furono trentasette; ma
nel 1354 erano cresciute; e millecinquecento magnati doveano prestar
garanzia al Comune; nel 1415, quando si compilò lo statuto del Comune,
le famiglie escluse erano novantatre.

Ser Belcaro Bonajuti nel 1318, per esser posto fra i popolani, espone
come esso e i figli o discendenti suoi non aveano alcun titolo o
motivo d’essere avuti per magnati, e chiede non vengano _reducti inter
magnates, ut consortes sive de domo filiorum Seragli, sed intelligantur
esse et sint populares, et tanquam populares civitatis et comitatus
Florentiæ, et in omnibus et quoad omnia debeant haberi, teneri
et tractari tanquam populares et de populo civitatis et comitatus
Florentiæ; non graventur, inquietentur vel molestentur per aliquem
officialem communis Florentiæ,_ ecc. Delizie degli Eruditi, tom. VII.
p. 290.

[34] Fin dal 1188 il popolo di Carrara otteneva dal vescovo di Luni,
antico suo signore, il terreno per fabbricare la borgata di Avenza in
val di Magra, a comodo dei carrettieri e marinaj che trasportavano
i marmi. Del 1202 si ha un compromesso tra il vescovo di Luni e i
marchesi di Malaspina, cui intervennero come garanti i consoli e militi
del comune di Carrara.

[35] FOGLIETTA, lib. V; _Ann. Genuenses_, lib. X.

L’ira fra le repubbliche manifestavasi anche in atti diplomatici.
Del 1284, 13 ottobre, abbiamo la carta dell’alleanza de’ Genovesi
e Lucchesi con Fiorentini contro Pisani, e comincia: _Instante
persecutione valida Pisanorum, quorum virus nedum vicinas partes
infecerat, verum pene maritimas universas, ita quod per Comunia
infrascripta vix poterat tollerari; pro tali zizania de terra radicitus
extirpanda, quæ etiam messem dominicam dudum sua contagione corrumpere
incoavit, et ipsorum perfidia refrenanda.... quia innocentes tradit
exitio qui multorum non corripit flagitia; idcirca, Jesu Christi nomine
invocato, et B. V. Mariæ etc.... et B. Sisti, in cujus festivitate
civitas Januæ immensum triumphum habuit contra Pisanos, ipsorum
Comunium perfidos inimicos... societatem, fraternitatem et pacta quæ in
infrascripta societate continentur, fecerunt adinvicem etc._ E seguono
otto colonne dei _Monum. Hist. patriæ_.

[36] Moltissimi atti di tutto ciò si hanno nel _Liber jurium_.

La credenza del 1290 prese ordine di far armare cenventi galee,
stabilendo che Genova contribuisse due terzi degli uomini; gli altri
erano ripartiti sopra il restante territorio, delle cui proporzioni
è indizio il numero degli uomini fissato per dieci galee come segue:
Roccabruna dovea dare due uomini, Mentone tre, Ventimiglia cinquanta,
Poggiorinaldi tre, San Remo e Ceriana sessanta, Taggia venticinque,
Porto Maurizio cinquanta, Pietra dieci, Santo Stefano cinque, i conti
di Ventimiglia trentatre, Lingueglia e il Castellaro quindici, Triora
cinquanta, Diano quaranta, Cervo quindici, Andora trenta, Albenga
sessantadue e il suo vescovado quarantacinque, il marchese di Clavesana
quaranta, Cosio e Pornassio otto, Finale sessantadue, Noli venticinque
e il suo vescovado tre, Cugliano dieci, Savona sessantadue, Albissola
sei, Varazze e Celle cinquanta, Voltri cento, Polcèvera settantacinque,
Bisagno cento, Recco venti, Rapallo trenta, Chiavari cento, Sestri
settantacinque, Levanto venti, Passano e Lagnoto tre, Materana e i due
Carodani cinque, Corvara cento, Carpena settantacinque, Porto Venere
venticinque, Vezzano diciotto, Arcola dieci, Trebiano tre, Lèrici tre;
cioè in tutto millecinquecentoquarantatre.

Il Varagine dice che nel 1203 la Liguria allestì una flotta di
ducento galee, ognuna con ducentoventi in trecento uomini, cioè
quarantacinquemila combattenti, eppur ne rimasero abbastanza per
armarne altre quaranta, senza sguarnire la città e le riviere.
Poniamo novemila i rimasti, la popolazione marittima sarebbe stata
di cinquantamila teste; e ritenendola un sedicesimo della popolazione
totale, porterebbe questa a circa novecentomila abitanti. Nella _Storia
delle alpi Marittime_ del GIOFFREDO sono riferiti molti di questi
riparti, con assai particolarità della storia genovese.

[37] _Monum. Hist. patriæ_, pag. 190. Leges municipales.

[38] GIOFFREDO, op. cit.

[39] GIOFFREDO, col. 666.

[40] Un comune di signori è indicato nel diploma con cui Enrico III nel
1014 confermava _hominibus majoribus habitantibus in marchia saonensi_
tutte le cose e proprietà del mare sin a metà del monte, e le ville, i
livelli, le pescagioni e caccie ch’erano soliti avere; in quel tratto
non si fabbrichino castelli, nè si metta alcuna sovrimposta. _Monum.
Hist. patriæ_, Chart. I. 404.

[41] _Monum. Hist. patriæ_, pag. 284. Leges municipales.

Nel 1105 al marchese Alderamo che la chiedeva, i consoli concessero la
cittadinanza di Genova, promettendo ajutarlo come fosse un cittadino
della loro compagnia; salvo che non accetteranno testimonj fuorchè
abitanti nel vescovado, in cause concernenti cose poste nel vescovado;
se esso cederà i proprj castelli per occorrenza di guerra, essi non
glieli torranno; e se per ciò abbia danno o guerra, essi nel rifaranno
e ajuteranno; e se, morto lui, la moglie e i figli suoi giurino la
stessa convenzione, essi gliela manterranno: la qual convenzione sarà
osservata finchè egli l’osservi. Alderamo reciprocamente prometteva
esser cittadino di Genova, e abitarvi esso e suo figlio a volontà
de’ consoli, e adempiere il giuramento della compagnia del Comune
di Genova; darà i suoi castelli al Comune quando invitato per far
la guerra che sia decretata dalla pluralità de’ consoli; quando il
Comune di Genova faccia guerra, esso andrà in campo con due militi,
a proprie spese e a volontà della maggioranza de’ consoli; gli uomini
che erediterà, dopo morta sua madre, dal Giovo al mare, sottoporrà al
servizio militare pel Comune suddetto; non obbligherà, nè venderà o
infeuderà Varazino; terrà immuni nel suo distretto i Genovesi e le cose
loro; soltanto si riserva di non dovere far guerra al Comune di Acqui.
— _Liber jurium_, pag. 51.

Seguono i patti col conte di Lavagna e con molti altri signori, e n’è
pieno il volume stampato nei _Monumenta historiæ patriæ_.

[42] Sotto il 270 gli _Annali genovesi_ dicono: _Januensis civitas cum
toto districtu suo in amaritudine morabatur; regnabat enim inter cives
et districtuales divisio, quæ adeo succrevit, quod invalescentibus
voluntatibus partium venenatis, per villas et loca communis Januæ cædes
et homicidia indifferenter committebantur et prœlia. Qua ex causa ex
utraque parte banniti sunt infiniti, qui irruentes in stratas publicas,
insultabant homines, homicidia committebant, spoliantes nedum inimicos
sed etiam quoslibet transeuntes etc._

[43] _Johannes, Dei gratia Venetiarum, Dalmatiæ atque Croatiæ dux,
dominus quartæ partis et dimidii totius imperii romani, de consensu
et voluntate minoris et majoris consilii sui, et communis Venetiarum,
ad sonum campanæ et vocem præconis more solito congregati, et ipso
consilio etc._ Vedi tom. VI, p. 264.

Non è senza singolarità che, d’un Governo durato fin all’età nostra,
sia così vacillante e oscura la descrizione; ogni autore cambia
e l’epoca e le attribuzioni de’ varj magistrati; il Daru peggio
degli altri, se si credesse a Giacomo Tiepolo (-1812), il quale lo
accompagnò d’un nojosissimo commento; ma il Tiepolo stesso è smentito
da posteriori, che neppur essi n’andarono senza contraddizione;
ed ognuno taccia l’altro d’ignorante, di negligente, di invido, di
denigratore. Certamente il Daru conobbe pochissimo di quel meccanismo
complicato; e sebbene, scrivendo sotto il despotismo napoleonico, per
allusione disapprovi gli arbitrj altrui e l’onnipotenza della Polizia,
però frantende o disama le libertà storiche. Eppure è il solo letto
e ristampato: ma come lamentarcene se non facciamo di meglio? il
criticare è facile, non tanto il fare.

[44] «Molti capi andavano dal doge e consegier a lamentarse de tal
novità et esclusione; dove che poi quelli erano fati passar in una
camera segreta, e la notte strangoladi, e poi la mattina attaccadi con
la corda al collo al palazzo». Cronaca citata dal Daru. Probabilmente
allude alla congiura di Marin Boconio, di cui il Sanuto riferisce
che alcuni congiurati erano chiamati in palazzo, e subito, serrata
la porta, venivan spogliati e butati nel Trabucco de Toresella e
morti.... Poi furono tolti i corpi de alcuni e posti in piazza, facendo
comandamento che, in pena della testa, niuno li toccasse. E veduto che
niuno ardiva toccarli, conobbero aver il popolo ubidiente».

[45] Una tal Giustina, che abitava in Merceria, gettò dalla finestra
un mortajo, che colpì non Bajamonte, come si suol dire, ma il
portastendardo, e sgomentò i seguaci. Offertole un premio, ella domandò
di poter esporre ogni anno, nel giorno di san Vito, lo stendardo collo
stemma di San Marco alla finestra fatale; e la casa dove stava non
dovesse mai pagare più di quindici ducati di pigione ai procuratori di
San Marco, cui apparteneva. Sulla diroccata casa del Tiepolo fu posta
una colonna infame coll’iscrizione:

    De Bajamonte fo questo terreno
    E mo per lo so iniquo tradimento
    S’è posto in comun per altrui spavento
    E per mostrar a tutti sempre seno (_senno_).

Sul fine della Repubblica veneta, quando tutto dovea sonare democrazia,
taluno propose di ripristinar l’onore del Tiepolo, come benemerito
d’aver tentato spezzare quell’oligarchia, di cui non era male che
allora non si dicesse, erigergli un monumento, e fargli esequie
anniversarie. Vi fu chi osò porre in dubbio i costui meriti; atto
coraggioso in tempo che si considera empietà ogni irriverenza agl’idoli
del giorno: molto si scrisse pro e contro, e intanto arrivarono i tempi
da non curar più nè le infamie nè le glorie passate. La colonna andò
poi a smarrirsi in una villa del lago di Como.

[46] Il nome d’_inquisitori di Stato_ venne in uso nel 1600; prima
chiamavansi _inquisitori del consiglio dei Dieci_. Dallo spoglio degli
archivj si trova che fecero

  dal 1573 al 1600 processi  73
  dal 1600 al 1700    —     554
  dal 1700 al 1773    —     646, cioè sei all’anno.

[47] _Chron. Novalicense_, v. 14.

[48] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. col. 217.

[49] Tra altri, frà Salimbeni racconta che nel 1216 gelò sì fattamente
il Po, che le donne vi menarono un ballo, e i cavalieri una giostra. Il
Gennari, negli _Annali di Padova_ al 1302, soggiunge che, sul fine del
secolo passato, essendosi gelato il Bacchiglione, quei di Pontelongo vi
fecero una festa da ballo, alla quale accorse tutto il vicinato.

[50] In un registro dell’archivio civico di Vercelli sta un curioso
catalogo delle robe che, nel 1203, i Pavesi aveano rubate dal castello
di Robbio, col rispettivo valore, e di cui si domandava il rintegro:
tre cavalli lire novantasei: ventiquattro loriche, trentanove pancere,
ventun capironi, quarantuna maniberghe, trentotto canberìe in tutto
lire seicentosedici e soldi otto; scudi quarantasei, altrettante spade;
schinieri ventiquattro, falcioni sedici; poi dodici botti, quattro
bottali, due tini; carraletti due, quattro coltrici, due cuscini, e
così via.

[51] Il duca d’Atene proibì ai Fiorentini di portar merci a San
Geminiano perchè non volle rimpatriare certi sbanditi. Lo statuto di
Chieri vuole che, chi ricetta un omicida, paghi venticinque lire; se
non le ha, gli si guasti la casa e tagli la vigna. CIBRARIO, _Economia
pol. del medio evo_.

[52] Lo statuto di Mantova a lunghissimo provvede intorno ai cavalli e
ai difetti loro. Ivi (lib. IV. rub. 17) è ordinato che in ogni terra di
quindici famiglie (_habente XV lares_) siavi un ferrajo e sufficiente
quantità di chiovi e ferri pei cavalli d’arme che passassero.

[53] L’irrigazione era già conosciuta dagli antichi; onde il
virgiliano, _Claudite jam rivos, pueri; sat prata biberunt_. Columella
cita Porcio Catone, che distingue il prato _siccaneum_ e il prato
_riguum_, e suggerisce di non farli nè in piano troppo declive, nè in
fondo tropo concavo.

Nei conti antichi de’ monaci di Sant’Ambrogio e di Chiaravalle a Milano
non occorre cenno de’ formaggi. Al 1494 sono menzionati formaggi da
libbre piccole quattordici; il che è appena un decimo de’ presenti.

[54] Gregorio vescovo di Bergamo, nel 1136, concedette ai monaci
cistercensi un territorio allo sbocco della valle Seriana, detto
Vall’Alta, pel livello di dodici libbre di cera l’anno. I nomi di
Cerreto, Cerretina, Gagio, Roncarizio, che ancora vi si conservano,
ricordano le boscaglie, addensate ove ora son prati e vigneti. I
Cistercensi diedero quelle terre a coloni temporarj obbligati anche
a difendere il monastero e la chiesa; e poichè furono dissodate, le
concessero a commendatarj, i quali le affidavano a coloni stabili,
che finirono col diventare livellarj. GATTI, _St. dell’abbazia di
Vall’Alta_. Milano 1853.

[55] Re Astolfo, da Pavia il 10 febbrajo 733, nel privilegio a favore
di Anselmo suo cognato, fondatore dell’insigne badia di Nonantola,
donava un oliveto posto presso al castello d’Aghinolfo tra Pietrasanta
e Massa.

Nel 753 due figli di Walperto, duca dei Longobardi in Lucca, rinunziano
al fratello Walprando vescovo di Lucca, per un pezzo d’oro a guisa di
torre, la loro porzione di tenuta in Tucciano, con vigne, oliveti e
coloni. _Mem. lucchesi_, tom. V. p. I.

Nel 779 un Pistojese, partendo per un viaggio, lascia testando tutti i
suoi beni ai poveri, eccetto un oliveto posto in Orbiniano, che assegna
al monastero di San Bartolomeo in Pistoja. _Arch. dipl. fiorentino,
carte del San Bartolomeo di Pistoja._

Nell’818 le monache di Santa Lucia di Lucca investendo il parroco di
San Pietro a Nocchi, gli imponevano di dar loro la metà del ricolto
di vino, ghiande, fichi secchi, castagne, olio. Ed oggi pure l’olio
eccellente forma la ricchezza maggiore di quella valle. In una carta
del 779 si rammenta l’oliveto di Arliano in val del Serchio. _Mem.
lucchesi_, tom. IV. p. I.

[56]

                  _Pratis Longula dives_
    _Et virides nutrit oleas, Bacchique liquores_....
    _Non est mons alius melius tibi, Bacche proterve,_
    _Non alibi tantum placuit sua sylva Minervæ._
                                       MOYSE.

[57] Ai mali che talora portavano carestia, bisogna aggiungere le
cavallette, delle quali cade frequente memoria. Andrea prete nell’871
ricorda che si lanciarono sul Bresciano, Cremonese, Lodigiano, Milanese
a torme, consumando i grani minuti. Altrettanto narra Giovanni Diacono
della Campania e di Napoli; e sono descritte con quattro ale, sei
piedi, bocca assai larga, vasto intestino, due denti più duri che
pietra, con cui rodeano qualunque solida corteccia, lunghe e grosse
quanto un pollice, e drizzantesi verso occidente. S’aggiunge che
in quell’anno a Brescia piovve sangue per tre giorni, il che può
attribuirsi alle crisalidi di quegl’insetti; come anche quanto Andrea
narra che, verso Pasqua, in Lombardia si trovarono le foglie coperte
di terra che credevasi piovuta. Stefano III, oltre l’aspersione
d’acquasanta, prese il metodo, oggi ancora usato, di pagare cinque o
sei denari ogni stajo che i contadini ne portassero. Federico II nel
1231, essendone la Puglia devastata, ordinò che ciascuno, la mattina
prima del levar del sole, ne pigliasse quattro tomoli, e li consegnasse
ai ministri del pubblico per bruciarli. Linneo le chiamò _acridium
migratorium_; ma l’_acridium italicum_ è indigeno e infesta la Romagna,
e nel 1825 guastò il Mantovano e il Veronese, e alcuno crede tali
guasti dovuti specialmente alla _gamma nottua_. Girolamo Cardano (_De
subtilitate_, lib. IX. p. 364) dice che per esperienza si conobbe
che il miglior riparo è distruggerne le ova. La maremma toscana ne
fu spessissimo devastata, e nel 1716, nelle sole campagne di Massa,
Monterotondo, Gavorrano, Ravi, Scarlino, in due mesi se ne presero e
bruciarono seimila staja. TARGIONI TOZZETTI, _Relaz. di viaggi_, IV.
162.

[58] TARGIONI-TOZZETTI, ivi, IV. 275.

[59] GALVANO FIAMMA. Il conte D’Arco dice non aver trovato menzione
del riso negli ordini mantovani fin al 1481. Nel 1550 i Gonzaga
prescrissero, «le risaje non si facessero dentro cinque miglia vicino
alla città» (_Economia_, 279). È noto che col riso s’introdussero molte
specie palustri, la _leersia_, la _bidens cernua_, l’_ammannia_, il
_cyperus difformis_....

[60] Dopo il 1340 vi lavorarono i migliori artisti: Giovanni, Ugo,
Nicolino, Antonio da Campione ne fecero le suntuose porte e il
battistero che ora è nella cattedrale; Bertolasio Morone il campanile;
Bartolomeo Buono e Andreolo de’ Bianchi una croce con statue e
bassorilievi d’argento; dal 1363 innanzi vi dipinsero Pasino e Pietro
da Nova, e Giorgio da San Pellegrino.

[61] _Rer. It. Scrip._ VIII. 1107.

[62] GENNARI, _Ann. di Padova_ al 1276, 92, 93; e le leggi 1339, 1360
ecc.

[63] GHIRARDACCI, _passim_ e principalmente al 1293.

[64] JACOPO DA VARAGINE.

[65] Registri battesimali non si tenevano. In Firenze, dove unico
battistero è quello di San Giovanni, il pievano buttava in un bossolo
per ogni maschio una fava bianca, una nera per ogni femmina, e al fin
d’anno si contavano. I primi registri sono di Siena nel 1379, di Pisa
nel 1457, di Piacenza nel 1466. Il concilio di Trento ne decretò poi la
regolare tenuta. Giovan Villani fa al 1280 la popolazione fiorentina
di novantamila abitanti, e morirne ottantamila; poi al 1340 pone
cenventimila abitanti. Nel 1351 si noverano mille ottocentosettantotto
fuochi, che a sette per uno non arriverebbero settantasettemila bocche.
Se dice giusto Coro Dati che vi si consumavano cento moggia di grano
il giorno, dando uno stajo per bocca al mese, non si passerebbero le
settanduemila.

[66] GHIRARDACCI al 1288.

[67] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie_, lib. XI.

[68] Gli statuti di Garessio sono del 1278. Vedi _Cronaca di Siena_ di
NERI DONATO, nei _Rer. It. Scrip._, XV.

[69] In uno dei tanti incendj di Bologna avvenne che il gesso, di
cui erano costruite le case, si cocesse, e gettatavi l’acqua per
ispegnerlo, fece una presa maravigliosa. Il fatto fu avvertito, e
d’allora si cominciò a usare il gesso cotto per costruzioni, cornici,
statue e altro. GHIRARDACCI al 1210.

[70] «Il nostro Comune, per guerra ch’ebbe co’ Pisani per lo fatto
di Lucca, si trovò aver accattati da’ suoi cittadini più di seicento
migliaja di fiorini d’oro: e non avendo donde renderli, purgò il
debito, e tornollo a cinquecentoquattro migliaja di fiorini d’oro
e centinaja, e fecene un monte, facendo in quattro libri, catuno
quartiere per sè, scrivere i creditori per alfabeto, e ordinò con certe
leggi penali, alla camera del papa obbligate, chi per modo diretto o
indiretto venisse contro a privilegio e immunità ch’avessono i danari
del Monte. E ordinò che in perpetuo ogni mese, catuno creditore dovesse
avere e avesse, per dono d’anno e interesse uno danajo per lira, e
che i danari del Monte ad alcuno non si potessono tôrre per alcuna
cagione o malificio o bando o condannagione che alcuno avesse, e che
i detti danari non potessero essere staggiti per alcuno debito nè per
alcuna dote, nè fare di quelli alcuna esecuzione; e che lecito fosse a
catuno poterli vendere e trasmutare; e così catuno in cui si trovassono
trasmutati, que’ privilegi e quell’immunità e quello dono avesse il
successore che ’l principale. E cominciato questo agli anni di Cristo
1345, sopravenendo al Comune molte gravi fortune e smisurati bisogni,
mai questa fede non maculò, onde avvenne che sempre a’ suoi bisogni
per la fede servata trovava prestanza da’ suoi cittadini senz’alcun
rammaricamento: e molto ci si avanzava sopra il Monte, accattandone
contanti cento, e facendone finire al Monte altri cento, a certo
termine n’assegnava dugento sopra le gabelle del Comune, sicchè i
cittadini il meno guadagnavano col Comune a ragione di quindici per
centinajo l’anno.... Di questi contratti dei comperatori si feciono
in Firenze l’anno 1353 e 54 molte quistioni, se la compera era lecita
senza tenimento di restituzione o no, eziandio che il comperatore
il facesse a fine d’avere l’utile che il Comune avea ordinato ai
creditori, e comperando i fiorini cento prestati al Comune per lo primo
creditore, venticinque fiorini d’oro, e più o meno come era il corso
loro. L’opinione de’ teologi e dei leggisti in molte disputazioni
furono varie, che l’uno tenea che fusse illecito e tenuto alla
restituzione, e l’altro no, e i religiosi ne predicavano diversamente:
que’ dell’Ordine di san Domenico diceano che non si potea fare
lecitamente, e con loro s’accordavano i Romitani; i Minori predicavano
che si potea fare, e per questo la gente ne stava intenebrata». III.
106.

[71] CIBRARIO, _St. di Chieri_, I. 473.

[72] TRONCI, _Ann. pisani_; AMMIRATO, _Storie_, lib. XIX.

[73] FIAMMA, _Manip. florum_; GATTARO, _Hist. Patav._, in _Rer. It.
Scrip._, tom. XVII; MUSSO, _Chron. Placent._ Ivi.

[74]

    † _Non fuit ignarus cujus domus hæc Nicholaus_
      _Quod nil momenti sibi mundi gloria sentit._
      _Verum quod fecit hanc non tam vana coegit_
      _Gloria, quam Rome veterem renovare decorem._
    † _In domibus pulcris memor estote sepulcris,_
      _Confisque tiu non ibi stare diu_
      _Mors vehitur pennis. Nulli sua vita perennis._
      _Mansio nostra brevis, cursus et ipse levis_
    † _Si fugias ventum, si claudias ostia centum_
      _Lisgor mille jubes non sine morte cubes._
      _Si maneas castris ferme vicinus et astris_
      _Ocius inde solet tollere quosque volet._
    † _Surgit in astra domus sublimis. Culmina cujus_
      _Primus de primis magnus Nicholaus ab imis_
      _Erexit, patrum decus ob renovare suorum;_
      _Stat patris Crescens matrisq. Theodora nomen_
    † _Hoc culmen clarum caro depignere gessit_
      _Davidi tribuit qui pater exhibuit._

È attorniata di lettere majuscole, delle quali tentò la interpretazione
il p. Tommaso Gabrini.

[75] Caterina di Viennois, principessa d’Acaja nel 1339, per aver
carne da un macellajo di Pinerolo dovette dargli in pegno un bicchiere
d’argento. CIBRARIO, _Economia pol. del medioevo_.

[76] _Cronaca di Sanminiato_, ap. BALUZIO, I. 457.

[77] Nel testamento dell’arcivescovo milanese Andrea: _Pascere debeat
pauperes centum, et det per unumquemque pauperem dimidium panem, et
companaticum lardum, et de caseo inter quatuor libra una, et vino
stario uno_.

[78] GIULINI, _Memorie della città e campagna milanese_, tom. V, p. 473.

[79] _Egloga_ VII.

[80] — Poserò in mezzo del castello una colonna con portico, sotto il
quale si raccolgano i padri per fuggire il caldo e trattare delle cose
loro. Aggiungivi che la gioventù sarà meno nei suoi giuochi dissoluta
alla presenza de’ patrizj». LEON BATTISTA ALBERTI, _Architettura_, lib.
VIII. c. 6.

[81] Vedi il Boccaccio.

[82]

                            Fiorentino
    Mi sembri veramente quand’io t’odo.
                     _Inf._, XXX.

    Sòstati tu, che all’abito mi sembri
    Essere alcun di nostra gente prava.
                     Ivi, VII.

[83] La legge suntuaria di Lucca, del 20 ottobre 1587, che vegliò
fino al termine della repubblica, proibiva in sostanza tutti i lavori
stranieri sì di metalli preziosi che di sete e lane, le vere e le false
gemme e perle, i ricami, le vesti d’altro colore che nero, le penne,
le piume, i fiori di seta, i capelli finti, i pendenti alle orecchie,
i lunghi strascichi. Si concedevano cappelli e abiti neri agli uomini
e alle donne; alle spose per un anno vesti di seta colorate; alle
vedove, abito di lana nero; ogni cosa semplice, senza trine nè lavori
d’intaglio, passamani o frangie; se si voleva un guarnimento, aveva
ad esser di seta e del colore stesso del drappo, e semplice e un
solo giro all’estremità. Le calze alle donne o bianche o nere; agli
uomini, o nere o grigie. Alle fanciulle impedito il vestire di seta;
concedevansi di seta le maniche e i grembiuli, i collari di taffetà;
ma a tutti vietavansi i listelli e ricami e telette d’oro e d’argento
fino o falso. I forestieri erano tenuti soggetti alla legge un anno
dopo che fossero in Lucca, e i magistrati o capitani usar potevano di
piume essendo in uffizio od in funzione: le loro donne erano eccettuate
dalla legge sin che i mariti duravano in carica. Pure, perchè anche
in Lucca lavoravasi d’argento e d’oro, si permise poi qualche filza
di bottoncini d’argento, qualche fettuccia di seta ad intrecciar i
capelli, cuffie di velo o tela, una rete d’oro filato con occhietto
d’oro, un fregio e un vezzo d’oro del valore di trenta scudi da mettere
al collo, con una collana pure d’oro (sempre tirato alla trafila a
maglia) di scudi cento; un paio di smaniglie d’oro di trenta scudi, e
un altro di bottoncini d’oro o d’argento di egual valore; una cintura
di scudi ottanta o d’oro o d’altro non proibito dalla legge, senza
smalti, fuorchè nelle serrature; e di gioje o perle appena qualcuna, ma
solo negli anelli; di cristalli e coralli, soltanto ne’ vezzi; profumi
e paste odorifere nulla, eccetto che nei guanti. Sicchè una donna
poteva comparire in pubblico fornita di tanta roba preziosa per più che
quattrocento scudi, i quali oggi rappresenterebbero più che dodicimila
franchi. Volevasi la legge eseguita; per ciò multa e carcere ai
maschi se mancavano, e alle femmine multa e confino in casa. Quindi ad
impegnar queste a fuggire ciò che innanzi appetivano, la legge permise
alle meretrici quello che proibiva alle oneste. TOMMASI, _Sommario_.

Uno statuto fiorentino del 24 marzo 1299 porta: _Si qua mulier voluerit
portare in capite aliquod ornamentum auri vel argenti, vel lapidum
preciosorum vel etiam contrafactorum, vel perlarum, teneatur solvere
Comuni florentino pro quolibet anno 50 libr. f. p.; salvo quod possit
quælibet domina, si sibi placuerit, portare aurum filatum vel argentum
filatum usque in valorem libr. 3 ad plus. — Et si qua mulier voluerit
defferre ad mantellum fregiaturam auri vel argenti vel serici texti
cum auro vel argento, vel scannellos aureos vel argenteos vel perlas,
teneatur solvere Comuni florentino libr. 50 f. p. pro quolibet anno. —
Et si qua mulier voluerit portare aliquod ornamentum perlarum in aliqua
alia parte vestimentorum sui corporis, teneatur solvere dicto Comuni
florentino libr. 50 f. p. pro quolibet anno._ Nell’archivio delle
Riformagioni.

Fra gli altri, possono vedersi gli _Statuti suntuarj circa il vestire
degli uomini e delle donne_, ordinati prima dell’anno 1322 dal Comune
di Perugia, e pubblicati ivi dal Vermiglioli nel 1821. Altri del 1416
pubblicò il Fabbretti nell’_Osservatore del Trasimeno_ 1846, tratti
dagli _Annali decemvirali_ di Perugia. La motivazione di essi è che
alcune donne fanno disonesta portatura, avendo mantelli in capo,
sicchè non si discernono le vedove dalle maritate, le cittadine dalle
forestiere; e sin meretrici e donne di mala fama e serve di preti
portano mantelli onorevoli come le mogli de’ migliori cittadini.
Laonde i Decemviri «fanno bandire et commandare che non sia veruna
femena, meretrice, inonesta, de mala fama, de qualunque stato et
conditione sia, così citadina come contadina et forestiera, ac etiandio
fancella de preite o d’altri religiosi, che per alcuno modo overo
quesito colore, ardisca portare mantello de più lunghezza che persino
alli ginocchi.... E che a ciascuno offitiale... sia leceto cercare,
inquirere et investigare contro qualunque persona delle sopradicte che
contrafacessero nelle predicte cose».

Le noje causate dalle leggi suntuarie, e i sotterfugi delle donne sono
lepidamente esposti da Franco Sacchetti, _Nov._ CXXXVII: — Veggendo
certi cittadini le donne portare ciò che esse voleano senza alcun
freno, e sentendo la legge fatta, e ancora sentendo l’officiale nuovo
esser venuto, vanno di loro certi ai signori, e dicono che l’officiale
nuovo fa sì bene il suo officio, che le donne non trascorsono mai nelle
portature, come al presente faceano. Onde li signori mandarono per lo
detto officiale, e dicendoli come si maravigliavano del negligente
officio, che faceva sopra gli ordini delle donne, il detto messer
Amerigo rispose in questa forma: Signori miei, io ho tutto il tempo
della vita mia studiato per apparar ragione; e ora, quando io credea
sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla; perocchè cercando degli
ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m’avete dati,
sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come sono quelli
ch’elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E’ si
trova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio:
il notajo dice: Ditemi il nome vostro; perocchè avete il becchetto
intagliato. La buona donna piglia questo becchetto che è appiccato
al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice ch’egli è
una ghirlanda. Ora va più oltre: trovo molti bottoni portare dinanzi;
dicesi a quella che è trovata: Questi bottoni voi non potete portare;
e quella risponde: Messer sì, posso, chè questi non sono bottoni, ma
sono coppelle; e se non mi credete, guardate, e’ non hanno picciuolo,
e ancora non c’è niuno occhietto. Va il notajo all’altra che porta gli
ermellini, e dice: Che potrà apporre costei? Voi portate gli ermellini;
e la vuole scrivere; la donna dice: Non iscrivete, no, chè questi non
sono ermellini, anzi sono lattizzi...»

[84] _Leges municipales_ 248, 99, 66 nei _Monum. Hist. patriæ_.

[85] _Corbelletur in lacu ita quod submergatur_: lib. I. rub. 23, e
lib. V. rub. 12.

[86] _Antiq. M. Æ._, I. 902.

[87] DINO COMPAGNI. — _Dottata_ per temuta.

[88] Parodiò questi sonetti Cene dalla Ghitarra aretino, voltando in
peggio ogni cosa:

    Io vi dono nel mese di gennajo,
    Corti con fumo al modo montanese;
    Letta quali ha nel mare il Genovese,
    Ed acqua e vento che non cali majo, _ecc._

[89] VILLANI, _Storie_, VII. 131, X. 218. BOCCACCIO, _Giorn._ VII.
_nov._ 9. — Di sciagurata memoria fu Nicolò Salimbeni, ricordato da
Dante nel XXIX dell’_Inferno_, che istituì la brigata godereccia a
Siena di molti giovani, i quali posero in comune ducentomila fiorini, e
in venti mesi vi diedero fondo straviziando.

[90]

    _Hastarum ludis et cursibus usus equorum,
    Ac proponendo vincenti præmia curso._
              _De bello balearico_. Rer. It. Scrip., VI.

RADEVICUS, _De gest. Friderici Aug._, lib. _ii_. c. 8.

DANTE, _Inf._, XXII. E Fazio degli Uberti nel _Dittamondo_:

    Giovani bagordare alla quintana,
    E gran tornei e l’una e l’altra giostra
    Far si vedea con giochi nuovi e strani.

[91] Abbiamo manoscritte le particolarità d’una giostra ordinata il
1481 da Alvise Vendramin in Treviso, dove compajono Bernardino da
Pola con cento cavalli, cinquanta mori con banderuole e targhe alla
turchesca, tamburi, nacchere, trombe otto, con diciassette sopravesti
fra oro, argento e seta; Stefano dal Corno con altrettanti cavalli,
quattro staffieri vestiti di _restagno_ d’oro, dieci sopravesti d’oro
e argento, trombe, pifferi, quattro elmi forniti d’oro, con quattro
garzoni di dieci anni vestiti d’oro; Giovanni da Onigo cencinquanta
fanti e cencinquanta cavalli, e trenta garzoni vestiti all’antica e
con schinieri; Orlandino Braga con ottanta cavalli e trenta fanti con
targhe e bastoni all’antica; Lionardo Volpato con cento pedoni aventi
celate d’argento con coda di volpe, ducento cavalli, quattro buffoni,
un carro trionfale con un monte alto trenta piedi con cinquantasei
putti sui quattro gradini, e due draghi che li conducevano, e trenta
Mori vestiti di bianco. Cecco da Pola avea venti fanti, dieci fauni,
due ciclopi e una montagna con Eolo e i quattro venti; dalla quale
usciti uomini silvestri ignudi, combatterono coi fauni. Aggiungi
un Cupido con trenta fantolini a cavallo nudi con facelle in mano,
e ducento ninfe; e un trionfo con un Ganimede in cima, e Vulcano
con quattro putti: il qual trionfo era tirato da due centauri, con
quattro giganti uccisi dalle saette, e Nettuno, e dietro ducento
cavalli e dieci trombe. Girolamo da Verona ebbe cento cavalli, e venti
sopravesti di più sorta, e cento pedoni con una carica di selvaggina,
da cui uscirono dodici animali con teste di lupo: Girolamo Gravolin
cento cavalli e cinquanta fanti, e un Ercole armato sopra un leone
della grossezza d’un bue: Sosio da Pola, Stefano e Strafagio Azoni
cencinquanta cavalli, quaranta sopravesti d’oro, argento e seta,
ducento fanti con corazze, spiedi, ronconi, scudi, con un trionfo a
tre gradi, dov’era in cima Marte trionfante; ed altre bellezze, che
non poterono però compirsi in grazia del tempo. La giostra durò dalle
quindici ore fino alle ventitrè e mezzo, e premio furono trentasei
braccia di panno cremisino, foderato di vaj. Alla giostra presero parte
quattordicimila persone. — Ap. CICOGNA, _Iscriz. veneziane_, tom. I.
355.

[92] Tal solennità è descritta da un chierico Pier di Matteo da Pionta,
che un’altra, ma meno magnifica, ne avea veduta nel 1240.

[93] BOCCACCIO, _Introduzione_; AULICO TICINESE, _De laud. Papiæ_, cap.
XIII.

[94] La legge longobarda infligge novecento soldi al violatore di
sepolcri come ad un omicida (ROT., _leg._ 19), e Teodorico la morte
(_Edict._ 110); varie pene troviamo negli statuti, e le cronache e i
novellieri mostrano ogni tratto simili violazioni.

[95] SACCHETTI, _Nov._ 155.

[96] Manuscritto ap. MURATORI, _Ant. ital._, XLVI.

[97] LIUTPR., III. 4.

[98] _Tota regio illa_ (di Pavia) _mundatur a venenosis animalibus,
et maxime serpentibus per ciconias, quæ illic toto tempore veris et
æstatis morantur_. AUL. TICIN., cap. XI.

[99] BONCONTE MONALDESCHI, _Annali_. Rer. It. Scrip., XII.

[100] Il 2 luglio, da ciascuna delle diciassette contrade a cui son
ridotte le sessanta della decaduta Siena, eleggevasi un condottiere,
e divisati variamente, concorreano sulla stupenda piazza del Campo,
fatta a guisa d’una conchiglia, della circonferenza di trecentottanta
metri, circondata da fabbriche eleganti e col bel casino dei nobili,
avente statue e rilievi, e dipinti di Jacopo della Quercia e de’
fratelli Rustici. Nel secolo XIV si faceano corse di tori, poi nel
1590 si sostituirono corse di bufali, nel 1650 di cavalli, e così si
mantiene finora, trasferitolo al 16 agosto, con una marcia trionfale,
dove i capitani vestono come nel medioevo i colori del quartiere,
onorando un carro della Madonna; poi lanciansi a corso i cavalli, e
non potrebbe descriversi la smania che quel popolo mostra per la sorte
della gara; invocano Dio e la Madonna e il santo speciale di ciascuna
contrada, urlano, piangono, finchè sia assicurato il vincitore: allora
letteralmente portano lui e il cavallo in trionfo, e fin alla chiesa
della contrada, ove si depone in voto la bandiera.

[101] _Carnisprivium_ è spesso chiamato nelle carte vecchie; come
dai Greci αποκρεος _senza carne_. Altre volte dicesi _carnis levamen,
carnem laxare_, onde _carnasciale_.

[102] AUL. TICIN., cap. XIII.

[103] _Storie_, lib. XIII. LASCA, _Pref. alle Novelle_: «Semo ora
in carnevale; nel qual tempo è lecito a’ religiosi di rallegrarsi,
e i frati tra loro fanno al pallone, recitano commedie, e travestiti
suonano, ballano e cantano; e alle monache ancora non si disdice, nel
rappresentare le feste, questi giorni vestirsi da uomini colle berrette
di velluto in testa, colle calze chiuse in gamba e colla spada al
fianco».

[104] SAGORNINO, _Cronaca_.

[105] Luchino Visconti risparmiò all’erario milanese trentamila fiorini
d’oro, che annualmente si davano per mercede a giullari.

[106] AUL. TICIN., cap. XV.

[107] _Mem. del B. Enrico_, par. I. p. 21. Alla materia di questo
capitolo è necessario complemento il cap. CXXIII.

[108] Di tutto ciò porge esempj il San Vitale di Ravenna; un arco a
frontone è la porta postica di San Fedele a Como; un altro l’edifizio
circolare effigiato nel musaico dell’abside di Sant’Ambrogio a Milano.

[109] Dopo tant’altri, vedi QUAST, _Die Altchristlichen Bauwerke
von Ravenna_, Berlino 1842; e per quanto segue, SCHORN e THIERSCH,
_Reisen in Italien seit_ 1822; OSTEN, _Die Bauwerke in der Lombardei
vom siebenten bis zum vierzehnten Jahrhundert gezeichnet, und durch
historische Text erläutert_. Darmstadt 1846; SELVATICO, _Sulla
architettura e scultura_, Venezia 1847.

[110] L’autore è nominato _Volvinus_; e Texier e Didier Petit,
nell’_Essai sur les émaux_, lo fanno nativo di Limoges, perchè colà
fiorivano tali arti!

[111]

    _Hoc opus eximii præpollens arte magistri_
    _Bis novies lustris annis jam mille peractis_
    _Et tribus cœptum post natum Virgine Verbum._

[112]

    _Quod vix mille boum possent juga cuncta movere,_
      _Et quod vix potuit per mare ferre ratis,_
    _Buscketi nisu, quod erat mirabile visu,_
      _Dena puellarum turba levabat onus._

Così l’epigrafe ivi posta. Che Buschetto non fosse greco ma pisano
s’induce da un istromento del 2 dicembre 1105, il quale porta quattro
operaj del duomo di Pisa, Uberto, Leone, Signoretto e Buschetto, figlio
del _quondam_ Giovanni Giudice.

[113] Sono disegnati nell’opera di LUIGI MAZARA, _Temple antidiluvien
dit des Géants, découvert dans l’île de Calipso, aujourd’hui de Gozo
près de Malta_. Parigi 1827. Questo tempio fu supposto antediluviano.

[114] DE LUYNES, _Recherches sur les monuments et l’histoire des
Normands et de la maison de Souabe dans l’Italie méridionale_.
1844; SERRA DI FALCO, _Del duomo di Monreale e di altre chiese
siculo-normanne_. 1838.

[115] _Lettere senesi sopra l’arti belle_, tom. II, p. 75.

[116] Nelle commissioni che la repubblica di Genova dava il 1175
al Grimaldi per un trattato coll’imperatore di Costantinopoli,
leggiamo: _Item pro opere nostre matris ecclesie pulchra et laudabili
fabricacione ad honorem Dei et gloriosi martiris beati Laurentii....
petite a sanctitate imperiali XM perperorum et annuatim postmodum quod
conveniens videatur, donec opus Deo auctore, compleatur_. Ap. SAULI,
_Col. di Galata_.

La basilica dì Bologna fa eretta, come dice l’editto 31 gennajo
1390, _cupientes statum popularem et felicissimam libertatem hujus
almæ civitatis, Deo propitio, in æternum propagari, ut inexorabile
jugum durissimæ servitutis nos et posteri nostri propensius evitemus,
quod profecto acerbius foret propter amœnam degustationem floridæ
libertatis, quam ipse Deus nobis contulit_.

[117] Di edifizj gotici, nelle diverse gradazioni di questo stile,
in Sicilia, si hanno in Palermo la Matrice 1169, la Martorana 1139,
la Cappella palatina 1130, San Cataldo 1161, San Salvadore 1198, la
cattedrale di Catania 1170, il duomo di Monreale 1186, la cattedrale di
Cefalù 1131; a Roma Santo Spirito in Saxia 1198, San Giovanni e Paolo,
Sant’Antonio abate, Santa Pudenziana 1130, Santa Maria Transtevere
1139. Inoltre San Nicolò di Bari 1197; la cattedrale di San Leo 1173;
quella di Ferrara 1135; la torre della Garisenda a Bologna 1110;
Fonte Branda a Siena 1193, e il duomo di questa città 1180; a Pistoja
San Salvadore 1150, Sant’Andrea 1166, la facciata di San Bartolomeo
1167 e di San Giovanni; a Pisa Sant’Andrea 1110, la torre inclinata
1174, il battistero 1153, San Matteo 1125. A Genova si comincia San
Lorenzo 1199; a Piacenza la cattedrale 1117; a Parma il battistero
1196; a Padova Santa Sofia verso il 1200, e il battistero nel 1167; a
Cremona la cattedrale nel 1107; presso Milano la chiesa di Chiaravalle
1135; a Bergamo Santa Maria Maggiore 1134, e là vicino San Tommaso
di Almenno 1100. Poi nel secolo XIII Santa Maria del Fiore a Firenze
1298; San Francesco d’Assisi 1226; a Padova il Santo 1231; a Roma la
Minerva 1280; a Siena la facciata del duomo 1284; il duomo d’Orvieto
1290; d’Arezzo 1256; il camposanto di Pisa 1278, e Santa Maria della
Spina 1230; Santa Maria Novella 1279, e Santa Croce 1294 a Firenze; a
Napoli il duomo 1280; il battistero di Bergamo 1275; il campanile di
Cremona 1284; a Milano Sant’Eustorgio 1278, San Marco 1254, la piazza
dei Mercanti 1233; a Venezia i Frari e San Giovanni e Paolo 1246; la
cattedrale di Vicenza 1260; ad Arezzo Santa Maria dei Servi 1286, Santa
Margherita da Cortona 1297; Or San Michele 1284, la Santissima Trinità
1250, e il palazzo vecchio a Firenze; la facciata di San Lorenzo
a Genova 1260; Santa Maria del Popolo a Roma 1277. Al XIV secolo
appartengono Santa Anastasia, il duomo di Verona e San Pietro martire,
San Fermo Maggiore; a Pavia il Carmine 1373; a Venezia il campanile
dei Frari 1361, Santo Stefano 1325, il palazzo ducale 1350; a Firenze,
oltre i restauri d’Or San Michele e le cappelle della Madonna 1348 e di
Sant’Anna 1349, la loggia dei Lanzi 1355, la Certosa 1314; San Martino
di Lucca restaurato 1308; San Martino di Pisa 1332; il campanile di
Pistoja 1301; il duomo di Prato 1312; quel di Perugia 1300; il palazzo
Pepoli a Bologna 1344; Santa Chiara di Napoli 1328.

[118] Vedi marchese FERDINANDO CANONICI, _Studj sulla cattedrale di
Ferrara_, Venezia 1845.

[119] Fu primamente pubblicato dal DEL MIGLIORE nella _Firenze
Illustrata_ 1684, e se anche non è autentico, fu pensato e scritto di
quei tempi.

Ecco la cronologia di Santa Maria del Fiore:

  1294. Si decreta il rinnovamento dell’antica chiesa di
          S. Riparata.
  1296. È benedetta la prima pietra, e l’iscrizione dice:
        _Annis millenis, centum, bis octo nogenis_
        _Venit legatus Roma bonitate donatus,_
        _Qui lapidem fixit fundo simul et benedixit, etc._
  1334. Giotto è nominato architetto; si comincia il campanile.
  1350. Si ripiglia il lavoro, interrotto per la peste.
  1364. Si fanno le volte.
  1393. Si crea una balìa per provvedere a costruir la cupola.
  1420. Brunelleschi è nominato architetto della cupola
  1423. e di tutta la fabbrica.
  1462. Si finisce la lanterna.
  1474. Si mette la palla.
  1547. Si fabbrica il coro di marmo.
  1515. Si mette una facciata di legno.
  1588. Si demolisce la parte antica della facciata giottesca.
  1636. Se ne comincia una nuova, non mai compita.

Dicono che Arnolfo sotto l’edifizio aprisse grandi pozzi, acciocchè i
gas elastici, sviluppati per azione del fuoco centrale, vi trovassero
libera uscita; fatto notevole nella fisica d’allora.

[120] Sono de’ più curiosi documenti dell’arte i sedici progetti della
facciata, che stanno nella residenza della reverenda fabbrica, disegni
originali de’ primarj architetti. Dove giova avvertire che i migliori
maestri non palesarono per lo stile gotico quel disprezzo, che poi
parve un indizio di buon gusto. Palladio, interrogato sulla facciata
di San Petronio, voleva si conservasse il basamento, e s’acconciasse
il restante all’aria generale dell’edifizio; e mostrò come di gotico
sieno bellissime fabbriche per l’Italia. Sul fatto medesimo Pellegrino
Tibaldi asserisce che «li precetti di essa architettura sono più
ragionevoli di quello che altri pensa». Vedi molte delle lettere
del vol. III del _Carteggio d’artisti_ del Gaye, e singolarmente i
numeri CCXCV, CCCXLIX, CCCLXXX. Principale attenzione merita il numero
CCCCVIII, ove si discute sui modi di coprire San Petronio, alcuni
volendo ridurlo secondo Vitruvio, altri mantenere la foggia _tedesca_.

[121] Un’iscrizione (si noti che in molti edifizj già si trovano
iscrizioni italiane) dice: _El principio dil domo de Milano fu
nell’anno 1386_. È certo più moderna; e nel decreto 1387, 16 ottobre,
leggesi: _Ad utilitatem et debitum ordinem fabrica majoris ecclesiæ
Mediolani, quæ de novo, Deo propitio et intercessione ejusdem Virginis
gloriosæ, sub ejus vocabulo_, JAM MULTIS RETRO TEMPORIBUS INITIATA EST,
_quae nunc, divina inspiratione et suo condigno favore, fabricatur, et
ejus gratia mediante, feliciter perficietur_.

Negli _Annales archéologiques_ del 1845, sostenendosi l’origine
francese dell’architettura ogivale, è asserito che dal nord della
Francia vennero chiamati gli architetti a tracciare il piano d’essa
metropolitana, e si nomina specialmente Filippo Bonaventura di Parigi.
Gli archivj patrj ajutano scarsamente a conoscere i primi architetti:
ma nella prima adunanza di cui abbiamo gli atti, nel 1388 si trovano
gl’ingegneri Simone da Orsenigo direttore dei lavori, Marco, Giacomo,
Zeno, Bonino da Campione, Guarnerio da Sirtori, Ambrogio Ponzone;
tutti però mostrano decidere sopra un disegno d’un altro. Chi era
quest’altro? la tradizione nomina un Gamodia; ma Enrico di Gmunden
non venne che nel 1392, quando il lavoro già era inoltrato; disapprovò
tutto, espose al pubblico un modello d’un capitello dei piloni; ma che
altro facesse, non consta.

Essi Annali (p. 140) dicono: _Tous les architectes de ce célèbre
édifice sont connus, depuis le premier jusqu’au dernier. Dès la seconde
année des travaux, Philippe Bonaventure de Paris devenait maître de
l’œuvre, et conservait la maîtrise pendant huit ans, jusqu’à ce que des
événements politiques (l’expédition du comte d’Armagnac) le fissent
exiler de l’Italie, ainsi que les autres Français qui travaillaient
sous sa direction_. Asserzioni gratuite. Nel 1390 diffatti è un
protocollo _quod cassetur magister Nicolaus de Bonaventis_ (forse è
abbreviato) _inzign. a salario quod sibi datur pro fabr. et tollatur
ab opere ipsius fab. penitus_; e torna ingegnere in capo Simone
da Orsenigo. Molti Tedeschi vi lavorarono certo, quali Giovanni de
Fernach, Giovanni da Furimburg, Pietro di Franz, Hans Marchestein,
Ulrico Fusingen o Eisingen di Ulma.

Quando rivaleva il gusto classico, Cesare Cesariano pretese riscontrare
i precetti di Vitruvio in quella _maxima sacra ede baricefala_; nella
quale, a dir suo, ricorrono i numeri simbolici 7, 10, 12; cinquanta
piedi da un pilone all’altro dell’arcata; cinquanta si elevano
le colonne, metà le navi piccole, il triplo la facciata; e tutto
l’edifizio è tre volte la larghezza totale; sette finestre ha il coro,
e due volte sette colonne fiancheggiano le navate.

[122] V’è scritto:

    _Cosmas et filii Lucas, et Jacobus alter,_
    _Romani cives in marmoris arte periti,_
    _Hoc opus explerunt abatis tempore Landi._

Lando fu abate nel 1235.

[123] Sono qualificate di turrita Pavia, Volterra, Cremona, Siena,
principalmente Bologna. Vedi GOZZADINI, _Delle torri gentilizie di
Bologna_.

[124] In Santa Restituta, attigua al duomo di Napoli, mostrano la
Madonna del Principio a musaico, come fatto ai tempi di Costantino. Ma
l’iscrizione smentisce la tradizione, dicendo:

    _Annis dat clerus jam instaurator partenopensis_
    _Mille tricentenis undenis bisque retensis._

E ancor più difficilmente vi si legge: _Hoc opus fecit Lellus_. Ivi
nella cappella di San Giovanni in Fonte sono pitture del 550.

[125] Il Rosini dubita dell’autore o del tempo, atteso che sieno troppo
rozze: egli non vide quelle di Monreale.

[126]

    _Quicquid auro vel argento_
      _Et metallis ceteris,_
    _Quicquid lignis ex diversis_
      _Et marmore candido,_
    _Nullus unquam sic peritus_
      _In tantis operibus._
    _Horologium nocturnum_
      _Nullus ante viderat,_
    _Et invenit argumentum,_
      _Et primum fundaverat._

Si avverta la rima alla francese, cioè come se l’accento cadesse sempre
sull’ultima sillaba.

[127] Al tempo del Meschinello contenea milletrecento perle,
quattrocento granate, novanta ametiste, trecento zaffiri, trecento
smeraldi, quindici balasci, quattro topazj, due cammei preziosissimi,
incastonati in oro.

[128]

    _Munere divino, decus et laus sit Peregrino_
    _Talia qui sculpsit; opus ejus ubique refulsit._

[129] Per quelle opere riceveva soldi otto al giorno; il suo figlio
Giovanni quattro; sei gli altri allievi.

[130] La cronologia di queste opere è emendata dal Rosini, _St. della
pittura italiana esposta coi monumenti_, Pisa 1840 e seg., e dal p.
Marchesi. Vedi pure DAVIA, _Mem. storico-artistiche intorno all’arca di
San Domenico_. Bologna 1838.

[131] Il Davia trovò il documento originale, con cui i frati Minori nel
1288 ne danno la commissione a questi, per ducati 2150 d’oro.

[132] Egidio Boucher nel 1612 vedeva quelle pitture ad Aquisgrana, e vi
lesse questi versi:

    _A patriæ nido rapuit me tertius Otto_....
    _Claret Aquisgranæ tua qua valeat manus arte._

E nel suo epitafio:

    _Qua probat arte manus dat Aquis dat cernere planum_
      _Picta domus Karoli rara sub axe poli._

[133] In Napoli vedeasi Federico II in trono, e Pier delle Vigne in
cattedra, e lor davanti il popolo che chiedeva giustizia con questi
versi:

    _Cæsar amor legum, Federice piissime regum,_
    _Causarum telas, nostras resolve querelas:_

e Federico additando Pietro, rispondeva:

    _Pro vestra lite censorem juris adite._
    _Hic est, jura dabit, vel per me danda rogabit:_

e a Pietro usciva di bocca:

    _Vinea cognomen, Petrus judex est tibi nomen._

Le pitture di Subiaco si sa dalle cronache che furono fatte sotto i
papi Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, cioè dal 1198 al 1241.
Ora vi si legge _magister Consulus pinxit hoc opus_. Sarebbe dunque un
pittore antichissimo, romano probabilmente di nazione come di nome;
e se tutte son di sua mano, mostrerebbero che già staccavasi dalla
secchezza de’ Bisantini.

[134] La repubblica di Perugia nel 1297 ordinò di cancellare tali
ritratti. Altre volte si effigiavano i condannati: nel bando di
Federico II contro Verona il 1239 è detto che i ribelli erano ritratti
nella sala. Altre pitture si ordinarono nella sala della Ragione di
Padova.

[135] L’Escalopier fece nel 1843 a Parigi una nuova edizione di
quest’opera, attentamente collazionata e con versione francese e note:
esso la crede d’autore tedesco. Guichard vi unì una dissertazione
sull’autore, ch’e’ collocherebbe tra il fine del XII e il principiare
del XIII secolo. Vedasi i capi _De coloribus et de arte colorandi
vetra_, e _De rubricandis ostiis et de oleo lini_. Poi in quello _De
coloribus oleo et gummi terendis_ scrive: _Omnia genera colorum eodem
genere olei teri et poni possunt in opere ligneo, in his tantum rebus
quæ sole siccari possunt, quia, quotiescumque unum colorem imposueris,
alterum ei superponere non potes, nisi prior exsiccetur, quod in
imaginibus diuturnum et tædiosum nimis est. Si autem volueris opus
tuum festinare, sume gummi quod exit de arbore ceraso vel pruno, et
concidens illud minutatim, pone in vas fictile, et aquam abundanter
infunde, et pone ad solem, sive super carbones in hieme, donec gummi
liquefiat, et ligno rotundo diligenter commisce; deinde cola per
pannum, et inde tere colores et impone. Omnes colores et misturæ eorum
hoc gummi teri et poni possunt, præter minium et cerussam et carmin,
qui cum claro ovi terendi et ponendi sunt_.

[136] Giovanni pisano in Sant’Andrea di Pistoja scrisse:

    _Laude Dei trini rem ceptam copulo fini;_

a Pisa:

    _Laudo Deum verum, per quem sunt optima rerum,_
    _Qui dedit has puras homini formare figuras;_

a Castel San Pietro presso Pisa:

    _Magister Johannes... fecit ad honorem Dei et sancti Petri
          apostoli;_

a San Paolo fuor delle mura:

    _Summe Deus, tibi hic abbas Bartholomæus_
    _Fecit opus fieri, sibi te dignare mereri._

Duccio di Buoninsegna sotto la tavola del duomo di Siena pose:

    _Mater sancta Dei, sis causa senis requiei._
    _Sis Ducio vita te quia pinxit ita._

Gelasio di Nicolò a Ferrara:

    _Jesù spos dilet, a ti me rachomando, doname fede._

Sotto al quadro di Guido da Siena nella sua patria leggerebbero:

    _Me Guido de Senis diebus pinxit amœnis_
    _Quem Christus lenis nullis velit agere pænis_
            _Anno D._ MCCXXI.

Ma la critica obbliga a leggere MCCLXXXI.

[137] BISCIONI, _Lettere di santi e beati fiorentini_.

[138] Il signor Raynouard (_Choix des poésies originales des
Troubadours_) la sostiene: ma i medesimi accidenti incontransi
nel valacco, ben distinto dal romanzo. Il Perticari si valse degli
argomenti stessi per umiliare Firenze col derivare il parlar nostro dal
provenzale.

[139] Pier d’Alvernia, presso MILLOT, _Storia de’ Trovadori_. Una
raccolta di poeti provenzali nella biblioteca di Modena, fatta fin
dal 1254, porta quest’annotazione: «Maestro Ferrari fu da Ferrara e
giullare; e s’intendeva meglio di trovare ossia poetar provenzale,
che altro uomo che fosse mai in Lombardia; e meglio intendeva la
lingua provenzale, e sapea molto bene di lettere, e nello scrivere non
aveva persona che il pareggiasse. Fece di molti buoni libri e belli.
Cortese uomo fu di sua persona; andò e volentieri servì a baronie
cavalieri, ed a’ suoi tempi stette nella casa d’Este; e quando accadeva
che i marchesi facessero festa e corte, vi concorrevano i giullari
che s’intendevano di lingua provenzale, e convenivano a lui, e il
chiamavano maestro. E se alcuno ci venìa che s’intendesse meglio degli
altri, e che facessero quistioni del trovar suo e d’altri, maestro
Ferrari gli rispondeva all’improvviso, in maniera ch’egli era il primo
campione della corte del marchese d’Este. Da giovane attese ad una
donna che avea nome madonna Turca, e per lei fece di molte buone cose.
Venuto vecchio, poco andava attorno, pure si conduceva a Trevigi,
a messer Gerardo da Camino ed a’ suoi figliuoli, che gli facean
grand’onore e accoglienze e regali».

[140] Vedi il nostro _Ezelino da Romano, storia d’un Ghibellino esumata
da un Guelfo_.

[141] Ecco qualche strofa della Barca:

    _De quatre element ha Dio lo mont formà,_
    _Fuoc, ayre, ayga e terra son nomà._
    _Stelas e planetas fey de fuoc,_
    _L’aura e lo vent han en l’ayre lor luoc._
    _L’ayga produy li oysel e li peyson,_
    _La terra li jument e li om fellon._
    _La terra es lo plus vil de li quatre element,_
    _De la cal fo fayt Adam paire de tota gent._
    _O fang, o polver, or te ensuperbis!_
    _O vaysel de miseria, or te enorgolhis!_
    _Hornate ben, e quer vana beotà (beltà),_
    _La fin te mostrare que tu aures obrà._

V. RAYNOUARD, t. II. p. 103. Ma dell’età di quelle molto si dubita.

[142] TIRABOSCHI, IV. 51; e il nostro Cap. XC, nota 20.

[143]

    _Sim licet agrestis, tenuique propagine natus,_
      _Non vacat omnimoda nobilitate genus._
    _Non præsigne genus, nec clarum nomen avorum,_
      _Sed probitas vera nobilitate viget._

[144] Il padre Spotorno lo difende mostrando che i passi insulsi vi
furono interpolati.

[145] «Questa presente opera è stata impressa per Antonio de Alexandria
della Paglia, Bartholomeo de Fossombrono de la Marcha, et marchesino
di Salvioni milanese, nella inclita città, di Venexia, negli anni del
incarnatione MCCCCLXXXI». A correzione del Crescimbeni e del Tiraboschi
vedi _Il Maurolico_, giornale di Messina, nel novembre 1833.

[146]

    _Seu cantare juvat, seu ter pede læta ferire_
    _Carmina_...
                     CALPURNIO, Ecl. IV.

    _Dumque rudem præbente modum tibicine thusco_
    _Ludius æquatam ter pede pulsat humum._
                     OVIDIO, Ars. am.

[147]

    _Gallias Cæsar subegit, Nicomedes Cæsarem etc._
    _Ego nolo Florus esse etc._

e così il notissimo epigramma:

    _Animula, vagula, blandula._

Orazio, tutto greca umanità, chiama orrido il verso saturnio; ma
confessa che, malgrado de’ grecanici, si conservava ancora al suo
tempo:

                          _Horridus ille_
    _Defluxit numerus saturnius, et grave virus_
    _Munditiæ pepulere; sed in longum tamen ævum_
    _Manserunt, _hodieque manent_ vestigia ruris._
                     Ep. I. lib. 2.

[148] Ovidio amava cominciare col dattilo, Virgilio collo spondeo;
Claudiano gli alterna, e per lo più il primo piede è dattilo, spondeo
il quarto. La cesura nel secolo d’oro trovasi dopo il secondo piede;
Claudiano la mette dopo il primo e dopo il terzo. Al tempo della
decadenza si volle sempre terminato il verso con un bisillabo.

[149] San Paolino d’Aquileja prega il lettore a perdonargli _cum
aut per incuriam brevem pro longa, aut longam pro brevi_ trovasse; e
Fortunato di Valdobbiadene:

    _Posthabui leges, ferulas et munia metri;_
    _Non puto grande scelus, si syllaba longa brevisque_
    _Altera in alterius dubia statione locetur._

[150] Ne occorrono in questo volume frequenti esempj. — Nel Fabretti
leggiamo quest’epitafio:

    _Nome fuit nomen; hæsit nascenti Cosuccia,_
      _Utraque et hoc titulo nomina significo._
      _Vixi parum, dulcisque fui dum vixi parenti;_
      _Hoc titulo tegor, debita persolui._
    _Quisque legis titulum, sentis quam vixerim parum,_
      _Hoc peto nunc dicas, Sit tibi terra levis._

[151] Omero: Ἒσπετε νῦν, μοῦσαι, ὀλύμπια δόματ’ ἔχουσαι.

Spessissime sono le rime ne’ Greci, e massime nell’_Edipo a Colono_ e
nelle Trachinie di Sofocle.

    Orazio: _Non satis est pulchra esse poemata: dulcia sunto,_
            _Et quocumque volent animum auditoris agunto._
    Virgilio: _Cornua velatarum obvertimus antennarum._
    Ovidio: _Quot cœlum stellas tot, habet tua Roma puellas._
    Properzio: _Non non humani sunt partus talia dona;_
                _Ista deûm mentes non peperere bona._

Si sarebbe infiniti a volerli addur tutti; ma non isfugga che la prima
ode d’Orazio è quasi tutta rimata colle rime imperfette. Son pure
notissimi i quattro versi di Virgilio:

    _Sic quos non vobis fertis aratra boves_ etc.;

e questi di Ennio presso Cicerone, _Tuscul._:

    _Hæc omnia vidi inflammari,_
    _Priamo vitam evitari,_
    _Jovis aram sanguine turpari._

[152] Così san Colombano:

    _Differentibus vitam mors incerta surripit;_
    _Omnes superbos vagos mœror mortis corripit._

[153] In un antifonario bencorense, del VII od VIII secolo, il Muratori
trovava questi versi di rima perfetta:

    _Vere regalis aula — variis gemmis ornata,_
    _Gregisque Christi caula — Patre summo servata._

Pier Damiani nel 1053 ne usava di perfette ed imperfette:

    _Ave David fil_ia — _sancta mundo n_ata,
    _Virgo prudens, sobr_ia — Joseph despons_ata.
    _Ad salutem omn_ium — _in exemplum d_ata
    _Supernorum civ_ium — _consors jam prob_ata.

E altrove:

    _O miseratrix — o dominatrix — præcipe dictu_
    _Ne devastemur — ne lapidemur — grandinis ictu._

[154] Frà Jacopone da Todi compose quinarj sdruccioli:

    _Cur mundus militat sub vana gloria,_
    _Cujus prosperitas est transitoria?_
    _Tam cito labitur ejus præsentia,_
    _Quam vasa figuli quæ sunt fragilia etc._

[155]

    _Dulce et decorum est pro patria mori,_
    _Jam satis terræ nivis atque diræ..._
    _Ibis liburnis inter alta navium..._
                          Orazio.

    _Phaselus ille quem videtis, hospites..._
                          Catullo.

[156]

    La partenza che fo dolorosa
      E penosa — più ch’altra m’ancide,
      Per mia fide — a voi dà bel diporto.

[157] È nell’Allacci, _Poeti antichi_, dove n’ha pure due di Cecco
Nuccoli da Perugia, con tre terzetti.

[158] Prima di lui abbiamo l’ottava in Tibaldo conte di Champagne
presso PASQUIER, _Recherches de la France_, Parigi 1617. Anche fra gli
Arabi se ne trova.

[159]

    Frà Bonvexin de Riva che sta in borgo Legnano,
    D’ le cortesie de desco ne disette primano;
    D’ le cortesie cinquanta che s’ dè usare a desco
    Frà Bonvexin de Riva ne parla mo de fresco.

Dello stesso Buonvicino il codice Nº 92 della biblioteca Ambrosiana
contiene una _disputatio Roxe et Viole_, che comincia:

    In nome de Dio grande e de Bonaventura,
    Chilò (_qui_) si da comenzo a una legenda pura
    De gran zoya e solazo: zaschun sì n’abia cura
    D’imprender ste parole de dolze nudridura.

Altri versi suoi cantano la _dignitade de la glorioxa vergine Maria_:

      Quella viola olente, quella roxa fioria,
    Quella è bianchissim lilio, quella è gemma fornia,
    Quella è nostra advocata, nostra speranza e via,
    Quella è piena de gratia, piena de cortexia...
      Quella è salut del mondo, vaxello de deitade,
    Vaxello pretioxissim, e pien d’ogni bontade,
    Vergen sopra la vergen, soprana per beltade,
    Magistra d’ cortexia, et de grande humiltade ecc.

Se ne hanno pure varie leggende, di san Cristoforo, di santa Lucia,
dello schiavo Dalmasina. Quest’ultima comincia:

      Intendete, signori, sel vi piace ascoltare
    D’uno bello sermone eo ve vollio cuntare;
    Se voi ponete mente, ben ve porà zovare;
    Chè sempre de la morte se dee l’uom recordare.
    Chi serve a Jesu Cristo non può mal arrivare.
    Lo sclavo Dalmasina per nome era chiamato,
    E ’l fo de la Zizilia, e in Palermo el fo nato ecc.

Quest’è il verso martelliano; e in esso fu pur dettata da Boezio di
Rinaldo aquitano la storia d’Aquila dal 1252 al 1362. _Rer. It. Scrip._

Non credo potermi valere d’altri poeti derivati dalle disputate carte
d’Arborea.

[160] È manoscritto; e vedasi MAFFEI, _Verona illustrata_, par. II.
lib. 2.

[161] _Vulg. eloq._, I. 13; _Purg._, XXIV.

[162] L’edizione del 1474 è citata dal MEHUS, _Vita Ambrosii
camaldolensis_, pag. 156. L’orrido guazzabuglio del _Patafio_ che gli
si attribuisce, è almeno d’un secolo posteriore, come provò il Dal
Furia.

[163] _Convivio — De vulgari eloquio — Purg._, XXVI; e l’_Epistola al
signor Federigo_, comunemente ascritta al Poliziano, ma da Apostolo
Zeno con buone ragioni attribuita a Lorenzo de’ Medici.

[164]

    In un boschetto trovai pastorella
      Più che la stella bella, al mio parere;
      Capegli avea biondetti e ricciutelli,
      E gli occhi pien d’amor, cera rosata;
      Con sua verghetta pasturava agnelli,
      E scalza, e di rugiada era bagnata;
      Cantava come fosse innamorata,
      Era adornata di tutto piacere.
    D’amor la salutai immantinente,
      E domandai se avesse compagnia;
      Ed ella mi rispose dolcemente
      Che sola sola per lo bosco gìa,
      E disse: Sappi quando l’augel pia,
      Allor desìa lo mio cuor drudo avere.
                    Ballata _Era in pensier d’amor_.

Gli esempj degli altri diamo nell’Appendice I.

[165] Buonagiunta scriveva a Guido Guinicelli:

    E voi passate ogni uom di sottiglianza
    Che non si trova già chi ben disponga;
    Cotanto è scura vostra parlatura.

[166] _Vita nuova._ — Sono i pensieri che espresse nel sonetto, il più
bello fra gli amorosi che abbia la nostra favella, me lo perdoni il
Petrarca:

    Tanto gentile e tanto onesta pare
      La donna mia, quand’ella altrui saluta,
      Che ogni lingua divien tremando muta,
      E gli occhi non ardiscon di guardare.
    Ella sen va, sentendosi lodare,
      Benignamente d’umiltà vestuta,
      E par che sia una cosa venuta
      Di cielo in terra a miracol mostrare.
    Mostrasi sì piacente a chi la mira,
      Che dà per gli occhi una dolcezza al core,
      Che intender non la può chi non la prova;
    E par che dalle sue labbia si mova
      Uno spirto soave pien d’amore,
      Che va dicendo all’anima, Sospira.

[167]

    Ma quel che più ti graverà le spalle,
      Sarà la compagnia malvagia e scempia,
      Con la qual tu cadrai in questa valle:

e altrove per avverso:

    Cader coi buoni è pur di laude degno.

[168] _Primus sensus est qui habetur per literam; alius qui habetur per
significata per literam. Et primus dicitur literalis, secundus vero
allegoricus, sive moralis. Est subjectum totius operis, literaliter
tantum accepti, status animorum post mortem simpliciter sumptus;
nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si
vero accipiatur opus allegorice, subjectum est homo prout merendo
et demerendo per arbitrii libertatem justitia praemiandi et puniendi
obnoxius est. Finis totius et partis est removere viventes in hac vita
de statu miseriæ, et perducere ad statum felicitatis._ Lettera a Can
Grande.

[169] Jacopo suo figlio nel commento inedito.

[170] Le particolarità che il fanno tanto somigliare a Dante,
potrebbero essere state aggiunte dal traduttore italiano, dopo
conosciuta la Divina Commedia. Nella _Revue des Deux Mondes_, 1º 7bre
1842, si enumerano moltissime visioni dell’altro mondo che precedettero
quella di Dante. Meglio Ozanam, nel _Correspondant_ del 1843, espose
_les sources poétiques de la Divine Comédie_. Tra i moltissimi
confronti ch’egli reca, è particolare questo d’una Saga scandinava:
_Catervatim ibant illi ad Plutonis arcem, et gestabant onera e plumbo.
Homines vidi illos qui multos pecunia et vita spoliarunt; pectora
raptim pervadebant viris istis validi venenati dracones_ (Solar-Liod,
63, 64). Eccovi la città di Dite, le cappe di piombo degli ipocriti,
e quel che è più particolare, i serpenti che inseguono i masnadieri.
— Nell’_Alphabetum thibetanum_ il padre Giorgi pubblicò un’immagine
dell’inferno secondo gl’indiani, che ha strana somiglianza con quel di
Dante (tav. II. p. 487). L’inferno del Corano suppone sette porte, che
conducono ciascuna ad un particolare supplizio.

[171]

    Pensando a capo chino
    Perdei il gran cammino,
    E tenni alla traversa
    D’una selva diversa...
    Io v’era sì invescato,
    Che già da nullo lato
    Poteva mover passo.
    Così fui giunto lasso
    E messo in mala parte;
    Ma Ovidio per arte
    Mi diede maestria,
    Sì ch’io trovai tal via.
                      _Tesoretto_.

[172] GEREMIA, cap. V. vers. 6: _Percussit eos _leo_ de silva; _lupus_
ad vesperam vastavit eos; _pardus_ vigilans super civitates eorum:
omnis qui egressus fuerit ex eis, capietur, quia multiplicatæ sunt
prævaricationes eorum, confortatæ sunt aversiones eorum_.

[173] E’ dice esplicitamente che Bice è un 9, cioè un miracolo cui
radice è la santissima Trinità.

[174] Sono cento canti in 14,230 versi, ripartiti in modo, che la prima
cantica è appena superata di trenta dalla seconda, e di ventiquattro
dalla terza. E a chi il supponesse caso, risponde il poeta:

    Ma perchè piene son tutte le carte
      Ordite a questa cantica seconda,
      Non mi lascia più ir lo _fren dell’arte_.

[175] In Ricardo da San Vittore, _de præparatione ad contemplationem_,
la famiglia di Giacobbe raffigura quella delle facoltà umane; Rachele e
Lia, l’intelletto e la volontà; Giuseppe e Beniamino figli della prima,
la scienza e la contemplazione, operazioni principali dell’intelletto;
Rachele muore nel partorir Beniamino, come l’intelligenza umana
svanisce nell’estasi della contemplazione.

[176]

          Chiede consiglio da persona
    Che vede, e vuol dirittamente, ed ama.

[177]

          Io mi son un, che quando
    Amore spira, noto, e in quel modo
    Ch’ei detta dentro, vo significando.

[178]

      La contingenza, che fuor dal quaderno
    Della vostra memoria non si stende,
    Tutta è dipinta nel cospetto eterno.
      Necessità però quindi non prende
    Se non come dal viso in che si specchia,
    Nave che per corrente giù discende.

[179] Nella dedica a Can della Scala vuole che il titolo dell’opera
sua sia _Incipit Comœdia Dantis Alighierii, florentini natione non
moribus_. E soggiunge: — Io chiamo l’opera mia Commedia, perchè scritta
in umile modo, e per aver usato il parlar vulgare, in cui comunicano
i loro sensi anche le donnicciuole». Ov’è a sapere che, nel _Vulgare
eloquio_, distingue tre stili, tragedia, commedia, elegia.

[180] Il Boccaccio in un sonetto dice:

    Dante Alighieri son, Minerva oscura
    D’intelligenza e d’arte.

[181] L’anonimo commentatore ha: — Io scrittore udii dire a Dante
che mai rima nol trasse a dire quello che aveva in suo proposito, ma
ch’elli molte e spesse volte faceva li vocaboli dire nelle sue rime
altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere».
Questa è padronanza di genio, non merito, giacchè per essa dice _Vermo,
Giuseppo, gli idolatre, allore, tarde, eresiarche, figliuole_ per
figliuolo, _egli stessi, mee, trei, si partine, plaja, strupo, maggi,
lodo, preghiero, di butto, robbi_ e _fusi_ e _cola_ e _agosta_ per
stupro, maggiori, lode, preghiera, di botto, rossori, fussi, cole,
augusta; dice che l’uomo si fa _sego_ per seco e _seguette_ per seguì;
ha liberamente finito un verso con _Oh buon principio_, e ai due
corrispondenti pone _scipio_ e _concipio_, storpiando questi anzichè
modificar quello; e per comodo o di rima o di verso mette _nacqui suo
Julo_, e _lome_, e _fazza_, e _Cristo abate del collegio_, e _conti_ i
santi, e _cive_ di Roma ecc. Sarà sempre pedanteria suprema il volere
che ne’ sommi si ammiri ogni cosa.

[182] Crede la prima lingua creata coll’uomo, ed essere stata
l’ebraica. Al contrario, nel _Paradiso_ l’avea creduta d’origine
naturale, e che fosse perita. Egli sosteneva che al primo uomo fosser
rivelate tutte le scienze:

    Tu credi che nel petto, onde la costa
      Si trasse per formar la bella guancia,
      Il cui palato tanto al mondo costa,
    Qualunque alla natura umana lece
      Aver di lume, tutto fosse infuso.
                      _Par._, XIII.

[183] _Vulg. eloq._, I. 15. Eppure già erano fioriti un Giovanni da
Modena, un Anselmo e un Antonio dal Berrettajo ferraresi; e a Reggio
diversi della famiglia da Castello, e un Gherardo che corrispose
di sonetti con Cino da Pistoja; poi furono ferraresi il Bojardo,
l’Ariosto, il Minzoni, il Monti.

[184] La dimostrazione di fatto può vedersi in GALVANI, _Sulla verità
delle dottrine perticariane nel fatto storico della lingua._ Milano
1845, pag. 124 seg. E vedasi il Manzoni.

[185] Non credo cantato il poema, bensì le poesie amorose, alcune delle
quali supremamente soavi, come questa:

    Quantunque volte, lasso, mi rimembra
      Ch’io non debbo giammai
      Veder la donna ond’io vo sì dolente,
      Tanto dolore intorno al cor mi assembra
      La dolorosa mente,
      Ch’io dico, Anima mia, che non ten vai?

[186] _Karolensis ponatur in igne ut accendatur; et sic totus calidus
et accensus ab igne imprimatur in facie illius vel illorum qui
karolensem pro minori quantitate dederint vel expenderint._ Decreto dei
1268.

[187] _Capitoli del regno di Napoli_, novembre 1275.

[188] NICOLA BUSCEMI, _Vita di Giovanni da Procida_, 1841. — Michele
Amari (_Un periodo della storia siciliana_, Palermo 1842) sfronda
l’alloro che la storia e la poesia attribuirono a Giovanni da Procida
e a Ruggero di Loría, ch’e’ chiama _stranieri_ perchè della terraferma.
Molti lo confutarono.

[189] Ap. RAYNALD., ad 1267, § 4.

[190] Adottò questa tradizione Dante, _Inf._, XX:

    Carlo venne in Italia, e per ammenda
      Vittima fe di Corradino, e poi
      Ripinse al ciel Tommaso per ammenda.

Avrebbe forse san Tommaso alluso alla tirannia di Carlo nel libro _De
regimine principum_?

[191] Negli atti di quella pace, riferiti dal Ghirardacci, lib. VIII,
si trovano distinte le famiglie delle due fazioni.

[192] _Tractabat... ut totum imperium in quatuor divideretur partes;
in regnum Alemaniæ, quod dabatur posteris Rodulphi in perpetuum; in
regnum viennense, quod dabatur in dotem uxori Caroli Martelli, filiæ
dicti Rodulphi: de Italia vero, præter regnum Siciliæ, duo regna
fiebant, unum in Lombardia, aliud in Tuscia._ PTOLOMEI LUCENSIS, Hist.
eccl. — _Adnisus est ut cognatos suos eveheret, et alterum in Etruria,
alterum in Longobardia reges faceret, quoniam Rodulphus imperator,
rebus germanis impeditus, in Italiam non veniebat. Verum civitates
Italiæ imperatori adhærentes contrastabant, et misso locumtenente
per Rodulphum in Italiam, consilia pontificis frustrata sunt._ ABBAS
USPERGENSIS, Chron.

[193] «Passò in Sicilia con circa ducento tra galee e vascelli armati,
tra’ quali furon molti Veneziani, e tra quelli diversi suoi regj e
vassalli, messer Marco Badoer e messer Jacomo Tiepolo Scopolo, il qual
condusse seco gran compagnia, nella qual si fu anco messer Lorenzo
Tiepolo suo parente e mio cugino». MARIN SANUTO il vecchio.

[194] Allora vi si cantava questa canzone:

    Deh! com’egli è gran pietate
    Delle donne di Messina,
    Veggendole scapigliate
    Portar pietre e calcina.
    Iddio dia briga e travaglio
    A chi Messina vuol guastare.

[195] Giovan Villani vorrebbe che il duello si fosse giurato al
cospetto del papa. Al contrario, Martino IV nella sua bolla dice:
_Duellum reprobamus, irritamus, ac penitus vacuamus, cum non sit omnino
ab Ecclesia tollerandum_.

[196] E tali s’affatica a mostrarli il Giannone, che, scandolezzato
dal vedere un papa italiano frenare il venturiero tiranno francese,
ammonisce i re «di guardarsi molto bene a commettere la cura ed il
governo de’ loro Stati ad altri che a se stessi ed a’ loro più fedeli
ministri». L’hanno imparata tal lezione.

[197] — Re Jacobo con parte de’ suoi cavalieri e altra gente si partì
di Sicilia, e andò a Roma ove era la Corte, e fu a parlamento con il
pontefice. Il pontefice fra le altre cose li disse, che l’avea raso
senza bagnarlo; nè senza causa li disse queste parole, perchè l’armata
costava al pontefice ogni giorno miladucento onze d’oro, ed era stato
detto re Jacobo in quel viaggio e spedizione circa un anno e mezzo».
MARIN SANUTO.

[198] _Calath al-Bellut_, castello delle querce. E di simile radice
molti nomi sorvivono in Sicilia.

[199] Della vita di quei baroni ci è saggio la storia di Macalda di
Scaletta. Vedova di un Guglielmo d’Amico, esigliato al tempo degli
Svevi, era andata profuga in abito di frate Minore, stette a Napoli,
a Messina, e da Carlo d’Angiò ricuperò i beni confiscati al marito.
Sposatasi ad Alaimo di Lentini, uno dei più fervorosi nel Vespro, tradì
i Francesi che a lei, come beneficata da Carlo, rifuggivano in Catania,
della qual città suo marito fu fatto governatore. Quand’egli andò alla
guerra di Messina, essa ne tenne le veci; e sui quarant’anni, pure
ancor bella, generosa nel donare, vestiva piastre e maglie; e con una
mazza d’argento alla mano, emulava i cavalieri ne’ cimenti guerreschi.
Di sua onestà chi bene disse, chi ogni male. Aspirò agli amori di
re Pietro, lo accompagnò, gli chiese ricovero; ma egli non volle
comprenderla, di che essa pensò vendicarsi.

Alaimo fu poi fatto maestro giustiziere, e valse a reprimere i molti
che reluttavano alla nuova dominazione, e acquistò tal reputazione che
eccitò la gelosia dell’infante don Giacomo. La crescevano i superbi
portamenti di Macalda, la quale tenevasi alta fin con Costanza, e non
volea dirle regina, ma solo madre di don Giacomo; se compariva alla
Corte, era per isfoggiare abiti e gioje. Contro ogni decenza, volle in
un convento passar la gravidanza e il parto, sol per godere l’amenità
del luogo: Costanza fu a visitarla, e n’ebbe accoglienze sgarbate;
offrì di levare al battesimo il neonato, e Macalda rispose non voler
esporlo a quel bagno freddo, poi tre giorni appresso vel fece tenere
da popolani. Costanza, male in salute, si fece portare in lettiga da
Palermo al duomo di Monreale; e Macalda essa pure, per le strade della
città e fin a Nicosia in lettiga coperta di scarlatto, di che fu un
gran mormorare. Re Giacomo viaggiava con trenta cavalli di scorta;
e Macalda con trecento, e volea far da giustiziere, e apponeva a re
Pietro di avere mal compensato coloro, che del resto l’aveano domandato
compagno e non re.

Alaimo condiscendeva alla moglie, e dicono le giurasse non dar mai
consigli a danno dei Francesi, anzi procurarne il ritorno in Sicilia.
Se il facesse nol sappiamo; certo i re aragonesi gli si avversarono,
fors’anche per la solita ingratitudine a chi più beneficò. Giacomo
finge spedire Alaimo in gran diligenza a suo padre in Catalogna per
sollecitarne ajuti: Alaimo va, è accolto con ogni maniera di cortesia;
ma appena egli partì, la plebe di Messina, sollecitata dal Loria,
lo grida traditore, affollasi alla sua casa ad ammazzare i Francesi
prigionieri di guerra che vi tenea, e così quelli che stavano nelle
carceri e che egli aveva salvati. Macalda accorse per sostenere i
suoi fautori, ma vide il marito dichiarato fellone e confiscatigli i
beni, Matteo Scaletta fratello di lei, decapitato; ella stessa chiusa
in un castello, forse vi finì la vita. Alaimo, dopo alquanti anni, fu
rimandato verso la Sicilia, e come fu in vista della patria isola,
buttato in mare. V. _Cronaca catalana_, cap. XCVI; DE NEOCASTRO,
SPECIALE; D’ESCLOT ecc.

[200] GREGORIO, _Considerazioni sulla storia della Sicilia_. Palermo
1807.

[201] Frà Jacopone da Todi gli scriveva una canzone per mostrargli
quanto corresse pericolo l’anima sua nel papato:

    Che farai, Pier di Morone?
      Se’ venuto al paragone;
      Vederemo il lavorato
      Che in cella hai contemplato;
      Se il mondo è di te ingannato,
      Seguirà maledizione.....
    Se l’ufficio ti diletta
      Nulla è più malsania infetta;
      Bene è vita maledetta
      Perder Dio per tal boccone.
      Grande ebb’io per te cordoglio
      Lor ti uscio di bocca _Voglio_,
      Se t’hai posto giogo in coglio
      Da temer tua dannazione...
    Grande è la tua dignitate,
      Non minor la tempestate,
      E grande è la vanitate
      Che averai in tua magione....
      Da persone prebendate
      Guardati, sempre affamate....
      Guardati da barattiere
      Che il ner bianco fa vedere.
    Se non ti sai ben schermire
      Canterai mala canzone.

[202] Da Anagni erano stati i papi Innocenzo III, Gregorio IX,
Alessandro IV; e ne provenivano le cinque illustri case romane Ceccano,
Toscanella, Frangipane, Collemedio, Annibaldesca; cui s’erano aggiunte
quelle di Segni e de’ Gaetani.

[203]

            Vidi l’ombra di colui
    Che fece per viltate il gran rifiuto
                     _Inf._, III.

V’ha chi nega che alluda a papa Celestino, ma non si accordano su
altri. In ben altro senso il Petrarca (_De vita solitaria_, lib. II. c.
18) esalta Celestino, «il quale depose il gravissimo carico del papato
con quella alacrità che altri avrebbe mostrata trovandosi sciolto
improvvisamente da nemiche catene. Magnanimo fatto del santissimo
solitario... Ho udito dire da chi era presente all’uscir suo dal
concistoro in cui avea deposto il gran peso, che gli sfavillava negli
occhi una cotale allegrezza che aveva dell’angelico. Nè a torto; chè
sapeva il valore di ciò che recuperava, nè ignorava quel che perdeva».

Saviissimo giudizio ne reca Clemente V nella bolla di sua
santificazione: — Uomo di stupenda semplicità, inesperto de’ negozj
che concernono il reggimento della Chiesa universale, attesochè dalla
puerizia sino alla vecchiaja aveva applicato l’animo non alle cose di
quaggiù ma alle divine, prudentemente rivolgendo in se stesso l’occhio
dell’intima sua attenzione, liberamente e appieno rinunziò agli onori
e agli oneri del papato, perchè all’universa Chiesa non derivasse
pericolo dal suo reggimento, e perchè, deposte le turbanti cure di
Marta, potesse starsene con Maddalena ai piedi di Gesù, nella pace
della contemplazione».

Gli accordi e le promesse con cui Bonifazio VIII avrebbe comprato la
tiara da Carlo d’Angiò, asseriti da scrittori posteriori, più che dal
silenzio de’ contemporanei, sono smentiti dall’interesse che Carlo
aveva d’allontanare Bonifazio dal papato. Da poi i Colonna scrissero
fieramente contro di lui, dichiarandolo eletto illegalmente, ma solo
fondandosi sull’invalidità della rinunzia di Celestino: se egli avesse
compra la tiara colla simonia di cui Dante lo infama, l’avrebbero
taciuto questi accaniti suoi avversarj?

[204] Il giubileo fu rinnovato dopo cinquant’anni da Clemente VI; e
Matteo Villani narra essersi veduta a Roma una fiera perpetua, e un
milione ducentomila persone, talchè mancarono i viveri; e il danaro
raccolto si occupò parte a vantaggi della Chiesa, parte a ricovrare dai
tiranni le città di Romagna. Urbano VI ridusse l’intervallo a trentatrè
anni, quanti ne visse Gesù Cristo; poi Paolo II a venticinque, come
restò.

Si attribuisce a Bonifazio VIII l’avere introdotto la doppia corona
per la tiara papale: eppure sei statue che si conoscono, alzategli da
vivo o poco dopo morto, recano la corona semplice; e tale pure l’hanno
quelle di Benedetto XI suo successore. Suggero scriveva di Innocenzo
II: «Impongono al suo capo un frigio ornamento a foggia di elmo, adorno
d’un aureo cerchio». La triplice compare nella statua che il Manno
orefice bolognese fece di Bonifazio VIII, poi in quelle di Urbano VI.

[205] PETRARCA, _Ep._, pag. 4-15.

[206] _Alter oculus Florentiæ._ BENVENUTO DA IMOLA al X dell’_Inferno_.

[207] LEONARDO ARETINO, v. 57.

[208] _Vulgare Eloquio_. — E in un congedo:

    O montanina mia canzon, tu vai;
      Forse vedrai Fiorenza, la mia terra
      Che fuor di sè mi serra
      Vuota d’amore e nuda di pietate;
      Se dentro v’entri, va dicendo, — Omai
      Non vi può fare il mio signor più guerra.

[209] Quest’ignominia era stata subìta dal suo compagno di pena,
il padre del Petrarca, dispensato però dalla mitera al capo; e
la riformagione del 10 febbrajo 1308 stanzia _quod præfatus ser
Petraccolus, facta de eo oblatione secundum modum prædictum,
intelligatur esse et sit perpetuo exemptus, liberatus et totaliter
absolutus._

[210] Di queste profonde convinzioni sì energicamente espresse dà prova
continua nel poema; e nel _Convivio_, a proposito d’una proposizione
filosofica, dice: — Col coltello, non con argomenti convien rispondere
a chi così parla».

[211]

    Digli che il buon col buon non prende guerra
    Prima che co’ malvagi vincer prove:
    Digli ch’è folle chi non si rimuove,
    Per tema di vergogna, da follìa.
                     _Canzone_.

[212] _Par._, XVI. Baldo d’Aguglione e Morubaldini da Signa erano
quelli che proferirono la sentenza capitale contro Dante.

[213] Lettera a Guido Novello da Polenta, che i Veneziani però
vorrebbero apocrifa.

[214] Però Dante faceva espressa riserva degli statuti particolari:
_Advertendum sane quod cum dicitur humanum genus posse regi per unum
principem, non sic intelligendum est, ut ab illo uno prodire possint
municipia et leges municipales. Habent namque nationes, regna et
civitates inter se proprietates, quas legibus differentibus regulari
oportet. _De monarchia_._ Sono le eccezioni, colle quali il buon
senso ovvia le illazioni che mostrerebbero erroneo il posato principio.

[215] Vedi l’_Appendice_ VIII.

[216] Non l’Orgagna, come si dice volgarmente. Vedi GAYE, _Carteggio_,
II. V. La cattedra di spiegar Dante durò lungo tempo: nel 1412
la Signoria pagava otto fiorini il mese a Giovanni di Malpaghini
ravennate, il quale aveva lungo tempo commentato Dante, e che ancora lo
spiegava ogni domenica; sei anni dopo, adempiva tale uffizio Giovanni
Gherardi da Pistoja, con sei fiorini il mese; alquanto più tardi, gli
successe Francesco Filelfo.

[217] La conferma datagli da Bonifazio respira grave orgoglio: _Fecit
Deus duo luminaria magna; luminare majus, ut præesset diei, luminare
minus ut præesset nocti. Hæc duo luminaria fecit Deus ad literam,
sicut dicitur in Genesi: et nihilominus spiritualiter intellecta fecit
luminaria prædicta, scilicet solem, idest ecclesiasticam potestatem,
et lunam, hoc est temporalem et imperialem ut regeret universum. Et
sicut luna nullum lumen habet nisi quod recipit a sole, sic nec aliqua
terrena potestas aliquid habet nisi quod recipit ab ecclesiastica
potestate. Licet autem ita communiter consueverit intelligi, nos
autem accipimus hic imperatorem, solem qui est futurus, hoc est regem
Romanorum, qui promovendus est imperator, qui est sol, sicut monarcha,
qui habet omnes illuminare et spiritualem potestatem defendere,
quia ipse est datus et missus in laudem bonorum et in vindictam
malefactorum.... Unde hæc nota et scripta sunt, quod vicarius Jesu
Christi et successor Petri potestatem imperii a Græcis transtulit in
Germanos, ut ipsi Germani, idest septem principes, quatuor laici et
tres clerici, possint eligere regem Romanorum, qui est promovendus
in imperatorem et monarcham omnium regum et principum terrenorum.
Nec insurgat hic superbia gallicana, quæ dicit quod non recognoscit
superiorem. Mentiuntur: quia de jure sunt et esse debent sub rege
romano et imperatore. Et nescimus unde hoc habuerint vel adinvenerint,
quia constat quod Christiani subditi fuerunt monarchis ecclesiæ romanæ,
et esse debent... Et attendant hic Germani, quia, sicut translatum est
imperium ab aliis in ipsos, sic Christi vicarium successor Petri habet
potestatem transferendi imperium a Germanis in alios quoscumque, si
vellet, et hoc sine juris injuria.... Electus in regem Romanorum, prius
fuit in nubilo arrogantiæ, etenim non fuit devotus ad nos et ecclesiam
istam sicut debuit. Nunc aute mexhibet se devotum et promptum ad
facienda omnia quæ volumus nos et fratres nostri et ecclesia ista... Si
autem ipse vellet contrarium facere, non posset; quia nos non habemus
alas nec manus ligatas, nec pedes compeditos, quia bene possumus eum
reprimere et quemcumque alium principem terrenum_.

[218] Perfino il Sismondi, accannito contro Bonifazio, dice: — Avidi
di servitù, chiamarono libertà il diritto di sacrificare perfino le
coscienze ai capricci dei loro padroni, respingendo la protezione che
loro offriva contro la tirannide un capo straniero e indipendente...
I popoli dovrebbero desiderare che i sovrani dispotici riconoscessero
al dissopra di loro un potere venuto dal cielo, che li fermasse sulla
strada del delitto». _St. delle repubbliche ital._, cap. 24.

[219] Tanto vien rimproverata a Bonifazio questa bolla; eppure non
conteneva che il preciso senso del canone 44 del concilio IV di
Laterano, e la dottrina generalmente accettata nel diritto canonico
d’allora. Lo dimostra ad evidenza Philipps nel _Diritto ecclesiastico_,
vol. III. lib. I. § 130.

[220] L’anno seguente in concistoro dichiarò, non intendeva arrogarsi
la giurisdizione del re, ma che questo è sottoposto al papa in quanto
al peccato.

[221] _Petrus_ (la Flotte) _literam nostram falsavit, seu falsa de ea
confixit_. Preuves du différend etc. pag. 77. Ma la lettera di Filippo
pare autentica.

[222] Si pretende che Bonifazio mandasse al famoso Guido di
Montefeltro, che stanco delle avventure s’era messo frate, e
l’esortasse a capitanare l’impresa contro Palestrina. Egli si scusò;
ma instando il papa perchè almeno gli sovvenisse di consigli, rispose
temeva per l’anima sua. Il papa l’assolse, ed esso gli suggerì di
promettere e non mantenere. Dante vi allude in quel verso «Lungo
prometter con attender corto».

Tutte le cronache attestano la penitenza di Guido, il suo ritiro dal
mondo e la santa fine. E davvero valeva egli la pena che si facesse
uscir di monastero un frate per farsi suggerire uno spediente così
comune?

[223] Il Ferreto racconta che morì rabbioso, dando del capo per le
pareti, rodendo il bastone, soffocandosi. Sismondi neppur gli domanda
donde trasse queste particolarità; e perchè al suo cadavere, trovato
intatto dopo 302 anni, non apparisse il minimo segno di lesione.

Il processo di Bonifazio narra che morì tranquillo nel palazzo
Vaticano; e il cardinale Stefaneschi che v’assisteva, scrive:

            _Lecto prostratus anhelus_
    _Procubuit, fassusque fidem, curamque professus_
    _Romanæ ecclesiæ, Christo tunc redditur almus_
    _Spiritus, et sævi nescit jam judicis iram,_
    _Sed mitem placidamque patris, ceu credere fas est._

Vedansi JO. RUBEI, _Bonifacius VIII_. Roma 1651. Da Dante, dal Ferreto,
dagli storici, e principalmente dal Sismondi lo difesero il _Dublin
Review_, anno 1842, e il cassinese padre Tosti nella _Storia di
Bonifazio VIII_, 1847. Benvenuto da Imola, commentando Dante, lo chiama
_magnanimo peccatore_; e magnanimo è il titolo datogli da sant’Antonino
e da Giovanni Villani; _meraviglia del mondo_ lo dice Petrarca.
Con cristiana imparzialità il Rainaldo, continuatore del Baronio,
conchiuse così il giudizio intorno ad esso pontefice: _Super ipsum
itaque Bonifacium, qui reges et pontifices ac religiosos, clerumque ac
populum horrende tremere fecerat, repente timor et tremor et dolor una
die irruerunt, ut ejus exemplo discant superiores prælati non superbe
dominari in clero et populo, sed forma facti gregis, curam subditorum
gerant, priusque appetant amari quam timeri._

L’opera capitale intorno a quel papa sono sempre le _Prove_, cioè gli
atti pubblici, editi da Pietro Dupuy. Nel 1526 Alessandro bolognese
viaggiava da quelle parti, e vedendo Anagni deserta e in ruina,
domandò la ragione: — La prigionia di Bonifazio (rispose un de’ pochi
abitanti); da quell’ora guerre, peste, fazioni peggiorarono sempre più
la città».

[224] _Tacita mente conciperet intra magnam Italiam apud Longibardos
sedem apostolicam sibi statuere, ut et in posterum ibidem esset forte
mansura_. FERRETO, lib. III. p. 1012.

[225] L’Istituto di Francia nel 1858 premiava una memoria di M.
Rabanis, _Clément V et Philippe le Bel_, ove, spogliando i giornali
di Bertrando de Goth che quell’anno era in visita della sua diocesi, e
quelli di re Filippo, convince che certamente essi non s’incontrarono
nè a Saint-Jean-d’Angely nè altrove. E con altri argomenti prova quel
che già il buon senso presumeva, l’impossibilità di quell’accordo.

[226] Clemente V «fu uomo molto cupido di moneta e simoniaco, che
ogni beneficio per moneta in sua corte si vendea; e fu lussurioso,
che palese si diceva che tenea per amica la contessa Palagorgo,
bellissima donna, figliuola del conte di Fos. E lasciò i suoi nepoti
e suo lignaggio con grandissimo e innumerabile tesoro; e dissesi che
vivendo il detto papa, essendo morto un suo nepote cardinale cui elli
molto amava, costrinse uno grande maestro di nigromanzia che sapesse
che fosse dell’anima del nipote. Il detto maestro, fatta sua arte,
un cappellano del papa molto sicuro fece portare alle demonia allo
inferno, e mostrogli visibilmente un palazzo dentrovi un letto di fuoco
ardente, nel quale era l’anima del detto suo nepote morto, dicendoli
che per la sua simonia era così giudicato. E vidde nella visione fatto
un altro palazzo allo incontro, il quale li fu detto si facea per papa
Clemente; e così rapportò il detto cappellano al papa, il quale mai poi
non fu allegro e poco vivette appresso». VILLANI.

[227] VILLANI; e Dante, _Purg._, XX:

    Veggio il nuovo Pilato sì crudele
      Che ciò nol sazia, ma senza decreto
      Porta nel tempio le cupide vele.

Sui Templari e il loro processo in Toscana ragionò ripetutamente alla
Accademia Lucchese monsignor Telesforo Bini, com’è a vedersi negli
atti di quella del 1838 e del 1845. Appare di là come fossero numerose
le loro case in Toscana. Vero è che il papa nel 1307 scriveva agli
arcivescovi di Pisa, Ravenna ed altri che assumessero informazione sui
Templari, ma non che s’adunasse per ciò un concilio a Pisa, come asserì
il Tronci, dal 20 settembre al 23 ottobre 1308; e il processo fu fatto
in Firenze e in Lucca da frà Giovanni arcivescovo di Pisa, Antonio
vescovo di Firenze, Pietro de’ Giudici di Roma canonico di Verona pei
Templari di Lombardia e Toscana: que’ commissarj nel 1312 ne diedero
al papa un ragguaglio, che conservasi nella Vaticana, legalizzato
da nodaro e testimonj. Il papa aveva trasmesso cenventiquattro e più
articoli sui quali esaminarli: e gl’inquisiti erano cinque a Firenze,
uno a Lucca. Appare che furono esaminati senza le torture usate in
Francia, non perchè i tribunali ecclesiastici non le usassero, chè anzi
in quel processo parlasi delle deposizioni di sette altri fratelli
di minor conto, che non pareano attendibili, _licet, debito modo
servato, eosdem exposuerimus coactionibus et tormentis_. Inoltre essi
non doveano temere che, confessando, andrebbero al rogo, siccome in
Francia, atteso che qui li giudicava un tribunale ecclesiastico, le
cui pene erano il pentimento e la ritrattazione. In fatto a Ravenna
furono assolti, come non rei delle colpe imputate (RUBEIS, _Storia di
Ravenna_, lib. VI). È dunque più attendibile la loro deposizione, che
giurano aver fatta _non odio vel amore, parte, pretio vel timore, sed
pro veritate tantum_.

Le accuse numerosissime possono ridursi a sei capi: 1º che rinegassero
la fede, bestemiassero Cristo, Maria, i Santi, conculcassero e
deturpassero la croce; 2º che consacrando non proferissero le parole
sacramentali, e il maestro, sebben laico, assolvesse i peccati; 3º
adorassero la testa di Bafomet, e si cingessero con cingoli, benedetti
dal suo contatto; 4º usassero fra loro baci indecenti; 5º peccassero
contro natura; 6º tutto facessero clandestinamente, giurando di
estender l’Ordine con qualsifosse modo.

Le accuse, alcune sono ammesse generalmente; altre solo da alcuni, o
per casi o persone speciali, o sol come d’udita, o come d’uso di là
dal mare; sopratutto convengono quanto alla gelosissima secretezza dei
capitoli e alla bestemmia miscredente.

Dopo ciò parrebbe che, se gli scellerati processi fatti loro in Francia
spinsero a crederli innocenti e vittime dell’avidità di Filippo
il Bello, la calma con cui procedette la Chiesa, i processi fatti
regolarmente in Italia come in altri paesi, nel volger di molti anni,
senza violenze, lascino supporre che molti de’ Templari fossero rei,
e che col re di Francia mal si metta a fascio Clemente V, il quale,
col sopprimer l’Ordine _non de jure sed per viam provisionis_, salvò
individui innocenti, e ne sottrasse i beni dalla principesca avidità,
applicandoli alla difesa di Terrasanta.

Parmi che i documenti uniti a quel discorso, e da cui il Bini raccolse
il nome di ben centosette Templari, aggiungano gran luce a questo punto
storico, molto dibattuto dal Raynouard in poi.

* Vedansi nuovi documenti, pubblicati nel 1875, fra gli Atti Ravennati
in continuazione a quelli del Fantuzzi.

[228]

    _Gesta ducum veterum veteres cecinere poetæ;_
    _Aggrediar vates novus edere gesta novorum._
    _Dicere fert animus, quo gens normannica ductu_
    _Venerit Italiam, fuerit qua causa morandi,_
    _Quosve secuta duces Latii sit adepta triumphum._

e finisce:

    _Nostra, Rogere, tibi cognoscis carmina scribi;_
    _Mente tibi læta studuit parere poëta._
    _Semper et auctores hilares meruere datores:_
    _Tu duce romano dux dignior Octaviano,_
    _Sis mihi, quæso, boni spes, ut fuit ille Maroni._

[229] _Hist. Sic._ nei Rer. It. Scrip., VII, 253-264.

[230] _Istoire de li Normant_, pubblicata ultimamente da Champollion
Figeac.

[231] La sua _Storia imperiale_ si dubita fosse un’invenzione del
celebre Bojardo.

[232] Oltre il Napione, _Cronisti piemontesi_, vedasi la prefazione al
vol. II delle Carte nei _Monumenta Historiæ Patriæ_.

[233] _Referant suas legationes in illis consiliis, in quibus electi
fuerunt._ 1296. _In scriptis relationes facere teneantur._ 1425.
Nel 1718 si cominciò una collana di storici veneti. Degli storici e
cronisti veneti diede ampia informazione il Foscarini; dietro al quale
Flaminio Cornaro pubblicò la cronaca latina di Lorenzo De Monacis,
Girolamo Zanetti quella del Sagomino, altri altre, e distintamente
l’inglese Rawdon Brown estratti dei _Diarj_ di Marin Sanuto, gli
_Annali veneti_ del Malipiero e d’altri nell’_Archivio storico_, vol.
VII.

[234] Questo svario lo fece anche Dante, cantando nel XIII dell’Inferno:

    Quei cittadin, che poi la rifondarno
    Sovra ’l cener che d’Attila rimase.

Alcuno volle correggere Totila, ma neppur questo distrusse Firenze.

[235] Uno storico recentissimo lo taccia d’indegna avversione contro
i papi d’Avignone (_Histoire de la papauté pendant le XIV siècle,
par l’abbé_ CRISTOPHE. Parigi 1853). Anche concesso ciò, questo era
sentimento comune agli Italiani d’allora, nè quell’apologia parmi
dimostri che avessero torto.

[236] Il suo libro comincia: — Io Giovanni Villani, considerando la
nobiltà e grandezza della nostra città, mi pare che si convenga di
raccontare ecc.» E altrove: — Convien cominciare il duodecimo libro,
però che richiede lo stile del nostro trattato, perchè nuova materia e
grandi mutazioni e diverse risoluzioni avvennero in questi tempi alla
nostra città di Firenze per le nostre discordie tra’ cittadini e ’l
mal reggimento de’ Venti, come addietro fatto avemo menzione; e fieno
sì diverse, che io autore che fui presente, mi fa dubitare che per li
nostri successori appena sieno credute di vero; e furono pur così come
diremo in appresso».

[237] Del _Metodo per istudiare la storia fiorentina_ scrisse il Manni,
a tacere la meschina _Istoria degli scrittori fiorentini_ di Giulio
Negri. Gervinus diede a Francoforte nel 1833 in tedesco un saggio sugli
storici fiorentini fino ai tempi del Machiavelli. Vedi pure MORENI,
_Bibliografia storica ragionata della Toscana_. 1805.

[238] Gli storici di Lucca sono ben estimati dal Tommasi, _Introduzione
al sommario di storia lucchese_, nell’_Archivio storico_, vol. X.

[239] Un cronista romano scrive: — Io Ludovico Bonconte Monaldeschi
nacqui in Orvieto, e fui allevato alla città di Roma, dove vissi.
Nacqui l’anno 1327 del mese di giugno, nel tempo che venne l’imperatore
Ludovico. Hora io voglio raccontare tutta la storia dello tempo mio,
poichè io vissi allo mondo centoquindici anni senza malattia, autro che
quanno nacqui io tramortio, e morsi di vecchiezza, e fui allo lietto
dodici mesi di continuo». Anche il milanese Burigozzo finisce il suo
libro: — Come vedrete nella cronaca di mio figliolo, imperocchè per la
morte che mi è sopragiunta non posso più scrivere».

[240] Il Muratori chiama quell’opera _insigne opus et monumentorum
copia et splendore sermonis et ordine narrationis; ex quo incredibilis
lux acta est eruditioni barbarorum temporum, in illum usque diem apud
Italos tenebris innumeris circumfusæ._ Vita del Sigonio, pag. 9.

Beniamino Guérard, nella introduzione al Cartulario di Saint-Père de
Chartres e al Poliptico di Irminon, mostrò quanto partito può trarsi
dalle raccolte del medioevo. Gran giovamento recò la Scuola delle Carte
di Parigi, formando buoni allievi, dando metodo e attività, compiendo
varie opere utili e promovendo le ricerche.

[241] Gli storici di Perugia sono annoverati nella prefazione al tom.
XV, par. II dell’_Archivio storico_.

[242] Il primo _Bullario_ comparve nel 1586, ove Laerzio Cherubini
collocò cronologicamente le costituzioni pontifizie da Leone I a
Sisto V; Angelo Maria suo figlio lo aumentò, poi Angelo Lantusca e
Paolo di Roma: collezioni superate dal _Bullarium Magnum_ del 1727 che
va da Leon Magno fino a Benedetto XIII, e dalla collezione di Carlo
Coquelines fatta a Roma dal 1739 al 48, e cui Andrea Barberi nel 1835
aggiunse le costituzioni fino a Pio VIII.

[243] _Rerum Italicarum Scriptores ab anno Domini_ D _ad_ MD, _quorum
potissima pars nunc primum in lucem prodit_. 28 vol. in-fol., Milano
1723-51. — _Antiquitates italicæ medii ævi_. 6 vol. in-fol., ivi
1738-43. — _Dissertazioni sopra le antichità italiane_. 3 vol. in-4º,
ivi 1751; traduzione dell’opera predetta, ommessi i documenti. —
_Annali d’Italia_. 18 vol. in-8º, ivi 1753-56. — _Delle antichità
estensi ed italiane_. 2 vol. in-fol. Modena 1717-40.

[244] BELLINI, _De monetis Italiæ medii ævi_. Ferrara 1755. — ZANETTI,
_Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia_. Bologna 1745.

[245] _Apparatus ad historiam juris mediolanensis antiqui et novi. —
Constitutiones mediolanensis dominii_.

[246] _Archiepiscoporum mediolanensium series_, 1755.

[247] _Ecclesiæ mediolanensis historia ligustica_, 1795.

[248] Nelle _Delizie degli eruditi toscani_, tom. VIII.

[249] Aggiungiamo, SANSOVINO, _Dell’origine, fatti... delle
famiglie illustri d’Italia_. GAMURRINI, _Famiglie toscane e umbre_.
CHERUBINI, _Cronologia de’ Gaetani di Firenze_. ALDIBERTI, _Compendio
dell’antichità di casa Cevoli_. FINESCHI, _Memorie d’illustri Pisani_.
ADRIANI, _Degli antichi signori di Sarmatorio, Marzano e Monfalcone_.
CAMPANILE, _Notizie di nobiltà_. BORRELLI, _Vindex neapolitanæ
nobilitatis_. MORENI, _Serie d’autori d’opere risguardanti la famiglia
Medici_. RATTI, _Della famiglia Sforza_. BERLINGHIERI, _Notizie degli
Aldobrandeschi_. A. REUMONT, _Die Carafa von Maddaloni_. Berlino 1851.
Jacob W. Imhof, _Corpus historiæ genealogicæ Italiæ et Hispaniæ_.
Norimberga 1702. Pompeo Litta, _Famiglie celebri italiane_, opera
importante per la genealogia, e lasciata incompiuta dall’autore morendo
nel 1853.

[250] G. P. VON SPANNAGEL, _Notizia della vera libertà fiorentina_,
1724. — MASCOW, _Exercitatio de jure Imperii in magnum ducatum
Etruriæ_, 1721. — _Imperii germanici jus ac possessio in Genua
ligustica_, 1751; e infiniti altri.

[251] Fanucci, _Storia dei tre celebri popoli marittimi dell’Italia_.
— MARSIGLI, _Ricerche sul commercio veneto_. — PAGNINI, _Della decima
e di varie altre gravezze imposte dal Comune di Firenze; della moneta e
della mercatura de’ Fiorentini nel secolo XVI_. Lucca 1765.

[252] Vedi il _Monitum_ premesso al V vol. Venezia 1781-92.

[253] _Dell’uso e dell’autorità della ragion civile nelle provincie
dell’impero occidentale, dal dì che furono inondate da Barbari sino a
Lotario II_. Napoli 1720-22-51.

[254] _Istoria d’Italia dalla venuta d’Annibale fino al 1527_, di
Girolamo Briano. Venezia 1624. — _Italia travagliata, dove si narrano
i fatti dalla venuta d’Enea al 1755_ per frà Umberto Locato vescovo di
Bagnarea. Ivi 1776.

[255] Chi abbia veduto le storie dei Malespini, del Compagni, dei
Villani, troverà ben ingiusto il Machiavelli, ove pronunzia che sono
diligentissimi nel descrivere le guerre coi forestieri, «ma delle
civili discordie, e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che
da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta, e quell’altra
in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare
utile o piacere veruno... Perchè se niuna cosa diletta o insegna nella
storia, è quella che particolarmente si descrive; se niuna lezione è
utile ai cittadini che governano le repubbliche, è quella che dimostra
le cagioni degli odj e delle divisioni della città, acciocchè possano,
con il pericolo d’altri divenuti savj, mantenersi uniti». _Proemio alle
Storie fiorentine._

[256] _Epistolari historia nulla fidelior atque tutior._ BARONIO.

[257] Frà Paolo Sarpi l’8 giugno 1612 incoraggiava il celebre Casaubono
a scrivere contro il Baronio, di cui non è male che non dica: solo lo
scaltrisce che, se lo tacciasse di mala fede e di frode, nessun gli
crederebbe di quelli che il conobbero; «era uomo integerrimo, se non
che beveva le opinioni di chi gli stava dattorno».

[258] La stampa più compita è quella di Lucca del 1738-57 in
quarantatre volumi: _Apparatus Annalium ecclesiasticorum Baronii,
additis O. Raynaldi, G. Laderchi_ (che li seguitò grossolanamente fino
al 1571), _A. Pagi, J. Casauboni, L. S. Le Nain Tillemont, H. Noris_,
per opera di G. D. Mansi. Il padre Theiner s’accinse a proseguirli, ma
presto si fermò.

[259] «Sereno cominciò a voler raccorciare il piviale a Donato (al
719). Ma un grand’imbroglio era il dover correre dietro a costoro
(722). Non sapevano digerirla d’aver per signore un imperatore empio
(728). Per timor della pelle se ne tornò a Roma (731). S’imbrogliarono
in quest’anno non poco gli affari d’Italia (740). Cammina con tutti i
piedi lo zelante gridar del papa (770). Vedendo il re Carlo esser un
osso duro quella città (773). Cosa manipolassero insieme papa Giovanni
e Bosone, si raccoglie da... (878). Federico, quant’era da lui, avrebbe
ridotto il papa a portar il piviale di bombagina (1239). Mastino
cominciò a imbrogliarsi col comune di Venezia (1336). L’armata veneta
gli diede un giorno una buona spelazzata (1509). Gli arrabbiati villani
non furono pigri a menar le griffe (ivi). Il vicerè ebbe dei _meremur_
dal re cattolico (1563). Parea che a Leopoldo non mancasse mai qualche
miracolo in saccoccia per risorgere (1704). Per lui Cola da Rienzo è un
_vile_, Masaniello un _arlecchino finto principe_.

[260] Senza ripetere qui ciò che in lavoro più ampio noi sostenemmo,
invitiamo i lettori di poca fatica a consultare le prime pagine d’uno
storico moderno, liberalissimo e protestante, T. B. Macaulay nella
_Storia d’Inghilterra_, ediz. Pomba 1852, pag. 43, tom. I.

[261] Si declamò tanto contro il poeta francese Lamartine perchè chiamò
l’Italia _la terra dei morti_; e quand’era affisso all’ambasciatore
francese a Firenze, dovette darne soddisfazione colla spada a Gabriele
Pepe. Eppure la frase stessa si trova nel Sismondi, autore de’ più
benevoli all’Italia e apprezzato per liberalità. Nel capo 126 della
_Storia delle Repubbliche_ dice chiaro che, «sia che si osservi tutta
intera l’Italia, e si esamini la natura del suolo o le opere dell’uomo
e l’uomo stesso, sempre si crede essere nel paese de’ morti, vedendo
insieme la debolezza della generazione presente e la possa di quelle
che la precedettero». La sottintendono poi tutti quelli che oggi non
san parlare che del _risorgimento_ dell’Italia.

[262] In un erudito tanto benemerito, e che sarà sempre fonte
preziosissima, spiace quella trivialità di critica e di riflessi.
Aprendolo a caso, leggo al lib. III. c. 1. § 3 della sua _Storia della
letteratura_: «S’ei debba chiamarsi Biondo Flavio o Flavio Biondo,
ella è questione non ancor bene decisa, e poco importa il sapere
com’ella debba decidersi. Io scrivo Biondo Flavio perchè così leggesi
nell’iscrizion sepolcrale a lui posta, e negli antichi _Annali di
Forlì_ sua patria, pubblicati dal Muratori; e così pure lo chiama
Francesco Filelfo in più lettere a lui scritte, delle quali diremo
fra poco. Che se ciò non ostante altri crede ch’ei debba dirsi Flavio
Biondo, io non per ciò vo’ movergli guerra». Al tom. VII. part. III.
pag. 1169: «Di Benedetto Bordone appena mi tratterrei io a parlarne,
se una quistione assai dibattuta qui non ci si offerisse, e che non
vuolsi passar senza esame; cioè se fosse padovano o veronese, e, ciò
che più importa, se ei fosse o no il padre del celebre Giulio Cesare
Scaligero»; e sei pagine profonde in tal discussione attorno un autore
che _appena_ crede degno d’essere mentovato. Al tom. VIII. l. II. c.
IV. nº 19: Gioachino Scaino fu uno de’ più illustri giureconsulti, e
_ne è testimonio_ l’onorevole iscrizione a lui posta nella sua patria
dappoichè egli fu morto... Paolo Zanchi, bergamasco, meritò d’essere
encomiato con orazione funebre da Giovita Rapicio».

[263] Il Leo (_Storia d’Italia_, cap. 2. § 1) dice: — Nuovi elementi,
nuovi principj doveano essere portati all’Italia, acciocchè una
nuova vita si svegliasse dopo la caduta dell’Impero. Nè si può
comprendere come in circostanze siffatte lo spirito del popolo italiano
potess’essere capace di dare nuovi prodotti, importanti alla storia
del mondo». Anche il Sismondi nella prefazione parla dell’«Italia
rinvigorita dall’unione del suo popolo con popoli settentrionali».

[264] Si tenga presente la data di questo lavoro.

[265] Qualcosa di meglio uscirà dall’istituzione, decretata nel 1852,
d’un archivio centrale di Stato in Firenze, ove ordinare da 115,870
tra filze e registri, e 126,830 pergamene, e acquistando sempre nuovi
documenti dalle case che ne sono ricchissime.

[266] Somma prova del degradamento degli studj eruditi fra noi
è la sfacciataggine con cui si pubblicano o spacciano documenti
assolutamente falsi, o sì evidentemente scorretti, che, senza aver
sott’occhio gli originali, può emendarli chi appena abbia attinto a
studj siffatti. Ma più sciagurato ancora è il vedere tali pubblicazioni
lodate dai dispensieri della fama, e dato nome d’eruditi a tali che
meritano unicamente quello di cerretani.

[267] Ora sono 12, e vi si devono unire le pubblicazioni delle
Deputazioni storiche delle varie regioni italiane, e molti giornali.

[268] FILIPPO JAFFE, _Regesta pontificum romanorum ab condita Ecclesia
ad annum post Christum natum_ MCXCVIII. Berlino 1850.

[269] La calata d’Enrico VII è narrata da un vescovo _in partibus_ di
Butronto, tedesco amico dell’imperatore non men che del papa, al quale
dà ragguaglio dell’impresa con dignitosa franchezza e semplicità. La
descrisse pure Albertino Mussato. Gli atti d’Enrico VII sono raccolti
da Döniges, _Regesta Enrici VII_.

[270] GIULINI, _Memorie del Milanese_, VIII. 619; BONINCONTRO MORIGIA,
_Chron._, lib. II. c. 6.

[271] Alla coronazione di Bonifazio VIII dodici ambasciatori
assistettero, tutti fiorentini, cioè: Palla Strozzi messo della
repubblica di Firenze, Cino Diotisalvi del signore di Camerino, Lapo
Uberti della repubblica di Pisa, Guido Talunca del re di Sicilia, Manno
Adimari di quello di Napoli, Folco Bencivenni del granmaestro di Rodi,
Vermiglio Alfani dell’imperatore, Musciato Franzesi del re di Francia,
Ugolino dal Vecchio di quello d’Inghilterra, Rimeri di quel di Boemia,
Simone de Rossi dell’imperatore di Costantinopoli, Guicciardo Bastari
del gran kan dei Tartari. Il che vedendo, Bonifazio chiamò i Fiorentini
il quinto elemento.

[272] Cioè dagli uomini d’arme. Sono parole di Dino Compagni.

[273] LUENIG, _Cod. diplom._, I. 1078.

[274] LEONARDO ARETINO. — Di quelli che andarono nell’oste di Enrico si
ha la lista nelle _Delizie degli eruditi tosc._, XI. 109.

[275] GIO. DA CERMENATE, _Hist._, cap. 62.

[276] «Sarebbesi partito (da Poggibonzi) se avesse avuto con che,
perocchè era largo spenditore e donatore, e di sua coscienza era buono
e avea buona fede. Non si volea partire, che non avea che dare da
cui aveva accattato.... Re Federico di Sicilia mandogli ventiquattro
migliaja di fiorini, con li quali esso pagò i suoi debiti e partissi».
COPPO DI STEFANO, lib. V. — _Hic etenim rex noster magnanimus erat,
et omnium virtutum dives, pecunia et auro nimium pauper, nihil nisi
Italicis adjutus propositi agere omnino valebat_. CERMENATE, cap. 20.

[277] Leggesi nel _Corpus juris civilis_; sicchè i papi non erano
soli in siffatte pretensioni. La costituzione seguente è in Döniges,
_Regesta Enrici VII_, pag. 226.

La sentenza contro Firenze è riferita nelle _Delizie degli eruditi_,
XI. 105, in una traduzione che credesi contemporanea, e che perciò
qui ripetiamo: — Acciocchè venga agli altri in exemplo acciocchè della
loro contumacia non possano gloriarsi il loro Comune et huomini, per la
loro contumacia habbiendo per confessi et legiptimamente convinti di
tutti et ciascuni de’ sopradetti excessi, chiamato il nome di Cristo,
sedendo per tribunale sententialmente priviamo in questi scripti il
detto Comune et huomini Fiorentini del mero et mischiato imperio, della
ragione et della signoria di podesteria, rettoria, capitaneria et di
ogni jurisditione delle quali sono usi, o vero usarono di usare nella
detta ciptà et suo distretto et tenitorio. Ancora le castella et le
ciptà, le ville et li distretti della medesima ciptà di Firenze, et
tutti i beni che la detta ciptà et Comune di Firenze ha et possiede
dentro et di fuori in ogni luogo la nostra Camera et del romano
Imperio confischiamo, et in perpetuo pubblichiamo, privando loro degli
statuti et leggi municipali et della autorità di farle in futuro,
et di tutti i feudi, franchigie, brevilegi, libertà et immunità et
honori dagl’imperadori et re de’ Romani predecessori nostri conceduti
a loro, delle quali cose si sono renduti indegni; et quelle rivocando
cassiamo, et di nostra certa scientia et sententia annulliamo. Et
nondimeno el detto Comune et huomini in cinque mila libre d’oro a
pagare alla nostra Camera et del romano Imperio condepniamo. Ancora
i priori et i consoli della detta terra et tutti gli altri uficiali
che ora sono et che per innanzi durando la detta rebellione a detti
uficj saranno eletti, perpetuamente condepniamo in infamia et come
consapevoli et favoreggianti della detta rebellione perpetualmente
sbandiamo. Et ancora tutti et ciascuni ciptadini et habitatori et del
distretto della detta ciptà sbandiamo, comandando che niuna città,
castello o vero barone, comunità, o spetiale persona i detti Comuni,
ciptadini et distrettuali o alcuno di loro ricepti o dia loro ajuto
in alcuno modo o vero favore dopo a uno mese fornito, da incominciare
dal dì di questa data sententia, sotto pena a ciascuno Comune di ciptà
di libre cinquanta d’oro, et a ciascuno castello et barone di libre
venti d’oro, et a ciascuna spetiale persona di libre una d’oro a pagare
alla nostra Camera, et più et meno a nostro arbitrio, considerato la
qualità delle persone et modo del delitto: et questa pena tante volte
si paghi quante volte sarà contraffatta. Et dichiarando che chiunque
possa i detti Fiorentini come nostri sbanditi et rebelli nostri et
del sacro romano Imperio personalmente pigliare, però senza offesa
delle persone, et in nostra balìa destinare, et così pigliare et
havere i loro beni, proibendo che niuno debitore del detto Comune, o
vero delle persone singolari della ciptà di Firenze et suo distretto
presuma di soddisfare o rispondere del suo debito a detti. Da tutte
le predette cose però eccettuiamo coloro che sono della famiglia
nostra, et coloro che sono sbanditi per cagione delle predette cose
dalla medesima ciptà et suo distretto et loro famiglia et cose; i
quali familiari nostri et sbanditi, et loro famiglie et beni delle
dette pene et sententie et sbandimenti trajamo, et sotto la nostra
protetione et del romano Imperio riserbiamo. Comandando che lo podestà,
et capitano della già detta ciptà et loro giudici et notaj, se infra
venti dì dal pronuntiamento di sì fatta nostra sententia da loro
uficj et dalla ciptà non si partiranno, o vero chi, per lo innanzi a’
detti uficj di podesteria, capitaneria, judiceria, noteria chiamati,
presumeranno di andare ad exercitare, sieno per questa stessa legge
tosto et perpetuamente della podestà di giudicare, di assistere et di
fare pubblici stromenti et di ogni altro honore et dignità privati. Et
vogliamo et dichiariamo che i medesimi soggiacciano all’infamia, se
i predetti Comuni et huomini infra lo spazio di venti dì per sindaco
legiptimamente dichiarato non compariscano dinanzi per ubbidire
efficacemente a’ nostri comandamenti sopra tutte queste cose».

[278] Che fosse avvelenato nell’ostia, è ciancia smentita dal silenzio
de’ contemporanei. «Lo corpo dell’imperadore, cioè le ossa, in una
cascia ne fue recato a Pisa, e posto nella chiesa maggiore: e mai tanto
duolo e pianto non fu fatto per li Pisani quanto allora, PERCHÈ avevano
speso più di due milioni di fiorini, e non avea fatto pro nissuno, e
rimaneano in briga, senza monete o alcuno ajuto». RANIERI SARDO, _Cron.
pisana_.

[279] _Decr. Clem._, lib. VII.

[280] LELMI, _Cronaca di Sanminiato_.

[281] È l’opinione di Carlo Troya, _Del veltro allegorico di Dante_.
Il Purgatorio diresse al marchese Mornello Malaspina; il Paradiso a
Federico I di Sicilia, poi a Can Grande della Scala.

[282] BALUZIO, _Vitæ paparum avinionensium_, tom. I, addit. col. 704.

[283] Quattro giorni egli serenò nella maremma per assalire Grosseto:
e anche Federico II più volte accampò in quella pianura, or davanti
Sovana, or davanti Selvena; mentre oggi una sola notte estiva darebbe
le febbri. Non era dunque ancora sì micidiale l’aria.

[284] G. VILLANI, X. 54. Castruccio portava un abito di seta cremisi,
che sul petto avea scritto _È come Dio vuole_, e sulle spalle _Sarà
quel che Dio vorrà_.

[285] Carlo di Boemia scrisse la propria vita, ove dice che suo padre
ordinò al cappellano d’istruirlo _aliquantulum in literis_, _quamvis
ignarus esset literarum_; e da lui imparò a leggere l’uffizietto della
beata Vergine.

[286]

    Laurin si fa della sua patria capo,
      Ed in privato il pubblico converte;
      Tre ne confina, a sei ne taglia il capo;
    Comincia volpe, ed indi a forze aperte
      Esce leon, poi ch’ha il popol sedutto
      Con licenze, con doni e con offerte.
                     ARIOSTO, _Satire_.

Del vario modo onde sorgevano le signorie, e del conseguente loro
comportarsi, ragiona da par suo il Machiavelli, _Principe_, cap. IX:
— Si ascende al principato o con il favore del popolo, o con il favore
de’ grandi. Perchè in ogni città si trovano questi due umori diversi, e
nasce da questo che il popolo desidera non essere comandato nè oppresso
dai grandi, e i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo; e
da questi due appetiti diversi surge nelle città uno de’ tre effetti, o
principato, o libertà, o licenza. Il principato è causato o dal popolo
o da’ grandi, secondo che l’una o l’altra di queste due parti ne ha
l’occasione; perchè vedendo i grandi non poter resistere al popolo,
cominciano a voltare la riputazione ad uno di loro, e lo fanno principe
per poter sotto l’ombra sua sfogare il loro appetito. Il popolo ancora
volta la riputazione ad un solo, vedendo non poter resistere ai grandi,
e lo fa principe per essere con l’autorità sua difeso. Colui che viene
al principato con l’ajuto dei grandi, si mantiene con più difficoltà
che quello che diventa con l’ajuto del popolo, perchè si trova principe
con di molti intorno che a loro pare essere uguali a lui, e per questo
non gli può nè comandare nè maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva
al principato con il favor popolare, vi si trova solo, ed ha intorno o
nessuno o pochissimi che non siano parati ad ubbidire. Oltre a questo,
non si può con onestà satisfare a’ grandi e senza ingiuria d’altri,
ma sibbene al popolo; perchè quello del popolo è più onesto fine che
quel de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso.
Aggiungesi ancora, che del popolo inimico un principe non si può mai
assicurare, per esser troppi; dei grandi si può assicurare per esser
pochi. Il peggio che possa aspettare un principe dal popolo nimico,
è l’essere abbandonato da lui: ma da’ grandi nemici non solo debbe
temere di essere abbandonato, ma che ancor loro gli vengano contro;
perchè essendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzano sempre
tempo per salvarsi, e cercano gradi con quello che sperano che vinca.
È necessitato ancora il principe vivere sempre con quel medesimo
popolo; ma può ben fare senza quelli medesimi grandi, potendo farne e
disfarne ogni dì, e tôrre e dare a sua posta riputazione loro. E per
chiarir meglio questa parte, dico come i grandi si debbono considerare
in due modi principalmente, cioè o si governano in modo col procedere
loro che si obbligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quelli che si
obbligano e non siano rapaci, si debbono onorare ed amare: quelli che
non si obbligano, si hanno a considerare in due modi; o fanno questo
per pusillanimità e difetto naturale d’animo, ed allora tu ti debbi
servir di loro, e di quelli massime che sono di buon consiglio, perchè
nelle prosperità te ne onori, e nelle avversità non hai da temerne.
Ma quando non si obbligano ad arte, e per cagione ambiziosa, è segno
come e’ pensano più a sè che a te; e da quelli si debbe il principe
guardarsi, e temerli come se fossero scoperti nimici, perchè sempre
nelle avversità l’ajuteranno rovinare. Debbe pertanto uno che diventi
principe mediante il favore del popolo, mantenerselo amico; il che gli
fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno
che contro il popolo diventi principe con il favore dei grandi, deve
innanzi ad ogni altra cosa cercare di guadagnarsi il popolo; il che
gli fia facile quando pigli la protezione sua. E perchè gli uomini,
quando hanno bene da chi credevano aver male, si obbligano più al
benefattore loro, diventa il popolo subito più suo benevolo, che se si
fusse condotto al principato per i suoi favori; e puosselo il principe
guadagnare in molti modi. Conchiuderò che ad un principe è necessario
avere il popolo amico, altrimenti non ha nelle avversità rimedio».

[287] In messali del secolo X trovò il Muratori (_Antiq. ital._,
diss. LIV) alcune messe contro i tiranni, ove s’invoca il padre degli
orfani, il giudice delle vedove a mirare le lacrime della sua Chiesa, e
liberarla dai tiranni, rinnovando gli antichi portenti. Invece sotto il
duca Filippo Maria Visconti si pregò nella messa per Agnese del Maino
sua concubina, e per Bianca loro figlia.

[288]

    Che le terre d’Italia tutte piene
      Son di tiranni, ed un Marcel diventa
      Ogni villan che parteggiando viene.
                     DANTE, _Purg._, VI.

A Milano dominarono i Torriani, poi i Visconti, poi gli Sforza; a
Lodi Vestarini, Fisiraga, Vignati; a Crema Venturino Benzone; a Como
i Rusca; a Pavia Beccaria e Langosco; a Bergamo i Suardi; a Brescia i
Maggi e i Brusati; a Cremona i Pelavicini, i Cavalcabò, i Correggio,
Cabrino Fondulo; a Mantova Passerino Bonacolsi e i Gonzaga; a Novara i
Tornielli; ad Alessandria Facino Cane; a San Donnino i Pelavicini; i Da
Camino a Treviso, Feltre e Belluno; a Verona gli Scaligeri; a Padova i
Carrara; a Ferrara i Salinguerra e gli Estensi; a Piacenza gli Scotti;
a Parma i Rossi e Correggio; alla Mirandola i Pico; a Pisa e Lucca
Castruccio Castracane; a Ravenna Paolo Traversari e i Polenta; a Fermo
i Migliorati, Gentile da Magliano e gli Sforza; a Massa i Malaspina; a
Monaco i Grimaldi; a Rimini i Malatesta; a Bologna i Pepoli; a Urbino
i Montefeltro; a Forlì gli Ordelaffi; ad Imola gli Alidosi; a Cortona
i Casale; a Faenza i Manfredi, i Calboli a Brettinoro; i Gabrielli
a Gubbio; i Cima a Cingoli; i Vico e gli Annibaldeschi a Viterbo; i
Monaldeschi e gli Annibaldeschi ad Orvieto; i Chiavelli a Fabriano;
gli Ottoni a Metelica; i Salimbeni a Radicofani; i Simonetta a Jesi; i
Malucci a Macerata; i Brancaleoni a Urbania; gli Atti a Sassoferrato;
i Mentorio a Aquila; i Varano a Camerino; i Baglioni a Perugia; i
Vitelli a Civita di Castello; i Del Pecora a Montepulciano; nel Lazio
i Savelli; a Preneste i Colonna; alle Paludi pontine i Frangipani;
i Farnesi verso il lago di Bolsena; al sud-est della Toscana gli
Aldobrandini ecc.

[289] La scomunica di Benedetto XII è però taciuta dalla maggior parte
degli storici coevi. Alberto di Strasburgo, che la attribuisce alle
minacce del re di Francia, è gran fautore del Bavaro. Se il Cuspiniano
deferisce affatto a questo, il Platina caratterizza Benedetto XII come
«di tanta costanza, che non fu chi lo potesse mai per prieghi o per
forza dalle cose oneste e sante torcere un punto, perchè amava i buoni,
e all’aperta odiava gli scellerati».

[290] _Consistorium tenuit, in quo decrevit et statuit, quod toto
tempore suo Ecclesia romana vel alia quævis gladium martialem non
exerceat vel faciat guerras contra quemcumque hominem._ Chron. Cornelii
Zantfliet ap. MARTÈNE, _Vet. Script. ampl. coll._ V. 208.

[291] Nel _Missale Ambrosianum_ edito a Milano dal Zarotto il 1475, e
in quello da Cristoforo di Ratisbona il 1482, come pure nel Breviario
del 1490, v’è la messa distinta per questa vittoria, e il prefazio
finisce: _O felix victoria, o beata victoria, quomodo fuisti pro
Mediolanensibus valde bona, magis gratia quam viribus acquisita. Nam
qui predam pernitiemque minabantur, facti sunt mortui, preda victoriæ
triumphalis. Et ideo etc._

[292] Nel prezioso monumento erettogli in San Gotardo in Milano,
disperso dalla calcolata barbarie dell’età precedente alla nostra,
Azzone compariva in ginocchio, in atto d’essere col gonfalone investito
del Milanese da Lodovico il Bavaro; tanto era lungi che quest’omaggio
si considerasse per umiliante. L’epitafio diceva:

    _Hoc in sarcofago tegitur vir nobilis Azo_
    _Anguiger, imperio placidus, non levis et asper,_
    _Urbem qui muris cinxit, regnumque recepit,_
    _Punivit fraudes, ingentes struxit et ædes,_
    _Dignus longa vita, in fatis si foret ita_
    _Ut virtus multos posset durare per annos._

[293] Della famiglia Pusterla non rimase verun ricordo fra il popolo;
eppur dovette essere di gran conto, se la troviamo implicata in tutte
le cospirazioni contro i Visconti. Vantavasi di stirpe longobarda,
e nello stemma portava l’aquila imperiale; possedeva trentacinque
ville, e in città quasi tutto il quartiere di porta Ticinese. Un dato
giorno questa famiglia allestiva un gran cavallo di legno, il quale
tirato da facchini, a suon di musiche traversava quel quartiere fino
al duomo: ivi schiudevasi, e ne uscivano persone coi regali di cui
faceano omaggio alla metropolitana. Terminavasi in lauti pasti agli
innumerevoli clienti, trattati secondo il grado nelle capaci sale e nei
clamorosi cortili.

[294] STELLA, _Ann. januens._ Rer. It. Scrip., XVII. 1073.

[295] Lo racconta il Petrarca nelle _Lettere famigliari_, lib. XVIII.
ep. 4.

[296] FERRETO, lib. VI, p. 1130.

[297] CORTUSI, _Hist. de novitatibus Paduæ_, lib. I. c. 22.

[298] In quelle rivoluzioni non manca mai un avvocato, che, per
reminiscenza dei Greci e dei Romani, e per isfoggio d’eloquenza,
persuade a sottoporsi a un tiranno. Nicola Duc giureconsulto
dimostrava agli Astigiani quanto loro tornava conto mettersi in
obbedienza di Filippo di Piemonte. Messer Ugolino da Celle, dottor
di legge, persuadeva i Lucchesi ad eleggere signore Castruccio:
_Cum magnificus vir Castruccius, sua industria, sapientia, virtute,
sollicitudine et vigore, et non sine magno risico suæ personæ, multas
vicarias, castra, terras, jura et jurisdictiones Lucani comunis,
diu in damnum et præjudicium Lucani comunis per quosdam nobiles et
magnates detenta, occupata recuperavit et subjecerit fortiæ Lucani
comunis, et alia maxima ordinaverit et fecerit, et ordinare, facere
et executioni mandare in honorem et servitium Lucani comunis continuo
sit paratus in actu et prosecuturus; et ipsam civitatem Lucanam
multimode dissolutam reduxerit, et conservet continuo in plena
justitia, pacifico et tranquillo statu; et dignum sit quod ex tantis
beneficiis et honoribus, quæ Lucano comuni acquisivit, et quibus
ipsam civitatem sua virtute promovit, meritum consequatur; si placet
ordinare, consulere et reformare quod ipse Castruccius sit et eligatur,
et electus intelligatur, et sit vigore præsentis consilii dominus et
generalis capitaneus civitatis Lucanæ, et ejus comitatus, districtus
et fortiæ cum omni et tota baylia et auctoritate Lucani comunis; quæ
baylia et auctoritas vigore præsentis consilii eidem attributa sit et
intelligatur super omnibus et singulis negotiis ejusdem comunis pro
tempore vitæ ipsius Castrucci etc._ Memorie lucchesi, I, 249.

[299] «Questo messere Mastino (dice un Romagnuolo contemporaneo) fu
de li maggiori tiranni de Lombardia, quello che più cittate ebbe,
più potenza, più castella, più comunanze, più grandigia: di quindici
grosse cittate fu signore. Mentre che sua oste si posava sopra alcuna
cittate, drizzavale sopra quaranta trabocchi; mai non se ne partiva
fintanto che non era signore; voleva essere signore sì per forza sì
per amore. Mise piede in Toscana, ebbe Lucca, e ingannò i Fiorentini;
donde i Fiorentini gli ordinarono quella ruina, la quale gli venne di
sopra. Po’ minacciava di volere Ferrara e Bologna. Una cosa facea a li
nobili li quali davano le città, che li tenea con seco, e dava loro
grande protezione. Molti erano li baroni, molti erano li soldati da
piede e da cavallo, molti li buffoni, molti suoi falconi, palafreni,
pontani, destrieri di giostra. Grande era lo armeggiare. Vedeasi
levare capucci di capo; vedeasi Todeschi inchinare, conviti smesurati,
trombe e caramelle, cornamuse e naccare sonare: vedeasi tributi
venire, muli con some scaricare, giostre e bello armeggiare, cantare,
danzare, saltare; ogni bello e dolce diletto fare; drappi franceschi,
tartareschi... velluti ’ntagliare; panni lavorati, smaltati, inorati
portare. Quando questo signore cavalcava, tutta Verona crollava; quando
minacciava, tremava. In fra le altre magnificenze sue si racconta
che ottanta taglieri di credenza ebbe una volta che volse pranzare
in camera; e ogni tagliere ebbe un deschetto con due baroni. Giudici,
medici, letterati, virtuosi di ogni cognizione, avea provisione in sua
terra. La sua fama sonava in corte di Roma. Non ha simile in Italia,
e si magnifica messer Mastino. Fu uomo assai savio de testa, giusto
signore; per tutto lo suo regno givase sicuro con oro in mano; grande
giustizia facea. Fu uomo bruno, peloso, carnuto, con un grandissimo
ventre; mastro de guerra. Cinquanta palafreni avea di sua casa; ogni dì
mutava roba; duemila cavalieri cavalcavano con esso, quando cavalcava;
duemila fanti da piedi armati, eletti, colle spade in mano, givangli
intorno. E sua persona, mentre che seguitò la virtù, crebbe; poi che
in superbia comenzò a corrompersi, forte diventò lussurioso; che avesse
detorpate cinquanta polzelle in una quaresima si vantò. Questi vizj lo
fecero cadere de suo onrato stato. Po’ manicava la carne lo venerdì
e lo sabbato, e la quatregesima; non curava de scomunicazione; e
considerando essere tanto potente, gloriavasi non conoscere fragilitate
umana. Quando si vide in tanta grandezza e alterigia, fece fare
palazzi, come si vede in Verona; e per fare le fondamenta, guastò
chiesa. Mai bene non gli prese da poi. Comenzò a desprezzare li tiranni
de Lombardia: non curava di gire a parlamento con essi. Poi fece
fare una corona, tutta adornata di perle, zaffiri, balasci, robini,
smeraldi, valore di fiorini ventimila; perchè ebbe intenzione di farsi
incoronare re di Lombardia, e di fresco. Ma tiranni di Lombardia furono
forte turbati; bene pensarono via da non essere subjetti a loro paro».
— CORTUSIO, op. cit., lib. VI. c. I; MUZIO GAZATA, e _Storia romana_
ap. MURATORI, Antiq. Ital.

[300] Sul mausoleo di Can Grande del 1329 fu scritto;

    _Si Canis hic grandis ingentia facta peregit_
    _Marchia testis adest, quam sævo marte subegit._
    _Scaligeram qui laude domum super astra tulisset_
    _Majores in luce mores si Parca dedisset._

Su quello di Cansignorio:

    _Scaligera hac nitida cubo Cansignorius arca_
    _Urbibus optatus latiis sine fine monarca._
    _Ille ego sum gemine qui gentis sceptra tenebam,_
    _Justitiaque meos mixta pietate regebam;_
    _Inclyta cui virtus, cui pax tranquilla fidesque_
    _Inconcussa dabunt famam per secla diesque._

Su quello di Mastino:

    _Me dominum Verona suum, me Brixia vidit,_
    _Parmaque cum Lucca, cum Feltro Marchia tota._

[301] Diversi paesi portavano il nome di ducato di Borgogna. Il re
della Borgogna cisgiurana, cioè di Arles e Provenza, capitale Vienna:
il re della Borgogna transgiurana, capitale Ginevra, che comprendeva
gran parte della Svizzera, il Lionese, porzione del Delfinato, la
Bresse, la Savoja, e di qua dai monti le valli d’Aosta, Susa, Maira; il
ducato proprio di Borgogna. I molti studj in proposito sono riassunti
nelle _Memorie cronologiche e genealogiche di storia nazionale_ del
Cibrario, e nella sua _Storia della monarchia di Savoja_. Vedi pure
GINGINS LA SERRA per l’origine dai duchi di Provenza.

[302] In una donazione all’abbazia di Pinerolo, Umberto II professa
vivere _ex nacione mea lege romana_. Il Guichenon omise queste parole
perchè contrariavano il suo sistema: noi però mostrammo che non provano
l’origine di una famiglia.

[303] _Cronaca di Evian_, ms. nell’archivio cantonale di Losanna.

[304] Quei di Magnano davansi al Conte Verde, 1373, volendo essere _sub
justæ manus dominio, potiusquam sub tyrannisantium sævissima voragine
et regimine crudeli_.

[305] Allora unico arcivescovo ne’ possessi di Savoja era quello di
Tarantasia, sotto cui la Moriana e Aosta. La Savoja propria dipendeva
dal metropolita di Vienne, come parte del vescovado di Grenoble:
gli altri paesi d’oltremonte riverivano i metropoliti di Lione e di
Besanzone; quelli qua dai monti, l’arcivescovo di Milano.

[306] Il Gioffredo, St. delle Alpi Marittime, tom. i. p. 590, trovò
confermati fin dal 1040 da Ottone e Corrado conti di Ventimiglia gli
statuti dati da un Arduino marchese d’Ivrea agli uomini di Tenda,
Saorgio, Briga, e che importano la ricognizione del diritto d’eredità
nei maschi e nelle femmine; dispensa dal combattimento giudiziale in
cause civili, surrogandovi i testimonj sacramentali, o giurati; il
conte nè i suoi non potranno pigliare in ostaggio la persona, o mettere
sequestro sui beni e sulle case d’essi uomini; questi non saranno
tenuti assistere al giudizio pubblico se non una volta l’anno per tre
giorni; nè a mandare loro dipendenti in guerra se non in caso di oste
generale; potranno far legna, adacquare, pascolare, cacciare su tutti i
dominj del conte fino al mare. È uno de’ più antichi documenti di vita
comunale. I privilegi della val di Lanzo si leggono in Cibrario, Studj
storici, pag. 302.

[307] _Lib. consil. civitatis Taurini._

[308] CIBRARIO, _Storia di Chieri_; — SCLOPIS, _Considerazioni storiche
intorno a Tommaso di Savoja e degli Stati generali ed altre istituzioni
politiche del Piemonte_. Torino 1851.

[309] Salinguerra per servizio feudale doveva ad Innocenzo III il censo
di quaranta marche d’argento; servire a proprie spese con cento militi
in Romagna e Lombardia; con cinquanta in Toscana, nelle marche d’Ancona
e di Spoleto; con venti di là da Roma e fin in Sicilia. Il servizio
doveva durare trenta giorni ogn’anno, non computando l’andata e il
ritorno. SAVIOLI, _Ann. bolognesi_, doc. 431. 444.

[310] Nel 1233 Anselmo di Vinguilia pel proprio padre Bonifazio e per
Jacopo di Casanova suo parente giura fedeltà al Comune di Genova; ed
oltre le solite convenzioni promette che, qualora esso Comune faccia
esercitare cavalcata, vi andrà come gli altri della Riviera, e uno
di loro due, o un idoneo sostituto. Se faccia armata di dieci galee,
darà sette uomini a spese proprie; e così di più o di meno in ragione,
purchè non siano meno di sei. _Liber jurium_, I. 931. Seguono altre
consimili convenzioni.

[311] GHIRARDACCI, al 1297, e lib. XIV. p. 477.

[312] _Delizie degli eruditi toscani_, X. 199. — Chiamavasi
_cavalleria, cavallata_ o _milizia_ l’obbligazione di servire a
cavallo. Determinavasi secondo gli averi a chi intiera, a chi un
quarto, a chi metà; a tale di due cavalli, a tale di un solo. Chi n’era
dispensato per età, legge o malattia, dava armi e destrieri, che il
Comune distribuiva a’ cittadini di minor sorte. Studiavansi i rettori
d’accrescere il numero delle cavallate, sia distribuendo a’ più poveri
alcuna somma di danaro a modo di prestito o di dono, sia consegnando
alle genti forestiere alcuni cavalli in socio o, come allora dicevasi,
_in adequanza_, al patto che servissero in guerra e venissero ad
abitare colle famiglie dentro le mura.

Del resto le cavallate s’imponevano solitamente ogni anno, ed a chi
possedeva oltre a cinquecento fiorini: a chi erano imposte importavano
l’obbligazione di tener un cavallo di valuta fra i trentacinque e i
settanta fiorini (fra le 854 e le 1708 lire d’oggi), e di militare ad
ogni cenno del capitano di guerra. La paga in Firenze pe’ semplici
cittadini era di quindici soldi al dì; pe’ giudici e cavalieri di
corredo, di venti. I destrieri delle cavallate primamente venivano
esaminati, stimati e descritti da uffiziali deputati a ciò; poscia
bollavansi col bollo del Comune. Caso che il cavallo per pubblico
motivo venisse guasto, morto o ferito, il danno veniva compensato al
padrone dal Comune: ciò dicevasi _emendare_. Finchè il cavallo non
fosse emendato, correva la paga al milite senz’obbligo di servizio.
Cavallo emendato contrassegnavasi per non averlo ad emendare una
seconda volta. Vedi RICOTTI, _Storia delle compagnie di ventura_.

[313] GIULINI, al 1235; — G. VILLANI, IX. 47.

[314] I fuorusciti di Ferrara nel 1271 fanno lega con Bologna,
promettendo _quod facient exercitum et cavalcatam cum commune Bononiæ,
scilicet milites ut milites, et pedites ut pedites, ad voluntatem
et mandatum communis et populi bononiensis, sicut cives civitatis
Bononiæ....; quod facient et tractabunt guerram omnibus et singulis
inimicis communis Bononiæ....; quod dicti Ferrarienses et eorum
sequaces defendent et manutenebunt toto eorum posse sicut alii cives
civitatis Bononiæ castrum bononiense factum apud Primarium_. SAVIOLI,
doc. 765.

[315] Anche i capitani successivi erano di nobili case: Werner di
Monfort, Wirtinger di Landau, Anichino di Baumgarten...; dai nostri
nominati il duca Guarnieri, il conte Lando, il Bongardo. Vedi il Cap.
CXI.

[316] G. VILLANI, IX. 182.

[317] _Novella_ 181. — Quando Pino degli Ordelaffi sconfisse la banda
della Rosa nel 1398, esso Sacchetti lo lodò in un sonetto:

    Se ciaschedun signor desse le frutte
      A chi le va cercando, come voi,
      Le strade si terrian nette ed asciutte.

E soggiungeva in prosa: — Perchè virtuosamente avete adoperato, che ’l
simile facessono tutti gli altri signori, non mi sono possuto tenere
ch’io non v’abbia scritto.... E se in ciò si accordasse tutta Italia, e
facesse come voi, la gente barbara tornerebbe a lavorar le terre ecc.».

[318] ROSMINI, _Vita del Magno Trivulzio_, lib. IV. doc. 23.

[319] Lettera di re Roberto al duca d’Atene.

[320] Le particolarità sono di Coppo Stefani. Vedi HECKER, _Der
Schwarze Tod_. Berlino 1832.

[321] _Rer. It. Scrip._, tom. XV, cronaca di Andrea Dei. Un altro
anonimo dice, più ragionevolmente, che da sessantacinquemila bocche si
ridussero a quindicimila.

[322] Ma nel 1361 la peste scoppiò in Lombardia, desertò Como, a Novara
e Pavia consumò un terzo degli abitanti, settantasettemila in Milano,
oltre il contado. Tornò nel 74, poi nel 99, quando la sola Como, al
dire di Benedetto Giovio, perdè tredicimila persone.

[323] PETRARCA, _Ep. famil._, lib. VIII. 7.

[324] Questa singolarità eccitò la curiosità, e molti la tolsero a
soggetto di dotte dissertazioni, che crescono di continuo. In Italia,
oltre il Camposanto di Pisa, troppo noto, ne conosciamo uno poco fuori
di Como, oggi perito; uno a Santa Caterina del Sasso sul lago Maggiore;
uno sulla facciata dei Disciplini a Clusone del Bergamasco.

[325] _Cron. riminese._

[326] Probabilmente sotto Fiesole al Poggio Gherardi, e alla villa già
Palmieri detta Schifanoja e dei Trevisi.

[327] — Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri
giovani, li quali, non che altri, ma Galeno, Ippocrate o Esculapio,
avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono coi loro parenti,
compagni ed amici, che poi, la sera vegnente appresso, nell’altro mondo
cenarono colli loro passati».

Più che in tutta la retorica del Boccaccio, trovo verità in queste
parole di Panieri Sardo cronista pisano: — In del 1348, alla intrata di
gennajo, vennero a Pisa due galee di Genovesi che venivano di Romanìa;
e come furono giunti alla piazza dei Pesci, chiunque favellò con loro
di subito fue amalato e morto; e chiunque favellava a quelli malati o
toccasse di quelli morti altresì, tosto amalavano e morivano: e così
fu sparta la grande corruzione in tanto, che ogni persona morìa. E
fu sì grande la paura, che nime (nessuno) volea l’un l’altro vedere:
lo padre non volea vedere morire lo figliuolo, nè lo figliuolo volea
vedere morire lo padre, nè l’uno fratello l’altro, nè la moglie lo suo
marito. E ogni persona fuggiva la morte; ma poco li valea, che chiunque
dovea morir si moria, e non si trovava persona che li volesse portare
a fossa. Ma quello Signore che fece lo cielo e la terra, provvide bene
ogni cosa; che lo padre, vedendo morto lo suo figliuolo e abbandonato
da ogni persona (che nimo lo volea toccare, nè cucire, nè portare),
egli si recusava morto (_si dava per morto_) e poi facea egli stesso
lo meglio che potea; egli lo cucia, e poi lo mettea in della cascia,
e con ajuto lo portava alla fossa, ed egli stesso lo sotterrava; e
poi l’altro giorno egli o chiunque l’avea toccato, si era morto. Ma
benedetto Dio, che provvide di dar ajuto l’uno all’altro. Con tutto
che ciascun morie purchè egli toccasse di sue cose o denari o panni,
nondimeno non ne rimase in nessuna casa nè in sul letto nessuno a
sotterrare, che egli non fosse onorevolmente sotterrato secondo la
sua qualità: tanta carità Dio diede all’uno coll’altro, recusandosi
ciascuno morto. E dicea: _Ajutiamo, e portiamli a fossa, acciocchè
ancora noi siamo portati_». Archivio storico, tom. VI. part. ii. p.
114.

[328] Non è ben dimostrato che il De Sade trovasse il vero intorno a
questa Laura. Vedi _L’illustre châtelaine des environs de Vaucluse, e
la Laure de Pétrarque par_ HYACINTHE D’OLIVIER-VITALIS. Parigi 1843.
Anche Salvatore Betti sostiene ch’ella fosse la nobilissima Laura Des
Beaux Adhémar di Cavaillon, figlia del signore di Vaucluse, nata in
riva alla Sorga, e morta fanciulla di consunzione il 1348.

«Le trenta vite del cantore di Laura ce ne lasciano bramare una degna
di lui», scriveva il Bettinelli quasi un secolo fa, e possiamo ripeter
noi.

[329]

    Perchè a me troppo ed _a se stessa_ piacque.
    La rividi più bella e meno _altera_.

[330]

    Con lei foss’io da che si parte il sole,
      E non ci vedess’altri che le stelle....
      Solo una notte, e mai non fosse l’alba,
      E non si trasformasse in verda selva
      Per uscirmi di braccia....
    Pigmalïon, quanto lodar ti dèi
      Dell’immagine tua, se mille volte
      N’avesti quel ch’io sol una vorrei.

E _De contemptu mundi_, dial. III: _Nullis mota precibus, nullis victa
blanditiis, muliebrem tenuit decorem, et adversus suam simul et meam
ætatem, adversus multa et varia quæ adamantinum flectere licet spiritum
debuissent, inexpugnabilis et firma permansit._

[331] _De vita solitaria; De remediis utriusque fortunæ_.

[332] _Seniles_, 3. 6.

[333] _Apol. contra Galli calumnias._ È in ripicchio d’un anonimo che
avea confutato la lettera ove egli persuadeva Urbano V a ritornare la
sede pontifizia in Roma, dicendogli ogni male della Francia.

[334] _Opera_, pag. 170. ediz. di Basilea.

[335] Rathery, nella Memoria premiata dall’Accademia nel 1852 intorno
all’_Influenza dell’Italia sulle lettere francesi_, vorrebbe nel Roman
de la Rose riconoscere l’influenza di Dante, ch’e’ suppone amico di
Giovanni de Meun.

[336] _Audio, quo nil possem tristius, nihilque indignantius audire,
quosdam cardinales ibi esse qui murmurent se Benvense vinum in Italia
non habere_. Opera, pag. 845.

[337] Di lui scrive nelle _Epist. famil._, VII. 13: _Reges terræ
bellum literis indixerunt; aurum, credo, et gemmas atramentis inquinare
metuunt, animum ignorantiæ cæcum ac sordidum habere non metuunt. Unde
illud regale dedecus? videre plebem doctam, regesque asinos coronatos
licet (sic enim eos vocat romani cujusdam imperatoris epistola ad
Francorum regem). Tu ergo hac ætate vir maxime, et cui ad regnum nihil
præter nomen regium desit... meliora omnia de te spero._

E nell’_Epist. metr._ lib. III:

    _Maximus ille virûm quos suspicit itala tellus,_
    _Ille, inquam, aeriæ parent cui protinus Alpes,_
    _Cui pater Apenninus erat, cui ditia rura_
    _Rex Padus ingenti spumans intersecat amne,_
    _Atque coronatos altis in turribus angues_
    _Obstupet..._
    _Adriaci quem stagna maris, thyrrenaque late_
    _Æquora permetuunt, quem transalpina verentur,_
    _Seu cupiunt sibi regna ducem, qui crimina duris_
    _Nexibus illaqueat, legumque coercet habenis,_
    _Justitiaque regit populos, quique aurea fessæ_
    _Tertius Hesperiæ melioris secla metalli_
    _Et Mediolani romanas contulit artes,_
    _Parcere subjectis et debellare superbos._

Alla nascita d’un figlio di Barnabò cantava:

    _Te Padus expectat dominum, quem flumina regem_
    _Nostra vocant, te purpureo Ticinus amictu...._
    _Tu quoque tranquillo votivum pectore natum_
    _Suscipe, magne parens, et per vestigia gentis_
    _Ire doce, generisque sequi monumenta vetusti._
    _Inveniet puer iste domi calcaria laudum_
    _Plurima, magnanimos proavos imitetur avosque,_
    _Mirarique patrem docili condiscat ab ævo._

[338] Dodici vestiti di scarlatto erano delle case Forni, Trinci,
Capizucchi, Caffarelli, Cancellieri, Coccini, Rossi, Papazucchi,
Paparesi, Altieri, Leni, Astalti; sei di verde, delle case Savelli,
Conti, Orsini, Annibaldi, Paparesi, Montanari.

[339] _Incubui unice ad notitiam antiquitatis, quoniam mihi semper ætas
ista displicuit._ Ep. ad posteros.

[340] _Auctor venatus fuit ubique quidquid faciebat ad suum
propositum_. BENVENUTO DA IMOLA al XIV del _Purgatorio_.

[341] Il Petrarca narra che Dante fu ripreso da Can Grande, qual uomo
meno urbano e men cortese che non gli istrioni medesimi e i buffoni
della sua Corte. _Memorab._, II. Avendogli Can Grande domandato: —
Perchè mi piace più quel buffone che non te, cotanto lodato?» n’ebbe in
risposta: — Non ti maraviglieresti se ricordassi che la somiglianza di
costumi stringe gli animi in amicizia».

[342] _Sonetto_ 25. II. — Nella prefazione alle _Epistole famigliari_
dice avere scritto alcune cose vulgari per dilettar gli orecchi del
popolo. Nella VIII di esse soggiunge che per sollievo dei suoi mali
dettò «le giovanili poesie vulgari, delle quali or prova pentimento
e rossore (_cantica, quorum hodie pudet ac pœnitet_), ma che pur
sono accettissime a coloro i quali dallo stesso male sono compresi».
Nella XIII delle Senili: _Ineptias quas omnibus et mihi quoque si
liceat ignotas velim_. E scolpandosi a quei che lo diceano invidioso
di Dante: — Non so quanta faccia di vero sia in questo, ch’io abbia
invidia a colui che consumò tutta la vita in quelle cose, in che io
spesi appena il primo fiore degl’anni; io che m’ebbi per trastullo e
riposo dell’animo e dirozzamento dell’ingegno quello che a lui fu arte,
se non la sola, certamente la prima». E nella XI delle _Famigliari_
modestamente: — Di chi avrà invidia chi non l’ha di Virgilio?» Altrove
dice essersi guardato sempre dal leggere i versi di Dante, e al
Boccaccio scrive: — Ho udito cantare e sconciare quei versi su per le
piazze... Gl’invidierò forse gli applausi de’ lanajuoli, tavernieri,
macellaj e cotal gentame?» Eppure Jacopo Mazzoni (_Difesa di Dante_,
VI. 29) asserisce che il Petrarca «adornò il suo canzoniere di tanti
fiori della Divina Commedia, che può dirsi piuttosto ch’egli ve li
rovesciasse dai canestri che dalle mani». È un’arte dei detrattori
senza coraggio il deprimere un sommo col metterlo a paraggio de’
minori. Ora il Petrarca due volte menziona Dante come poeta d’amore,
ponendolo in riga con frà Guittone e Cino da Pistoja; Sonetto 257:
_Ma ben ti prego che in la terza spera Guitton saluti e messer Cino e
Dante_. Trionfo d’Amore, IV: _Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia,
ecco Cin da Pistoja, Guitton d’Arezzo_.

[343] Si confronti la descrizione della sera. DANTE, _Purg._, VIII:
— Era l’ora che volge il desìo e intenerisce il cuore dei naviganti
il dì che dissero addio ai cari amici; e che punge d’amore il nuovo
pellegrino se ode squilla da lontano che sembri piangere il giorno
che si muore». PETRARCA: — Poichè il sole si nasconde, i naviganti
gettan le membra in qualche chiusa valle sul duro legno o sotto l’aspre
gòmone. Ma perchè il sole s’attuffi in mezzo l’onde, e lasci Spagna e
Granata e Marocco dietro le spalle, e gli uomini e le donne e ’l mondo
e gli animali acquetino i loro mali, pure io non pongo fine al mio
ostinato affanno».

[344] Eppure la parola _melanconia_ nè una volta si trova nei suoi
versi.

[345] Indicò chiaramente gli antipodi e il centro di gravità della
terra; fece argute osservazioni sul volo degli uccelli, sulla
scintillazione delle stelle, sull’arco baleno, sui vapori che formansi
nella combustione (_Inf._, XIII. 40. XIV. III; _Purg._, II. 14. XV. 16;
_Par._, II, 35. XII. 10), sull’origine delle meteore acquose (_Ben sai
come nell’aer si raccoglie Quell’umido vapor che in acqua riede Tosto
che sale dove freddo il coglie_), e sulla teoria de’ venti (_il vento
Impetuoso per gli avversi ardori_), sul rapporto fra l’evaporazione
del mare e le correnti de’ fiumi (_In fin là, ’ve si rende (l’Arno)
per ristoro, Di quel che il ciel della marina asciuga, Ond’hanno i
fiumi ciò che va con loro_). Prima di Newton assegnò alla luna la causa
del flusso e riflusso (_E come ’l volger del ciel della luna, Copre e
discopre i lidi senza posa_. _Par._, XVI). Prima di Galileo attribuì
il maturar delle frutte alla luce che fa esalare l’ossigeno (_Guarda
il color del Sol che si fa vino Giunto all’umor che dalla vite cola_.
_Purg._, XXV). Prima di Linneo e dei viventi dedusse la classificazione
dei vegetali dagli organi sessuali, e asserì nascer da seme le piante
anche microscopiche e criptogame (_Ch’ogn’erba si conosce per lo seme._
Ivi, XVI; _Quando alcuna pianta Senza seme palese vi s’appiglia_.
Ivi, XXVIII). Sa che alla luce i fiori aprono i petali e scoprono
gli stami e i pistilli per fecondare i germi (_Quali î fioretti dal
notturno gelo Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca, Si_ drizzan
_tutti_ aperti _in loro stelo. Inf._, II); e che i succhi circolano
nelle piante (_Come d’un tizzo verde ch’arso sia Dall’un de’ capi,
che dall’altro geme E cigola per vento che va via_. Ivi, XIII). Prima
di Leibniz notò il principio della ragion sufficiente (_Intra duo
cibi distanti e moventi D’un modo, prima si morria di fame Che liber
uom l’un si recasse a’ denti_. _Par._, IV). Prima di Boussingault e
Liebig assegnò le rimutazioni della materia (_Il ramo Rende_ alla terra
_tutte le sue spoglie_). Prima di Bacone pose l’esperienza per fonte
del sapere (_Da questa istanzia può deliberarti Esperienza, se giammai
la provi, Ch’esser suol fonte a’ rivi di vostr’arti_. Ivi, II). Anzi
l’attrazione universale vi è adombrata, cantando — Questi ordini di su
tutti rimirano, E di giù vincon sì che verso Dio Tutti tirati sono e
tutti tirano» (_Par._, XXVIII). Indica pure la circolazione del sangue,
dicendo in una canzone: — Il sangue che per le vene disperso Correndo
fugge verso Lo cor che il chiama, ond’io rimango bianco». Il che più
circostanziatamente esprime Cecco d’Ascoli nell’_Acerba_:

    Nasce dal cuore ciascuna arteria
    E l’arteria sempre dov’è vena;
    Per l’una al core lo sangue si mena,
    Per l’altra vien lo spirito dal core;
    Il sangue pian si move con quiete.

[346] Oltre l’argomento dedotto dal suo silenzio, vedi la confusione
che ne fa nel IV dell’_Inferno_; altrove nomina come autore di
_altissime prose_ Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio; nel
_Par._, VI. 49, fa venire in Italia gli Arabi con Annibale, ecc.; nel
_Convivio_ confessa che stentava a capire Cicerone e Boezio.

[347] Per esempio, Cino da Pistoja scrive degli occhi della sua donna:

    Poichè veder voi stessi non potete,
    Vedete in altri almen quel che voi siete;

e il Petrarca:

                  Luci beate e liete,
    Se non che il veder voi stesse v’è tolto:
    Ma quante volte a me vi rivolgete,
    Conoscete in altrui quel che voi siete.

Cino ha un sonetto:

    Mille dubbj in un dì, mille querele
    Al tribunal dell’alta imperatrice, ecc.

ove figura che egli ed Amore piatiscano avanti alla Ragione, e infine
questa conchiude:

                  A sì gran piato
    Convien più tempo a dar sentenza vera.

Petrarca riproduce quest’invenzione nella canzone _Quell’antico mio
dolce empio signore_, ove dopo il dibattimento la Ragione sentenzia:

    Piacemi aver vostre quistioni udite,
    Ma più tempo bisogna a tanta lite.

Confronti del Petrarca coi Provenzali fece il Galvani nelle
_Osservazioni sulla poesia de’ trovadori_. E vedi il _Paradosso_ del
Pietropoli.

[348] Però il Bembo, quel gran petrarchista che ognun sa, confessa
aver letti per oltre quaranta volte i due primi sonetti del Canzoniere
senza intenderli appieno, nè avere incontrato ancora chi gl’intendesse,
per quelle contraddizioni che pajono essere in loro; _Lettera a
Felice Trofimo_, lib. VI. E Ugo Foscolo, grande studioso del Petrarca,
interrogato sul senso della strofa famosa _Voi cui natura_, ecc., la
spiega con un _Se non m’inganno_ (Epistolario, vol. III. 46). Fin ad
ora si disputò sul senso del verso

    Mille piacer non vagliono un tormento

e dell’altro

    Che alzando il dito colla morte scherza.

[349] Gli aneddoti che si raccontano in contrario, e l’asserzione
del Petrarca parmi non si possano riferire che a’ versi amorosi, od
altri men conosciuti, che sono di forma affatto moderna e di concetto
semplice.

[350] Tali sarebbero i frequenti giuocherelli sul nome di Laura; tale
la _gloriosa colonna_ a cui s’appoggia nostra speranza, e il vento
angoscioso de’ sospiri, e il fuoco de’ martiri, e le chiavi amorose, e
il lauro a cui coltivare adopera _vomer di penna con sospir di fuoco;_
e la nebbia di sdegni che _rallenta le stanche sarte della nave sua,
fatte d’error con ignoranza attorto_: e i ravvicinamenti fra cose
disparate, come fra sè e l’aquila, la cui _vista incontro al Sol pur
si difende_; e il dolore che lo fa _d’uom vivo un verde lauro_. Nel
che talvolta non ha pur rispetto alle cose sacre; come là dove loda
il borgo in cui la bella donna nacque, paragonando con Cristo che
_sceso in terra a illuminar le carte, fa di sè grazia a Giudea_; e il
_vecchierel canuto e bianco, che viene a Roma per rimirar la sembianza
di colui che ancor lassù nel ciel vedere spera_, confronta a sè _che
cerca la forma vera di Laura_.

[351] Alessandro Velutello nel 1525 fu il primo che distribuì il
Petrarca in rime avanti la morte, dopo la morte di madonna Laura, e
rime varie.

[352] Un’elevata definizione della poesia leggiamo pure nel Boccaccio
(_Genealogia degli Dei_, lib. XIV, c. 7): _Poesis, quam negligentes
abjiciunt et ignari, est fervor quidam exquisite inveniendi atque
discendi seu scribendi quod inveneris, qui ex sinu Dei procedens,
paucis mentibus, ut arbitror, in creatione conceditur. Ex quo, quoniam
mirabilis est, rarissimi semper fuere poetæ. Hujus enim fervoris
sublimes sunt effectus ut puta mentem in desiderium dicendi compellere,
peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine
certo component ornare compositum inusitato quodam verborum atque
sententiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem
contegere_.

[353] La Divina Commedia a La Harpe parve _une rapsodie informe_, a
Voltaire _une amplification stupidement barbare_. Ebbe essa ventuna
edizione nel secolo XV, quarantadue nel XVI, quattro nel XVII,
trentasei nel XVIII, più di cencinquanta nella prima metà del nostro;
diciannove traduzioni latine, trentacinque francesi, venti inglesi,
altrettante tedesche, due spagnuole; cencinquantacinque illustrazioni
di disegni o pitture. Vedi COLOMB DE BATINES, _Bibliografia dantesca_.

[354] Nota varietà di giudizj. Il padre Cesari, proclamato pedante,
ristampando i _Fioretti_ (Verona 1822) levò le uscite alla antica,
mettendovi le moderne «per togliere agli schifiltosi ogni cagione di
mordere e sprezzare questa lingua del Trecento; e così cammineranno
senza incespicare». Sebastiano Ciampi, ristampando il vulgarizzamento
d’Albertano Giudice (Firenze 1833), conserva non che le cadenze, fin
tutti gli sbagli del manuscritto, e ne fa per rogito notarile attestare
l’identità.

[355] Come tale è considerato dal TEMPESTI, _Disc. sulla storia
letteraria pisana_.

[356] Altre letterate italiane, oltre la Pisani e la Nina sicula,
nomineremo le fabbrianesi Ortensia di Guglielmo, Leonora della Genga,
Livia di Chiavello, Elisabetta Trebani d’Ascoli, Giustina Levi Perotti,
che indirizzò sonetti al Petrarca; la Selvaggia, cantata da Cino di
Pistoja; Giovanna Bianchetti bolognese, che sapeva di greco, latino,
tedesco, boemo, polacco, italiano, e di scienze filosofiche e legali.

[357] F. VILLANI nella sua vita; _Filocopo_, v. 377.

[358] Dal _Dolopathos_ il Boccaccio dedusse le novelle, 2ª della
giornata IX, 4ª della giornata VII, 8ª della giornata VIII. Contano
dieci delle sue novelle, tratte dai trovadori.

[359] Vedi _Sonetto_ 192, 121. 87. E nella _Canzone_ x:

    Pace tranquilla senza alcun affanno,
    Simile a quella che nel cielo eterna
    Move dal loro innamorato riso

cioè degli occhi; e che da questi move

                         un dolce lume
    Che mi mostra la via che al ciel conduce.
                     _Canz._ IX.

E più disteso nel _Trionfo della Morte_:

    Più di mille fïate ira dipinse
      Il volto mio, ch’amor ardeva il core;
      Ma voglia in me, ragion giammai non vinse.
    Poi, se vinto te vidi dal dolore,
      Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente,
      Salvando la tua vita e il nostro onore...
    S’al mondo tu piacesti agli occhi miei,
      Questo mi tacio: pur quel dolce nodo
      Mi piacque assai che intorno al core avei...
    Fur quasi eguali in noi fiamme amorose,
      Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco;
      Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose.

[360] Però anche Laura fu veduta da Petrarca il giovedì santo; Beatrice
da Dante nel luogo dove si cantava le lodi della regina di gloria; ser
Onesto bolognese s’innamorò il giovedì santo; il Firenzuola in chiesa
l’Ognissanti; e nella _Flamenca_ Guglielmo di Nevers s’invaghisce
vedendo a messa la figlia del conte di Nemours. Tali coincidenze non
hanno significazione?

[361] Son note le lunghe fatiche adoperate tra a Firenze e a Roma,
tra dagli accademici della Crusca e dal maestro del Sacro Palazzo
per allestire un’edizione purgata del Decamerone. Il Ginguené, il
Foscolo, dopo molti e seguiti da molti, non rifinano di cuculiare sopra
questo censore. Eppure, convenuto che niuno porrebbe il Decamerone
in mano a’ suoi figliuoli e neppure a sua moglie, e che, chi non
voglia i petulanti arbitrj della censura preventiva, dee sottomettersi
ai giudizj della repressiva, dovrà in quella fatica riconoscere il
desiderio di dare agli studiosi un libro, che credeasi opportunissimo
per l’arte quanto pericoloso pel costume.

Ugo Foscolo, che non sa di frate, termina il secondo suo inno _alle
Grazie_ raccontando l’origine del Decamerone:

    Gioì procace Dioneo, sperando
    Di sedur, coll’esempio della ninfa,
    La ritrosa fanciulla, e pregò tutti
    Allor d’aita, e i satiri canuti
    E quante invide ninfe eran da’ balli
    E dagli amori escluse: e quei maligni
    Di scherzi e d’antri e d’imenei furtivi
    Ridissero novelle, ed ei ridendo
    Vago le scrisse, e le rendea più care:
    Ma ne increbbe alle Grazie. Or vive il libro
    Dettato dagli Dei, ma sventurata
    Quella fanciulla che mai tocchi il libro!
    Tosto smarrite del pudor natìo
    Avrà le rose; nè il rossore ad arte
    Può innamorar chi sol le Grazie ha in core.

[362] Petrarca designa così il tempo del suo innamoramento:

    Era il giorno che al sol si scoloraro
    Per la pietà del suo fattore i rai,
    Quand’io fui preso...

Boccaccio nel _Filocopo_: — Avvenne un giorno, la cui prima ora Saturno
aveva signoreggiata, essendo già Febo co’ suoi cavalli al sedicesimo
grado del celestial montone pervenuto, e nel quale il glorioso
partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si
celebrava, io della presente opera componitore mi trovai in un grazioso
e bel tempio in Partenope, nominato da colui che, per deificarsi,
sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata... e già
essendo la quarta ora del giorno sopra l’oriental orizzonte passata,
apparve agli occhi miei l’ammirabile bellezza della prefata giovane».
Cioè la domenica di Pasqua 8 aprile, in San Lorenzo di Napoli.

[363] Nel _Filostrato_ forma sin un’ottava intera con versi di Dante:

    Quali i fioretti dal notturno gelo
    Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca,
    Tutti s’apron diritti in loro stelo;
    Cotal si fe di sua virtude stanca
    Troilo allora, e riguardando il cielo
    Incominciò come persona franca, ecc.

[364] Cioè _acervo_, mucchio di grano.

[365] Me ne appello ai primi pretesi versi, _si digito callemus et
aure_:

    Novellamente, Francesco, parlai
    Coll’onestade;
    Ed a preghiera di molte altre donne
    Mi lamentai con lei, e dissi
    Ch’erano molti, ch’avean scritti libri,
    Costumi ornati d’uom, ma non di donna.
    Sicch’io pregava lei
    Che per amor di sè,
    E per amor di questa sua compagnia,
    Ch’à nome cortesia;
    Ed anco per vestir l’altre donne con meco
    Di quello onesto manto, ch’ella hae seco,
    E ch’ella porge a quelle che voglion camminare
    Per la via de’ costumi, degnasse di parlare
    Con questa donna, che si appella Industria;
    E seco insieme trovassono uno modo
    Che l’altra donna, ch’ha nome Eloquenza,
    Parlasse alquanto di questa materia,
    E ’l suo parlare si trovasse in scritto.

Rimase inedito fin al 1815.

[366]

    O man leggiadra, ove il mio bene alberga...
    O bella e bianca mano, o man soave...

[367] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie fiorentine_, lib. XIV.

[368] BENVENUTO DA IMOLA al cap. VIII del _Purgatorio_.

[369] Al principio del XII secolo Avignone era sottomessa ai conti di
Tolosa, di Provenza, di Forcalquier; della qual divisione profittando
i cittadini, di buon’ora se ne emanciparono, e si unirono col vescovo.
Nel 1154 già si davano statuti e forma comunale sotto la presidenza del
vescovo Gaufredo, e si conserva quella carta, donde appare l’amichevole
cooperazione dei poteri. Sussisteva però ancora il visconte,
subordinato al conte di Provenza, ma restò vinto, e cessò verso il
1190. Allora Avignone prosperò grandemente, costruì sul Rodano un ponte
lungo un quarto di lega, eppure gli abitanti erano esenti da ogni tassa
o gabella.

Il governo consolare era composto:

1º di due o quattro e fin otto consoli che univano l’amministrazione,
la giurisdizione, il comando militare;

2º di un giudice annuo;

3º di un consiglio della città composto di nobili, di borghesi e del
vescovo che rappresentava la città e dava la direzione degli affari;

4º di un parlamento a cui avean parte tutti i cittadini.

Nel 1225 si scelse un podestà, come aveano fatto Marsiglia e Arles;
annuo, straniero e intitolato _Dominus_.

[370] _Storie fiorentine_, lib. II. c. 19. 20. Sarebbero ducencinquanta
milioni d’oggi. Galvano Fiamma dice ventidue milioni di zecchini;
Alberto di Strasborgo diciassette milioni; Buonconte Monaldeschi
quindici. Siamo appoggiati a CRISTOPHE, _Hist. de la papauté pendant
le xiv siècle_, tom. II. l. VI: e vedansi pure HURTER, _Quadro delle
istituzioni e costumi della Chiesa al medio evo_; ANDRÉ, _Monarchie
pontificale au_ XIV _siècle_; Antiq. M. Æ., V. diss. 60.

Vedi pure GREGOROVIUS, _Gesch. der Stadt Rom in Mittelalter vom_ V _bis
zum_ XVI _Jahrhundert_. Stuttgard 1859.

[371] _De vestris marmoreis columnis, de liminibus templorum, de
imaginibus sepulcrorum, sub quibus patrum vestrorum venerabilis cinis
erat, ut reliquas sileam, desidiosa Neapolis adornatur_. Così il
Petrarca, dalle cui lettere desumo quella dipintura.

E TOMAO FORTIFIOCCA, _Vita di Cola di Rienzo, tribuno del popolo
romano, scritta in lingua volgare romana di quella età_. Bracciano
1624: — La cittate di Roma stava in grannissimo travaglio. Rettori non
avea. Onne dì se commettea. Da onne parte se derobbava. Dove era loco
de vergini, se detorpavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se
ficcavano, e menavanose a deshonore. La moglie era tolta a lo marito
ne lo proprio lieto. Li lavoratori, quando jevano fora a lavorare,
erano derobbati. Dove? fin su la porta di Roma. Li pellegrini, li
quali viengo pe merito de le loro anime a le sante chiesie, non
erano defesi, ma erano scannati e derobbati. Li preti stavano per
mal fare. Onne lascivia, onne male, nulla justitia, nullo freno: non
ce era più remedio. Onne perzona periva. Quello più havea ragione
lo quale più potea co la spada. Non ce era altra salvezza, se no che
ciascheduno se defenneva con parienti e con amici. Onne die se faceva
adunanza». Tanto basti per saggio del dialetto romanesco: ai pezzi che
in appresso riferiremo, daremo terminazioni toscane. Quell’opera fu
illustrata di copiose note da Zefirino Re nel 1828, poi nel 1854 con
moltissime aggiunte e rettificazioni, valendosi de’ lavori pubblicati
nell’intervallo. Quel cronista, a torto chiamato Fortifiocca, fu lodato
e vituperato a vicenda da quei che di Cola vollero fare un eroe o
un arruffaplebe. Realmente e’ scrisse come tutti i contemporanei di
rivoluzioni, lodando sulle prime, vituperando poi; e chi sapeva leggere
nel 1848, n’avrà il commento migliore nella propria memoria. Vedi pure
LEVATI, _Viaggi del Petrarca_; DU CERCEAU, _Conjuration de Nicolas
Gabrini dit de Rienzi tyran de Rome_, 1733; SCHILLER, _Rivoluzione
di Cola di Rienzo_ 1788; PAPENCORDT, _Cola de Rienzo und seine Zeit,
besonders nach ungedruckten Quellen dargestellt_, 1841. I documenti
inediti sono lettere di Cola a Carlo IV e all’arcivescovo di Praga,
a cui racconta in latino tutta la sua storia. Le scoprì Pelzel, poi
l’originale andò perduto; la copia fu pubblicata dal Papencordt, cui la
morte impedì di seguitare la storia di Roma dalla caduta dell’impero
fin al principio del XVI secolo. Sono da aggiungere dieci lettere che
Giovanni Gaye pubblicò nel _Carteggio degli artisti_, vol. I, dirette
dal tribuno alla Signoria di Firenze; e «documenti risguardanti le
relazioni politiche dei papi d’Avignone coi Comuni d’Italia avanti e
dopo il tribunato di Cola di Rienzo», nell’appendice 24 dell’_Archivio
storico_.

[372] _Novella_ 3 della _Giornata_ V.

[373] Il prefetto di Roma dopo il senatore aveva il primo luogo,
esercitato da baroni romani; ed aveva carico di mantenere la patria
abbondante, e di tenere purgate e sicure le strade della campagna
di Roma, nette da ladroni ed assassini, e con rigore li castigava.
Però gli andava avanti un putto con la frusta; e le città, terre,
castelli erano obbligati di mantenergli i soldati. E quando i
pontefici coronavano gl’imperadori, egli teneva la corona imperiale,
e andavagli sempre avanti vicino al pontefice; e nelle pompe portava
una bacchettina d’oro in mano. E quest’uffizio lo esercitò molto tempo
la nobilissima famiglia di Vico, concessole dal popolo romano e da’
pontefici in eredità successiva pe’ benemeriti di questa famiglia; ma
poi per la loro mala vita ed enormi scelleraggini la perseguitarono con
l’arme e la estinsero, e lo uffizio diedero ad altre famiglie nobili
romane. _Antiq. M. Æ._, II. 858.

[374] Della deputazione a Clemente VI facea parte il Petrarca; e
l’orazione recitata da lui in quell’occasione, è una prosopopea ove
Roma parla come una vedova la quale si lagni dell’assente marito. E
gli dipinge tutti i meriti della città, fra’ quali principalmente le
tante reliquie ond’è ricca la cuna di Cristo, i capelli della Madonna
e parte della sua veste, la verga d’Aronne, l’arca dell’alleanza,
un dito di sant’Agnese coll’anello nuziale che lo ornava, la testa
di san Pancrazio che sudò sangue e versò lacrime quando i sacerdoti
la sottraevano all’incendio appiccatosi a San Giovanni Laterano.
_Carminum_, lib. II.

[375] «Pinse una similitudine in questa forma. Era pinto un grandissimo
mare, le onde orribili e forte turbate; in mezzo a questo mare stava
una nave poco meno che soffocata, senza timone, senza vela. In questa
nave, la quale per pericolare stava, ci era una femmina vedova, vestita
di nero, cinta di cingolo di tristezza, sfessa la gonnella da petto,
sciliati li capelli, come volesse piangere; stava inginocchiata,
incrociava le mani piegate al petto per pietade in forma di pregare
che suo pericolo non fosse; lo soprascritto dicea, _Questa è Roma_.
Attorno questa nave da la parte di sotto nell’acqua stavano quattro
navi affondate, le loro vele cadute, rotti li arbori, perduti li
timoni. In ciascuna stava una femmina affogata e morta; la prima
avea nome _Babilonia_, la seconda _Cartagine_, la terza _Troja_, la
quarta _Gerusalemme_. Lo soprascritto diceva, _Queste cittadi per la
ingiustizia pericolaro, e vennero meno_. Una lettera esciva fuora fra
queste morte femmine, e diceva così:

    Sopra ogni signoria fosti in altura,
    Ora aspettiamo qua la tua rottura.

Dal lato manco stavano due isole. In una isoletta stava una femmina
che sedea vergognosa, e diceva la lettera, Questa è Italia; favellava
questa e diceva così:

    Tollesti la balìa ad ogni terra,
    E sola me tenesti per sorella.

Nell’altra isola stavano quattro femmine colle mani a le gote e a li
ginocchi, con atto di molta tristezza, e diceano così:

    D’ogni virtude fosti accompagnata,
    Ora per mare vai abbandonata.

Queste erano le quattro virtudi cardinali, cioè Temperanza, Giustizia,
Prudenza e Fortezza. Da la parte ritta stava una femmina inginocchiata;
la mano distendeva al cielo come orasse; vestita era di bianco, nome
avea _Fede cristiana_, e lo suo verso dicea così:

    O sommo padre, duca e signor mio,
    Se Roma pere, dove starò io?

Ne lo lato ritto de la parte disopra stavano quattro ordini di diversi
animali colle sue ale, e tenevano corna alla bocca, e soffiavano come
fossino venti, li quali facessero tempestate al mare, e davano ajutorio
a la nave, che pericolasse. A lo primo ordine erano lioni, lupi e orsi;
la lettera diceva, _Questi sono li potenti baroni e rei rettori_. A
lo secondo ordine erano cani, porci e caprioli; la lettera diceva,
_Questi sono li mali consiglieri seguaci de li nobili_. A lo terzo
ordine stavano pecoroni, dragoni e volpi; la lettera diceva, _Questi
sono li falsi officiali, giudici e notarj_. A lo quarto ordine stavano
lèpori, gatti, capre e scimmie; la lettera diceva, _Questi sono li
popolari ladroni micidiali adulteratori e spogliatori_. Ne la parte
disopra stava lo cielo; in mezzo la Majestade divina come venisse al
giudizio; due spade l’escivano dalla bocca di là e di qua; dall’uno
lato stava santo Pietro, e dall’altro santo Paolo in orazione. Quando
la gente vidde questa similitudine di tale figura, ogni persona si
maravigliava».

[376] _Nihil actum fore putavi si, quæ legendo didiceram, non
adgrederer exercendo_. Epist.

[377] _Spirto gentil, che quelle membra reggi_, ecc.

De Sade sostenne che lo _spirto gentil_, il _cavalier che tutta Italia
onora_ non può essere Cola di Rienzo. Egli fu confutato da Zefirino
Re, al quale consente il Papencordt, giacchè le lettere del Petrarca
a Cola ripetono quei medesimi sentimenti, e gli drizzò pure un’egloga
pastorale, mandandogliene anche la chiave. Ma Salvatore Betti adduce
fortissime ragioni per sostenere che la canzone è diretta a Stefano
Colonna senatore, e perciò ornato della onorata verga. Ed è singolare
che abbia a disputarsi a chi dirette la più bella canzone del Petrarca,
e le speranze di Dante.

[378] «In prima apparecchiarono alle nozze tutto lo palazzo del
papa, con ogni circostanza di San Giovanni di Laterano, e per molti
dì innanzi fece le mense da mangiare, delle tavole e del legname dei
chiostri de li baroni di Roma. E furo stese queste mense per tutta
la sala vecchia dello vecchio palazzo di Costantino e del papa, e
lo palazzo nuovo, sì che stupore parea a chi lo considerava. E fuori
rotti i muri delle sale, donde venivano scaloni di legno allo scoperto
per agio da portare la cucina, la quale si coceva. E ad ogni sala
apparecchiato lo cellaro di vino nel cantone. Era la vigilia di san
Pietro in vincoli: ora era di nona. Tutta Roma, maschi e femmine
ne vanno a San Giovanni. Tutti si apparecchiano sotto li porticali
per la festa vedere; nelle vie pubbliche per questo trionfo vedere.
Allora venne la molta cavallaria de diverse nazioni de gente, baroni,
popolari, foresi, a pettorali da sonagli, vestiti di zendato con
bandiere; facevano grande festa; correvano giocando. Ora ne vengon
buffoni senza fine: chi suona trombe, chi cornamuse, chi ciaramelle,
chi mezzi cannoni. Poi questo grande suono, venne la moglie a piedi
colla sua madre; molte oneste donne l’accompagnavano per volerle
compiacere. Dinanti alla donna venivano due assettati gioveni, li quali
portavano in mano un nobilissimo freno di cavallo tutto inaurato.
Trombe di argento senza numero; ora si vede trombare. Dopo questi
venne grande numero di giocatori da cavallo; poi veniva lo tribuno, e
lo vicario del papa a canto. Dinanzi a lo tribuno veniva uno, il quale
portava una spada ignuda in mano. Sopra lo capo un altro gli portava
lo pennone; in mano portava una verga di acciaro. Molti e molti nobili
erano in sua compagnia. Era vestito con una gonnella bianca da seta
_miri candoris_, inzaganata di oro filato. In tanta moltitudine di
ogni parte era letizia. Non fu orrore, nè fu arme: due persone ebbero
parole; adirate trassero le spade; innanzi che colpi menassero, le
tornarono in sue vagine. Ognuno va in sua via. De le città vicine
a questa festa vennero gli avvitatori, che più? e li veterani, e le
pulzelle, vedove e maritate. Poi che ogni gente fu partita, allora fu
celebrato uno solenne officio per lo chiericato. E dopo l’officio entrò
nel bagno, e bagnossi nella conca de lo imperatore Costantino, la quale
è di preziosissimo paragone. Uno cittadino de Roma messere Vico Scotto
cavaliere gli cinse la spada. Poi se addormì in un letto venerabile,
e giacque in quel loco, che si dice li fonti di San Giovanni, dentro
de lo circuito de le colonne. Là compì tutta quella notte. Ora senti
maraviglia grande. Lo letto e la lettiera nuovi erano. Come venne lo
tribuno a salire a lo letto, subitamente una parte del letto cadde in
terra, e _sic in nocte silenti mansit_. Fatta la dimane, levossi su
lo tribuno vestito de scarlatto con vari; cinta la spada per messere
Vico Scotto, co’ speroni di oro, come cavaliere. Tutta Roma, e ogni
cavalleria ne va a San Giovanni: ci vanno ancora tutti li baroni, e
foresi, e cittadini per vedere Cola de Rienzo cavaliere. Fassi grande
festa, e fassi letizia».

[379] _Nos non sine inspiratione Sancti Spiritus jura sacri romani
populi recognoscere cupientes, habuimus, cum opportuna maturitate
omnium utriusque juris peritorum et totius collegii urbis judicum,
et quamplurium aliorum sacræ Ytaliæ consilium sapientum, qui
per expressa jura sæpius revoluta, discussa et examinata mutuis
collationibus, opportuna noverunt et dixerunt: senatum populumque
romanum illam auctoritatem et jurisdictionem habere in toto orbe
terrarum, quam olim habuit ab antiquo tempore, videlicet quo erat in
potentissimo statu suo, et posse nunc jura et leges interpretari,
condere, revocare, mutare, addere, minuere, ac etiam declarare, et
omnia facere sicut prius, et posse etiam renovare quidquid in sui
lesionem et præjudicium factum fuerit ipso jure, et revocatum esse
etiam ipso facto. Quibus discussis et satis congregatis apud sacrum
latinum palatium omnibus, senatu, magnatibus, viris consularibus,
satrapis, episcopis, abbatibus, prioribus, clericis urbis omnibus
ac populo universo in plenissimo et solemnissimo parlamento, omnem
auctoritatem, jurisdictionem et potestatem, quam senatus populusque
romanus habuerunt et habere possent, et omnem alienationem, cessionem
et concessionem et translationem officiorum, dignitatum, potestatum
et auctoritatum imperialium, et quarumcumque aliarum per ipsum senatum
et populum factas in quoscumque viros clericos et laicos, cujuscumque
conditionis existant, et cujuscumque etiam nationis, auctoritate quidem
populi et omni modo et jure, quo melius de jure potuimus, de totius
ejusdem romani populi voluntate unanimi duximus solemniter revocandas,
et ea officia, dignitates, potestates et auctoritates imperiales et
quascumque alias, et omnia primitiva et antiqua jura ejusdem romani
populi reduximus ad nos et populum prelibatum; citare quoque fecimus in
parlamento præfato gerentem se pro duce Bavariæ, ac dominum Karolum,
illustrem regem Boemiæ, se romanorum regem appellantem, et tam
præcedentes singulos alios speciales, tam electos quam etiam electores
nominatim, et omnes et singulos imperatores, reges, duces, principes,
marchiones, prelatos et quoscumque alios tam clericos quam laicos in
romano imperio et electionis ipsius imperii jus aliquod prætendentes,
qui diversas incurrerunt ingratitudines et errores in urbis et totius
sacræ Ytaliæ detrimentum et totius fidei christianæ jacturam, ut usque
ad festum Pentecosten futurum proximum in urbe et sacro Laterani
palatio coram nobis et romano populo cum eorum juribus omnibus,
tam in electione et imperio supradictis, quam contra revocationem
ipsam, personaliter vel per legitimos eorum procuratores studeant
comparere, alioquin in revocationis hujusmodi et electionis imperii
præfati negotio prout de jure fuerit, non obstante eorum contumacia,
procedetur. Et ut dona et gratia Spiritus Sancti participarentur per
Ytalicos universos, fratres et filios sacri romani populi pervetustos,
omnes et singulos cives civitatum sacrae Ytaliæ cives romanos
effecimus, et eos admittimus ad electionem imperii ad sacrum romanum
populum rationabiliter devoluti; et decrevimus electionem ipsam per XX
seniorum voces eligentium in urbe mature et solemniter celebrandam.
Quarum aliquibus reservatis in urbe, reliquas distribuimus per
sacram Ytaliam, prout in capitulis et ordinationibus super hoc editis
continetur. Cupimus quidem antiquam unionem cum omnibus magnatibus et
civitatibus sacræ Ytaliæ et vobiscum firmius renovare, et ipsam sacram
Ytaliam, multo prostratam jam tempore, multis dissidio lacessitam
hactenus et abjectam ab iis, qui eam in pace et justitia gubernare
debebant, videlicet qui imperatoris et augusti nomina assumpserunt,
contra promissionem ipsorum venire, nomini non respondente, effectui
non verentes, ab omni suo abjectionis discrimine liberare, et in statum
pristinum suæ antiquæ gloriæ reducere et augere, ut pacis gustata
dulcedine floreat per gratiam Spiritus Sancti melius, quam unquam
floruit inter ceteras mundi partes. Intendimus namque ipso Sancto
Spiritu prosperante, elapso præfato termino Pentecostem, per ipsum
sacrum romanum populum et illos quibus electionis imperii voces damus,
aliquem Ytalicum, quem ad zelum Ytaliæ digne indicat unitas generis et
proprietas nationis, secundum inspirationem Sancti Spiritus, dignati
ipsam sacram Ytaliam pie respicere, feliciter ad imperium promoveri, ut
Augusti nomen, quod romanus populus, immo inspiratio divina concessit
et tribuit, observemus per gratas effectuum actiones. Hortatur vos
itaque purus nostræ sinceritatis affectus, ut commune nostrum et totius
Ytaliæ decus, commodum et augmentum velitis congrua consideratione
diligere, et honores proprios occupari et detineri per alios pati
nolle, in tantum nefas, tantum opprobrium, quantum est proprio privari
domino, et propriis raptis honoribus, alieno indebite subdere colla
jugo, eorum videlicet qui sanguinem ytalicum sitiunt, sicut sunt soliti
deglirare_. Lettera del 19 settembre 1347, ap. GAYE.

[380] Nelle accennate lettere, Cola pretende essere generato da
Enrico VII, cui sua madre in una bettola di Roma _ministrabat, nec
forsitan minus quam sancto David et justo Abrahæ per dilectas exstitit
ministratum_.

[381] _Ep. famil._, lib. XIII. 6.

[382] _Ep. famil._, lib. XIII. 6.

[383] _Epistolæ sine titulo_, ep. 4. Ho molto compendiato.

[384] _Et nihilominus prorsus mandamus angelis paradisi, quatenus
animam illius, a purgatorio penitus absolutam, in paradisi gloriam
introducant_. Bolla ap. BALUZIO, che vuol crederla falsa, come altre
asserzioni a carico di questo papa.

[385] Della morte del Moriale assai lodavano Cola i Fiorentini, il 4
settembre 1354 scrivendo al Comune di Perugia: _Fidedigna relatione
didicimus, magnificum dominum almæ urbis senatorem illustrem, tamquam
justitiæ zelatorem notorium, divinitus inspiratum, virum nequam fratem
Monregalem de Albanio, dudum iniquum compagniæ capitaneum et nefarium
conductorem, homicidiorum, robariorum, incendiorum ac maiorum omnium
nefarium patratorem, die sabati præteriti proxime, in urbe, quæ omnibus
comunis est patria, fecisse ultimo puniri supplicio; primo, sicut juris
ordo expostulat, vista, lecta, ac promulgata solemniter sententia in
Campitolio contra eum_. Archivio storico, app. N. 24, p. 397.

[386] Nel trattato, riferito dal Dumont, sono nominati più di quaranta
signori ghibellini.

Di questo Giovanni d’Oleggio poco dicono gli storici milanesi, ma ne
discorse De Minicis ne’ _Monumenti di Fermo_, 1857. Schiericatosi,
sposò una Benzoni di Crema, fu podestà e capitano in varie città
e fazioni; ebbe Bologna, come dicemmo, e la cedette alla Chiesa,
ricevendo in ricambio a vita la signoria di Fermo, dove morì nel 1366.
Sua moglie gli alzò colà un monumento, scolpito da Tura di Imola,
artista che non si conosce per altra opera.

[387] Sono le ragioni lungamente esposte da Matteo Villani, lib. IV. c.
77.

[388] _Epistolæ famil._, IX. 1. X. 1.

[389] Anche il Boccaccio nella V _Egloga_:

    _I, decus Arctoum, Teutonos lude bilingues:_
    _Nos titulos vacuos, et lentos novimus arcus._

[390] Così scriveva Dondacio Malvicini da Ferrara alla Signoria
fiorentina il 27 giugno 1355. Vedi _Arch. storico_, app. Nº 24, p. 408.

[391] Tale carica ebbe origine in Italia, dove gl’imperatori nominarono
conti del palazzo Laterano: uffiziali però che non aveano l’esercizio
d’alcuna prerogativa imperiale, come ebbero in appresso i conti
palatini in Germania. È vero che Castruccio ottenne di nobilitare
e legittimare spurj, crear notaj, ecc.: ma queste prerogative gli
furono accordate da Lodovico il Bavaro col diploma dell’11 novembre
1327, che lo costituì duca di Lucca; quello del 14 marzo successivo,
che gli conferì la delegazione di conte lateranese, parla unicamente
delle funzioni che, in tal qualità, dovrà sostenere all’incoronazione
dell’imperatore. Questo è l’unico esempio di tali diritti conferiti ad
alcuno, salvo che fosse a titolo di conte del palazzo.

I primi conti del palazzo imperiale furono nominati da Carlo IV, il
quale conferì dignità siffatta a Bartolo di Sassoferrato, e a Giovanni
Amadio di Padova d’esercitare tutte le funzioni della giurisdizione
volontaria, accordare la cittadinanza romana e la nobiltà, crear
dottori, e delegare altrui parte di questi diritti. I conti palatini
nominati da Carlo IV erano italiani, e sembra la loro delegazione
non si estendesse se non sull’Italia. Così fu della prima comitativa
lateranese conferita a un tedesco, cioè a Gaspare Schlick cancelliere
dell’imperatore Sigismondo, che l’ottenne nel 1433; e alcuni mesi dipoi
ai fratelli di Schlick e loro discendenti.

Pare che Federico III pel primo trasferisse in Germania la dignità
di conte di palazzo. Ve n’ebbe di grandi e di piccoli, secondo
l’importanza dei diritti che l’imperatore vi attribuiva: il diritto
di nobilitare apparteneva ai grandi. Quando la dignità piccola
accordava di nominare dottori, era ordinariamente limitata a un
numero d’individui: in tal modo il celebre Reuclino potè creare dieci
dottori durante la sua vita. La dignità di conte di palazzo durò
sino al termine dell’impero germanico; alcuni di questi conti gli
sopravvissero. SCHOELL.

[392] «_Scioccamente_ avea dimenticato di chiedere alcuna sicurezza
o vantaggio», dice il Muratori, che in generale è avverso a cotesti
capipopolo, tanto più se frati.

[393] MATTEO VILLANI, VII. 69; il quale conchiude: — Io penso, che
se questo fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non
l’avrebbero lasciata senza onore di chiara fama, tra l’altre che
raccontano degne di singolar lode per la loro costanza».

[394] _Vita b. Petri Tommasii_. Fu poi patriarca di Costantinopoli.

Vedasi SEPULVEDA, _Hist. de bello administrato in Italia a cardinali
Egidio Albornotio_.

[395] FILIPPO VILLANI, cap. 81. — Gio. Cavalcanti, l. IV. c. 1, dice
che Guido Torello «fece fare un ponte a pezzi con tanta arte, che l’un
pezzo con l’altro s’annestava».

[396] Le repubbliche teneano boschi apposta, donde trarre i legni per
le aste. Tali erano _li Cavrei_ in val Brembana sul Bergamasco, dove
i faggi e frassini metteano rami diritti, che tagliati e rimondati
metteansi in vendita. I Veneziani ne cavavano da Montona nel Triestino,
e sempre era preferito il frassino. I ferri migliori da innastarvi
venivano da Valenza di Spagna. A Brescia un maestro Serafino, al
principio del Cinquecento, fece una spada tanto vantata, che un
principe gliela pagò cinquecento ducati: altre fabbriche n’aveano
il Bergamasco, Serravalle e Cividal di Belluno: Modena e Treviso
preparavano i tamburi. G. MATTEO CICOGNA, _Trattato militare_, 1567;
CIBRARIO, _Studj storici_.

[397] _Arch. storico_, XV. p. 41.

[398] CORIO al 1367.

[399] Una lancia costava da tredici a sedici fiorini il mese,
cioè circa lire centottanta, che oggi varrebbero il quadruplo: e
appartenevano al cavaliere l’armi e i cavalli. Quattro per lancia era
obbligato darne il magnifico cavaliere messer Colluccio de Grisis di
Calabria, che il 6 di novembre 1475 fu condotto da Violanta di Francia
duchessa di Savoja per un anno co’ patti seguenti: — In primamente
che lo dito mesiro lo caualero se conduca cun armati vintezinque,
videlicet lanze XXV a quattro cauali per lanza, infra le quali sia
un homo d’arme armato imbardato cum la testera de azelle in ordine,
a uso talliano, cum uno sachomano et uno ragazzo, el quale sachomano
auerà la balestra, en utrio (_inoltre_) la zellata e lo corseto cum la
lanza o sia pertesana, o un altro sachomano appresso a lo caualo cum la
lanza in mane. Item per ogni lanza et homo d’arme cum quatro cauali in
modo sopradicto li sia dato per suo soldo e pacto fl. XX de Savoja per
zarcheduna lancia e per zascheduno mese, pagando lo suo soldo da tre
mesi in tre mesi sanza alcuna difficultà. Item la ferma sua se intende
de un anno del dì conducto, comenzando lo termine facta la mostra».

Fu ancora pattuito che avesse la paga di trenta lancie, e non fosse
tenuto che alla mostra di venticinque, e quelle cinque la signora
gliele donava per la sua persona ed il suo piattello; egli promise di
stare e andare dove piacerà a madama, in Italia e fuori, e offendere e
difendere come gli sarà comandato. Pigliando uomo di Stato e caporale
di guerra, lo lascerebbe a disposizione dell’_excelsa madama_, e
così pure ville e castella. _Conto d’Alessandro Richardon tesoriere
generale_, fol. 383, ap. CIBRARIO.

Nel 1386, allorchè i Padovani osteggiavano i Veronesi, così erano
composti gli eserciti, secondo il Gataro. Quel di Padova era in
otto schiere: 1ª Giovanni Acuto con cinquecento cavalli e seicento
arcieri tutti inglesi; 2ª Giovanni degli Ubaldini con mille cavalli;
3ª Giovanni da Pietramala con mille cavalli; 4ª Ugolotto Biancardo
con ottocento cavalli; 5ª Francesco Novello con millecinquecento
cavalli; 6ª Broglia e Brandolino con cinquecento cavalli; 7ª Biordo e
Balestrazzo con seicento cavalli; 8ª Filippo da Pisa con mille cavalli.
Questa era alla guardia delle bandiere, e con essa erano anche i
consiglieri del campo. Da ultimo venivano mille fanti provvigionati,
spartiti in due bande, sotto il Cermisone da Parma. L’esercito
di Verona era distinto in dodici schiere: 1ª Giovanni Ordelaffi,
capitano del campo, con mille cavalli; 2ª Ostasio da Polenta con
millecinquecento; 3ª Ugolino Del Verme con cinquecento cavalli; 4ª il
vecchio Benetto da Marcesana con ottocento; 5ª il conte di Erre con
ottocento; 6ª Martino da Besuzuolo con quattrocento; 7ª Francesco da
Sassuolo con ottocento; 8ª Marcardo dalla Rôcca con quattrocento; 9ª
Francesco Visconti con trecento; 10ª Taddeo Del Verme con seicento; 11ª
Giovanni Del Garzo e Ludovico Cantello con cinquecento; 12ª Raimondo
Resta e Frignano da Sesso con milleottocento. Venivano di poi mille
fanti palvesati, divisi in due schiere, e milleseicento arcieri e
balestrieri tra forestieri e del paese. Marciava alla coda un grosso
di popolo sotto il pennone della Scala, fin in sedicimila persone.
Terminato lo scompartimento e fatte le schiere, tutti i condottieri si
raccolsero presso il capitano del campo, che gli esortò a combattere
virilmente, e a non dar quartiere.

Dal Sanuto (Vita del Foscari, _Rer. It. Script._, XXII) abbiamo il nome
de’ condottieri e il numero de’ lor soldati nella guerra de’ Veneziani
e Fiorentini contro Milano il 1426. Il Carmagnola ducentrenta lancie;
Gian Francesco Gonzaga quattrocento; Pietro Gian Paolo cennovantasei;
il marchese Taddeo cento; Ruffino da Mantova ottantotto; Falza e
Antonello sessantatre; Rinieri da Perugia sessanta; Lodovico de’
Micalotti settanta; Battista Bevilacqua cinquanta; altrettante messer
Marino, Blanchin da Feltro, Buoso da Urbino; quaranta Scariotto da
Faenza; trenta Lombardo da Pietramala; dieci Jacopo da Venezia; otto
Cristoforo da Fuogo, oltre centredici lancie libere. Altri capi stavano
nelle guarnigioni: Bernardo Morosini con sessanta lancie; Jacopo da
Castello con ventisei; Antonello di Roberto con cinquanta; Testa da
Moja con venti, Jacopo da Firminato con tredici; Giovanni Sanguinazzo
con sessantatre; Antonio degli Ordelaffi con dieci; Bolachino da
Cologna con quarantatrè; il conte d’Ulenda con quarantacinque; Luigi
Del Verme con ducensessanta; Orsino degli Orsini con cenventi; Pietro
Pelacane con cento; Giovanni da Pomaro con trentotto. Arroge le
compagnie di fanteria. Ciascuno avea patti diversi colla repubblica, e
diversi gradi d’obbedienza e disciplina.

[400] Nell’Archivio delle Riformagioni di Firenze (filza 23. c. 65)
è sotto il 1326, 11 febbrajo, questa provvigione, pubblicata dal
Gaye, ii. 8: _Item possint dicti domini priores artium, et vexillifer
justitie, una cum dicto officio duodecim bonorum virorum, eisque liceat
nominare, eligere et deputare unum vel duos magistros in offitiales et
pro offitialibus ad fatiendum et fieri fatiendum pro ipso Comuni_ pilas
seu palloctas ferreas et cannones de metallo pro ipsis cannonibus et
palloctis, _habendis et operandis per ipsos magistros et offitiales et
alias personas in defensione Comunis Flor. et castrorum et terrarum,
quæ pro ipso Comuni tenentur, et in damnum et prejuditium inimicorum
pro illo tempore et termino, et cum illis offitio et salario, eisdem
per Comune Flor. et ipsius Comunis pecunia per camerarium camere dicti
Comunis solvendo illis temporibus et terminis, et cum ea immunitate
et eo modo et forma, et cum illis pactis et conditionibus, quibus
ipsis prioribus e vexillifero et dicto offitio _XII_ bonorum virorum
placuerit_.

Ne’ libri pubblici di Lucca è notato al 1382, 23 agosto: _Cum per
commissarios Lucani Comunis ordinatum fuerit quod pro munitione et
tuitione civitatis Lucanæ fierent quatuor bombardæ grossæ, et sic per
Johannem Zappetta de Gallicano jam duo fabricataæ sint, et in civitate
Lucana ductæ, et denariis egeat præfatus Johannes pro fabricatione et
constructione reliquarum_ etc.

Il 27 ottobre 1470 Paolo Nicolini domandava di poter fare a Petrajo un
edifizio a acqua per trapanare le spingarde. _Mem. Lucchesi_, II. 221.

[401] _Est bombarda instrumentum ferreum cum tromba anteriore lata,
in qua lapis rotundus, ad formam trumbæ, habens cannonem a parte
posteriori secum conjungentem, longum bis tanto quanto trumba, sed
exiliorem, in quo imponitur pulvis niger artificialis cum salnitrio
et sulphure et ex carbonibus salicis per foramen cannonis prædictis
versus bucam etc._ De bellicis machinis, mss. — Moschetto diceasi nel
medio evo un projettile che si lanciava con una balista più forte. V.
DUCANGE. Giovan Villani, lib. x, c. 21, dice che in una battaglia data
dal fratello del re Roberto «molti furono fediti e morti di moschetti
di balestri di Genovesi». E nelle _Storie pistoiesi_ al 1326: «M.
Simone fu fedito d’una moschetta al ginocchio».

[402] Al 1441 nel castello di Nizza marittima v’avea venticinque palle
di pietra da centrentasei libbre.

[403] _Rer. It. Script._, XXIII. 794.

[404] All’assedio di Zara, nel 1346, lanciaronsi pietre da libbre
tremila (metriche 1431): a quello di Cipro nel 1373, che costò alla
repubblica più di tre milioni di ducati (15 milioni di nostre lire) i
Genovesi ebbero un trabocco che lanciava da dodici a diciotto cantari,
da libbre cencinquanta (metriche 1287).

Non di rado fu usato il fuoco greco, composizione arcana; e pare che
questo nome si applicasse a tutti i mezzi d’incendiare. Il Valturio
chiama fuoco greco una composizione di carbon di salice, nitro,
acquavite, solfo, pece, incenso, con filo di lana molle d’Etiopia.

[405] Nel 1405 il Sanuto (_Rer. It. Script._, XXII. 817) parla di
bombarde che scagliavano palle di quattrocento in cinquecento libbre;
da cinquecentotrenta libbre ne cita al 1437 Neri Capponi (XVIII.
1285); d’una nel 1420 di sei cantari genovesi Giovanni Stella (XVII.
1282); nel 1453 molte di mille e milleducento libbre sono accennate
in MARTÈNE, _Thes. Nov. Anecd._, 1820. I Genovesi lanciarono pietre da
Pera fino a Costantinopoli.

[406] Così un sacro dell’arsenal veneto aveva:

    Chiamata son la fiera serpentina
    Che ogni fortezza spiano con ruina.
            1508, _Opus Thome D. Fr._;

e una spingarda, _Il nome mio possente_; una colubrina, _Non mi
aspettare_; un’altra,_ Non più parole_. Ad Algeri nel 1831 fu trovato
un grosso cannone colla scritta:

    Quand’io mi nutrirò di polve e foco,
    Ogni terrena possa
    Contro ai vomiti miei cederà il loco.

[407] A torto dunque si dicono adoperate la prima volta all’assedio di
Wachtendonk nel 1588. L’ambasciadore veneto Andrea Gussoni scrive che
«il duca Cosmo di Toscana si diletta di fuochi artifiziali, e ha modo
di fare una palla di così grande artifizio, che uscita dal pezzo, si fa
rompere ove l’uomo vuole, o vicino a trenta braccia d’uscita, o a mezza
strada: e dove dà ed è volta, fa grandissima mortalità di gente».

L’Archivio mediceo, filza 45, contiene originale questa lettera di
Ferdinando re di Napoli a Lorenzo il Magnifico (ap. Gaye):

  «_Rex Siciliæ, magnifice vir, amice mi carissime_,

«Avendo noi presentito che in lo arsenale de questa Signoria è un
capomastro, nominato mastro Joanni, lo quale noviter ha trovato certa
natura de navili, quali chiama _arbatrocti_, che teneno bumbarde supra
quali tirano preta de CCL libbre, ne è stato piacere intendere la
invenzione, ed havevamo assai de caro vederne l’effecto. Pertanto vi
pregamo ne vogliate mandare lo dicto mastro Joanni quale monstrarà lo
modo di taglio de dicti navilii ad questi nostri, acciò che ne possiamo
o ad lui o ad li nostri far costruere uno per satisfatione dell’animo
nostro, che de ciò ne farete piacere etc. etc.

_Datum in civitate Calvi_, XIII _jan._ 1488.

                                                   _Rex Ferdinandus._
                                                  _Joannes Pontanus._

[408] _Relazioni d’ambasciadori veneti_. Firenze, serie II, vol. II, p.
135.

[409] Negli _Statuti de’ pittori fiorentini_ verso il 1400, rubrica
LXXXIX, si legge: — Conciosiacosa che socto l’armadure da cavagli di
cuojo o di ferro gli uomini si difendino e fidino le loro persone a
vita, e di fuori della città di Firenze sieno portati, e portansi alla
città di Firenze armadure di cuojo debili e vili e falsamente facte,
sotto la fiducia delle quali gli uomini spesse volte perdono la persona
e la vita: stabilito e ordinato è che larmadure da cavallo di cuojo
si faccino e far si debbino di cojame di bue, di vaccha, di toro o di
bufalo, come di consuetudine nella città di Firenze sopradetta, o non
di niun altro cuojo, ovvero d’altre bestie o dalcuna altra bestia.
E che niuno dipintore o alcunaltra persona dell’arte predetta, o
niunaltra persona possa, ardisca o presuma tenere o far tenere nelle
loro botteghe armadure da cavallo facte contro la forma predetta nella
città di Firenze o fuori della città di Firenze, nè esse dipingere
o far dipingere, nè facte contro la forma predetta raconciare o far
aconciare, sotto la pena di lire cinque di f. p. per ogni armadura e
tante volte; e l’armadura s’intenda testiera per sè, fiancali per sè,
pectorali per sè. E non di meno tali armadure così contro la predetta
forma facte, s’ardino e ardere si debbino. La pena dell’ardere abbia
luogo nell’armadure facte contro la forma predetta, che si trovassero
nelle botteghe e appresso alcuno dipintore e alcun’altra persona della
detta arte».



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo in
greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione.



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