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Title: Storia degli Italiani, vol. 7 (di 15) Author: Cantù, Cesare Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 7 (di 15)" *** (DI 15) *** STORIA DEGLI ITALIANI PER CESARE CANTÙ EDIZIONE POPOLARE RIVEDUTA DALL’AUTORE E PORTATA FINO AGLI ULTIMI EVENTI TOMO VII. TORINO UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE 1876 LIBRO NONO CAPITOLO XCIV. L’Italia dopo caduti gli Hohenstaufen. I Feudatarj. Torriani e Visconti. Abbiamo dunque veduta l’Italia andare spartita a misura delle labarde vincitrici, fra’ capi de’ varj eserciti longobardi, franchi, tedeschi, normanni, in quella feudalità che all’accentramento soverchio delle società antiche surrogava un soverchio sminuzzamento, sicchè, mancata ogni idea di nazione o di Stato, quella soltanto sopraviveva d’un signore e d’una terra. A fianco di questa società, tutta di nobili possessori, viene alzandosene un’altra cittadina, di artigiani, di liberi uomini, di studiosi, e progredisce tanto da costituirsi in un Comune, che o si associa con quello dei nobili, o gli fa contrappeso. Ne rimaneva ancora escluso il basso popolo, e questo pure cominciò a sentire di sè; e quantunque non avesse importanza propria, l’acquistava coll’accostarsi ai nobili od ai Comuni, e così darvi prevalenza. Di unità, di patria estesa non s’aveva concetto, e dire Italiani era poco diverso dal dire oggi Europei, non avendo nè origine nè ordinamenti comuni: le loro guerre erano funeste, non fratricide più che quelle del Francese contro il Tedesco: la libertà rimaneva un privilegio, giacchè se la città era de’ cittadini, l’Italia era dello straniero, e si direbbe che i nostri preferissero essere liberi con apparenze di servitù, che liberi di nome e servi di fatto. Il titolo d’imperatore de’ Romani fece accettare la supremazia de’ re forestieri: ma questi, non paghi di quell’augusta sovranità sui tanti signori scomunati, nè del patronato sui Comuni reggentisi a popolo, aspirarono a un dominio diretto ed efficiente, quale negli ultimi Romani. Alla pretensione posero argine i Comuni, e le due Leghe Lombarde chiarirono come i deboli coll’unione possano resistere ai prepotenti. La prima riuscì ad assodare repubbliche; la seconda invece spianò il calle alle tirannidi. Dalla pace di Costanza si era ottenuta una libertà sparpagliata, varia da città a città; ora queste vanno raccogliendosi in grossi Stati, sovente sottomessi a un capo: da quella pace la sovranità imperiale restava consolidata a fianco della libertà; ora la si trasforma in tutt’altra guisa da quella che era stata concepita al tempo di Carlo Magno e nel grande concetto della repubblica cristiana. Imperciocchè l’Impero altercando coi papi avea smarrita la sua impronta di santità; altercando coi popoli cessò di sembrar tutore della libertà de’ nuovi cittadini romani; ostinandosi nel conquistare l’Italia, non potè raccogliere la Germania in robusta unità, ma lasciolla ridursi ad un regno simile agli altri, ove da un lato i capi s’industriavano a render retaggio di famiglia una dignità che per essenza era elettiva e destinata ai migliori, dall’altro i principotti se ne disputavano i brani, in una dipendenza sempre scemante, in una confederazione sempre meno determinata. Discussa poi la dignità del capo durante il Grande Interregno, rivalse in ogni dove il diritto del pugno, e la guerra di tutti contro tutti ammaccò il glorioso scettro di Carlo Magno, e finì coll’assicurare a un migliajo di baroni la sovranità territoriale, cioè che ciascuno fosse indipendente con mero e misto imperio nel proprio possesso, per quanto angusto. Ingelositi delle eroiche famiglie che aveano dato una serie di grandi imperatori, i Tedeschi andarono a cercarne uno nei cinquanta conti tra cui si era spartita l’Elvezia. Un Rodolfo, conte di Habsburg nell’Argovia, aveva menato in Italia una banda d’uomini di Uri, Schwitz e Unterwald, coi quali mettevasi a stipendio di chi bisognasse di braccia: servì Federico II (1240) all’assedio di Faenza, poi accettò soldo da’ Fiorentini: chiuso in Bologna, tolse a prestito alquante lire per tornare in patria, lasciando statichi dodici Tedeschi, studenti su quella università[1]. Scomunicato per aver arso un monastero di Basilea, ne fece ammenda, e trovando una volta un curato che, portando il santo viatico, dovea guadar un torrente, gli cedette la propria montura, nè più volle restituisse il cavallo che avea sostenuto il Signore del mondo. L’arcivescovo di Magonza viaggiando a Roma, si fece da lui scortare per le vie mal sicure: e quando si trattava di eleggere un imperatore (1273), si risovvenne di Rodolfo e lo propose: — È signore di poco Stato, perciò non potrà soperchiare; è vedovo e con molta figliolanza, perciò gli elettori potranno seco imparentarsi». Ebbe in fatto i voti; alla coronazione mancando lo scettro, egli impugnò una croce, e — Ben ne terrà vece questo segno che salvò il mondo». Conosceva il suo tempo costui. Professandosi affatto tedesco, in altra lingua non volea parlare, nè in altra dettar le leggi; rattoppava egli stesso la propria casacca; mangiava rape nel campo; e tal fama godea di onestà, che lo chiamavano la legge vivente. Ben presto diede a conoscere di voler rispettata la corona. Vinto il suo competitore Ottocaro II re di Boemia, che avea occupato pure i paesi tra il Danubio e l’Italia, del ducato d’Austria a lui tolto investì il proprio figliuolo Alberto (1282), mettendo le basi alla grandezza di sua famiglia, alla quale trovò modo d’infeudar la Carintia, la marca dei Vendi e Pordenone, cioè una delle porte d’Italia. Rodolfo non riceveva un’avita tradizione di risse e puntigli coi papi, nè, come gli Ottoni e i Federichi, smaniava per la civiltà romana risorgente in Italia; vedea di dover assicurare il primato in Germania, anzichè pericolosamente disputarlo in questa Italia, ch’egli paragonava alla caverna del leone infermo, dove la volpe vedeva tutte le pedate dirette in dentro, nessuna di ritorno. Non pensò dunque mai a venire per la corona, pago d’intitolarsi re dei Romani, e confermò ai papi quanto pretendeano (t. VI, p. 505), i quali così furono assodati nel temporale dominio, ed ebbero resa l’Italia indipendente dai Tedeschi, ponendovi anche un robusto contrappeso nella dominazione meridionale degli Angioini. Per sessant’anni i paesi della Lega Lombarda non sentirono calcagno d’imperatori, che, cessato d’essere conquistatori, e perdendo l’influenza esterna perchè in paese mancavano di quiete, negligevano il _giardin dell’Impero_, come Dante se ne lagnava[2]; nè fino ai miseri tempi di Carlo V non pensarono mai seriamente a far conquiste di qua dai monti. Rodolfo, poco geloso di diritti nominali in paese forestiero, vendeva privilegi e libertà a qualunque città avesse denaro da comperarli; a Lucca per dodicimila scudi; per metà tanti a Genova, Bologna, Firenze: bella opportunità di legalizzare e consolidare le libere costituzioni. Queste erano nate, non dirò dal fondersi, ma dallo accostarsi degli elementi indigeni con quelli della conquista, e sviluppate col sottrarre la giurisdizione dai conti e dai vescovi, poi difenderla contro delle armi tedesche e delle indigene ambizioni. Costretti a trionfare d’un potere guerresco, por freno ad un’autorità illimitata, restringere le immunità del clero e i privilegi dei nobili, sbalzare antiche famiglie dai possessi o dai dominj, emancipare gli schiavi, costruire l’edifizio nuovo con rovine impastate di sangue, i Comuni doveano di necessità passare per le tempeste, che sgomentano le anime paurose, ma che offrono nobile spettacolo a chi nella storia ama vedere gli uomini in contingenze che agitano il loro spirito, esaltano le loro passioni. Chi scorresse il bel paese, lo trovava diviso in una infinità di Comuni erettisi in repubblica, e frammezzati da signorie militari. Quasi guardiano, il conte di Savoja teneva i due pendii dell’alpi Cozie e Graje, al meridionale de’ quali si appoggiavano i marchesi di Saluzzo e del Monferrato. Piemonte si diceva propriamente il paese fra le Alpi, il Sangone e il Po, cui terra principale Pinerolo. Sulla sinistra del Po Torino, già suddita de’ proprj vescovi, che nel 1169 ebbero dal Barbarossa l’immunità pel circuito d’un miglio[3], era superata ancora per traffici e attività da Chieri, per potenza da Ivrea ed Asti[4]. Vercelli dominava la destra della Sesia[5]; tra il qual fiume, il Ticino e l’Alpi che chinano al lago Maggiore prosperava il Novarese. Nelle pingui pianure fra il Ticino, l’Adda e il lago Maggiore, Milano primeggiava tra altre città minori eppure indipendenti, quali Como che dominava la maggior parte del suo lago e di quel di Lugano, e addentrava nelle valli di Chiavenna fino alla Spluga, della Leventina fin al Sangotardo, della Valtellina fin allo Stelvio; Lodi, rinnovatasi in riva all’Adda inferiore; Crema sul basso Serio; Pavia che dal Ticino si allargava oltre il Po, fra i dominj di Vercelli, Novara, Tortona e il Monferrato; Bergamo, donna delle romantiche valli da cui colano l’Imagna, l’Oglio, il Serio, il Brembo; Brescia, estesa dall’Oglio fin ad Asola e al lago di Garda, in pericoloso contatto colla ghibellina Cremona, che estendevasi da Cassano a Guastalla, da Mozzànica a Bòzzolo, sull’isola Fulcheria, sullo Stato Pelavicino fra Parma e Piacenza, possedendo trecento ville e parrocchie. Di là del Po, Alessandria, al confluente della Bormida e del Tànaro, rammentava sempre le proprie origini; sulla Scrivia fioriva Tortona; sulle due rive del Mincio e del Po da Asola fin alla Mirandola sanavasi per via di argini e di colmate il territorio di Mantova, allora più bella che forte. Verona fu sempre tenuta in gran conto dai dominatori forestieri, perchè signoriando dal territorio di Roveredo fin nel Polesine di Rovigo, schiudeva i passi dalle gole Trentine fino alla pianura circumpadana. Allo sbocco delle valli Alpine e tra l’Adige, il Piave, il Tagliamento[6] cresceano Bassano, Treviso, Vicenza, Padova: a Udine il patriarca, signore del Friuli e dell’Istria, colla sua potenza, non seconda che al papa, aveva impedito si formassero i Comuni, stabilendo invece una feudalità ecclesiastica con parlamento, cioè riunendo le forze sociali che altrove restavano spicciolate. L’antica Gallia Cispadana, fra il Po, gli Appennini, la Trebbia e il Reno, era divisa tra Piacenza sulla Trebbia, Parma, Reggio, Modena che si spingeva fin presso al piccol Reno. A Ferrara si aggregava gran parte de’ paesi abbracciati dai varj rami pei quali il gran fiume pigramente scende all’Adriatico. Tante città, e l’una accosto all’altra! eppure all’aura della legale e consentita libertà seppero compiere imprese, cui appena basterebbero estesi principati. Dappertutto, ma singolarmente ne’ territorj montuosi, eransi conservati o sorti castellani, signori assoluti ciascuno nella propria terra, e amici, nemici, alleati fra loro o colle città vicine come con Stati indipendenti. A piè dell’alpi Cozie prepoteano i Saluzzo, i Masino, i Balbo in mezzo alle repubbliche d’Asti e di Chieri, e una serie di castellotti annidava i signori della val d’Aosta. Nelle Retiche, a Trento sedeva un duca longobardo, che dominava a settentrione fin a Mezzolombardo, segnando il confine germanico Mezzotedesco che gli sta a fronte; a mezzogiorno abbracciava la val Lagarina, ma val Sugana restava annessa al distretto di Feltre. Sotto i Carolingi or formò contado distinto, or parve unito a Verona: ma gl’imperatori alemanni procurarono toglierlo all’Italia, investendone i vescovi, e unendone così le sorti a quelle di Bolzano, sede d’un _graf_ tedesco. I vescovi ebbero dipendenti ma spesso contumaci i conti del castello Tirolo, che poi diede nome a tutto il paese: e dopo che Federico II mandò a tiranneggiar Trento il podestà Lazzaro da Lucca e l’odiato Rodegerio da Tito, il vescovo Engone sollevò le giudicarie, e lunga guerra ne seguì tra i guelfi di Lizzana, Madruzzo, Vigolo, Brenta, e i ghibellini d’Arco, Pergine, Campo, Levico: Trento era sbranata fra i partiti, e ne ingrandirono i conti di Tirolo, imparentati cogli Svevi e cogli Absburghesi, i quali infine ne divennero signori[7]. Essi conti, che dominarono la Rezia e la val Venosta, capitanavano i piccoli dinasti della val d’Adige contro i conti d’Eppan; ai quali poi prevalsero i conti di Gorizia, che molti secoli padroneggiarono le valli dell’Inn e dell’Eisack e il Tirolo settentrionale. Gli Andecks di Merano, segnalati nelle crociate e nelle guerre degli imperatori in Italia, fondarono Innspruck, furono duchi di Croazia e di Dalmazia, e terminarono nel 1248. I Castelbarco, che pretendeano derivare dai re di Boemia, tennero colla Lega Lombarda contro i vescovi di Trento, finchè questi si pacificarono con Verona, e investirono a quella famiglia Castel Pratalia e Castel Barco; la quale poi, parteggiando or cogli oltramontani ora coi Milanesi e i Veneti, crebbe a insigne grandezza. Gli emulavano i conti d’Arco, che vantavansi stirpe di re Desiderio, e che possedettero Penede, Drena, Restoro, Spineto, Castellino, quasi a riva del lago di Garda. Vassalli del principe vescovo di Trento, da Federico II ebbero il mero e misto imperio; privilegio anteriore ad ogn’altro di famiglie tirolesi, non esclusa la absburgese. Eppure si avversarono all’imperatore, e come il resto del Tirolo italiano ebbero a soffrire dall’invasione di Ezelino: più tardi contesero coi signori di Madruzzo e coi Sejani di Lodrone pei possessi delle giudicarie interiori e di gran parte delle esteriori. Anche i signori di Lodrone riportano fin al XII secolo i dominj che li posero tra i grandi feudatarj del vescovado di Trento sin al perire de’ governi dinastici. Al varco delle alpi Carniche i Porcia, i Brugnera, i signori di Prata, di Valvassone, di Spilimbergo divideansi col patriarca d’Aquileja il dominio del Friuli. Fra i deliziosi laghi di Como e di Lugano i Rusca estesero talvolta il dominio fin oltre il Montecenere ed alla robusta Bellinzona, dove incontravano i signori di Sax, padroni della retica valle Mesolcina. La consorteria dei Visconti, suddivisa in più rami, muniva di rôcche le due sponde del lago Maggiore. I Venosta, i Lavizzari, gli Avvocati, i Capitanei, i Quadrio di Valtellina erano spesso alle prese coi Lambertenghi, i Vitani, i Castelli, i Malagrida del Lario, e coi Torriani della Valsàssina, e coi Càrcano, i Vimercati, i Mandelli, i Pirovano, i Giussani, i Perego, i Parravicini, i Sirtori, gli Annoni, i Sacchi, i Riboldi, ed altri capitanei della Brianza. Nelle deliziose pendici vergenti al lago d’Iseo primeggiavano i Calepj, i Suardi, i Calini, i Martinengo, i Fenaroli: nel Pavese i Langoschi, i Gambarana, i Lomellini, i Beccaria: nel Lodigiano i Vignati, i Vestarini, gli Averganghi, i Sommariva: sul Milanese gli Airoldi, i Medici, i Crivelli, i Meiosi, i Pusterla, i Bianchi, i D’Adda, i Litta, gli Oldradi, gli Arconati, i Bossi, i Castiglioni ed altri signori delle castellanze varesine: in quel di Parma i Rossi verso l’Appennino; in quel di Piacenza i Pelavicini, i Landi, gli Anguissola, gli Scotti; sul Reggiano i Correggio, i Pico, i Fogliani, i Carpineti; sul Modenese i Montecuccoli; sul Mantovano i Bonacolsa e i Gonzaga; nel Cremonese i Pelavicini, i Barbò e i Secchi, che s’imparentarono fin cogl’imperiali Comneno; nel Padovano gli Estensi e i Carrara; nel Vicentino e nella Marca Trevisana i Collalto, i Camino, i da Romano, i Camposampiero; nel Veronese i Montecchi, gli Scaligeri, i Sanbonifazio. Ai due corni di questa che chiameremmo Italia continentale, sviluppavano una libertà d’origine più antica e differente Genova e Venezia. Questa saviamente non erasi ancora dilatata sul continente italiano; e attenta al mare, oltre le estesissime colonie di Levante, aveva sottomesse Capodistria, Pola e le altre città di quella costa, e in Dalmazia Salona, Sebenico, Spàlatro, Narenta, finchè gli Ungheresi non gliele tolsero, eccetto Zara: e semicerchiava l’Adriatico, fin a pretenderne il dominio esclusivo. Genova teneva alta signoria sulla riviera a levante e a ponente del suo golfo, e su porzione della Corsica e della Sardegna: ma sulla costa e fra le balze della Liguria avevano conservato giurisdizioni feudali i Doria, gli Spínola, i Fieschi, i Grimaldi, gli Usodimare, i Zaccarìa; i marchesi del Carretto o del Finale prestavano omaggio all’Impero. Di là procedendo sulla riviera di Levante negli Appennini occorrevano le signorie dei Malaspina, poi fra le montagne lucchesi i Porcari, nella Versilia i nobili di Corvaja e Valecchia, nel Pisano i Segalari e quei della Gherardesca. Lucca sulle due rive del Serchio e della Lima contendeva da libera con Pisa, la quale dominava il litorale toscano, le vicine isole Montecristo e Gorgona, fin dal VI secolo popolate da monaci Basiliani venuti d’Oriente, e quelle di Giglio, Elba, Pianosa e porzione della Sardegna; e cencinquantamila abitanti potea mantenere col prospero commercio. Ma a scapito di essa cresceva Firenze, il cui dominio si stendeva dalle alture che separano l’Elsa dall’Era affluenti dell’Arno, sin alla pendice degli Appennini in Romagna, e dalla valle superiore del Reno sin a mezzogiorno di Colle. Da colle a Montepulciano signoreggiava Siena, e fra le tre era chiuso il territorio di Volterra; paesi che, non ancora diffamati dalla mal’aria, fiorivano di agricoltura, di popoli, di castelli. E Siena e Arezzo a greco di essa, e Pistoja a maestro di Firenze, vedremo poc’a poco da questa ridursi alleate, poi suddite; infine Pisa stessa. Molti castellani aveva accomunati Firenze; pure gli Uberti e i Pazzi fra le gibbosità del Valdarno superiore «non cessarono di fare contro al Comune di Firenze» (COPPO STEFANI); gli Ubaldini dominavano il Mugello; ad occidente i Certaldi e i Capraja; nel Sienese gli Ardenghi a ponente, gli Scalenghi a levante, i Giulieschi a settentrione; negli Appennini fra la Toscana e Bologna gli Ubaldini, gli Ubertini, i Tarlati; i Cadolinghi a Fucecchio, nella Maremma i Pannochieschi, in val di Cornia gli Orlandi, in val di Fiora gli Aldobrandeschi. I moltissimi rami de’ conti Guido conservavano possessi in tutte le contrade di Toscana, ma specialmente nelle montagne di Pistoja e d’Arezzo, e i castelli d’Elci, di Gavornano, di Monterotondo ed altri nella maremma; altri a Spoleto e nella Romagna: sicchè questi e i tanti castellani fra cui era spicciolata la Garfagnana, tenevano circonvallate le repubbliche toscane; ma discosti dalle città, non pensavano o non riuscivano a formarvi partiti e ottenere preponderanza (Cap. XCV). La Chiesa principava sulla Romagna, sulle marche d’Ancona e Spoleto, l’Etruria meridionale, la Sabina, il Lazio fin a Terracina e Fondi. Incontaminate le più da dominazione di Barbari, quelle regioni aveano molto conservato degli antichi ordini municipali, di maniera che ogni villaggio pretendeva l’autocrazia. Le città di diretto dominio pontifizio eleggevano i proprj magistrati, che esercitavano la giurisdizione civile e la criminale, quando fossero approvati dal papa e gli avessero giurato fedeltà; il qual giuramento prestavasi pure dai cittadini ogni dieci anni. Al papa rendevansi i consueti servizj feudali dai vassalli e le regalie; e ogni Comune gli tributava a proporzione delle teste, eccettuandone gli ecclesiastici, i militi, i giudici, gli avvocati, i notaj, e quelli che non avessero alcuna proprietà tassabile. Sotto Innocenzo III questa imposta gravava di nove denari ogni fumante; ma spesso i Comuni la traduceano in una contribuzione fissa[8]. Il conte di Romagna era nominato dal papa, e dipendente dal legato; ma ciò non impediva che vi crescessero i Comuni. Però molti signori, sciorinando bandiera imperiale, si erano sottratti alla santa Sede, e fatti tiranni delle città; altri derivavano dall’indigena nobiltà romana o ravennate, o dalle capitanerie forestiere, o da parentela coi papi. Così tiranneggiavano a Bologna i Pèpoli e i Bentivoglio, a Ravenna e Cervia i Polenta, a Rimini e Cesena i Malatesta, a Fermo i Migliorati, ad Urbino i Montefeltro, a Camerino i Varano, ad Imola i Manfredi e gli Alidosi, a Foligno i Trinci, a Forlì gli Ordelaffi. Sebbene dunque, per la cessione di Rodolfo imperatore, i diritti maestatici cessassero d’esservi divisi fra i papi e gl’imperatori o i loro vicarj e conti, pure la pontifizia riducevasi a poco meglio di una primazia di dignità, la quale di poco restringeva sia le repubbliche sia le signorie comprese in quel tratto; e continuavano a condursi come indipendenti, talvolta anche nemiche alla santa Sede, senza legame tra loro, nè differendo dall’altre d’Italia se non pel partecipare che faceano alle vicende della Chiesa. Alcune famiglie tenevansi ritte in faccia al papa, come i Colonna ad occidente di Preneste, gli Orsini tra le montagne a mattina del Teverone, i Savelli nell’antico Lazio verso Monte Albano, i Frangipani dalla parte di Anzio a settentrione delle paludi Pontine, i Farnesi ad occidente del lago di Bolsena, gli Aldobrandini a scirocco della Toscana. Che più? in Roma stessa il Governo e il suo capo trovavansi aggirati e sovversi dalle prevalenti famiglie dei Colonna, Orsini, Savelli; e il trionfare de’ Guelfi o dei Ghibellini nel resto d’Italia aumentava o diminuiva la potenza dei papi, costretti sovente a cercarsi appoggio coll’eleggere a senatori i re che venissero in Italia, od altri caporioni; amici pericolosi. E quantunque Innocenzo III avesse tratta al pontefice la conferma del senatore, e Nicola III stanziasse non poter quello essere uno straniero o un potente, nè sedere oltre un anno, pure dovettero spesso ritirarsi fuori di Roma, e massime a Viterbo od Orvieto. Fra l’altre repubbliche segnalavasi Bologna, ricca e ingloriata dal suo studio. Ivi i consoli de’ mercanti sin da principio aveano entrata nel grande e nel piccolo consiglio; poi le arti e i mestieri v’ottennero rappresentanza nel 1228, quando pretesero, non solo esser partecipi al governo, ma indipendenti, e che dei loro interessi decidessero capi proprj, escludendo gli altri membri del consiglio. I macellaj a viva forza fecero passare questo partito; onde la repubblica si compose di due stati, il Comune e le arti, con suggello e assemblee distinte. Il podestà della prima e il capitano delle altre venivano perciò a continui conflitti, sinchè le arti prevalse istituirono un gonfaloniere di giustizia che durava un mese, e doveva eleggersi per turno da ciascun’arte, con due aggiunti dei mestieri ed uno del Comune, cioè della nobiltà. Bologna avea ridotte a sua giurisdizione Imola, Cervia, Faenza, Forlì, Forlimpopoli, Bagnacavallo, mandando i suoi podestà alla più parte della Romagna; disputava a Modena i castelli del Frignano, e dal podestà facea giurare di recuperare il territorio fino al Panàro, concessole (asseriva) dall’imperatore Teodosio II. Quant’è da Ascoli sul Tronto e da Terracina sul golfo di Gaeta fin all’estremità d’Italia formava il regno di Napoli, eccettuato Benevento, che alla venuta degli Angioini era tornato ai papi. Le provincie in cui era diviso, derivavano dai gastaldiati e contadi introdotti da Longobardi, detti poi _giustizierati_ dai Normanni, sotto dei quali pare cominciassero anche le nuove denominazioni di Terra di Lavoro, che è quella fra il Silaro, il Garigliano, l’Appennino e il mar Tirreno; di Principato citra e ultra, detto così da che il duca di Benevento prese il titolo di principe sull’antico Piceno di qua e sul Sannio di là dell’Appennino; di Basilicata, nome di greca origine, come la Capitanata dai Catapan; di Calabria citra e ultra, al paese che dall’Appennino scende al mar Jonio presso Strómboli, e al Tirreno presso al golfo Ipponiate; di Terra di Bari, già Puglia Peucezia; e d’Otranto, già Japigia, all’estremità d’una delle code dell’Appennino; di contado di Molise; dei due Abruzzi, di qua e di là del fiume Pescàra. La feudalità, seminatavi dai Normanni, radicata dagli Svevi, non si spense sotto gli Angioini, e i baroni ebbero sempre grand’entratura nel reggimento del paese. Principali erano i Sanseverino, che tenevano la miglior parte della Basilicata, Amalfi col ducato suo, le contee di Sanseverino e di Marsico nel Principato, di Bassignano in Calabria, di Matera nella provincia di Taranto; i Pipino, che dominavano su largo tratto della Capitanata e sul montuoso del principato di Bari; i Balzi nelle regioni occidentali del principato di Taranto, e nelle orientali della Basilicata; i Ruffo sulla falda a greco del Bruzio; i Cantelmi sul piovente occidentale dell’Appennino dal lago Fúcino a Venafro. Negli Abruzzi i contadi di Tagliacozzo e Manupella erano investiti agli Orsini di Roma, conti anche di Nola, principi di Salerno, e che poi successero ai Sanseverino, ai Ruffo, ai Balzi; sulla costa gli Aquaviva tenevano il contado d’Atria, gli Avalos il marchesato di Pescara; nell’interno i Gambalesa comandavano alla contea di Montorio, i Savelli a quella di Celano: in Terra di Lavoro i Gaetani al contado di Fondi, i Marsano al ducato di Sessa: nel Principato i Tôcco al contado di Marino, i Sanframondo a quel di Cerreto, i Sovrano a quel d’Aviano: in Calabria gli Origlia a quel di Nicastro, i Caraccioli a quel di Gerace, e così via. Altrettante suddivisioni si novererebbero nei tre valli di Sicilia: ma sembra che la popolazione ivi stesse ristretta in grosse città e borgate, giacchè, mentre la sola Capitanata contava cencinquanta paesi, altrettanti appena ne sono attribuiti all’intera isola in un diploma del 1276[9]. Nelle repubbliche ai feudi era stata tolta la politica importanza, restringendoli ad una forma privilegiata di possesso: ma nel Piemonte e nelle Sicilie conservarono il mero e misto imperio, e lo attestavano colle forche erette davanti ai castelli, nell’elevatezza delle quali si pose tale emulazione che la legge dovette moderarla. Il titolo di marchese non ebbe fra noi significazione dinastica come in Germania, ma indicò nobili aventi diritti di conte sopra dominj proprj, a differenza dei conti ch’erano funzionarj del re o dei vescovi. Di marchese e conte di Milano è dato il titolo ad Azzo d’Este nel 1097; e Federico I lo rinnovò ad Obizzo suo nipote il 1184, aggiungendovi la marca di Genova[10]: il che (essendo già libere quelle città) equivaleva a costituirnelo vicario per sostenervi i diritti imperiali. Obizzo stesso era vassallo del vescovo di Genova; vassallo d’essa città era suo figlio Moruello; e confederati coi signori di Lunigiana, coi conti di Lavagna, con altri. Principali avversarj agli Estensi erano gli Ezelini, de’ quali vedemmo le origini, e come si facessero primarj rinfianchi alla dominazione di Federico II (t. VI, p. 440). Col titolo di vicario di questo, Ezelino IV consideravasi signore indipendente nel Padovano, Trevisano e Bassanese; strozzava ogni voce che s’elevasse contro al suo sanguinario dominio; facea colpe di morte non solo l’antichità della stirpe, l’opulenza, il valore, la chierica, ma persino la pietà e la bellezza, e tutto ciò che rendesse un uomo riverito e perciò temuto. Entro orribili carceri a Padova lasciava morire e imputridire i suoi nemici, o ne li traeva perchè, a schiere mandati al capestro, insegnassero ad obbedire. Uscite vane le ripetute ammonizioni, il pontefice Alessandro IV intimò una crociata (1256) in nome di Dio contro questo nemico degli uomini. Gran gente vi accorse; frati d’ogni colore gridavano all’armi; Giovanni da Schio, l’apostolo della pace, uscito dall’oscurità dov’era ricaduto dopo lo spettacoloso ma effimero trionfo di Paquara, ricomparve a capo degli armati, che le città guelfe, spalleggiate da Venezia, mandavano col titolo di Crociati, e preceduti dal vessillo romano. Essi a forza ritolsero Padova ad Ezelino, gli ribellarono altre città: ma il tiranno sbuffando vendetta, con truppe saracine e tedesche, sostegno predisposto d’ogni tirannia, ricuperò Padova, e la corse a viva chi vince: doppia ruina dell’insigne città. Alleato col fratello Alberico signore di Treviso, con Buoso da Dovara cremonese, e col marchese Oberto Pelavicino, egli trovavasi sotto mano tutte le forze dei Ghibellini di Lombardia, e di conserva presero e guastarono Brescia, nodo de’ Guelfi. Ma ad Ezelino non bastava la signoria divisa, e mentre adoprava il valore contro i nemici, tesseva artifizj per iscemare il potere del marchese e del Dovara; e quando essi credeano avere stabilito un triumvirato, egli si pianta despoto di Brescia, donde corre a recuperare un dopo uno i castelli toltigli dai Crociati, sbranandoli col fuoco, col sacco, col macello. Sempre invalse che dell’alta Italia non potesse considerarsi padrone chi non tenesse Milano, la quale estendeva il dominio sopra alcune città vicine, l’influenza su tutte. La lunga guerra coi Federichi ne aveva esauste le finanze. Tentò risanguarle Beno de’ Gozzadini (1256) bolognese, che chiamato podestà, gravò di nuove imposte l’estimo per ispegnere un prestito ch’erasi fatto in bisogno di guerre: e vi arrivò; ma poi suggerì di prolungare quella imposta onde finire il Naviglio che traeva fin a Milano le acque del Ticino. La plebe, grata a chi la liscia più che a chi la giova, sorse a furore, e trucidatolo, il buttò in quel canale che forma la ricchezza del Milanese e la gloria di lui. Memore di Federico Barbarossa, Milano tenevasi corifea della parte guelfa: alla ghibellina invece propendevano i castellani del vicinato; di che s’invelenivano le ire fra nobili e plebei, e riotte intestine, e alterni scacciamenti e disastri della città e della campagna, e trascuranza del pubblico bene. E già potea dirsi sciolto il Comune, poichè i varj ordini dello Stato ne formavano altrettanti, con governo distinto, e due o tre podestà, e consoli opposti a consoli, assemblee ad assemblee, impaccio ad ogni buona provvisione. Accennammo come vi allignassero gli eretici Patarini, alcuni de’ quali fecero ammazzare frà Pietro da Verona inquisitore (t. VI, p. 351). Il Carino, uccisore di lui, fu côlto e messo in mano del podestà; ma presto fuggì: e il vulgo, credendo connivente il podestà, prese questo, e ne saccheggiò il palazzo; impedì ai nobili di dare la signoria a Leon da Perego arcivescovo, e domandò che anche plebei potessero esser canonici della metropolitana, privilegio delle maggiori famiglie, per modo che l’arcivescovo da loro eletto era sempre dei primi patrizj. Sostenuti da questo, dai proprj vassalli e dipendenti, e dall’uso delle armi, i nobili sormontavano la _motta_ popolare, sino a voler ridestare un’antica legge de’ tempi feudali, per cui potessero dell’uccisione d’un plebeo riscattarsi per sette lire e dodici soldi di terzuoli (lire 114). Un popolano, scontrato il nobile Guglielmo da Landriano, lo sollecita a pagargli un antico debito, e questi l’uccide: il popolo insorge a furia, respinge i nobili, che con Leon da Perego alla testa ricovrano ne’ castelli del contado del Seprio, donde, alleati con Novaresi e Comaschi, poteano recidere il commercio e i viveri alla città. La plebe vedevasi costretta o a stipendiare qualche capitano forestiero che la proteggesse anche coll’armi, o a cercare fra’ castellani un capo cui l’aura popolare piacesse più che l’arroganza patrizia. Quando i Milanesi ritiravansi in rotta da Cortenova (1257) abbandonando il carroccio a Federico II, furono raccolti e pasciuti da Pagano della Torre, signore della Valsassina, il quale perciò era divenuto idolo dei popolani, ch’egli sosteneva a spada tratta, fosse virtù o quella affettazione di generosità con cui i nobili demagoghi velano spesso l’egoismo. Fatto è che il popolo, volendo un magistrato proprio che lo schermisse dalla prepotenza de’ nobili, elesse lui a capitano (1242), finchè si calmarono le ire. Scoppiate di nuovo, fu sortito a quel grado il suo discendente Martino (1257), il quale represse i nobili, diè mano a riformare gli ordini sottraendo le maestranze dal dipendere dall’arcivescovo, e così montò in istato di vero signore. Tolto a stipendio il marchese Manfredi Lancia con mille cavalli, trasse fuori il carroccio, e cominciava la guerra civile contro i nobili fuorusciti; se non che persone prudenti rabbonacciarono, e condussero la _pace di Sant’Ambrogio_. In essa da una parte i nobili e valvassori, dall’altra la motta, credenza e popolo, stabilirono che ogni singolar lite, causa, discordia e controversia tra le parti avessero a ridursi a pace perpetua: ogni ingiuria si rimettesse, eccetto se alcuno fosse ingiustamente possessore di qualche bene: gli elettori, il consiglio, il Governo, i consoli del Comune o della giustizia, e tutti gli altri uffiziali ordinarj e straordinarj, emendatori dello statuto, ambasciadori, metà dovessero essere del Comune, e metà di valvassori e capitanei: tre trombetti per il popolo potessero eleggere gli altri tre per la parte de’ capitanei: tutti gli sbanditi a titolo di Stato fossero riammessi, e i beni mobili ed immobili restituiti a loro od agli eredi. Seguivano concessioni e convenzioni speciali per gli abitanti di Como, di Varese, di Cantù, d’Angera e pei capitanei d’Arsago: e per riparare i danni fatti, il podestà spenderebbe ogni anno in granaglia lire seimila del Comune di Milano; e i Comuni, borghi, luoghi e cascine consegnerebbero le biade a Milano, secondo il consueto: ciaschedun cittadino fosse obbligato far condurre a Milano due moggia di mistura per ogni centinajo di libbre del valsente suo, e chiunque non fosse in estimo potesse condurre ed estrarre grani da Milano: in tempo di carestia si potesse cercarne anche ne’ solaj degli ecclesiastici, e quel che sovrabbondava al viver loro, tradurlo a Milano. Si tenessero riparate le strade; non si riscotessero dazj o gabelle più dell’usato; i pretori farebbero soddisfare all’offeso delle ruberie sofferte intorno a Milano a quattro miglia. Martin della Torre e suoi agnati, e tutti i capitanei e valvassori collegati col popolo, potessero a volontà ritornare alla parte de’ capitanei e valvassori, senz’altro carico che di pagare i foderi passati e presenti. I castelli di singole persone non fossero molestati dal Comune, se non per decreto del consiglio. Ne’ borghi e nelle ville le persone maggiori di vent’anni avessero facoltà di eleggere il proprio rettore per un anno quando non fossero per consuetudine sottoposti al podestà di Milano[11]. Particolareggiammo questa famosa pace per mostrare come la politica non fosse la predominante nelle transazioni d’allora, e sempre vi si mescolassero ordinamenti civili ed economici, che poi si registravano negli statuti. Sanciva essa l’eguaglianza civile fra nobili e plebei, e intitolavasi perpetua: ma non seppero nè le famiglie chetarvisi, nè i popolani usarne con dignità; e ben presto ecco i nobili costretti a fuoruscire di nuovo, e cercare ajuto da Como, ove la loro parte prevaleva: più volte vennero alle prese con avvicendata fortuna, e Filippo arcivescovo di Ravenna legato pontifizio, accorso a pacare, mandò in esiglio il Torriano e Guglielmo da Soresina, l’uno capo de’ popolani, l’altro de’ nobili. Ma quegli tornò, e prevalse: i nobili, perduta la patria, accolsero il furioso partito di darla ad Ezelino. Secondo la segreta pratica tenuta con loro, costui mosse in fatti alla sorda da Brescia per sorprendere Milano, e già varcata l’Adda, difilavasi battendo per Monza e Vimercato sopra la metropoli della Lombardia, quando Martino, avutone spia, radunò a stormo l’esercito plebeo, e gli girò alle spalle, sollevando i popoli. Onde non vedersi intercetta la ritirata, Ezelino diè volta verso l’Adda; ma al ponte di Cassano si trovò a fronte i nostri (1259), e costretto a battaglia, cadde ferito, e poco poi spirò da disperato in Soncino. Fu una medesima esultanza per tutta la Lombardia e la Marca; città e castella già sue si rendettero o furono prese; suo fratello Alberico, assediato nella rôcca di San Zenone, e costretto darsi a discrezione (1260), fu coll’innocente famiglia mandato agli orribili strazj con cui si manifestano le vendette popolari; e il grido di libertà sonò con entusiasmo per tutta la valle padana. Ma troppo spesso i popoli liberati da un padrone non hanno maggior premura che di trovarsene un altro; e al cadere degli Ezelini supremò la Casa d’Este. Questa, avversata da Federico II perchè stretta parente dei Guelfi di Baviera suoi emuli, oltre il castello e la borgata da cui traeva il titolo, possedeva il marchesato di Ancona, e come feudi imperiali Rovigo, Calaone, Monselice, Montagnana, Adria, Aviano, la signoria di Gavello, e un’infinità di masserie, giurisdizioni, avocherie su quel di Padova, Vicenza, Ferrara, Brescia, Cremona, Parma, nel Polesine meridionale, nella Lunigiana e ne’ monti toscani, poi nel Modenese e Piacentino, spingendosi fin verso Tortona a confinare coi marchesi di Monferrato. Alcuni erano liberi allodj, altri feudi militari o benefizj ecclesiastici, e ne domandavano la conferma dai papi e dagli imperatori: ma la potenza cui erano sorti, dava arbitrio agli Estensi di considerarli come beni proprj. Ferrara, tiranneggiata da Salinguerra, vecchione indomito e in fatti d’armi famoso, aveva esibito il primo esempio di sottomettersi a un principe (1208), attribuendo ad Azzo d’Este arbitrio di far e disfare il giusto e l’ingiusto[12]. Anche Modena, straziata da discordie, elesse signore Obizzo d’Este: sette anni dopo, Reggio la imitò, indi Comacchio, Treviso, Feltre, Belluno obbedivano direttamente o indirettamente ai Da Camino. I Veronesi si diedero in signoria a Mastin della Scala, che cacciò i conti di Sanbonifazio, i quali per sessant’anni non poterono rientrare in una città dove aveano signoreggiato. Mastino, ucciso nel 1277, trasmise il dominio al fratello, e questo ai figliuoli. I Cremonesi, smaniosi di vendicare la sconfitta tocca nel 1248 sotto Parma, elessero podestà il marchese Oberto Pelavicino, ghibellino affocato; il quale, secondato da fuorusciti, li menò contro Parma (1250), ed entratovi, ne tolse il Gajardo, carroccio cremonese, e molti prigionieri, che furono poi spediti a casa sbracati. Da questa, che i Parmigiani intitolarono la _Mala Giobia_, cominciò la grandezza di quel marchese, che già signore di Cremona, nel 1252 ottenne d’essere gridato signore perpetuo di Piacenza, e sarebbe stato anche di Parma se un _vil sartore_ non fosse sorto a persuadere quanto valesse meglio la libertà. La vittoria sopra Ezelino crebbe in Milano oltre misura il credito di Martin Torriano, il quale, inseguendo i nobili che, fallito il tradimento concertato, s’erano rifuggiti presso la famiglia Sommariva di Lodi (1259), sottomise anche questa città. Novecento nobili, afforzatisi nel castello di Tabiago in Brianza, vi furono presi e tradotti a Milano (1261), con insulti d’ogni peggior maniera: però Martino impedì fossero trucidati, e sempre si astenne dal sangue, dicendo: — Poichè non ho potuto dar la vita a nessuno, non soffrirò di torla a chichessia». E veramente egli seppe temperarsi nell’ambizione; e vedendo che la milizia plebea non bastava a tener testa ai nobili, non esitò a lasciar nominare capitano generale il Pelavicino, che così tenne in signoria quella città, cui Ezelino aveva indarno aspirato. Forte di tale appoggio, la fazione popolare cercò incremento col portare arcivescovo Raimondo, parente di Martino. Si opposero con ogni lor possa i nobili, proclamando Uberto da Settala; onde, per riparare allo scisma, Urbano IV nominò a quella sede il canonico Ottone Visconti, che coll’appoggio de’ nobili suoi pari tenne la campagna, ed occupò molti castelli, massime nelle parti del lago Maggiore, dove erano i feudi di sua famiglia. I Torriani presero e spianarono i castelli di Arona, d’Angera, di Brebbia, occuparono altre terre dell’arcivescovo; lo perchè essi e la città furono posti all’interdetto, e bandita contro loro la croce. Amareggiato da ciò, Martino moriva immaturo (1263), e Filippo suo fratello otteneva l’autorità di esso e la tutelava coll’armi. Como, per insinuazione de’ Vitani, davasi a lui; per forza la Valtellina, e così Lodi, Novara, Vercelli, Bergamo: ed egli dissimulava il suo ingrandimento, tanto che della signoria fece investire Carlo d’Angiò. Napoleone gli succedette (1265) col titolo d’anziano perpetuo, quasi ereditario tramandandosi il dominio, benchè i Torriani non ne cercassero il titolo. A differenza degli altri tiranni, stavano essi coi Guelfi, onde prosperarono per le vittorie degli Angioini. Accampava coi Ghibellini il Pelavicino, che avea sottoposte anche Pavia e Brescia: ma questa, all’udire la morte di Manfredi, trucidò i soldati di esso, e invocò i Torriani, che, accolti a rami d’ulivo, vi rimpatriarono i Guelfi, e ne furono gridati signori. Un altro Torriano era governatore di Vercelli, ma i Ghibellini milanesi fuorusciti il sorpresero ed uccisero. Emberra del Balzo, podestà di Milano per re Carlo, consigliò a trucidare cinquantadue parenti degli assassini; della quale atrocità piansero tutti i buoni, e Napoleone sclamò: — Il sangue di questi innocenti ricadrà su’ figli miei». Quando poi, al comparire di Corradino, quei che erano a parte d’impero rialzarono il capo, e Oberto Pelavicino e Buoso da Dovara minacciarono rinnovare i tempi di Federico e d’Ezelino, Milano incalorì le città, e con Vercelli, Novara, Como, Ferrara, Mantova, Parma, Vicenza, Padova, Bergamo, Lodi, Brescia, Cremona, Piacenza ritessè la Lega Lombarda (1267), unendosi col marchese d’Este e con quel di Monferrato, il quale fu nominato capitano. Allora Cremona e Piacenza, buon o malgrado, indussero il Pelavicino ad abdicarsi della signoria, ond’egli si ritirò ne’ suoi castelli di Gusaliggio, Busseto, Scipione, Borgo San Donnino, e morì lasciando la sua famiglia ricca ma non sovrana. Il Dovara, di cui il legato pontifizio erasi valso per snidare il predetto, sperava rimanere signor di Cremona; ma ne fu egli pure cacciato, abbattute le sue case, assediata la sua rocchetta sull’Oglio, e poichè la vide capitolare ed essere rasa, ricoverò fra’ monti a morire senza dovizie nè potenza. Al contrario, Napoleone continuava da signore in Milano, sostenuto anche dal cugino Raimondo, ch’era stato fatto patriarca di Aquileja, e che, andando alla sua sede (1274), menò seco sessanta nobili garzoni milanesi per scudieri, riccamente divisati con arme e cavalli bellissimi; cinquanta cavalieri aurati, ciascuno con quattro cavalli e uno scudiere; sessanta militi con due cavalli ciascuno, e cento uomini d’arme cremonesi (CORIO). Tanto era ricca quella casa. Napoleone, assoldate truppe, tenne la lancia alle reni dei nobili, e più volte ne uscì vittorioso; tutto guelfo ch’egli era, si fece costituire vicario dall’imperatore Rodolfo d’Habsburg; e senza lasciarsi lusingare da favori nè atterrire da scomuniche, resisteva al papa e all’arcivescovo Ottone Visconti. Men costante di lui, il marchese di Monferrato mutossi capitano della parte ghibellina, con sè traendo Pavia, Asti, Como e i fuorusciti di Milano. Questi ultimi aveano per centro Como e per capo il Visconti, che, escluso sempre dall’arcivescovado, menava fazioni e battaglie nelle pianure e sui laghi che fanno deliziosa l’alta Lombardia. I nobili, disperati d’altro soccorso, riduconsi a Pavia (1276), e inducono Gotifredo conte di Langosco a farsi loro capo e aspirare così alla signoria del Milanese: di fatto egli campeggiò sul lago Maggiore, e prese Arona e Angera; ma Cassone della Torre, avuto una smannata di Tedeschi da Rodolfo, prese lo stesso conte con molti nobili, a trentaquattro de’ quali fe’ mozzare la testa in Gallarate. Era fra essi Teobaldo Visconti padre di Matteo; onde l’arcivescovo Ottone si incalorì alla vendetta: da’ Canobiesi fece allestire una flottiglia, comandata da Simone di Locarno, famoso prode, il quale, ito a Como, resuscitò la parte de’ Visconti. Quivi attestatisi, e soccorsi da Pavesi e Novaresi guidati da Ricardo conte di Lomello (1277), i Visconti ripresero Lecco, Civate ed altre rôcche, e attraverso alla Martesana procedeano sopra Milano. I Torriani stavano a malaguardia in Desio, dove furono sorpresi e messi in isbaraglio: Napoleone co’ suoi parenti Mosca, Guido, Rocco, Lombardo, Carnevale furono chiusi in gabbie nel castel Baradello di Como: Cassone ebbe tempo di fuggire a Milano, ma solo per vedere il popolo saccheggiare i palazzi de’ suoi, onde ricoverò presso Raimondo patriarca, col cui appoggio alimentò a lungo la guerra; finchè, spintosi co’ suoi sin alle porte di Milano (1281), a Vaprio fu interamente sconfitto. A Ottone si fece incontro il popolo gridando _Pace, pace_, ed egli la diede; proibì ogni persecuzione o vendetta, e tolse per capitano Guglielmo marchese di Monferrato, al quale allora obbedivano Pavia, Novara, Asti, Torino, Alba, Ivrea, Alessandria, Tortona, Casale. Costui, sentendosi forte, facea da padrone; onde l’arcivescovo si guadagnò le case Carcano, Castiglioni, Mandello, Pusterla ed altre caporali; e côlto il destro che colui stava fuor di città, occupò il Broletto, chiuse le porte in faccia al marchese, e restato unico padrone, fecesi proclamare signore perpetuo. Il popolo sotto i Torriani erasi già avvezzo a un padrone; i nobili, da questi abbattuti e spinti in esiglio, non sentivansi forza a resistere: talchè senza molti ostacoli la maggiore repubblica dell’antica Lega Lombarda diveniva un principato. L’arte e la fortuna giovarono i Visconti a renderlo ereditario ed abbracciarvi tutta Lombardia, spodestando o ereditando de’ principotti insignoritisi di ciascuna città. E l’un dopo l’altro tutti i paesi che erano usciti repubblicani dalla pace di Costanza, si restringeano a signoria di un solo, e invece di giovarsi dell’interregno per consolidare le proprie costituzioni, si disperdevano in superbie iraconde; invece della ragionevole soggezione per cui gli Stati fioriscono, riottavano nell’anarchia, che fa parer desiderabile la servitù. Tutti gli uomini si erano dati a una fazione, e le fazioni sempre si danno a un uomo, il quale trovasi padrone di quanti ad essa si addissero, e che non gli domandano se non di farla trionfare; trionfato, attribuivano i poteri ad un capitano o difensore del popolo, e glieli prorogavano per tre, cinque, dieci anni, abituando lui a principare, sè ad obbedire. E poichè il popolo vincitore sentivasi inetto a governare, se ne rimetteva a qualche signore, nobile per lo più, eppure destinato a reprimere i nobili. Così nella moderna Inghilterra si ebbe sempre bisogno di un lord, anche per far provvedimenti contro i lord. Consueto effetto delle rivoluzioni, non si esitava a sagrificare la libertà ad un nome vano, alla passione del momento, diritti smisurati commettendo ad un’assemblea o ad un magistrato. Milano nel 1301 al capitano del popolo, al giudice della credenza di Sant’Ambrogio e al priore degli anziani del popolo concedeva la podestà più preziosa, quella di far leggi. I popolani fiorentini riusciti vincitori, «a ser Lando da Gubbio puosono uno gonfalone di giustizia in mano, e diengli imperio sopra chi attentasse contro li Guelfi e lo presente stato; il quale bargello avea balìa niuna solennità servare, ma di fatto senza condannazione procedere in avere e in persona». Nel 1380 fecero riformagione che gli otto di _balìa_ potessero spendere diecimila fiorini, senza darne conto segreto o palese, in perseguire e far morire i ribelli del Comune in ogni forma e via e modo che a loro meglio paresse[13]. Altrove le balìe, i _cinque dell’arbitrio_ o simili riceveano mandati temporarj, che intepidivano la gelosa cura della libertà e spianavano il calle alla tirannide. Rimosso il pericolo della dominazione forestiera e cresciute le dovizie e gli agi del vivere, i cittadini si applicarono all’industria smettendo le armi. Ne crebbero d’importanza i nobili, i quali dalla fanciullezza si educavano agli esercizj e a portare un’armadura di ferro a tutta botta, sotto la quale invulnerabili dalle picche della milizia cittadina, trionfavano quasi senza pericolo; la sicurezza del vincere crescea baldanza di osare, e facilmente argomentavansi di dominare sopra gente ch’era invalida a resistere. Più lo fecero quando i capitani di ventura posero il valore a servizio di chi pagava, e patteggiavano coi tirannelli per sostenersi, o aspiravano essi medesimi al primo grado. Il tempestare cittadino aveva indotto stanchezza, e sempre è il benvenuto chi, all’estremo d’una rivoluzione, giunge a ricompor le cose, quand’anche al tumulto sostituisca l’abjezione e il letargo. Voi che vedeste i Romani, repubblicani affocati, acconciarsi alla stemperata tirannia degl’imperadori, non istupirete che di nuovo i ridesti Italiani soffrissero i duri sproni de’ tirannelli. Del cadere sotto un signore soffrivano i grandi, impediti dai loro arbitrj e dagli sfrenati appetiti d’una più o men ristretta oligarchia: ma la plebe si trovava giovata del non esser più esposta alle ire di tutta una parte, e al soperchiare d’ogni emulo e d’ogni avversario; e dell’obbedire, anzichè a molti, ad un signore solo e lontano, il quale non avrebbe passione d’offendere gl’individui, anzi interesse di procacciare il fiore di tutti: e ne sperava quella giustizia e quella sicurezza che, se non un compenso, sono un ristoro alla privazione della libertà. Contenta della quiete interna, del freno posto agli oligarchi, degli spettacoli e delle pompe, ne voleva bene ai principi; e contro quegli stessi che ci sono dipinti pei peggio ribaldi, rado o non mai la vedremo insorgere, benchè non mai cessassero quelle congiure di pochi, che fallendo rinfiancano la potenza che aveano inteso demolire. I letterati e i leggisti, dei quali crescevano il numero e l’importanza, attingevano dal diritto romano canoni di servilità, e sempre aveansi in pronto una diceria, colla quale alle assemblee popolari persuadere i vantaggi della tirannide. I nobili, a cui danno cadeva questa rivoluzione, ribramando il passato e invidiando gli uomini nuovi, pur non sapevano affratellarsi nè ai Comuni nè tra sè in quell’accordo, che in altri paesi li ridusse opportuno contrappeso alla monarchia nascente: pertanto poneansi a corteggiare il signore onde ottenere qualche brano di autorità, di godimenti, di arroganza; o gittavansi a macchinazioni, che porgeano a quello buona ragione di sterminarli o comprimerli. Insomma mancava a tutti il sentimento della legalità, fosse per assodare le repubbliche, fosse per temperare i principati. E le repubbliche a breve andare mutavansi in signorie senza avvedersene, come senza avvedersene erano salite alla libertà. I tiranni (tal nome i nostri, al modo greco[14], davano a coloro, buoni o malvagi, che usurpavano dominio in libera terra) aveano cura di farsi decretare solennemente, dagli anziani o dalle assemblee popolari, il titolo e i poteri di signori generali per tempo limitato, e ricevere l’investitura colla tradizione dello stendardo e del carroccio. Faceasi dunque mostra di rispettare la sovranità del popolo; sicchè, al governo monarchico innestando forme costituzionali, pareva dovesse impedirsi il despotismo, le magistrature popolari moderare i signori, che di rimpatto resterebbero protetti dalle leggi e dalla nazionale garanzia. Ma come in Roma gl’imperatori dominarono assoluti perchè rappresentavano il popolo sovrano, così questi tirannelli nessun limite legale trovavano ad un potere che dal popolo era attribuito. Non era dunque necessario frutto della democrazia la tirannide, bensì conseguenza aristocratica, giacchè ogni oligarchia è gelosa ed esclusiva, e chiede ingrandire a scapito degli altri. La tirannide poi serviva effettivamente gl’interessi popolari, elevando gli infimi contro i prischi prevalenti: per modo che, quand’anche fosse cacciato il tiranno, rimaneva la gente nuova ed estrania, da lui assisa sui beni confiscati. Allora i primi spogliati s’affacciavano alla riscossa, cacciavano la gente nuova, faceano nuovo spartimento, e quella vicenda irrequieta non lasciava tampoco il riposo, che erasi sperato compenso alla servitù. Le rivolte non erano impeti di libertà; voleasi cangiare di signoria, ma il governo restava pur sempre militare e dispotico, giacchè ai disuniti bisognavano capi assoluti; s’applaudiva ai giudici che castigassero i caduti dominatori, per quanto eccedessero; i partigiani dei nuovi pretendeano franchigie e indipendenza; i vinti fuoruscivano, istituendo un governo tirannico perchè indipendente dalla pubblica volontà, e che pretendeva dal di fuori governare la patria, sovvertirla, mutarla; il nuovo padrone secondava le proprie passioni, e conoscendosi vacillante, si reggea con politica subdola e giustizia inumana, gettando a spalle ogni moderazione e generosità. Il dominio che una città aveva già acquistato sopra altre, diveniva una signoria, che gli ambiziosi attendevano ad ampliare; onde l’Italia settentrionale, che alla pace di Costanza trovavasi sminuzzata in tante repubbliche quante città, queste vide aggregarsi attorno ad alcuni centri, e formare gli Stati nuovi, la cui storia così varia è ribelle a quel procedimento sistematico che si rivela dove un signore unico determina o almeno dirige gli avvenimenti d’un paese. CAPITOLO XCV. Toscana. La salda dominazione degli antichi marchesi Bonifazj aveva impedito alla Toscana di ridursi libera come le città lombarde ma estinti quelli colla contessa Matilde (1115), le dispute che intorno alla costei eredità si agitarono fra i pontefici e gl’imperatori, offrirono ai Comuni il destro d’emanciparsi, e agli uni o agli altri appoggiandosi acquistar privilegi, o nella lotta usurparli[15]. Federico II, erede dell’ultimo duca di Svevia fratello del Barbarossa, vi tenne de’ vicarj, ma ognora più scadenti d’autorità, e ricoverati in qualche terra castellata, come Sanminiato, che perciò fu detto al Tedesco. Del territorio rimanevano in dominio signori forestieri; o longobardi, come i marchesi di Lunigiana, i conti Guido, quei della Gherardesca; o franchi, come i marchesi Oberto, quei del Monte Santa Maria, i conti Aldobrandeschi, gli Scialenga, i Pannochieschi, gli Alberti del Vernio, della Bevardenga, dell’Ardenghesca, e così via. Fiesole, avanzo delle città onde gli Etruschi aveano coronato le alture italiche, già da Cicerone notata per gran lusso e spese d’imbandigione, deliziosi poderi, fabbriche suntuose, mutati i tempi, avea ridotto a battistero un bellissimo avanzo di antichità pagana; eretto il duomo, ove nel 1028 il vescovo Jacopo Bavaro trasportò le reliquie di san Romolo patrono della città; e di lassù le famiglie patrizie minacciavano gli uomini del piano. Ma era giunto il tempo che questi a quelle prevalessero; e Firenze, inferiore per postura a Fiesole come a Pisa per opportunità di commercio, maturava la libertà, che a lungo dovea poi custodire e sempre amare. La prima adunanza generale di popolo vi si tenne il 1105 per istanza del vescovo Ranieri: la prima impresa che se ne rammenti è la spedizione del 1113 contro Ruperto vicario imperiale, il quale, postato a Montecáscioli, bicocca dei conti Cadolingi, molestava i Fiorentini, finchè essi non l’ebbero scovato e ucciso, e spianata la sua rôcca. Trascinata da Pisa nella briga contro Lucca, Firenze conosce le proprie forze, e le usa a sottomettere i castellani; «perocchè in tutte le terre sono molti nobili uomini, conti e cattani, i quali l’amano più in discordia che in pace, e ubbidisconla più per paura che per amore» (DINO COMPAGNI); abbatte i castelli, che impacciano il traffico e ricoverano i prepotenti; obbliga le famiglie antiche a scendere dalla minacciosa Fiesole[16], e i popoletti ad accettare le sue leggi, come fece coi cattani di Montorlandi e con quei di Chiavello, che, riscattatisi dai conti Guido, s’erano collocati in un bel _prato_ sul Bisenzio, donde prese nome la lieta città che vi fabbricarono[17]. Dai Buondelmonti, che nel castello di Montebuono esigeano pedaggi da chiunque passasse, non potendo ottener ragione, Firenze li vinse (1143), ed obbligò a venire in città. Dal conte Uggero volle promessa di non far male ad alcun Fiorentino, anzi ajutarli, esser con loro in guerra, abitare tre mesi in città, dando in pegno i castelli di Collenuovo, Sillano, Trémali. I signori di Pogna, che non posavano di molestare il Valdelsa, furono domi coll’arme, e demolite quella e le torri di Certaldo e quante n’erano sin a Firenze, che che strepitasse il Barbarossa di questa che a lui pareva lesione del potere imperiale. Nel 1197 comprava il castello di Montegrossoli in Chianti: nel 99 squarciava quel di Frondigliano, poi con lungo assedio Semifonti e il castello di Combiata, riottosi al Comune: nel 1220 disfece Mortenana castello degli Squarcialupi, e in appresso quelli di Montaja, di Tizzano, di Figline, di Poggibonzi, di Vernia, di Mangona: abbattè le famiglie dinastiche dei Cadolinghi di Capraja, degli Ubaldini di Mugello, degli Ubertini di Gaville, dei Buondelmonti nel Valdambria: fabbricò una terra dove potessero rifuggire quelli di Castiglion Alberti, della badia d’Agnano, della pieve di Prisciano, di Campannoli, di San Leolino, di Monteluci, di Cacciano, di Cornia, ville signorili che così restavano deserte. Più poderosi di tutti erano gli Alberti; ma essendosi divisi per stipiti, poterono dalla città essere sottomessi a patti o a forza. Nel 1184 il conte di Capraja di quella famiglia colla moglie e i figliuoli si dava in accomandigia alla Repubblica fiorentina, obbligandosi consegnare ai consoli di essa una delle torri di Capraja, da custodire o distruggere a voglia; e subito troviamo i membri di quella famiglia rettori e consoli nella città. Ma poi guastatisi con essa, malmenavano i passeggieri e i villani, sicchè i Fiorentini v’andarono a oste, e distrutto il loro castello di Malborghetto, costruirono quel di Montelupo per tenerli in freno. Invano il conte Guido Borgognone cercò opporsi istigando a guerra i Pistojesi, cui erasi giurato fedele (1204): vinto, dovette co’ suoi figli e cogli uomini di Capraja prestare omaggio al Comune di Firenze, sottoponendogli quella terra, pagando ventisei denari per ogni focolare, e promettendo far guerra a volontà de’ consoli contro chiunque, eccetto i Lucchesi per tre anni, e l’imperatore per sempre: i consoli di Firenze a vicenda prometteano difenderli dai Pistojesi e da ogni altro nemico, e non diroccare il castello di Capraja[18]. Non però quei conti stettero così ai patti, che Firenze non fosse costretta più volte osteggiarli: certo rimasero potenti a segno, che molti ajuti poterono dare ai Pisani per ricuperare l’isola di Sardegna. Nel 1273 il consiglio generale dei Trecento e lo speciale dei Novanta approvavano si comprasse dal conte Guido Salvatico gli uomini, le terre, i castelli di Montemurlo, di Montevarchi, Empoli, Monterappoli, Vinci, Cerreto, Collegonzi, Musignano, Colledipietra, pagando ottomila fiorini piccoli; la qual somma verrebbe somministrata dai Comuni redenti a proporzione della lira, cioè dell’estimo[19]. Alcuni signori mantennero negli aviti castelli una sovranità locale, come i Pazzi nel Valdarno, i Ricásoli nel Chianti. Una consorteria di Longobardi o Lambardi padroneggiava la Versilia, cioè la valle di Seravezza. Gli Ubaldini diramavansi in tanta parentela, da dominare quasi un principato[20]. I Pulci, i Nerli, i Gangalandi, i Giandonati, i Della Bella avevano inquartato alle loro armi quella d’Ugo di Brandeburgo, marchese di Toscana al tempo di Ottone III, dal quale aveano ricevuto la nobiltà; e il giorno di san Tommaso festeggiavano nella badìa di San Settimo il nome di quel barone[21]. Altri casati si elevarono in città pel traffico, come i Cerchi, i Mozzi, i Bardi, i Frescobaldi, poi gli Albizzi e i Medici; e talora vennero assaliti nelle proprie case, come i vassalli nelle rôcche. Aggiungansi le signorie ecclesiastiche; perocchè, siccome i monaci Santambrosiani a Milano, così gli abati di Agnano, di Montamiata, del Trivio, di Passignano, di Monteverde erano principi sui loro beni; massime quelli di Sant’Àntimo in val d’Orcia, cui Lodovico Pio avea concesso quasi tutto il territorio fra l’Ombrone, l’Orcia e l’Asso, tanto che sopra il patrimonio d’essa badìa Lotario II assegnò mille mansi per regalo nuziale ad Adelaide. Gli abati dell’Isola presso Staggia nel Volterrano furono baroni su tutta l’isola e sul popolo di Borgonuovo; e Castelnuovo dell’abate, Gello dell’abate, Vico dell’abate e tant’altri nomi consimili ricorrenti segnano villaggi nati per opera di questi monaci toparchi. Eguale avviamento, chi cercasse, troverebbe in tutti i Comuni della Toscana. Montegémoli dei conti Guido si sottoponeva al monastero di Monteverde, da cui fu ceduto a Volterra il 1208; e così Querceto e Castelnuovo da Montagna. Nel 1221 i conti Aldobrandeschi si accomandavano ai Sanesi, dando in pegno i castelli di Radicóndoli e Belforte; altrettanto i signori di Montorsajo e i Cacciaconti di Montisi, e varie famiglie nobili di Chiusdino. Agli abati di Sant’Antimo fu tolto Montalcino, paese cominciato s’un colle vestito di elci, e allora cinto di mura. Siena combattè gli Scalenghi; nel 1212 comprava le appartenenze di Asciano; fin poi dal 1151 Palteniero Forteguerra le aveva sottomesso le sue castella, fra cui San Giovanni d’Asso. Così le si sottomisero i Salimbeni di Belcaro, i visconti di Campagnatico ed altri. Ma Omberto di Campagnatico verso il 1250 aggrediva sulla strada quanti erano amici a Siena, finchè alcuni Senesi travestiti da frati s’introdussero nel suo cassero e l’uccisero. Anche gli Ubaldini molestarono lungamente le valli del Santerno e della Sieve: i Pannochieschi continuavano a dominare Montemassi, che Castruccio nel 1328 fece ribellare a’ Senesi, i quali pertanto coll’armi e la fame lo vinsero e fecero distruggere, e tal fatto dipingere nel palazzo del concistoro da Simone Memmi. I Salimbeni, perchè decapitato uno e imprigionati altri di loro consorteria, nel 1374 mossero guerra al Comune di Siena, e ripresero Montemassi: ne nacque guerra; infine si compromise la cosa nella Signoria di Firenze, e la rôcca rifabbricata fu resa a quel Comune[22]. I castelli del Chianti furono incentivo di guerre fra Siena e Firenze, che ivi confinano; e Montepulciano, di cui s’ignora l’origine, ma già si trova mentovato nel 715, si collocò a devozione de’ Fiorentini, promettendo non imporre gabelle alle merci di questi, e offrire pel san Giovanni un cero di cinquanta libbre, e l’annuo tributo di cinquanta marche d’argento. I Senesi ne mossero richiamo davanti un congresso di nobili del vicinato e di rappresentanti delle città; e dall’esame apparve che da quaranta e più anni non apparteneva al distretto di Siena, ma era dominato da alcuni conti teutonici. Non vi s’accontentò Siena, e più volte ritentò sommettere colle armi Montepulciano, che fu distrutto e rifabbricato, e dopo molte vicende si accomandò a Siena, promettendo avere gli stessi amici e nemici, non levar dazj o gabelle sui Senesi, offrire, il giorno di Maria Assunta, un cero fiorito di cinquanta libbre, ad ogni richiesta mandare due cittadini al parlamento in Siena, eleggere fra i cittadini di quella il podestà e capitano col salario di quattrocento lire ogni semestre, i quali però governassero secondo gli statuti di Montepulciano. Grosseto, centro della valle del basso Ombrone senese, nacque attorno al Mille, e fu città quando Innocenzo II nel 1138 vi trasferì la sede vescovile di Roselle, antica città etrusca, allora caduta ed esposta alle infestazioni dei ladri. Stette a signoria degli Aldobrandeschi di Sovana, i quali poi s’accomandarono alla Repubblica di Siena, a cui i Grossetani stessi giurarono sommessione, e il tributo di lire quarantotto annue e cinquanta libbre di cera; come il vescovo tributava venticinque lire e un cero di libbre dodici. La sommessione però fu sempre irrequieta, e più volte scossa. Pistoja, venuta su dopo asciugati i suoi paduli nel 500, ebbe ricche famiglie, tra cui i progenitori dei conti Guido e anche dei Cadolingi; fu governata dal vescovo, dal conte, dal gastaldo; e dopo morta la contessa Matilde si emancipò. I suoi statuti sono i più antichi che si conservino: nel 1150 già aveva podestà e consiglieri, a’ quali il cardinale Ugo, legato pontificio e discepolo di san Bernardo, scriveva perchè cassassero l’illecito giuramento che faceano, entrando in carica, di non far mai bene agli Spedalinghi nè in vita nè in morte. Quel Comune sottopose i vassalli vescovili di Lamporecchio, i conti Guido di Montemurlo, i conti di Capraja, i conti Alberti di val Bisenzio, i popoli di Artimino e Carmignano. Cortona componeva il suo Comune di consoli, nobiltà (_majores milites_), capi mestieri, con un camerlingo e cancelliere: il consiglio di credenza constava di venti nobili; il generale di cento cittadini e artieri. Nel 1213 gli Alfieri le cedettero il castello di Poggioni, promettendo che almeno un di loro terrebbe famiglia in città; i Bandinucci Montemaggio, i Balducchini Castelgherardi, i Mancini Ruffignano, i Bostoli Cignano, i Baldelli Peciana, i Venuti Cigliolo, i Tommasi Cintoja, i Boni Fusigliano, i Cappi Ossaja, i Pancrazj Ronzano, i Serducci Danciano, i Melli Borghetto e Malalbergo sul lago Trasimeno, i Passerini Montalla. Sottopose pure i marchesi di Petrella, di Pierle, di Mercatale, gli Alticozzi, i Semini, i Rodolfini, i Vagnucci, i Camaldolesi del priorato di Sant’Egidio, facendoli entrare in città, sicchè nel 1219 ampliò le mura a chiuder anche il sobborgo di San Vincenzo. Amicizie e guerre avvicendò cogli Aretini, che nel 1269 sorpresala, la saccheggiarono e smantellarono, obbligandola a prender sempre per podestà un Aretino. Alfine v’acquistarono dominio i Casati, fatti vicarj dell’Impero fin quando la repubblica fiorentina non la sottomise. Ai paesani liberati le città apprestavano nuovi borghi, e se gli amicavano colle franchigie (t. VI, p. 53, 54). Firenze univa al proprio _contado_ tutti quelli datisi spontanei, facendoli partecipi al diritto di cittadinanza, e dividendoli in quartieri; mentre quelli sottoposti a forza o acquistati a denaro formavano il _distretto_, ciascuno con patti e condizioni particolari. Comunelli, pievi, popoli aveano stretto leghe per difendersi dalle violenze, obbligandosi a sbrattare il proprio territorio da malfattori e banditi, tener sicure le strade, rifare del danno chi ne soffrisse, avendo all’uopo uffiziali e spese comuni. Essa Firenze, venuta a libertà più tardi de’ Comuni lombardi, ebbe men lunga lotta e più pronto sviluppo di civiltà, d’arti, di commercio; evitò le guerre col Barbarossa, e potè far senno dell’esperienza altrui. La postura sua e l’indole degli abitanti contribuirono a conservarvi que’ costumi semplici e schietti, de’ quali una descrizione ci è data dal più immaginoso poeta e fedele cronista de’ mezzi tempi, Dante, che canta come, a’ giorni dell’atavo suo Cacciaguida, Firenze, ancora dentro angusto ricinto, si stesse in pace sobria e pudica; non i soverchi ornamenti femminili più che la persona stessa attiravano lo sguardo; non faceva ancora, sin dal nascere, paura la figlia al padre, che pensava già al tempo immaturo e alla grossa dote dei maritaggi; Bellincion Berti[23] ed altri illustri cittadini portavano cintura di cuojo, e stavano contenti a veste di pelle scoverta; le loro donne non si partivano lisciate dallo specchio, ma attendendo al fuso ed alla conocchia, vegliavano a studio della culla, consolando i bambini con quel mozzo parlare che trastulla da prima i genitori; e traendo la chioma alla rocca, colla famiglia ragionavano non di vanità e fole, ma de’ Trojani, di Fiesole, di Roma. Ai quali versi, che tutti hanno a memoria, commenta il buon Giovanni Villani: — In quel tempo (cioè del 1250) i cittadini di Firenze viveano sobrj e di grosse vivande e con piccole spese, e di molti costumi grossi e rudi; e di grossi drappi vestivano le loro donne; e molti portavano pelli scoperte senza panno, con berrette in capo, e tutti con usatti in piedi; e le donne della comune foggia vestivano d’un grosso verde di cambrasio per lo simile modo; ed usavano di dar dote cento lire la comun gente, e quelle che davano alla maggioranza, ducento; e in trecento lire era tenuta sfolgorata; e il più delle pulzelle che andavano a marito avevano venti anni o più. E di così fatto abito e costume e grosso modo erano allora i Fiorentini con loro leale animo e tra loro fedeli». E Benvenuto da Imola: — Le fornaje allora non portavano perle nei calzari, come ora fanno ivi ed a Genova e Venezia..... Semplice e parco è il vitto de’ Fiorentini, ma con mirabil mondizia e pulitezza: le genti basse vanno alle taverne, ove sentono si mescia buon vino, senza darsi pensiero, mentre i mercanti servano mediocrità». Queste descrizioni, esagerate forse, ma sopra un fondo di vero, compiremo col rammentare come, dovendo i Pisani procedere a impresa sopra le isole Baleari, Firenze si esibì di vegliare frattanto alla sicurezza della loro città; poi, offertole un premio, chiese due colonne di porfido. Il fatto e il guiderdone dicono assai di quell’età. Così Firenze cresceva in riposato vivere di cittadini, quando la privata nimicizia di due case l’appestò colle fazioni de’ Guelfi e Ghibellini. Buondelmonte de’ Buondelmonti, già signori di Montebuono nel val d’Arno, avea fidanzata una figliuola di Oderigo Giantrufetti degli Amedei (1215). Ora cavalcando egli un giorno davanti la casa de’ Donati, Aldruda donna di questi gli fece motto, e mostrandogli la sua figliuola, bellissima e unica ereditiera di lauto patrimonio, gli disse: — Io l’avevo cresciuta e serbata per te». Buondelmonte ne restò invaghito, e ruppe le nozze coll’altra. Vivo sdegno ne concepì Oderigo, ed affiatatosi co’ parenti suoi, Uberti, Fifanti, Lamberti, Gangalandi, deliberarono batterlo e fargli vergogna; ma Mosca de’ Lamberti proferì la mala parola: _Cosa fatta capo ha_, quasi a dire — Freddiamolo, chè dopo il fatto si rattoppa»; e il giorno che, vestito nobilmente di nuovo di veste bianca in su un bianco palafreno, menava moglie, a piè del Ponte Vecchio l’uccisero. Il popolo diede addosso agli uccisori, e ne cominciarono gravi nimicizie fra i cittadini, ciascuno parteggiando per questo o per quello sotto il nome di Guelfi o di Ghibellini, sicchè la città ebbe sembianza di due campi nemici. A San Pier Scheraggio stavano le case degli Uberti, che seguiti dai Fifanti, Infangati, Amedei, Malespini, combattevano i Bagnesi, i Pulci, i Guidalotti, i Gherardini, i Foraboschi, i Sacchetti, i Manieri, i Cavalcanti, d’intenzione guelfa. Al duomo attorno alla torre dei Lancia restringeansi Barucci, Agolanti, Brunelleschi, contendendo con Tosinghi, Agli, Sizi, Arrigucci. A porta San Pietro i Tedaldini coi Caponsacchi, Elisei, Abati, Galigaj contrastavano i guelfi Donati, Visdomini, Pazzi, Adimari, Della Bella, Cerchi, Ardinghi. La torre dello Scarafaggio de’ Soldanieri in San Pancrazio spiegava la bandiera ghibellina, sostenuta dai Lamberti, Cipriani, Toschi, Migliorelli, Amieri, Pigli, contro Tornaquinci, Vecchietti, Bostichi. Così ne’ restanti sestieri; e anche in Borgo i Buondelmonti guerreggiavano gli Scolari, stando con quelli i Giandonati, Gianfigliazzi, Scali, Gualterotti, Importuni guelfi, con questi i Guidi, Galli, Capiardi, Soldanieri; e oltr’Arno i Gangalandi, Ubriachi, Mannelli ghibellini, guelfi i Nerli, i Frescobaldi, i Bardi, i Mozi: ed a vicenda si cacciavano, e chiedeano alleanza nelle altre città e dai castellani di loro amistade. Al tempo di Federico II i Ghibellini prevalsero, e fra essi gli Uberti (1249) impacciavano il commercio di Firenze, e invitato uno stuolo di Tedeschi con Federico d’Antiochia figlio dell’imperatore, snidarono dalla città i Guelfi. Nella mischia era perito Rustico Marignolli, caporione di questa parte; e i suoi, per non lasciarlo all’insulto de’ nemici, tornarono indietro senza curar di pericolo, e portando i ceri e la bara da una mano, dall’altra armi ferocissime, gli fecero esequie singolari. I Ghibellini trionfanti abbatterono le torri de’ nemici, e tentarono fin diroccare San Giovanni dove teneano loro adunanze, li perseguirono pel contado e ne’ castelli di Capraja, Figline, Montevarchi, e avutine alcuni prigioni, li consegnarono a Federico II, che gli uccise, accecò o tenne carcerati. Rimasti senza competitori, i Ghibellini istituirono in città un governo aristocratico, tutto in aggravio della plebe e dei liberi borghesi. Ma questi presero riscossa, e rivendicatisi da quelle estorsioni e prepotenze, tennero parlamento in piazza Santa Croce (1250 — 20 8bre), e formarono una confederazione col nome di _popolo_, vie più lodevoli perchè seppero temperarsi dalle riazioni. Abolito il podestà de’ nobili, surrogaronvi un capitano che fosse «guelfo e della parte guelfa zelante, fedele e divoto della sacrosanta Chiesa romana, e non ligio ad alcun re, principe, signore o barone avverso a quella»; assistito da una signoria bimensile di dodici anziani, due per sestiere; e divisero la cittadinanza in venti gonfaloni, che costituivano altrettante compagnie di milizia, la campagna in novantasei pivieri. Ad un cenno del capitano e ai rintocchi della _martinella_, la milizia doveva raccogliersi attorno al carroccio del gonfalone bianco e vermiglio, e in tal guisa più volte corsero addosso ai grandi. Ai quali non fu tolto se non il poter sopraffare, mozzando delle loro torri quanto sorpassava le cinquanta braccia, e colle pietre munendo il sestiere dell’Arno per aver la forza che francheggia la libertà: a foggia pur di fortezza fabbricossi il palazzo del podestà, dove risedessero i membri del Governo. Con questa nuova forma di stato popolare, Firenze passò dieci anni memorabili per grandi fatti. Appena la morte dell’imperatore Federico l’alleggerì della paura, rimpatriò i Guelfi esigliati, costrinse i nobili delle due fazioni a segnar la pace, obbligò Pistoja, Arezzo, Siena a mutarsi dalla bandiera imperiale alla sua: battè Poggibonzi e Volterra, le cui mura etrusche riparavano i Ghibellini; presso Pontedera sconfisse i Pisani[24]; e in memoria di quest’_anno delle vittorie_ coniò la nuova moneta d’oro di ventiquattro carati e d’un ottavo d’oncia d’oro, detta il _fiorino_ perchè portava il fiore, simbolo parlante di essa città. Gli anni successivi continuarono le prosperità; ma i Ghibellini fecero trama di ricuperare il sopravvento, e citati a giustificarsi, presero le armi ed eressero barricate. Il popolo gli attaccò, alcuno uccise, gli altri via. Guidati da Farinata degli Uberti, essi ricoverarono a Siena; e poichè questa avea reciproco patto con Firenze di non accogliere i profughi, le fu intimato guerra. Firenze era stata posta all’interdetto per aver fatto sulla pubblica piazza _segar la gorgiera_ a un Beccaria pavese abate di Vallombrosa, imputato di trame coi fuorusciti, sicchè la guerra vestiva anche apparenze religiose; e i Ghibellini (1258) non si fecero coscienza di chiedere tedeschi ajuti a re Manfredi, che già era stato gridato signore di Siena. Se ne promettevano un esercito, ed egli mandò soli cento uomini; di che i Ghibellini stavano sconfortati: ma l’accorto Farinata disse loro: — Basta ch’ei mandi la sua insegna, e noi la metteremo in sì fatto luogo, che, senz’altro pregare, egli ci darà maggiori ajuti». Ubriacati, li spinse addosso ai Guelfi, di cui fecero strage: ma questi, rannoditisi, li sconfissero ed uccisero fin ad uno. La bandiera dell’aquila nera in campo d’argento fu trascinata pel fango sin a Firenze, dove furono decretate dieci lire a chiunque avesse fatto prigione un cavaliero, metà per un fante cittadino, e tre lire se mercenario, stabilendo simile compenso anche per l’avvenire[25]. Come Farinata avea previsto, Manfredi conobbe impegnato l’onor suo; e spinto anche da ventimila fiorini speditigli, inviò milleottocento cavalieri tedeschi, comandati da suo nipote Giordano d’Anglano; coi quali e coi Senesi e i fuorusciti mise in campo ventimila uomini. Due bugiardi frati promisero ai Fiorentini che i Guelfi senesi aprirebbero loro la città: laonde, per quanto i prudenti sconsigliassero dall’impigliarsi sul territorio nemico, mentre aspettando vedrebbero i Tedeschi ben presto sparpagliati per mancanza di paghe, prevalsero gli esagerati che codardia chiamano l’attendere l’opportunità: un cavaliero che suggeriva questo partito, fu multato; a un altro imposto silenzio, pena cento lire, ed esso vi s’assoggettò per parlare; raddoppiata la multa, esso non tacque; nè quando fu portata a quattrocento lire, e sinchè non fu minacciato della testa. Risoluta la spedizione (1260), non vi ebbe famiglia che non mandasse alcuno a piedi o a cavallo. Nella marcia faceano d’antiguardo gli arcieri e balestrieri della città e del contado; seguiva la cavalleria e il popolo di tre sestieri della città, indi la cavalleria e i fanti degli altri; formavano il retroguardo i confederati a piedi o a cavallo. Con loro andavano genti di Bologna, Lucca, Pistoja, Sanminiato, San Geminiano, Volterra, Perugia, Orvieto e molti mercenarj; in tutto più di trentamila combattenti. La battaglia datasi ne’ colli di Monteaperti (4 7bre) sull’Arbia, a sei miglia da Siena, è de’ fatti più celebri nell’età eroica delle nostre Repubbliche. I Senesi vi si prepararono colle divozioni, «e quasi tutta la notte la gente attendevano a confessarsi e a fare paci l’uno coll’altro. Chi maggiore ingiuria avea ricevuta, quello bene andava cercando il suo nemico per baciarlo in bocca e perdonargli. In questo si consumò la maggior parte della notte»[26]. Avviaronsi poi le schiere: e «quelle valenti donne, che erano rimaste in Siena insieme con messere lo vescovo e con quelli cherici, incominciarono lo venerdì mattina per tempo una solenne processione con tutte le reliquie che erano in duomo e in tutte le chiese di Siena. Così andavano visitando per effetto, sempre i cherici cantando salmi divini, litanie e orazioni: le donne tutte scalze con assai vili vestimenti andavano pregando sempre Iddio che rimandasse chi loro padre, chi loro figliuolo, chi loro fratelli, chi loro mariti; e tutti con grandi lacrime e pianti andavano ad essa processione, sempre chiamando la Vergine Maria. Così andarono tutto il venerdì, e tutto quello dì aveano digiunato. Quando venne la sera, la processione tornò al duomo, e ivi tutti s’inginocchiarono, e tanto stettero fermi, che fur dette le litanie con molte orazioni. Discendendo dal poggio si fecero al piano, e ivi si fe innanzi a tutti il franco cavaliere maestro Arrigo d’Astimbergo, e fe riverenza al capitano e a tutti gli altri, dicendo: _Tutti quelli di casa nostra siamo dal sacro imperio privilegiati, che in ogni battaglia che noi ci troviamo, doviamo essere i primi servidori. Pertanto a me tocca avere l’onore di casa nostra; e di ciò vi prego che siate contenti._ E gli fu conceduto, come di ragione si doveva. «Stando così la gente de’ Senesi, fu veduto per la maggior parte della gente (fiorentina) uno mantello bianchissimo, il quale copriva tutto il campo de’ Senesi e la città di Siena..... Alquanti diceano che loro parea il mantello della nostra Vergine Maria, la quale guarda e difende il popolo di Siena..... In questo essendo veduto il mantello nel campo de’ Senesi e sopra alla città di Siena, come alluminati da Dio si inginocchiarono in terra con lacrime invocando la Vergine gloriosa. E tutti dicevano: _Questo è un grande miracolo; questo è per li preghi dello nostro vescovo e de’ santi religiosi_»[27]. I Ghibellini erano in numero inferiori, ma meglio disciplinati e concordi; e Bocca degli Abbati ed altri, loro fautori secreti, disertarono dai Fiorentini, che ne rimasero scompigliati: la martinella cessò di rintoccare; i primi cavalieri fuggirono e così rimasero salvi, ma de’ pedoni forse tremila furono morti, assaissimi prigionieri; il carroccio preso, e con grandi feste trascinato a ritroso; e sovra un asino e colle mani al dosso un araldo che i Fiorentini, creduli all’intelligenza, aveano spedito a domandare le porte di Siena; e il popolo dietro gridava: — Or venite ed occupate la città, e fabbricatevi un forte»[28]. Il vessillo di re Manfredi sventolava innanzi ai Tedeschi, che con frondi nell’elmo inneggiavano nella lingua del lor paese la vittoria sul nostro. Dal carroccio senese magnificamente addobbato sventolava il gonfalone del Comune, dietro a cui i prigionieri, satolli d’oltraggi: de’ quali non fanno parsimonia neppure i cronisti, che raccontano come fu permesso ai privati di ricevere il riscatto de’ prigioni, ma i magistrati vollero s’aggiungesse un capro per testa, col sangue de’ quali s’impastò la calce per ristorare una fontana che conservò il nome _dei Becchi_. Anche una chiesa fu eretta a memoria e in onore di san Giorgio, con festa anniversaria; e Margaritone dipinse per Farinata un crocifisso al modo bisantino. Molte famiglie di Firenze sgomentate mutaronsi a Lucca, dove anche i Guelfi di Prato, Pistoja, Volterra, San Geminiano e di altri luoghi. Ripresa superiorità, i Ghibellini congregati ad Empoli posero il partito di distruggere Firenze, nido degli avversarj: solo il magnanimo Farinata dichiarò esser venuto in quella confederazione, non per disfare la città, sì per conservarla vincitrice[29]. Siffatta proposizione v’accenna il furore della parte ghibellina, la quale punì, taglieggiò e riformò lo Stato a modo imperiale, levando i privilegi plebei e le gravezze contro gli aristocratici. Il conte Guido Novello, fatto vicario di re Manfredi in Toscana, assalì Lucca, ricovero de’ Guelfi, la quale, invano mandato ad invitare Corradino, non potè salvarsi se non col respingere i rifuggiti, cui non rimase più luogo in Toscana. Malgrado la vittoria di Carlo d’Angiò, Guido potè conservare Firenze ai Ghibellini, e a due frati Gaudenti di Bologna diede incarico di metterli in pace co’ Guelfi, nominandoli podestà con trentasei savj (1266). Con questi, essi distribuirono le arti in dodici corporazioni, parte dette maggiori, parte minori; e ciascuna avea consoli, capitani, stendardo. Di qui principia il vero governo popolare; laonde ben dice il Villani che «d’allora innanzi non vi fu niuno grande», cioè superiore alla legge. L’unione è sempre funesta alla tirannide; e ben presto il popolo insorse contro il conte Guido, che stimò bene ritirarsi; e la città si riformò a bandiera guelfa, commettendo la signoria a Carlo d’Angiò per dieci anni. Egli combattè i Ghibellini a Poggibonzi, che resistè quattro mesi, e pigliò molti castelli del Pisano. Il papa avea mandato la bandiera coll’aquila vermiglia in campo bianco e sotto un serpente verde, la quale rimase poi sempre insegna della _massa guelfa_, come si chiamò un magistrato stabilito per amministrare i beni confiscati ai Ghibellini contumaci a vantaggio de’ Guelfi[30]. Indipendente dalla Signoria, essa eleggeva da sè i proprj uffizj e consigli, faceva ordini e leggi, riceveva e spacciava lettere ad altri Stati con proprio suggello, e vigilava che ad onori o benefizj del Comune non si ammettesse verun Ghibellino: perciò fu di gran peso negli avvenimenti, e sopravissuta alla libertà come amministrazione economica, restò abolita soltanto il 1769. Quegli avvicendamenti moltiplicavano i rancori, le confische, i patimenti, ma insieme la vita e l’ardimento delle grandi cose. «La città di Firenze è posta di sua natura in luogo salvatico e sterile, che non potrebbe con tutta la fatica dare da vivere agli abitanti... e per questo sono usciti fuori di loro terreno a cercare altre terre e provincie e paesi, dove uno e altro ha veduto da potersi avanzare un tempo, e fare tesoro, e tornare a casa: e andando a questo modo per tutti i regni del mondo e cristiani e infedeli, hanno veduto il costume delle altre nazioni... e l’uno ha fatto venire volontà all’altro, intanto che, chi non è mercatante e che abbia cerco il mondo e veduto le strane nazioni delle genti e tornato alla patria con avere, non è riputato da niente... ed è tanto il numero, che vanno per lo mondo in loro giovinezza, e guadagnano e acquistano pratica e virtù e costumi e tesoro, che tutti insieme fanno una comunità di sì grande numero di valenti e ricchi uomini, che non ha pari al mondo»[31]. Spesso i mercanti si trovavano soli a sostenere le pubbliche gravezze, e prestavano denaro ai nobili per grandeggiare, alla plebe per comprarsi derrate. Presero dunque animo non solo a voler parte nel Governo, ma ad escludere i possessori; e fu stabilita la _signoria_ di sei priori, obbligati a convivere in palazzo senza uscirne pe’ due mesi che duravano; e che uniti ai consigli delle arti maggiori, eleggevano i successori. Doveano appartenere ad un’arte, e perciò vi si faceano immatricolare anche i nobili e le casate di messeri che aspirassero al Governo; onde il Comune non si considerava che di artigiani e popolo. Ai priori presiedeva un gonfaloniere; ed erano serviti da tre grandi uffiziali forestieri, il podestà, il capitano del popolo, l’esecutore degli ordinamenti di giustizia. Tratto tratto i Fiorentini armavano per far prevalere la fazione guelfa, o si mescolavano nelle controversie di Lucca, Siena, Pistoja, Cortona, dove aveano luogo gli stessi avvicendamenti, nelle più prevalendo la democrazia. A Siena i Nove, difensori bimensili della comunità e del popolo, doveano essere mercanti: e così a Pistoja gli anziani, esclusi i nobili antichi e quelli che per alcuna colpa fossero registrati fra i nobili. Ad Arezzo s’erano ridotti i Ghibellini da tutta Toscana, sicchè la parte nobile erasi rialzata sotto il vescovo Guglielmo degli Ubertini. I Guelfi di Firenze vollero reprimerli, e avendo tutta Toscana preso parte di qua o di là, scontraronsi a Campaldino presso Bibiena (1289 — 11 giugno). Sul venire alla mischia, solevansi designare dodici paladini, che s’avventassero come perduti contro i nemici a capo della cavalleria, incorandola col loro esempio. A tale impresa il fiorentino Vieri de’ Cerchi, benchè infermiccio, nominò se stesso, poi suo figlio, indi non volle nominar altri; ma tanto bastò perchè a furia si volesse esser del numero, e cencinquanta domandarono d’entrare paladini. «Il vescovo (d’Arezzo), ch’avea corta vista, domandò: _Quelle che mura sono?_ Fugli risposto: _I palvesi dei nemici_. Messer Barone de’ Mangiadori da Sanminiato, franco ed esperto cavaliere in fatti d’arme, raunati gli uomini d’arme, disse loro: _Signori, le guerre di Toscana soleansi vincere per bene assalire, e non duravano, e pochi uomini vi moriano, chè non era in uso l’ucciderli... Ora è mutata moda, e vinconsi per istar bene fermi: il perchè io vi consiglio che voi siate forti, e lasciateli assalire_. E così disposono di fare. Gli Aretini assalirono il campo sì vigorosamente e con tanta forza, che la schiera de’ Fiorentini forte rinculò. La battaglia fu molto aspra e dura. Cavalieri novelli vi s’erano fatti dall’una parte e dall’altra. Messer Corso Donati colla brigata de’ Pistoiesi ferì i nemici per costa, onde erano scoperti: l’aria era coperta di nuvoli, la polvere era grandissima. I pedoni degli Aretini si metteano carpone sotto i ventri dei cavalli colle coltella in mano, e sbudellavangli, e de’ loro feritori trascorsono tanto che nel mezzo della schiera furono morti molti di ciascuna parte. Molti quel dì furono vili, ch’erano stimati di grande prodezza; e molti di cui non si parlava, furono stimati»[32]. I Fiorentini ebbero trionfo, ma nè per questo posarono dai tumulti. I nobili, confidenti nella pratica delle armi, mal sapeano piegarsi al freno della legge, soprusavano ai popolani, e quando alcuno avea commesso un delitto, tutta la sua famiglia compariva coll’armi allato, per sottrarlo alla giustizia. Il gonfaloniere vedeasi allora costretto armar la gioventù per punire a forza il delinquente. — Molti ne furono puniti secondo la legge, e i primi che vi caddero, furono i Galigaj; chè alcuno di loro fe un malificio in Francia in due figliuoli d’un mercatante, Ugolino Benivieni, che vennero a parole insieme, per le quali l’uno de’ detti fratelli fu ferito da quello de’ Galigaj, che ne morì. E io Dino Compagni (così racconta questo bravo cronista) ritrovandomi gonfaloniere di giustizia nel 1293, andai alle loro case e dai loro consorti, e quelle feci disfare secondo le leggi. Di questo principio seguitò agli altri gonfalonieri un malo uso, perchè, se disfacevano secondo le leggi, il popolo dicea che erano crudeli; che erano vili, se non disfaceano affatto: e molti sformavano la giustizia per tema del popolo». Giano della Bella, nobile eppure fattosi capo de’ popolani (1293), de’ quali personificò i risentimenti, «uomo virile e di grand’animo, che difendeva quelle cose che altri abbandonava, e parlava quelle che altri taceva», ebbe il coraggio che mancava alle società popolari per reprimere i grandi, e persuase a scegliere un gonfaloniere di giustizia con mille fanti, acciocchè coll’insegna popolare della croce rossa in campo bianco reprimesse vigorosamente i prepotenti. Sortito egli stesso a quell’illimitato uffizio, e giovandosi dell’essere i nobili in guerra gli uni cogli altri, proclamò ordinanze in costoro aggravio, «ed a vera e perpetuale concordia, unitade e conservamento e accrescimento del pacifico e riposevole stato degli artefici e delle arti e di tutti i popolani, e di tutto il comune e de la cittade e del distretto di Firenze». Fece escludere per sempre dagli uffizj cittadini trentasette casate magnatizie, e alla Signoria diede arbitrio di aggiungervi qualunque famiglia nobile demeritasse; e la legge prefiggeva si potesse arrolare fra i nobili soltanto _pro homicidio, pro veneno, pro rapina seu robaria, pro furtu, pro incestu_. Chi era così notato, dovea dare duemila lire per cauzione dei suoi portamenti, non uscire in tempi di tumulto, non possedere casa vicino a un ponte o ad una porta della città, non appellarsi da’ giudizj criminali, non accusare un plebeo, salvo per delitto contro la persona sua o di uno di sua famiglia; non testimoniare contro un popolano senza consenso de’ priori: ed i suoi parenti fino al quarto grado erano tenuti in solido delle multe impostegli. I borghesi furono divisi in venti compagnie da cinquanta uomini, poi da ducento, affinchè prontamente accorressero alla chiamata dell’armi. Si affezionò il popolo a tali _ordinamenti di giustizia_[33], col dare ne’ consigli generali qualche autorità alle _capitudini_, cioè ai consoli delle maestranze. Al tempo stesso la Repubblica estendeva la sua giurisdizione su Poggibonzi, Certaldo, Gambussi, Catignano; ritoglieva quelle che alcuni conti e cattanei teneano da antico, o aveano di fresco ricuperate. I nobili, sdegnatine, tanto più che consideravano Giano qual disertore, ricorsero ad ogni via di perderlo. Non osando l’assassinio per tema del popolo, gli opposero un signore che allegava diplomi dell’imperatore o del papa; ma meglio profittarono d’un artifizio non più disimparato, e pur testè da patrioti nostri non solo messo in pratica, ma insegnato a stampa, qual è di gettare sull’avversario politico la calunnia, affinchè coll’onore gli sia tolta credenza. Posero dunque Giano in sospetto al popolo, la sua severità imputando a tirannide; e poichè nel punire i malvagi (1295) egli volle proteggere il podestà contro un’insurrezione di piazza, fu espulso; e confiscatigli i beni, morì in esiglio. Non per questo rivalsero i nobili, e trovandosi messi dissotto della legge, ritiravansi dalla città, usando da tirannetti ne’ loro castelli. Per reprimere le due trapotenti famiglie dei Pazzi e degli Ubertini nel Valdarno superiore, i Fiorentini fabbricarono le tre fortezze di Terranuova, San Giovanni e Castelfranco, a lato ai coloro tenimenti, concedendo tante franchigie, che i sudditi di quelli e dei Ricàsoli e dei Conti e d’altri baroncelli vicini accorsero a farsi terrazzani di que’ castelli, per ciò prontamente cresciuti. Egualmente contro gli Ubaldini furono fabbricate Casaglia, Scarperia o Castel San Barnaba, Firenzuola, Barberino, assolto per dieci anni da imposizioni, e colla privativa ai magnati di potervi fare acquisti. CAPITOLO XCVI. Le Repubbliche marittime. Costituzione di Venezia. Firenze i Guelfi, Pisa capitanava i Ghibellini di Toscana. Il terreno che, abbandonato dall’acque, formò via via quella vasta pianura ed allontanò la città dal mare, diventava proprietà dei re d’Italia, i quali ne faceano larghezza alla chiesa o all’arcivescovo di Pisa, venuto perciò di ricchezza famosa e anche di estesa giurisdizione. Già la vedemmo «in grande e nobile stato di grandi e possenti cittadini de’ più d’Italia, ed erano in accordo ed unità, e manteneano grande stato, imperò che v’era cittadino il giudice di Gallura, il conte Ugolino, il conte Fazio, il conte Nieri, il conte Anselmo e ’l giudice d’Arborea; e ciascuno per sè tenea gran corte, e con molti cittadini e cavalieri a fiate cavalcavano ciascuno per la terra; e per la loro grandezza e gentilezza erano signori di Sardegna, di Corsica e d’Elba, onde aveano grandissime rendite in proprio e per lo Comune, e quasi dominavano il mare con loro legni e mercanzie» (VILLANI). Tra le famiglie pisane che dominavano in Sardegna, prepolleva quella de’ Visconti; agli Alberti obbediva la Capraja: altri, come i giudici d’Arborèa e i varj consorti della famiglia Gherardesca, aveano palazzo, corte, masnada propria nella città. Al modo poi che Genova sulle riviere, e Venezia sulla costa illirica, Pisa teneva possessi nella Toscana; ed Enrico VI le concesse tutti i diritti regj nella città e un territorio ricco di sessantaquattro borgate e castelli. Con Genova e Lucca disputava il possesso della Lunigiana, ed occupati i feudi dei vescovi e conti di Luni, vi rinnovò le cave del marmo, già anticamente conosciute, onde trarne per la cattedrale sua e per quella di Carrara[34]. Costante alla fede imperiale, vantaggiò della grandezza degli Svevi, soffrì dei loro disastri. Da Firenze obbligata a rivocare i Guelfi esigliati, questi colle loro ricchezze la risanguarono. Avendo i Pisani preso a protezione il giudice di Ginerca in Corsica (1282), predone che era stato battuto dai Genovesi, si esacerbarono le ire antiche fra le due repubbliche, agitate ne’ mari e negli scali del Levante. Nè vuolsi tacere come le due emule, affinchè non si dicesse aver l’una soverchiato l’altra di sorpresa, teneano un notaro ciascuna nella nemica, che informasse i suoi di quanto vi si preparava[35]. Dopo lungo manovrare, Nicolò Spinola si presentò colla flotta ligure alle foci dell’Arno; Rosso Buzzaccherini gli menò incontro la pisana; e settanta vascelli genovesi, e sessantaquattro pisani (numero portentoso!) si diedero la caccia con diversa fortuna. Pisa si trovò esausta dalle spese, ma vi sopperirono le illustri famiglie: i Lanfranchi armarono undici galee, sei i Gualandi, Lei, Gaetani, tre i Sismondi, quattro gli Orlandi, cinque gli Upezzenghi, tre i Visconti, due i Moschi; onde una flotta di centotre galee si accostò al porto di Genova scoccandovi freccie d’argento. Centosette galee salparono da Genova tra le benedizioni dell’arcivescovo e gli augurj patriotici, e scontrata la nemica alla Melòria (1284 — 6 agosto), banco rimpetto al colmato seno di Porto Pisano, la fracassò, prendendo anche l’ammiraglio Morosini e lo stendardo e il sigillo del Comune. Diecimila Pisani furono tenuti prigionieri a Genova sedici anni, non uccidendoli acciocchè le donne loro non potessero, rimaritandosi, di nuova prole risarcire la patria. Diceasi pertanto, chi voleva veder Pisa andasse a Genova; donde essi regolavano le sorti della patria; nuovi Regoli, la sconsigliavano dal cambiarli con Castro di Sardegna, fortezza fabbricata dagli avi e difesa con tanto costo; e giuravano, se a questo prezzo fossero redenti, si chiarirebbero nemici a que’ pusillanimi che avevano sagrificato l’onor nazionale al bene privato. Questo tracollo di Pisa lasciò in vantaggio i Guelfi di Toscana, i quali si congiurarono contro l’unica ghibellina sino a che fosse distrutta. Ed essa avrebbe avuto l’ultimo tuffo, se Ugolino conte della Gherardesca (terra montana lungo il mare tra Livorno e Piombino) non fosse colla sua abilità riuscito a scomporre la lega e riparare e munire Porto Pisano. Conservando dieci anni il dominio della patria, ottenne pace dai Lucchesi e Fiorentini; ma collo sbandire le famiglie ghibelline e demolirne i palazzi si attirò acerbissimi nemici e principalmente Nino di Gallura (1288). Rivangando antichi fatti, costoro diedero voce che alla Meloria, dov’egli era uno de’ capitani, avesse cospirato a perdere la battaglia per indebolire la patria; aggiungevano avesse compra la pace col tradire ai nemici le castella, ed ora impedisse ogni accordo coi Genovesi per timore non ripagassero i prigionieri. Anche l’arcivescovo Ruggeri degli Ubaldini, caldo ghibellino, gli si era avversato, pretendendo divider seco la dominazione: ed Ugolino, cinto da nemici e malcontenti, raddoppiava l’oppressione e cresceva l’odio. Un nipote osò dirgli quel che niun altro, cioè l’indignazione che eccitava l’eccesso delle imposte; e Ugolino gli s’avventò con un pugnale. Parò il colpo un nipote dell’arcivescovo, amico dell’altro; e Ugolino si svelenì su questo trucidandolo. Ruggeri prese accordo coi Gualandi, Sismondi, Lanfranchi, Ripafratta, e assalito il conte, lo chiusero nella torre de’ Gualandi alle Sette vie, con Gaddo e Uguccione figli suoi, e con Nino e Anselmuccio, figli d’altri suoi figliuoli, e quivi li lasciarono morir di fame. Ruggeri supremo allora in Pisa, e affidate le armi al conte Guido di Montefeltro, la Repubblica riprese gli antichi confini. A danno di Pisa armò novamente Genova (1290), che conquistò l’isola d’Elba, e con ventiduemila combattenti, di cui cinquemila aveano corazze bianche come la neve (CAFARO), distrusse Porto Pisano, ove entrò spezzando le catene, che pendettero in quella città, sciagurato monumento di fraterne guerre anche dopo strappati i trofei e i frutti della libertà. Alla pace Pisa rinunziò ai diritti sopra la Corsica e a Sassari di Sardegna. Genova sin da’ primordj erasi regolata come una società mercantile per via delle _compagnie_, che si costituivano all’uopo di mettere insieme una flotta o condurre un’azienda per due, sei, venti anni; e i consoli di queste erano spesso anche consoli del Comune. Imparaticcio di governo, e che pure compì tante imprese quante vedemmo, acquistò le Riviere e i possessi in Levante e prevalenza nelle vicende italiane. Allora l’amministrazione della città non potè più confondersi con quella d’interessi particolari, e fu affidata a capi annuali distinti, benchè eletti ancora dalle otto Compagnie, che partecipavano del governo in eguale porzione, e che sussistettero sempre, e divennero quasi il mezzo per cui i cittadini potevano nello Stato. Formata una di esse, chi si presentasse a darvi il nome fra undici giorni rimaneva abile ad impieghi pubblici; se no, non poteva comparire in giudizio fuorchè convenuto, nè alcun membro della Compagnia dovea servirlo sulle galee o patrocinarlo avanti i tribunali. Di ogni Compagnia un nobile veniva eletto a costituire il consiglio de’ Clavigeri, custodi e amministratori del tesoro, presto saliti a grande importanza. Al consiglio generale, che adunavasi in San Lorenzo, non sembra assistesse tutto il popolo, bensì i meglio considerati fra le Compagnie; il popolo era rappresentato dal cintraco o pubblico banditore, non per deliberare, ma per persuadere. I quattro consoli eletti dal popolo sovrano giuravano non fare guerra o pace senza consenso di questo, non permettere merci forestiere, eccetto il legname di costruzione e le munizioni navali, e rendere esatta giustizia. Questi consoli nel 1121 divennero annuali, e nel 30 furono distinti da quelli dei placiti, vale a dire il potere amministrativo si separò dal giudiziale; e fra essi consoli e il parlamento s’interpose il consiglio di Credenza (_silentiarii_) o senato, che riceveva le ambascierie, i ricorsi de’ paesi soggetti, ponderava gli affari più rilevanti. Dell’antica immunità vescovile rimanea vestigio nella _decima del mare_, che l’arcivescovo riscoteva su tutte le navi che approdassero con grano o sale; inoltre nel palazzo arcivescovile risedevano i consoli dello Stato e quelli de’ placiti, il senato, i consigli; i trattati si faceano in nome del vescovo e dei consoli, e molti feudatarj prestavano il giuramento prima a lui, poi al Comune; egli poi dominava in San Remo, sui marchesi Malaspina e su molti cittadini. Verso il mezzo di quel secolo, anche gli altri paesi della Liguria aspiravano ad esser detti genovesi, e i luoghi delle valli e de’ monti vicini s’incorporavano a Genova. I feudatarj giuravano il Comune, ed erano ascritti nel breve de’ consoli e sul libro delle famiglie consolari; se avessero signorie lontane o titoli di conti e marchesi, davanti al parlamento rinunziavano alla giurisdizione, chiedendo essere ammessi in qualche compagnia; e immatricolati che fossero, erano investiti di nuovo come vassalli dei diritti rinunziati, promettendo tener casa aperta in città, abitarvi tre mesi, servire in guerra con un prefisso numero di fanti, cavalli o marinaj: reciprocamente il Comune s’obbligava a proteggerli, nei mesi d’assenza non obbligarli a parlamenti, al trar delle navi, nè mai gravarli di maggiori imposizioni; e consentiva che ne’ loro feudi adoprassero i calzari e il manto purpureo. Le comunità indipendenti promettevano assumere le guerre e le paci de’ Genovesi: non concedere asilo a verun bandito, corsaro o nemico, non spedir navi da aprile a ottobre oltre Barcellona a ponente, nè oltre l’isola di Sardegna a levante, senza che andata e ritorno toccassero il porto di Genova; non molestare chi da questo o a questo veleggiasse; contribuire in data porzione alle spese di cavalcate, o d’armamenti navali, o di legazioni nelle parti marittime. Genova le prendeva in protezione, ne assicurava i privilegi, e confermava i magistrati ch’esse eleggevano[36]. Dalle guerre esterne e dal continuarsi le magistrature e le cariche delle compagnie nelle famiglie originò una nobiltà cittadina, la quale cagionò fazioni e brighe; e cinta di clienti, eresse torri e nutricò battaglie interne. E poichè a reprimerle non bastavano religione nè consoli, si ricorse qui pure ad un podestà forestiero, dandogli per assessori otto nobili. Attorno a Genova duravano molte piccole signorie. I Savonesi nel 1153 si resero quasi dipendenti da Genova, obbligandosi di venire con questa agli armamenti, alle cavalcate, alle collette, osservare i divieti posti da essa, non navigare oltre la Sardegna e Barcellona se non movendovi dal porto genovese e tornandovi. Nel 1121 avea Genova comprato Voltaggio dal marchese Gavi, nel 28 espugnato Montaldo, nell’83 fondato il castello di Porto Venere. Nel 91 da Enrico VI si fe cedere Monaco, benchè come parte della Turbìa fosse sottoposto ai vescovi e al Comune di Nizza: ma molti glielo disputavano, e Genova col pretendervi preparava un nido ai Grimaldi, che poi le diverrebbero infesti. Nizza era stata repubblica indipendente, divisa in città inferiore e superiore, che ebbero tra sè liti e compromessi[37] finchè venne a dominio de’ conti di Provenza, i quali altri castelli teneano in que’ dintorni. Raimondo Berengario II nel 1176 riconobbe i diritti del comune e dei consoli di Nizza, sicchè rimanessero indipendenti, salvo l’onore d’essi conti; e nel 1205 se ne cominciarono gli statuti[38]. Quei conti soffrivano di mal animo che Genova crescesse verso Nizza, e impedironle sempre l’acquisto di Monaco; ma essa nel 1215 mandò Fulcone da Castello con molti nobili sopra tre galee ed altri legni, coi quali fondarono quattro torri, congiunte da una cortina alta trentatre palmi, là dove poi fu il palazzo principesco. Nizza stessa in quell’anno giurò il Comune di Genova. Il porto che gli antichi chiamavano di Ercole Moneco, un miglio a levante di Nizza, era stato spopolato dai Saracini, talchè non serviva che di ricovero a pirati. Carlo II re di Provenza nel 1295 pensò fabbricarvi un nuovo borgo, che intitolò Villafranca, trasferendovi gli abitanti di Montolivo, colla promessa di cingerli di mura, edificarvi una chiesa a san Michele, condurvi una fontana, tenerli franchi da’ ogni imposizione, eccetto il ripaggio e la gabella quali costumavansi dai Nizzardi[39]. Robusti e fieri erano i conti Guerra di Ventimiglia, ne’ cui Stati San Remo obbediva all’arcivescovo di Genova. I conti Quaranta, i signori Casanova aveano signorie a Lingueglia e Garlenda e nel Castellani: i marchesi Taggiaferro di Clavesana in Porto Maurizio, Diano, Andóra: i del Carretto erano potentissimi da Capodimele ad Albissóla, e signori di Savona[40]. Comuni distinti formavano Albenga, Savona, Noli. I marchesi di Ponzone signoreggiavano Varazze, terra suddivisa poi tra un’infinità di condomini. Seguivano i tenimenti dell’abbazia di San Fruttuoso in Capodimonte. I conti di Lavagna dominavano, oltre Lavagna, sopra Sestri, Varese, val di Taro, e fin in Pontrémoli, e a ponente dell’Entella fino a Rapallo, e dall’altro lato fino a Brugnato e alla Magra; confinavano coi signori di Passano, e coi Malaspina della Lunigiana. Minori erano quei di Lagnoto e Celasco, di Rivalta, di Vezzano, di Trebiano; infine venivano i marchesi di Massa, il Comune di Lucca e l’emula Pisa. Più fra terra, Genova trovavasi a fianco il Comune di Tortona, i marchesi di Parodi, di Gavi, di Bosco, che giungeano fin al giogo di Voltri; i marchesi d’Incisa, di Ceva, di Garessio; i signori di Pornassio, i conti di Badalucco, di Maro, di Sospello; e più potenti quei di Monferrato e di Provenza[41]. Le due Riviere non tenevansi liete della supremazia di Genova, anzi Savona e più spesso Ventimiglia la rinnegavano, ed appoggiavansi all’emula Pisa. Tra la nobiltà castellana primeggiavano i Fieschi e i Grimaldi, dediti ai Guelfi o Rampini, e i Doria e gli Spinola ai Ghibellini o Mascherati; sommoveano la repubblica, reluttavano ai magistrati, a vicenda portavano le loro creature a podestà, abati, capitani della libertà; spingevano a minute guerre e spedizioni, calando o salendo a norma degli avvenimenti generali d’Italia, pei quali si mutava anche il governo interiore. Intanto ogni cosa andava in baruffe intestine, che empivano di violenze e delitti la città e le Riviere. Talvolta sorgeva un di costoro che sanno blandire il popolo, e a nome di esso procacciavasi suprema autorità. Allo spirare dell’amministrazione di Filippo Torriano, il popolo levò rumore (1257) pretendendo ch’egli avesse rubato, e che i sindacatori corrotti l’avessero assolto; essere tempo di finire le concussioni dei nobili; solo meritare la sua confidenza Guglielmo Boccanegra. E a spalle portatolo sull’altare di San Siro, lo proclamano capitano del popolo; la nobiltà cittadina è per lui, e lo vuole decenne, fin coll’arbitrio di nominare il podestà annuale; la nobiltà feudataria gli tien testa, ed egli la doma, eleva gente nuova, accarezza il vulgo, indi reso ardito, abusa del potere per farsi crescere il soldo e arrogarsi nuove prerogative, dà e toglie impieghi a capriccio, sprezza le deliberazioni de’ consigli, cassa le sentenze de’ tribunali. Aveva ordito d’incarcerare tutti i primani; ma questi ammutinandosi presero le porte acciocchè non potesse chiamar la gente di campagna, e lo abbatterono, concedendogli appena la vita per istanze dell’arcivescovo; e si tornò all’istituzione del podestà forestiero. Però il posto del capitano del popolo e Comune genovese fu scopo all’ambizione dei nobili, e causa di dispute incessanti. Parve un tratto (1262) che Roberto Spinola fosse per ciuffare il dominio supremo; ma quello sminuzzamento di ambiziosi che cagionava la contesa, impediva la tirannide d’un solo. Si credette ovviare le rivalità rendendo men arbitrario il modo di formare il gran consiglio, convenendo che ciascuna compagnia avesse ad eleggere cinquanta membri, i quali nominassero quattro consiglieri in un’altra compagnia, e questi trentadue destinassero i consiglieri urbani e gli otto. Le pretensioni delle famiglie toglievano ogni accordo durevole, sinchè nel 1339 il dominio dei nobili fu scassinato per sostituire le case popolane degli Adorno e Fregoso: ma i nobili tennero gran parte nelle magistrature, nell’amministrazione, sulle flotte, e collocandosi or coll’una or coll’altra delle fazioni predominanti, producevano una instabilità che non potea neppure risolversi in tirannia[42]. I primi stabilimenti genovesi in Corsica dimostrano piuttosto imprese di privati o dirette alla pirateria; ma nel 1195 la Repubblica v’acquistò San Bonifazio, riducendola a colonia con un podestà e con larghi privilegi. Nell’isola presero piede i fuorusciti di Genova, che poi avversavano la metropoli; tanto che il giudice Sincello di Pisa tornò a farvi prevalere la città sua, e i Genovesi si trovarono novamente ristretti a San Bonifazio. I vassalli pagavano una tassa sulla cera e metà del testatico, ed esercitavano giurisdizioni inferiori, dipendenti dal giudice: ma appoggiandosi gli uni a Pisa, gli altri a Genova, ne derivava anarchia, fomentata dai privilegi che quelle concedevano a gara per farseli amici. Di maggiore importanza stabilimenti ebbe Genova nel mar Jonio e nel Nero, e commercio estesissimo, come vedemmo e vedremo. Da cinquanta a settanta grossi vascelli salpavano ogni anno dalle prode liguri, portando droghe e altre merci in Sardegna, in Sicilia, in Grecia, in Provenza; altri assai con lana e pelli: e delle lucrate dovizie facevasi bella, comoda, forte la patria. Dal 1276 all’83 si compirono le due darsene e la grande muraglia del molo; nel 95 il magnifico acquedotto, traverso aspre montagne. Venezia, a seconda dei tempi, sviluppava i germi che v’avea deposti la sua origine. Il doge Vitale Michiel II volea reprimere la perfidia di Manuele Comneno col portargli grossa guerra: ma il popolo, che vedeva andarne a ruina il commercio, a tumulto l’impedì. Quando però le navi venete tornarono trafficando in Oriente, il Comneno le sorprese, confiscò il carico, imprigionò le ciurme. Allora il popolo schiamazzando chiede la guerra che schiamazzando avea repulso; il doge li seconda, ma le arti dell’imperatore rattepidiscono quell’ardore: intanto la peste si attacca alla flotta, e periti migliaja d’uomini, pochi legni tornano nelle lagune. Poichè nei disastri vuolsi una vittima, viene apposta ogni colpa al doge; e la plebe, che già n’avea veduto deposti nove, cinque accecati, altrettanti uccisi, nove costretti abdicare, trucidò il Michiel. Sei mesi s’indugiò a dargli un successore (1172), sentendo la necessità di porre un limite alla potenza d’un solo. L’estensione della città rendeva omai impossibile lo adunare tutti i cittadini, e tanto più il sorvegliare gli atti del Governo. Si pensò dunque a una rappresentanza, istituendo che di ciascun sestiere ogni anno si prendessero due elettori, i quali uniti scegliessero quattrocentottanta persone per formare un maggior consiglio, che avesse la sovranità della repubblica e nominasse tutti gli uffizj, persino i proprj elettori; col qual modo gli eletti riuscivano sempre delle stesse famiglie. A mezzo il secolo XIII l’annua rinnovazione facevasi non più da dodici elettori, ma da un collegio di quattro membri, che annualmente nominava cento nuovi consiglieri; e da uno di tre, che eleggeva successori a chi morisse o lasciasse altrimenti un vuoto. Nei casi che tutti dovessero concorrere ad alcuni pesi, convocavasi il popolo, che votava per acclamazione l’arrengo: unico resto della primitiva sovranità. L’elezione del doge fu attribuita a quarantun elettori con quella complicazione di estrazioni e scrutinj che altrove esponemmo (t. VI, p. 181); nè altra parte vi ritenne il popolo se non che egli era presentato a’ suoi applausi, e i mastri dell’arsenale lo portavano in sedia sulle spalle nella processione che tre volte l’anno circuiva la piazza San Marco. Cessavano dunque i dogi d’esser eletti col voto universale diretto; e d’allora nè essi più cospirarono per divenire sovrani, nè il popolo li trucidò. Giuravano adempiere i loro doveri, quali erano espressi in una _promissione_: d’obbedirli giurava il popolo, in cui vece poi il giuramento fu prestato dal sindaco che ciascun sestiere eleggeva ogni quattr’anni e che rispondeva dei delitti commessi nel suo sestiere. Il doge, personificando l’autorità tutrice della pubblica salvezza, dovea rappresentare, non operare; veruna risoluzione prendendo senza il concorso di sei consiglieri, annualmente scelti dal consiglio maggiore, un per sestiere, detti poi la _signoria_. In casi pe’ quali non si avesse esempio precedente, o concernenti il credito pubblico ed il commercio, o qualora stimasse opportuno avere il parere o il consenso di cittadini creduti, e farsene appoggio nell’opinione, pregava alquanti a venire a sè: forma occasionale, che poi, dogando Jacopo Tiepolo, divenne stabile nella costituzione coi sessanta _pregadi_ o senatori, non più scelti dal doge, ma dal gran consiglio colle forme consuete. In tal modo i nobili trovaronsi partecipi del governo, e cominciò il famoso senato. Forse dal riunire le molte corti che giudicavano a principio nelle varie isole, venne a formarsi la corte suprema della _quarentìa_ criminale, che giudicava collegialmente, invece dell’unico podestà adoperato dai Comuni lombardi. Essendo la quarentìa chiamata a pronunziare negli affari di Stato, acquistò attribuzioni politiche come collegio intermedio fra la Signoria e il maggior consiglio, e ponderava le proposizioni di quella, prima di esporle a questo. I tre capi della quarentìa si resero poi membri perpetui della Signoria. Preso un partito, il maggior consiglio ne affidava l’esecuzione alla Signoria, cioè al doge col suo consiglio di sei, ovvero ai Quaranta. Il suggello dello Stato rimaneva presso il cancellier grande, scelto non da case nobili ma cittadine, supremo notajo degli atti legislativi, presente al maggior consiglio e a tutte le solennità, insigne per onorificenze ed emolumenti, fin ottantamila ducati l’anno traendo dalle propine; ed essendo inamovibile, restava indipendente dal doge, al quale appena cedeva in dignità. Tre avogadori del Comune, specie di tribuni del popolo, patrocinavano la parte pubblica nelle cause di Stato e nelle particolari, vegliando alla legalità, alla riscossione delle tasse, alla nomina dei magistrati, al buon ordine; tenevano i registri di nascita dei nobili; e il loro veto sospendeva per un mese e un giorno gli atti di qualunque magistratura, eccetto il maggior consiglio, e tre volte potevano ripeterlo, dopo di che esponevano i motivi della loro opposizione. Tre volte già era stato riformato lo statuto veneto allorquando Jacopo Tiepolo nel 1232 ne pubblicò un nuovo, detto _Promissione del maleficio_; poi dopo dieci anni fe raccogliere le vecchie leggi, correggerle e disporle; e furono pubblicate in cinque libri, che con sempre nuove aggiunte formarono il codice della repubblica. Raccontavasi che Alessandro III, quando vi venne a conferenza col Barbarossa, donasse al doge un anello dicendo: — Il mare vi sia sottomesso come la sposa al marito, poichè colle vittorie ne acquistaste il dominio». Di qui la festa dell’Ascensione, quando il doge sullo splendido bucintoro andava a sposare il mare, gettandovi un anello, e dicendo: _Desponsamus te, mare, in signum veri perpetuique dominii_. Considerandosi perciò quai signori dell’Adriatico, i Veneziani vollero imporre una gabella a tutte le navi che ascendessero oltre una linea tirata da Ravenna al golfo di Fiume. Era senz’esempj questo chiudere un mare, comune ai costieri; e ne vennero guerre, massime coi Bolognesi, che però furono ridotti a rassegnarsi. Più tardi Giulio li pretese privarneli, e avendo detto all’ambasciadore Girolamo Donato, mostrasse il documento che attribuiva il golfo alla repubblica, questi rispose: — Sta scritto sul rovescio della donazione fatta da Costantino a san Silvestro». Il qual motto accenna la franchezza che Venezia tenne sempre a fronte della curia romana; poichè mai non lasciò trascendere le pretensioni clericali, e conservò sempre alta mano sopra le chiese, quantunque mostrasse spiriti religiosi, e molti dogi abdicassero per ritirarsi in monasteri, tra’ quali Pietro Ziani lasciò a cento chiese o luoghi pii onde facessero uffizj per l’anima sua. Più tardi Clemente V vietò il commerciare cogl’infedeli, gravando i trasgressori d’una multa per la camera apostolica. Non vi badavano i Veneziani; ma molti in articolo di morte non ottenevano l’assoluzione se non soddisfacessero a questa multa, che talora assorbiva l’intera sostanza. Il governo però non lasciava che tal denaro uscisse, e quando Giovanni XXII (1322) mandò due nunzj per raccorre quelle postume penitenze, o scomunicare chi le negava, intimò loro di partire. Il papa interdisse i contumaci, citandoli ad Avignone; ma implicato col Bàvaro, non potè dar seguito a quest’atto, e Benedetto XII concesse dispense per far mercato cogl’Infedeli. Quando sorse la quistione dei Tre Capitoli, dal patriarca d’Aquileja scismatico si staccò il patriarca di Grado, al quale obbedirono Venezia e le terre suddite. Alla pace con Alessandro III tenne compagnia una concordia fra i due patriarchi, rinunziando il gradense alle ragioni sulla provincia di quello e sui tesori che avea rapiti alla sua chiesa. Nicolò V consentì che la dignità patriarcale da Grado si trasportasse alla cattedrale di Castello di Venezia, e san Lorenzo Giustiniani ne fu il primo patriarca: intitolavansi anche primati della Dalmazia. Le singole isole avevano fin dall’origine tribuni proprj, e alla greca divideansi in iscuole di mestieri, non dipendenti una dall’altra. Dopo che a tutte fu preposto il doge, non si alterò l’interno ordinamento, e i tribuni, mutati in massaj o gastaldi, deliberavano ciò che convenisse rispetto alla guerra, al commercio, all’interna amministrazione. Nelle scuole di rado era ammesso un forestiere, sicchè restavano separati i nuovi popolani dagli originarj, che soli avevano voce all’elezione del doge ed al governo. Gli antichi nobili traevano vigore dall’ingerenza loro in questi Comuni, coi quali venivano considerati identici, essendo con essi cresciuti; e con ciò metteano forte inciampo al doge, che perciò volgevasi piuttosto alle cose di fuori. Enrico Dandolo, robusto d’animo e irremovibile di proposito, ampliò la potenza di Venezia, procurando farla in Levante prevalere ai Pisani, poi acquistando un quartiere di Costantinopoli (1204) e un quarto e mezzo del greco impero[43]: signoria disseminata sulle coste o nelle isole, fra cui principale era Candia. I Veneziani accasati a Costantinopoli ricevevano dalla metropoli un podestà, dipendente dal doge e dal maggior consiglio, ed avevano essi pure un grande e un piccolo consiglio, sei giudici per gli affari civili e criminali, due camerlinghi per amministrar le finanze, due avvocati per le controversie del fisco, e un capitano della flotta, tutti spediti da Venezia. In modo eguale o simile erano costituite le altre colonie, e poichè i magistrati di esse dipendeano dalla Signoria, il doge poteva esercitarvi fattività impeditagli in patria, aveva entrate indipendenti dai cittadini, faceasi corteggiare dai nobili che ambivano quei lucrosi impieghi, e che dai conquisti d’alcune famiglie erano intalentati a farne di nuovi. In effetto molte famiglie presero stanza nelle isole e sulle coste, dal che veniva consolidamento all’aristocrazia. Ma questa non derivava, come altrove, dalla conquista, bensì dal credersi discendenti dai primi che dalla terraferma passarono sulle isole, e crearono il terreno della patria; il sistema feudale e i diritti nati dal possesso stabile ignoravansi, territorj non avendo. Altri, segnalatisi nelle magistrature, aveano trasmesso alle famiglie il lustro personale; altri s’erano arricchiti col commercio e con possedimenti nelle isole e in terraferma, che non conferivano diritti politici: sicchè ne venne una nobiltà non oziante e pericolosa, ma che poco a poco acquistava privilegi; ben distinta da’ plebei, eppure legata a questi mediante una specie di patronato, che contraevasi col divenirne compari, e col prenderli in protezione quando aspirassero a far passata. Trattando però coi cavalieri di Francia nella crociata, i nobili videro come si potea soperchiare la plebe, spogliandola d’ogni diritto; nei governi stranieri contraevano l’abitudine del primeggiare, onde finivasi con prendere in dispregio gl’ignobili. Più nulla contando il popolo nelle elezioni, il doge non dovea che blandire il maggior consiglio, da cui era creato. D’altra parte, osservando le repubbliche del continente straziate da fazioni e terminanti in tirannia domestica, alcuni desideravano la sovranità si confinasse in pochi, e proposero di non ammettere nel gran consiglio se non quelli che vi sedeano allora, e di cui v’erano seduti il padre, l’avo e il bisavo. Il doge Giovanni Dandolo, comunque di famiglia antichissima e insuperbita dalle conquiste e perciò mal veduta, si oppose a tal restrizione, e ne seguirono parteggiamenti e sangue. Lui morto, mentre i quarantun elettori deliberavano (1289), la moltitudine, già esacerbata per un balzello sulla macina, cominciò a gridare alle usurpazioni de’ nobili, che del doge, magistrato del popolo, aveano formata la creatura loro, e proclamò Jacopo Tiepolo, di cui già erano stati dogi il padre e l’avo. Con quest’aura popolare egli avrebbe potuto divenire un tirannetto, come gli altri d’Italia: ma o magnanimo a sagrificar l’ambizione alla libertà della patria, o pusillanime a non affrontare i rischi d’una rivoluzione forse da lui fomentata, andò esule volontario, e gli oligarchi riuscirono a metter doge Pier Gradenigo, uomo ancor fresco, incline ad umiliare il popolo e i nuovi nobili sotto una nobiltà ereditaria, al che il tempo gli diede opportunità. L’ingrandirsi di Venezia eccitava gelosia a Genova e a Pisa. I Genovesi le mossero anche aperta guerra in Tolemaide, ma a loro grave costo: poi per contrariarla favorirono i Greci, a danno degl’imperatori Franchi di Costantinopoli; quando questa fu ripresa, molti vantaggi stipularono, e fecero chiudere ai Veneziani le tre vie dell’Eusino, dell’Egitto, della Siria. Ne derivò lunga nimistà, che alfine fu composta per le cure del papa: ma scoppiata di nuovo, l’imperatore Andronico II Paleologo ne tolse occasione di far catturare i Veneziani; e i Genovesi mossero addosso ai prigionieri, e li trucidarono. Per vendetta (1293) Ruggero Morosini menò sessanta galee veneziane a saccheggiare gli stabilimenti de’ Genovesi, prese e demolì Pera, ove teneano quartiere, ed assalse il palazzo imperiale; intanto che un’altra flottiglia distruggeva Caffa, e per tutti i mari predava i legni e sovvertiva le colonie di Genova. Le due flotte si scontrarono davanti a Cùrzola (8 7bre), isola di Dalmazia; e i Genovesi, governati da Lamba Doria, tant’erano sbaldanziti, che proposero abbandonare ai Veneziani le navi, purchè andasse salvo l’equipaggio. Avuto il no, assumono il coraggio della disperazione, e vincono, da diecimila nemici uccidono, seimila fanno prigionieri, fra’ quali Marco Polo e lo stesso Andrea Dandolo ammiraglio, che, non sapendo darsi pace della perdita d’una battaglia attaccata contro sua voglia, diè del capo nell’antenna nemica e finì. Genova esultò; stabilì che ogni 8 settembre la Signoria andasse offrire un pallio di broccato d’oro in San Matteo, dove si fabbricherebbe un palazzo all’ammiraglio vincitore. Ma Venezia non isbigottì, anzi, crescendo animo a misura della perdita, ebbe subito in acqua cento altre galee, chiamò macchine e piloti da Catalogna, accolse i Guelfi fuorusciti di Genova; e Domenico Sciavo, già illustratosi nelle guerre di Romelìa, portò il terrore nelle flotte genovesi, entrò fin nel porto della nemica, e su quel molo (1294) battè moneta ed eresse un monumento di disonore. Interpostosi Matteo Visconti, fu fatta una pace perpetua, che ciascun capitano di nave dovea giurare prima di mettere alla vela. Questi casi diedero prevalenza all’aristocrazia. Venezia, vascello ancorato nelle lagune, viveva tutta delle relazioni sue coi forestieri, onde non poteva abbandonarsi alla marea popolare, ed aveva mestieri di sguardo attento, freddo calcolo, severa e coerente politica, di un’energia sostenuta, d’un accentramento di forze, quale non si può ottenere dalla moltitudine. Venne dunque consolidandosi il predominio costituzionale dell’aristocrazia, e massime in questa guerra, di cui ad essa toccavano le spese, i comandi, la gloria; onde con tal vento essa mandò in porto una legge tutta a suo favore. Sebbene il maggior consiglio eleggesse i proprj membri, asserivasi che da tempo la scelta cadeva sempre nelle stesse famiglie; onde il doge Gradenigo, uomo fermo, superiore alle vociferazioni del popolo e avverso a questo perchè gli negò gli applausi, propose quel che altre volte era stato respinto: non si esaminasse più se i membri delle famiglie allora sedenti nel gran consiglio dovessero esser rieletti, ma se meritassero d’essere esclusi; il qual giudizio si farebbe dal primo tribunale dello Stato. Adunque i giudici della quarentìa ballottarono un per uno quelli che negli ultimi quattro anni avevano partecipato al consiglio; e chi riportò dodici dei quaranta suffragi, vi era confermato per un anno; dopo di che eleggevansi i successori alla stessa maniera; tanto per non levare tutte le speranze, s’aggiunse una lista di supplimento con nomi di altri cittadini (_de aliis_) da ballottare occorrendo. L’elezione del consiglio sovrano, allora di circa cinquecento membri, si trovò dunque trasferita dal popolo nel tribunale criminale: quando poi si proibì di ammettervi _uomini nuovi_, restò costituita una nobiltà privilegiata ereditaria, escludendone anche casate opulente ed antichissime, quali i Badoero, per l’accidente che nessun di loro sedeva in quell’anno nel consiglio. Infine fu tolta la periodica rinnovazione di questo, ed aboliti gli elettori col deliberare che, chi possedesse le richieste condizioni, a venticinque anni fosse dalla quarentìa registrato, e così entrasse nel gran consiglio. Il quale, non più riempito che di nobili, al solo vantaggio de’ nobili provvide, senza che rimanesse nè contrappeso alla podestà loro, nè speranza al merito: presto ammutolita anche l’opposizione degli avogadori del Comune, l’aristocrazia restò ereditaria. La nobiltà esclusa dal maggior consiglio si arrovellava; reclamò, e vide i reclamanti appiccati[44]; sicchè, non avendo legittima via d’opposizione, ricorse alle trame onde acquistare non eguaglianza con tutti, ma privilegi con pochi. Bajamonte (1310) figlio di Jacopo Tiepolo, personalmente avverso al doge, unito colle famiglie Querini che pretendea discendere da Galba imperatore, Badoero che erano i Participazj sette volte dogi, Barbaro, Maffei, Barozzi, Vendelini ed altre, che affettarono il nome di Guelfi e la protezione della Chiesa, congiurarono di occupare la repubblica e ripristinare l’annua elezione. Armi molte teneva ogni casa, sì per lusso, sì per proteggere i commerci marittimi: Padova prometteva ajuti. Ma il doge ne seppe, e li prevenne; adunò in piazza San Marco le poche forze e gli arsenalotti; si battagliò per le vie, e molti anche de’ principali perirono; Bajamonte, che si sostenne alcun tempo in Rialto, ricusò il perdono offerto, e andò a morire fra i Croati. Degli altri catturati si fece sanguinosa giustizia; sui profughi si lanciarono taglie e sicarj; abbattuti i palazzi e cassati i nomi dei Querini e dei Tiepolo[45]. Onde prevenire simili attentati, s’istituì la magistratura de’ Dieci, con arbitrio sulla vita e l’avere dei cittadini e del pubblico. Era una commissione straordinaria; ma seppe allungare i processi e concatenare gli indizj tanto, che fu dichiarata stabile, e «tenacissimo vincolo della pubblica concordia». Novità tentò pure Marin Faliero, d’una delle tre più antiche case di Venezia. Violento uomo, stando podestà a Treviso avea schiaffeggiato il vescovo in pubblico perchè tardava a uscire in processione; poi fatto doge (1354), e a settantasei anni sposata una bella fanciulla, su tal conto ricevette una beffa sanguinosa da Michele Steno, uno dei tre capi della quarantìa; e non potendo ottenere altra soddisfazione che di vederlo fustigato a code di volpe e sbandito per un anno, tramò. Vecchio, arrivato al posto maggiore cui l’ambizione potesse aspirare, per mero dispetto si collegò con persone di poco conto, con Bertuccio Israeli ammiraglio dell’arsenale, cioè capo de’ lavoratori, e collo scultore Filippo Calendaro, plebei molto ascoltati fra il popolo; del quale esageravano i sofferimenti, incolpandone l’aristocrazia, ed invogliando a scassinarla. Tutto era disposto per una sollevazione ove trucidare tutti i nobili, quando i Dieci n’ebbero spia, e il Faliero (1355 — 17 aprile) convinto fu decapitato là dove i dogi prestavano il giuramento; ai complici le forche, al popolo ribadite le catene, e stabilito che _arengo_, cioè il parlamento generale, «nè per messer lo dose nè per altri pol esser chiamado, salvo che, creando el dose, debba esser chiamato arengo a pubblicar la creation secondo usanza». Era il tempo che si vedevano per tutta Italia le repubbliche soccombere a tiranni; e questo tentativo facea temere altrettanto a Venezia. Si moltiplicarono dunque le cautele; e al doge, da capo della Repubblica ridotto a delegato di pochi, si legarono sempre più le mani; e cinque _corregidor della promission dogale_ ne’ patti da imporre a ciascun nuovo doge introduceano variazioni ed esponeano le riforme di governo che paressero opportune; tre _inquisitori del doge morto_ ne sindacavano gli atti a confronto del giuramento prestato. Il quale di volta in volta restringendosi, venne ad essere una rinunzia a tutte le antiche prerogative, e quasi anche alla personale libertà. Il consiglio del doge non fu più scelto da lui, ma dal senato; infine lo si volle confermato dal parlamento; i sei membri rinnovavansi metà ogni quattro mesi, nè mai doveano esser due del cognome o del sestiere stesso; aprivano le lettere dirette al doge, rimettendole per lo spaccio ai diversi uffizj; facevano le proposte in senato e nel maggior consiglio, e il doge non avea maggior voto che uno di essi. Perchè poi la sovranità fosse invigilata dall’amministrazione, si stanziò che i tre capi della quarantìa sedessero coi sei consiglieri a parte de’ loro uffizj. Il doge più non potè ricevere ambascerie o lettere da’ forestieri, nè carte da sudditi, se non presente il suo consiglio; non rispondere tampoco sì o no senza consultato con quello; non permettere che alcun cittadino gli piegasse il ginocchio o baciasse la mano; non soffrire altro titolo che di _messer il doge_; non possedere feudo, censo, livello o beni stabili fuor del ducato, cioè delle isole e del poco litorale tra le foci del Musone e dell’Adige; non isposare straniera, nè con stranieri ammogliare i figli senza permissione; nessuno poteva occupare impiego finchè stesse a’ suoi stipendj e un anno dopo. Al decorato pupillo rivedeansi ogni mese i conti, e se dovesse ad alcuno, gli era trattenuto del soldo: gli si prescrisse perfino di non spendere più di mille lire nel far ricevimento di stranieri; i primi sei mesi comprasse un vestone di broccato d’oro, nè egli nè la moglie o i figli accettassero regali. All’elezione di Nicola Marcello (1473) fu imposto che, vivo il doge, figli e nipoti suoi non potessero accettare uffizio, benefizio o dignità in vita o a tempo, nè sedere in verun consiglio, salvo il grande e i pregadi, ove pure non aveano voce; soltanto nei Dieci potea entrare un fratello del doge. Questa gelosia da serraglio era estesa su tutta la nobiltà, vietandole di sposare straniere, nè coprire pubbliche funzioni fuori, o servir principe o Stato estero in guerra o in pace, nè tampoco possedere sul continente d’Italia: legge vissuta finchè Venezia non venne dominatrice della terraferma. Neppure i comandi degli eserciti poteano avere; e dopo che, nella guerra di Padova, furono affidati a Pietro de Rossi già signore di quella città, sempre il generale fu un mercenario, vigilato da _provedidori_ scelti fra’ patrizj. Principalmente addosso ai nobili pesava la severità dei Dieci, piuttosto freno all’aristocrazia che stromento di tirannide sovra il popolo. Componevano quel consiglio il doge, sei consiglieri ducali e i Dieci, tutti con voce deliberativa; illegale la loro adunanza se non fosse presente un avogador del Comune. Duravano un anno, e un anno restavano in contumacia; erano eletti pochi per volta dal maggior consiglio, e durante quella magistratura non poteano ricevere altro uffizio; l’accettare stipendio o premio saria costato il capo. Le denunzie segrete v’erano ricevute, come da tutti i magistrati, ma richiedeano esame e prove. Il 28 gennajo 1432 _andò parte_ che «se da ora innanzi alcuno o alcuni dei nobili nostri, da sè o col mezzo di altri, sotto alcun pretesto, colore, modo, forma o ingegno che dire od immaginare si possa, oserà fare qualche setta, confederazione, compagnia od altra intelligenza chiara od occulta, colle parole o coi fatti, con giuramento o senza, per ajutarsi l’un l’altro ne’ nostri consigli, siano banditi perpetuamente; e se tornino dal bando, condannati al carcere in vita». Simile tenore tengono le leggi dei Dieci, tutte dirette a reprimere i nobili con procedura compendiosa: inoltre esercitavano un’alta polizia sul popolo, sui trattati più secreti, sui falsatori di gioje o di monete, sui giuochi, sulle spie; qualunque affare non civile riguardasse il clero, le sei grandi confraternite della città, le feste, i boschi, le maschere, le gondole, era di loro competenza; ai loro decreti obbligavano il senato e fino il gran consiglio; disponevano dell’erario, davano istruzioni ad ambasciadori, a generali, a governatori, modificavano la promissione ducale. In occasione del processo contro Marin Faliero chiamarono una _giunta_ di venti gentiluomini, che poi restò permanente sino al 1582, e fu gran rinfranco al loro potere. Questo concentrare la direzione dello Stato e dei poteri diede estrema autorità e forza al Governo; questa vigilanza impedì che persone o famiglie s’arrogassero la sovranità. Ma una procedura, ove non erano leggi conosciute nè pene prefisse, ove i testimonj non erano confrontati nè nominati tampoco, non offriva assicurazioni alla società o all’individuo, schiudeva il campo alla perfida delazione e al pagato spionaggio, stabiliva il despotismo per conservare il Governo. Non lasciamoci però sgomentare dalle declamazioni, e ricordiamo che i Dieci dopo un anno ricadevano sotto le leggi comuni; oltre i segretarj dell’ordine cittadino, vi assistevano da cinquanta a sessanta persone, tolte dai principali consessi dello Stato, e l’avogador potea sospenderne gli atti; i giudizj erano segreti, ma scritti; al convenuto non negavasi un difensore; il gran consiglio poteva modificare quello dei Dieci o anche spegnerlo con non rinnovare le nomine; il popolo poi lo gradiva come salvaguardia contro i soprusi dei patrizj; questi se ne consolavano colla speranza di arrivarvi. Nel 1454 il consiglio dei Dieci scelse tre inquisitori di Stato, due neri dal proprio seno, ed un rosso tra i consiglieri del doge, i quali incoavano i processi, esercitavano un’alta polizia su qualsifosse persona, neppur eccettuati i Dieci, e in unione con questi potevano punire di morte secreta o pubblica, disporre della cassa senza render conto[46]. Tale costituzione si andò sviluppando in tempi più tardi di quelli che ora narriamo; ma noi la volemmo qui raccolta a intelligenza della storia futura di quella grande e calunniata Repubblica. Il tempo fe dimenticar la violenza con cui si era stabilita l’aristocrazia, la quale consolidata, si occupava molto delle relazioni politiche, e v’acquistava prudenza e accorgimento. Diceansi vecchie le casate anteriori all’800, nuove le aggregate posteriormente. Sedici di queste ultime, cioè Barbarighi, Donati, Fóscari, Grimani, Gritti, Lando, Loredani, Malipieri, Marcelli, Mocenigo, Moro, Priúli, Trevisan, Tron, Vendramin, Venier, nel 1450 congiurarono di non lasciar più salire doge alcuno delle casate antiche: almeno tale opinione corse, e in realtà nessun più ne fu eletto fin al 1612, quando inaspettatamente fu sortito Marcantonio Memmo. Allorchè il doge era presentato, si cessò di domandare al popolo — Vi piace?» ma l’anziano degli elettori dicea: — So che vi piacerà»; invece del sindaco che gli prestasse giuramento a nome del popolo, bastò il gastaldo o, come diceasi dal vulgo, _il doge de’ Nicolotti_, capo de’ pescatori. Pure chiunque abitava Venezia potea darsi a credere d’aver parte alla sovranità, perchè era chiamato padrone; donde quella riverenza verso la patria e i capi di essa, che faceva identiche la volontà propria e la legge, e disponeva a qual si fosse sacrifizio pel conservamento di essa. Il popolo dapprima dividevasi in convicini e clienti, ossia ottimati e plebei: serrato il maggior consiglio, gli esclusi formarono un terz’ordine, detto de’ cittadini originarj, a distinzione dai cittadini d’acquisto, i quali abitavano Venezia da meno di venticinque anni. Ai soli originarj competeva la piena cittadinanza, e il prezioso diritto di far commercio marittimo sotto la bandiera di San Marco, e così l’aspirare agl’impieghi cittadineschi, il supremo dei quali era il cancellier grande; seguivano gli altri della cancelleria dogale, le cariche nelle maestranze e nelle numerose confraternite, alcune legazioni ed i consolati in terra forestiera. Il commercio rimaneva tutto a’ cittadini, escludendone i nobili perchè avrebbero potuto soperchiare. Pura plebe restavano gli artigiani, i mercanti, i medici, gli arsenalotti, corporazione robusta. A soli vecchi permetteasi di fare il rivendugliolo. Nè tampoco trovavasi schiusa la via dell’armi, giacchè queste erano affidate a mercenarj o a sudditi. La sicurezza individuale, la prosperità assicurata al commercio, l’adito alle magistrature, erano compensi alla nullità de’ cittadini. Come in tutte le aristocrazie, badavasi a fare star bene il popolo; donde quelle splendidissime istituzioni di carità, che in parte ancora sopravivono a tante dilapidazioni; e le ricchezze dei monasteri e delle confraternite, corpi morali che, non avendo bisogno di far avanzi, tornavano a vantaggio della plebe. Questa tenevasi attaccata ai patrizj, non solo col patronato della ricchezza e de’ servigi, ma coll’avere ciascuno fra quelli il suo compare; prodigava gl’inchini e i titoli d’eccellenza, non mettendo limiti alla sommessione nè decoro nella riverenza; quanto l’odierna plebe di Londra, obbediva a un semplice cenno del messer grande, bargello che, col suo berretto segnato dallo zecchino e dalla mazza, bastava a mantener l’ordine nelle affollatissime feste. Le quali erano nuova occasione di mescolare ricchi e popolani, sudditi e magistrati, fosse alle sagre di Santa Marta o del Redentore, ove si confondeano nelle cenette improvvisate, fosse all’Assensa, dove il trionfo del gondoliere lo facea carezzare da’ nobili, fosse quando il pescatore di Poveglia o il vetrajo di Murano era perfino ammesso a baciare il principe. Le rivalità fra Castellani e Nicolotti, abitanti delle due parti della città, riduceansi il più spesso a gare di meglio valere nelle regate o alle forze d’Ercole; e se prorompevano in risse, l’indulgenza patrizia le perdonava, quantunque fossero costate sangue. I sudditi d’oltremare venivano trattati come conquista, vilipesi, immolati al monopolio della dominante; se ne fortificava il paese quanto bastasse per tenerli in soggezione, non per garentirli dai nemici; non vi si lasciavano tampoco le cariche municipali; e il mandarvi il podestà e il capitano del popolo offriva un modo di occupare i nobili, e cogl’impieghi fuori risarcirli della oppressione che in patria cresceva. Di fatto da tali colonie venne un alteramento alla costituzione, introducendo un’altra nobiltà, meno dipendente dalla Signoria, e che avrebbe potuto emanciparsi se non fosse stata impedita dalla vigilanza degli Inquisitori. I sudditi di terraferma stipularono prerogative quando si diedero alla repubblica; appoggiati alle quali, conservavano i prischi statuti, le procedure, sin gli uffiziali antichi, e l’attentarvi era caso di Stato, competente al tribunale dei Dieci. La nobiltà vi formava un corpo con privilegio ed autorità, ma per nulla partecipe al dominio; perciò odiava l’aristocrazia veneta, della quale trovavasi pari in grado, suddita in diritto: e fu uno de’ maggiori sbagli del veneto Governo il non provvedere, come Roma antica, a fondere il meglio della nobiltà di terraferma colla imperante, col che avrebbe risanguato questa di famiglie e di denaro, e congiunto i dominati coi dominanti. Vi andava da Venezia un podestà, che durava sedici mesi, e a cui era sottoposto il consiglio dei nobili, che rappresentava ciascuna città: al capitano, pure spedito di là, era sottoposta la rappresentanza territoriale, eletta dai diversi Comuni. Ogni città ed ogni territorio teneva nunzj a Venezia per tutelarne gl’interessi; i luoghi minori sovente sceglievano a patrono qualche Veneto de’ più illustri e poderosi. Alle fortezze comandava un provveditore, dipendente dal capitano della provincia. Nelle città di terraferma il consiglio era composto di soli nobili: ma alcune, come Padova, tra questi ammettevano famiglie nuove, mediante lo sborso di cinquemila ducati; spediente finanziario che apriva un adito alle case venute su. Generalmente ne restavano esclusi quelli che fossero debitori verso il pubblico. A Verona il consiglio era di cencinquantadue nobili, trenta de’ quali ogni anno restavano _in vacanza_; dei cenventidue rimanenti, cinquanta duravano in uffizio tutto l’anno: degli altri settantadue una muta ogni due mesi formava il consiglio dei Dodici, che coi cinquanta interveniva al consiglio: ogni anno i cinquanta passavano nelle mute, e quei delle mute nei cinquanta, uscendone trenta per dar luogo a quelli in vacanza; ai morti o assenti per carica si suppliva col trarne dei nuovi a sorte. In qualche città ogni nobile aveva entrata al consiglio e voce negli affari di maggior rilievo; al quale consiglio, oltre il votar le imposizioni e amministrarle, e fare decreti pel buon ordine, competeva l’eleggere a tutte le cariche comunali. Anche la giustizia rendeasi da collegi paesani, e secondo statuti proprj; e lo statuto di Verona meritò venir inserito nelle _Repubbliche_ degli Elzeviri; e vogliamo ricordare come imponeva che le liti tra parenti fossero compromesse in arbitri, i quali risolvessero senza strepito di giudizio e inappellabilmente. Tenuissime le tasse, riducendosi a un lieve testatico e all’imposta sulle macine; anzi la Dalmazia costava di gran lunga più che non fruttasse, se non che procurava grande attività di commercio. I magistrati erano piuttosto molli che tirannici; poteano accusarsi di negligenza nel proteggere e punire, anzichè di prepotente intervenzione; e qualora si dubitasse di mal governo, vi si spedivano sindaci inquisitori. Tutto era dunque preparato per la conservazione, e niuno Stato sciolse più insignemente questo problema, durando per secoli senza quasi rivoluzione, e meritando perciò le lodi de’ politici nostrali e forestieri. Alla conservazione e all’incremento della metropoli si dirizzavano i sentimenti e le forze, vi si sagrificava tutto, persino la libertà; e se si ponga mente alla contentezza de’ sudditi, all’agio, alla calma, ai soccorsi, non si potrà che lodare la Signoria. Ma è obbligo dell’uomo e degli Stati anche il progredire, quindi non voler infiacchire tutte le membra per sicurezza della testa, non intercidere le vie di segnalarsi, non surrogare la ragion di Stato alla giustizia, non volere che una classe maggioreggi a depressione delle altre, nè con autorità violenta soffocar le passioni personali, e abbattere chiunque si elevi dalla folla. L’aristocrazia portava nel governo le virtù che le sono proprie, una politica non allucinata da passione personale, una costanza che non si frange sotto le maggiori traversie, un segreto geloso, un’economia più savia quanto erano maggiori le ricchezze pubbliche; ma insieme mancava degli impeti de’ popoli liberi, della generosità verso i vinti, di quelle speranze che non si valutano a denaro: non guardò mai l’Italia come paese fratello; e come colla Toscana si alleò per difendere la libertà da Mastino della Scala, così si alleò coi Visconti per acquistare signoria nella penisola. Quando le Repubbliche perivano e fin l’indipendenza in Italia, si compilò a Venezia il _libro d’oro_, titolo impreteribile della nobiltà; e allora entrarono tutti i malanni dell’aristocrazia, primogeniture, fedecommessi, esclusione de’ matrimonj men nobili; e dietro a ciò, sprecare in lusso, in fabbriche, in ville a Murano, poi sulla terraferma, e nel decorare la neghittosità. Quelli che si erano assicurato la dominazione, sempre più faceano sentire la propria superiorità ai nobili minori e alla plebe. Oltre i nobili ricchi, ve n’avea di poveri, detti Barnabotti, non capaci di sostenere il dispendioso onore degli impieghi; e con sovrana arroganza reclamavano quel che oggi si chiama il diritto al lavoro, e lo Stato dovea soddisfarvi col mantenere magistrature e cariche superflue, de’ cui stipendj vivessero costoro. Ed erano veramente la zavorra e il disordine della repubblica, petulanti coi popolani di cui si ostentavano protettori, striscianti coi grandi, turcimanni d’intrighi, di sollecitazioni e di brogli. Nel maggior consiglio, che pur rimaneva nominalmente il vero sovrano, tutti i nobili aveano voto eguale, e perciò vi prevaleano i poveri, che erano i più; di qui il bisogno di carezzarli; e nobili ricchi e nobili poveri si scialacquavano inchini sotto le procuratìe e nel brolo, dove il giovane ammesso al maggior consiglio veniva presentato da dodici compari, e riconosciuto da quelli nel cui novero entrava; dove chi aspirasse a dignità compariva in atto supplichevole, togliendosi di spalla la stola per metterla sul braccio, menandosi dietro parenti e amici nell’atto stesso, e profondendo riverenze e baciamani. Ripetiamo che tuttociò si riferisce a tempi posteriori; ma noi volemmo qui ridurlo, a confronto de’ governi delle prische repubbliche italiane, e del bene e del male che sarebbe potuto derivare dal loro spontaneo svolgimento. Certo, per tempi nuovi d’esperienza, mirabile era l’ordinamento di Venezia; se l’aristocrazia si fece tiranna, era però amata dal popolo, che neppure oggi ne perdette il desiderio; si sopracaricò di pesi, e ricordò che non lede tanto il potere, quanto il modo ond’è esercitato. Del resto a Venezia trovavano asilo i profughi d’ogni paese e i principi caduti; ivi maggior libertà di costumi, e poi di stampa; e lo spionaggio, che formò l’obbrobrio della sua vecchiaja, era piuttosto una vessazione che una tirannia, intanto che quel potere permanente schermiva dalle popolari stravaganze e dai tumulti consueti alle altre città. Nelle relazioni colle repubbliche italiane Venezia tendeva ad accaparrarsi il commercio sul Po, e trarne il grano qualvolta fosse impedito il mar Nero o vi trovasse più favorevoli condizioni. E poichè l’annona è di supremo rilievo in città senza terreni, nominò intendenti a quest’uopo, e ad imitazione de’ Saraceni proibì di asportarne se non quando fosse disceso a un dato prezzo. Fra ciò proseguiva le conquiste, e Corfù, Modone, Corone ricevettero conservatori da essa, la quale procurava nuove colonie coll’assegnar feudi. Molte guerre ebbe a menare, singolarmente per tenere sottomessa Candia, che per sessant’anni (1307-65) stette, si può dire, in uno stato d’insurrezione, che vorrà chiamarsi o ribellione, o generosa resistenza a un turpe mercato. Poi i Veneziani stessi ivi posti in colonia si ammutinarono, volendo che tra essi venissero scelti venti savj pel maggior consiglio della madre patria, non dovendo perdere questo diritto perchè accasati altrove: ricusati, si separarono perfino dalla Chiesa latina, e in luogo di san Marco tolsero a patrono san Tito; uccisero chi non volesse parteggiare con loro, e ricevuti a scherno i deputati di Venezia, si accinsero a respingerne le armi. Luchino Dal Verme capitano di ventura portò seimila uomini su trentatre galee contro l’isola dalle cento città, e a gran fatica la sottomise: ma ben presto questa si rialzò, e per tenerla in soggezione furono uccisi i capi, distrutte le città di Anapoli e Lasito e tutte le rôcche, portatine via gli abitanti, disertato il contorno e proibito avvicinarvisi, e tolto ogni diritto, ogni magistratura. Sono triste pagine nella storia d’una repubblica. Pure il Levante sarebbe dovuto essere il campo delle attività di Venezia, che invece volle impacciarsi colle vicende d’Italia, e dopo caduto Ezelino cominciò a porre un piede in terraferma, a suo grave costo. Le disgrazie ed umiliazioni che essa toccò dopo serrato il gran consiglio, non erano conseguenza di quest’atto; pure smentivano coloro che credevano dalla concentrazione dovesse venirle robustezza. CAPITOLO XCVII. Prosperamento delle repubbliche in popolazione, ricchezze, istituti. Bastano già questi cenni a chiarire che gl’inconvenienti della libertà non impedivano l’inoltrarsi della civiltà; e a chi non sa che deplorare quell’età burrascosa, risponde la rapida floridezza delle repubbliche. Tutte s’allestirono d’edifizj, a comodo, a difesa, ad ornamento; rinnovaronsi di mura, estendendole ad abbracciare i borghi e le cattedrali; acciottolarono, lastricarono, fognarono le vie; provvidero ponti, cloache, acquedotti, strade; nei palazzi del Comune sfoggiarono a gara solidità e magnificenza; abbellironsi di chiese, monumenti insieme di pietà e d’amor cittadino, considerandole come la più nobile immagine della patria: l’uomo era richiamato alle severità della vita, metteansi in equilibrio il pensiero e l’azione, le combinazioni astratte dell’ideale e l’inflessibil misura del possibile. Quale giacesse la campagna italica al cadere dell’impero romano, ci fu veduto, e la dominazione dei Barbari non potè che peggiorarla. Epifanio vescovo di Pavia, dirigendosi a Ravenna, ebbe a serenar molte notti sulle rive del Po, che sotto Brescello impaludava senza più letto. Crede il Muratori che nel 734 si fabbricasse la Cittanuova, quattro miglia da Modena, per guardare la via Emilia dagli assassini annidati nelle foreste di colà. Il panegirista di Pavia ci dice che vi abbondavano le stufe, per la molta legna provveduta da tante selve circostanti. Son nominati laghi nel Lodigiano presso Casal Lupano; se anche è favola l’altro che si stendeva a San Floriano, Santo Stefano, Fombio, Guardamiglio. Nel Padovano conservano tuttavia il nome di gazzo o guizza o fratta i terreni allora boscosi. Pistoja era tutta circuita da paludi, da cui la liberò un miracolo di san Zenone vescovo di Verona, onde Gregorio Magno vi mandò il primo vescovo nel 594; e frequenti vi s’incontrano ancora i nomi di pantano, piscina, padule, acqualunga. Modena nel X secolo fu spesso ingombra, talora sommersa dall’acqua spagliante: al vescovo di Bologna trovansi donate immense selve e valli peschereccie a occidente di quella città: quattro o cinque laghi son menzionati presso il Bondeno, laghi e stagni attorno a Parma: di foreste e pescagioni abbondavano i beni della contessa Matilde. La vita di san Giovanni Gualberto, scritta l’XI secolo, attesta scarsissimi in Toscana i ponti. Anche più tardi, ogni tratto s’incontravano e scopeti e boschi e fitte e marazzi, massime dove i fiumi sfociano nel Po, e dove questo, l’Adige e l’Arno scendono alla marina; si ha memoria della selva Merlata nel Milanese, della Lugana nel Bresciano, della Fetontea presso Altino, della Polaresco nel Bergamasco, a tacere i vastissimi tratti torbosi che si riconoscono quasi a fior di terra; e nelle vendite d’allora si aggiungeva la formola ordinaria _cum sylvis, paludibus, piscationibus_. Infesta di lupi era la Lomellina, che re Berengario mandò ordine di uccidere[47]. Ottone il Grande al marchese Aleramo nel 967 donava tutti i possessi del regno che si trovano nel deserto tra il fiume Tànaro, l’Orba e il mare, detti Gobundiasco, Balangio, Scelescedo, Sassola, Miolia, Pulcione, Gruaglia, Pruneto, Montore, Noceto, Masionte, Arco...[48]. Dalle tante selve restava forse irrigidito il clima, sicchè non radi ricorrevano inverni da gelare il vino nelle botti, e il Po da Cremona a Venezia fin a sostenere i carri[49]. Il feudalismo, restituendo alla campagna la gente e l’immediata ispezione del signore, poteva recare qualche rimedio; ma nocevano le servitù de’ beni, e l’essere il padrone sottoposto egli stesso a una supremazia che dava il diritto di confisca o di decadenza, e toglieva di spezzare il possesso, trasmetterlo a femmine, alienarlo; e laudemj, riversibilità, diritti d’investitura dimezzavano le proprietà, disanimando dai miglioramenti. I braccianti poi od erano servi, o liberi condizionati, tenuti a comandite; lo perchè le opere riuscivano meno utili, quand’anche il bisogno o l’ingordigia non portasse il barone a gravar le taglie a segno, che il censuario abbandonava il possesso, il quale rimaneva sodo. Tali difetti scemarono, non disparvero sotto i Comuni: e le ripetute guerre e il modo di condurle[50]; le rappresaglie, per cui un forestiere danneggiato in un paese poteva spingere su questo la vendetta de’ suoi patrioti, o almeno sui beni dell’offensore e de’ suoi consorti; il condannarsi alla sterilità i terreni degli sbanditi e dei delinquenti, non lasciavano prosperare i campi. I vantaggi del commercio facendo meritare il denaro fino al venti, al trenta per cento, lo sviavano dalla terra. Improvvide ordinanze or prefiggevano una data specie di coltura, ora il prezzo delle derrate, o di consegnarne una parte, o di non asportarle; e i vicini o per continua gelosia o per incidente rottura negavano di più riceverle[51]. Onde avere cavalli per le guerre, bisognava tenere sconfinate praterie, a scapito delle biade mangerecce[52]. I primi miglioramenti anche in ciò vennero dalla Chiesa. I monaci per istituto abbonivano i campi; e i Cistercensi, ammonastierati intorno a Milano, teneano sui lontani poderi una colonia di conversi per lavorarli, mentre sui vicini si esercitavano essi medesimi con sì evidente frutto, che spesso erano invitati a risarcire in bene i campi altrui; e non è fuori di buona congettura che ad essi vada attribuito quel sistema d’irrigazione, che la bassa Lombardia arricchì dei pascoli perenni, ove più tardi si cominciò a fare i caci, tanto rinomati col nome di Parmigiani[53]. Chi avrebbe poi avuto a vile un’arte che vedeasi esercitata dai monaci? Frà Corneto domenicano nel 1231 indusse per devozione un popolo di gente a portar materiali, con cui interrò uno stagno attorno al suo convento, e subito lo sementò. Per queste e simili guise, al luogo del giunco e della ninfea comparivano man mano il ranuncolo, il trifoglio e i graminacei, salutifero pasto di mandre lattose. Ai beni delle chiese e de’ monasteri si avea rispetto nelle devastazioni e nelle taglie; laonde molti donavano ad essi le loro proprietà, ricevendole poi in prestarìa o a livello temporario o perpetuo. Il livello, forma di possesso allora introdotta o estesa, metteva assai bene ad avvicinare il capitale e il lavoro, come oggi si dice. Vasti terreni incolti e sfruttati, a qual proprietario bastavano forze per domesticarli? Si spicciolavano dunque tra molti coltivatori, che, assicurati per lunghi anni, li lavorassero come proprj, retribuendo al padrone un tenue canone: questo traeva un vantaggio di là donde prima nessuno; il lavoratore s’accostava alla condizione di possidente sopra un terreno che lietamente adattava alla vigna e alla semente, perchè sicuro di trasmetterlo a’ suoi figliuoli[54]. Dacchè parve liberalismo l’attribuire il rimiglioramento d’Italia ai Musulmani per fraudarne i frati, si asserì perfino che quelli avessero introdotto fra noi la coltura dell’ulivo, mentre indubbiamente la troviamo anteriore[55]: come troviamo che era più estesa d’adesso, giacchè in Lombardia, a tacere il lago di Como ove frequentissimi sono menzionati gli uliveti, n’erano vestiti i poggi fra Bergamo e Ponte San Pietro, quelli di Mozzo[56]: d’uno nel Borgo Canale di Bergamo è cenno in carta del 933, e d’altri sulle colline bresciane, donde or sono quasi scomparsi. Emancipati e divisi i possessi, colla libertà sottratti i paesani alla servitù personale e all’immediata oppressura dei feudatarj, alleggeriti i servizj di corpo e le riserve di caccia, si prese coraggio a scassare sodaglie, popolare solitudini e boschi, fognare pantani: _correggie, dossi, polesini_ si dissero le strisce di terra che man mano si disseccavano; _mezzani_ le tante isole fra Lodi, Pavia, Piacenza, cedute al continente dal recedere del fiume; _novali_ i campi restituiti all’aratro; e ogni tratto le carte accennano che un podere _est terra novalis et fuit nemus_; villaggi e fin città conservano il vocabolo del Rovereto, del Saliceto, dell’Albereto a cui sottentrarono. Le campagne prosperarono, coltivate da braccia libere, cui la speranza era stimolo all’operosità, ed ajutate da capitali cittadini; le città intrapresero grandiosi lavori per l’irrigazione, e provvidero con regolamenti, non sempre opportuni, ai casi di carestia[57]. I Pisani portavano grande attenzione ai fiumi della loro pianura; e uno statuto del 1160 ingiunge al podestà che, in principio del suo magistero, scelga persone probe, con giuramento di esaminare gli acquedotti antichi e nuovi delle terre domestiche e dei prati, e le foci del Serchio, perchè ne rimanga facile il deflusso. La maremma senese era coltivata e popolosa, nei diplomi trovandosi ogni momento castelli, corti, terreni donati o venduti: il paese dalle creste dei monti al mare, posseduto dai Gherardeschi, era seminato di case e chiese, con vigne, uliveti, frutti, campi di sementa[58]. Il Cremonese, piano di tenue pendenza deposto dalle ambagi di quattro grossi fiumi che ne segnano quasi il confine, facilmente torna in loro balìa appena cessino le cure dell’uomo. Tanto era avvenuto già sul cadere dell’impero romano; e parlano d’un lago Gerundio, vasto per quarantacinque miglia, tanto che i Cremonesi vennero ad assediare Lodi _con apparato terrestre e navale_. Se ne procurò dunque lo scolo; il naviglio d’Isso e Barbata raccolse le acque de’ fontanoni, utilizzandole ad irrigare; poi trovandolo insufficiente, nel 1337 si estrasse dall’Oglio il Naviglio civico, e dallo sbocco di questo fiume venne arginato il Po, deviando il Delmone, e sanando così larghissimo territorio. Crebbe allora grandemente la popolazione, e non solo la città contava fin a ottantamila anime, ma Soncino ne aveva più di molte città, Viadana diceasi ricca di gente e d’averi, Soresina avea quindicimila teste, Casalmaggiore ventimila, e nelle sue campagne si coltivava lo zafferano sin nel XV secolo, e ad una piccola Venezia l’assomigliavano le tante navi e il vivo traffico. Già nel secolo XI i Mantovani aveano intrapreso le _sgarbate_, fossi allo sbocco dei fiumi per immetterli in Po; ma ricorrenti inondazioni guastavano quelle campagne, sinchè Alberto Pitentino nel 1198 affondò il lago attorno a Mantova, con argini e sfogatoj da regolarne l’altezza, e sostegni fino a Govérnolo, ove scarica in Po; delle cadute poi da bacino a bacino si profittò per muovere gualchiere e mulini, che perciò rimanevano privilegio del Comune. Altri dilagamenti straordinarj avevano cambiato in paludi i colti là intorno, onde il vescovo Jacopo Benfatti nel 1332 investì a Luigi Gonzaga l’isola di Révere che _erat perita, diruta, aquatica, paludosa, piscaritia cum casis palearum ac in totum sterilia_, unico prezzo ed obbligo imponendogli di cingerla d’argini per frenare il fiume. Seguendo il costume della Repubblica, quel principe suddivise in livelli _ad meliorandum_ quella contrada, che ben presto divenne delle più opime. Di che vedasi quanta giustizia vi sia nel ripetere che la natura fe tutto per la Lombardia, nulla gli abitanti. Allora sparirono gli stagni e le foreste del Bolognese e del Ravennate: Ferrara, ch’era nata come Venezia per bisogno di difendersi dai Barbari, e dove prima non furono che due torri, congiunte con un argine che fu poi la strada detta ancor Ripagrande, si estese intorno a quello, sistemò arginature che servissero anche di comunicazione, e le paludi di cui la circondava il Po convertì in ubertose campagne: i boschi del Modenese e del Ferrarese si disselvatichirono: a Milano furono portate migliori razze di cavalli, e cani alani e danesi di molta forza e grossezza; e con innesti forestieri migliorato il vino e introdotta la vernaccia. Il riso, cagione poi di spopolamento, veniva ancora di fuori, e si vendeva dagli speziali, cui in Milano fu imposto di non prezzarlo più di dodici soldi imperiali la libbra[59]; nè più di otto il mele, tanto prezioso avanti che s’introducesse lo zuccaro. Del miglioramento fanno prova l’ampliarsi e abbellirsi delle città. Milano occupava appena una quarta parte dell’odierna superficie, eppure internamente avea campi, viridarj (_verzèe_), pascoli (_pasquèe_), e l’estesissimo brolo dell’arcivescovo: le case erano ad un solo piano, salvo poche _solariate_; alcune di mattoni, le più di graticci e creta e paglia, col tetto pure di assicelle e di paglia: fuori poi avea boschi, come il _nemus_ di Sant’Ambrogio fuor porta Comasina, quel degli Olmi fuor porta Vercellina, ove fu decollato san Vittore, quello di Caminadella fuor porta Tosa. Appena rassettatosi dall’eccidio del Barbarossa, Milano estese il suo recinto cingendosi di una mura alta venti braccia con sei porte di marmo, fabbricò case e palazzi, nel 1228 «il broletto nel mezzo della magnanima città» (CORIO), cioè il palazzo comunale, e cinque anni appresso il broletto nuovo, dove accogliere i mercanti e tutti gli uffizj. Il trovarsi discosta da ogni grosso fiume le disagevolava il commercio, massime degli oggetti di consumo; sicchè per trarre dalle Alpi il combustibile, le pietre e altri grossi materiali, e al tempo stesso irrigar le pianure, divisò il Naviglio grande, primo canale artifiziale delle nazioni moderne, che per trenta miglia conduce le acque del lago Maggiore fin alla città. Intrapreso nel 1179, cioè tre soli anni dopo che la città era risorta dalle ruine del Barbarossa, fu ripigliato nel 1257, e compito in modo da portar grosse navi. Pel canale della Muzza, cavato dall’Adda, il greto della Geradadda e del Lodigiano divenne la campagna più frumentosa di Lombardia. Nel 1106 Pasquale II consacrava la cattedrale nuova di Parma: i Modenesi toglievano a rifabbricare la loro; cinquant’anni dopo scavarono il Panarello nuovo e il canal Chiaro, eressero il campanile, il palazzo comunale, la ringhiera, sbrattarono e selciarono le vie e i portici. A Cremona nel 1167 fabbricavasi il battistero, nel 1206 il palazzo comunale con porte di bronzo, nell’84 il terrazzo: e la città divisa in vecchia e nuova secondo le fazioni, allestivasi di mura esterne e interne. Dopo la peste del 1136 Bergamo alzava la chiesa della Beata Vergine Assunta, architetto Fredo: nella quale faceansi le adunanze, le paci, gl’istromenti; v’era scolpita la misura uffiziale; e la società di Santa Maria Maggiore era una milizia per difesa del Governo[60]. Brescia ampliava la mura, fabbricava le chiese e i monasteri di San Barnaba, San Francesco, San Domenico, San Giovan Battista, finiva il broletto, dilatava la piazza del duomo, conduceva tre canali dal Chiese e dal Mella per gli opifizj, a cura dell’insigne vescovo e signore Bernardo Maggi. Pisa si circondò di mura nel 1157, Lucca dilatò le sue nel 1260, Reggio dal 1229 al 44 per tremila trecento braccia, e uomini e donne, piccoli e grandi, rustici e cittadini portavano sassi, sabbia, calce, sul proprio dorso e in pelli varie e in sandali[61]. Padova nel 1191, podestà Guglielmo dell’Osa milanese, rendette il Brenta navigabile fino a Monselice, e vi sovrapose un ponte; nel 1195 rinnovava la mura; nel 1219 faceva il palazzo comunale con quella meravigliosa sala della Ragione; poi, appena redentasi da Ezelino, dava denari a tutte le chiese e conventi perchè riparassero ai guasti della guerra, s’ingrandissero e abbellissero; fece rinforzare la mura, ammattonare le vie interne, migliorare quelle del contado, arginare i fiumi e regolarli con roste e canali; e molti ponti che emulassero quelli de’ Romani ancora conservati in città; fabbricò il palazzo degli Anziani, finì il meraviglioso tempio del Santo, eresse Castelbaldo sull’Adige per fronteggiare gli Estensi e gli Scaligeri, allestì il Prato della valle per la fiera e per le corse al pallio. Agl’incendiati dava un compenso, purchè entro un anno avessero riedificata la casa: chi aspirasse alla cittadinanza, doveva acquistar un _garbo_, tratto di sodaglia su cui ergevasi un’abitazione: proibì perfino di trasferire possessi e rendite o qualsifosse diritto sopra immobili in chi non prendesse stanza nel territorio padovano[62]. Bologna vide sorgere cento torri, fra cui quella degli Asinelli e quella de’ Garisendi, decantate la prima per l’altezza, l’altra per l’obliquità, si cinse d’una terza mura più ampia, rassettò tutte le vie e i ponti, coprì l’Avesa che riceveva le immondezze, dispose il nuovo mercato a Galliera, _opera sovra l’altre bellissima, comoda e lodevole_, e tra molte chiese la Nunziata delle Pugliole, opera di Marco bresciano, e quella degli Alemanni fuor porta Ravennate pei Tedeschi che pellegrinavano a Roma; del Reno introdusse un ramo in città a movere trentadue mulini; un altro diresse fino a Corticella perchè le navi arrivassero a Ferrara; tirò pure in città l’acqua della Dordogna e quella della Savena per macinare il grano, e per servizio di tinger la seta e i panni di grana e scarlatto; compita la qual opera, si fece tridua solennità, e fu posto un ricordo al podestà Pirovano milanese. In breve giro d’anni vi furono fabbricati il palazzo della biada, la croce di piazza, le nuove prigioni, i granaj del Comune, Castel San Pietro, la chiesa di Santa Tecla; fortificate e provviste le castella del contado; oltre le grandi spese logorate negli eserciti: e il grano valea soldi cinque la corba, soldi sette il sale, nove il carro delle legne grosse, sei il vino alla corba[63]. Da un milanese, podestà a Firenze, ebbe nome la cittadina di Pietrasanta; dall’altro milanese Rubaconte di Mandello, il ponte più ampio e spazioso di Firenze, il quale pur fece lastricare molte vie: poi nel 1277 essa città comprava le terre fra Arno e Mugnone per porvi il borgo Ognissanti. Siena nel 1228 innalzava San Domenico, nel 58 Sant’Agostino, nell’84 il palazzo della Signoria in quella bellissima piazza del Campo dove undici strade sboccano, e alquanto dopo la sveltissima torre del Mangia. Volterra nel 1206 fabbricò nuove mura e il palazzo de’ Priori, poi da Nicola Pisano faceva erigere ed ampliar la cattedrale. Prato nel 1284 ergeva il palazzo del Popolo, e nel 92 lastricava le strade. A San Geminiano in Valdelsa ammiravansi palazzi pubblici e privati e chiese, fra cui bellissima la collegiata, e fontane, e quattordici torri di bellissimo finimento, e l’altissima del Comune, per la cui fabbrica ogni podestà doveva rilasciare parte dello stipendio, col diritto di porvi il proprio stemma. Che serve allungarla? visitate l’Italia, e vedendo quei porti e quei moli stupendi, e le gran torri e le cattedrali, domandate chi le eresse, e sempre vi si risponderà: — Il popolo, quando a popolo si reggeva». Stando ai computi del Cibrario, le terre di Piemonte nel secolo XIV avrebbero avuto appena un quinto della popolazione odierna; mille Carignano, duemila censettantacinque Ciamberì, duemila censessantacinque Rivoli, tremila ottocentrenta Moncalieri e Pinerolo, tremila trecento Cuneo, seimila seicensessantacinque Chieri, mentre appena quattromila ducento ne contava la odierna capitale. Le repubbliche invece quanto fossero divenute popolose lo attestano, se non foss’altro, le tante guerre; Bologna mise in campo contro ai Veneziani trentamila pedoni e duemila cavalieri; Milano, ricca di ducentomila abitanti, esibiva diecimila guerrieri a Federico II per la crociata, venticinquemila ne armava contro Lodi, sessantamila contro Brescia, compresi gli alleati; da Cremona la fazione trionfante espulse centomila persone; Ezelino ne rapì diecimila da Padova; Pavia accampava due a tremila cavalieri e quindicimila pedoni; il territorio bresciano dava quindicimila armati dai quindici ai sessant’anni. Genova, che nel 1345 ampliò la sua cerchia dalla torre di San Bartolomeo dell’Olivella sin alla punta del mare verso San Tommaso, e nel 1291 per duemilacinquecento lire comprò l’area fra San Matteo e San Lorenzo, dove in due anni fabbricò il palazzo del Comune, nel 1293 metteva in ordine un’armata di ducento galee e quarantacinquemila combattenti, tutti nazionali; eppure tanti ne rimasero, da provvederne altre quaranta, senza per questo lasciare sguarnite le riviere e la città[64]. Ivi le fazioni dei Doria e Spinola allestivano ciascuna da dieci a sedicimila uomini d’arme: fate ragione delle altre. Massa, che or non arriva a duemila, contava ventimila abitanti; Savona novemila; in Pisa più di trentamila famiglie furono in grado di pagare il fiorino imposto a ciascuna per la fabbrica del battistero. Di Siena si dice nella peste del 1348 esser perite ottantamila persone, che erano quattro quinti della popolazione, la quale così sommerebbe a centomila. A Firenze nel 1336 si contavano novantamila bocche, non computando i forestieri, i soldati, le comunità religiose, talchè salirebbero a centomila; ma dai battesimi[65], che erano da cinquemila ottocento in seimila l’anno, proporzionandoli al quattro per cento, si arguirebbero cenquarantamila abitanti. I matrimonj si favorivano con distinzioni e con feste; a Como il vescovo mandava (nè il rito è dismesso) agli sposi più illustri di quell’anno la palma che riceveva la festa degli ulivi. Il senato di Bologna ai principali spediva una cappellina di panno rosato, che lo sposo soleva portare per otto giorni[66]. Raro il celibato, e tutti i figliuoli ammogliandosi, formavansi famiglie numerose. Il padre di Pier degli Albizzi ebbe cinque figliuoli, e venuta una briga civile nel 1335, si trovarono trenta cugini in età sufficiente alle armi[67]. Frequente si rinnovava la peste: e a tali disgrazie non mancarono que’ funesti delirj, da cui neppure l’età nostra può vantarsi immune; si attribuivano a unti pestiferi o a pozzi avvelenati, e se ne imputavano principalmente gli Ebrei, perciò perseguitati fieramente. Nel 1321 si bucinò che i lebbrosi avessero fatto una strana congiura d’infettare tutto il mondo: il vulgo colla feroce sua credulità accettò questa diceria, e buttandosi addosso a quest’infelici, li trucidava, li bruciava vivi, lasciavali morir di fame. Le quarantene erano precauzioni sconosciute, fin quando Venezia nel 1403 tolse agli Eremitani l’isola di Santa Maria di Nazaret per collocarvi le persone sospette e le provenienze di Levante onde spurgarle. Un magistrato di sanità vi fu organizzato nel 1475 come stabile e ordinario, composto di tre provveditori nobili annui, con podestà d’infliggere multe, carcere, galera, tortura. Questo primo esempio imitato valse non poco a preservare l’Europa, la quale non vorrà smettere le quarantene finchè la Turchia non sia incivilita. Gran cura della sanità pubblica si presero gli statuti, provvedendo alla nettezza delle vie, a disperdere le acque stagnanti e procurarne di potabili, proibir le carni malsane e la propagazione delle epizoozie; talora spinsero la pulitezza allo scrupolo, come quei di Casale che alle rivendugliole di pane vietarono di filare. Federico II dettò buoni ordini salutari pel suo regno; i cadaveri si sepellissero quattro palmi sotterra, il lino e la canapa si macerassero un miglio distante dall’abitato, si gittassero in mare le carogne. Trovansi pure stipendiati medici perchè gratuitamente servissero; a Bologna nel 1214 Ugo da Lucca non dovea ricevere dai privati veruna mercede, salvo che la legna e il fieno. La legge veneta del 24 marzo 1321 proibiva di esercitar medicina e chirurgia se non approvato in qualche università; ordine già prevenuto da esso Federico. Il vivere comunale faceva si gareggiasse anche in opere di beneficenza, volendo ciascuno avere nel proprio paese e nella propria corporazione soccorsi a tutte le miserie. La storia degli ospedali è delle più interessanti in quella de’ nostri municipj. La carità cristiana aveva insegnato a prender cura de’ projetti, che Atene, Sparta, Roma abbandonavano o uccidevano. Il primo orfanotrofio fu aperto da Dateo arciprete di Milano nel 785, stabilendo vi fossero allevati gli esposti fino ai sei o sette anni, dopo di che rimanessero liberi, rinunziando cioè al diritto di tenerli per proprj servi. L’ordine dello Spirito Santo aprì case per essi a Marsiglia, a Bergamo, a Roma, ove Innocenzo III sistemò con generosissima carità l’ospedale di Santo Spirito (t. VI, p. 243). Firenze aveva di tali ricoveri nel 1344, Venezia nel 1380, e così altre città. A Vercelli era fin dal 1150 un ospedale degli Scoti pei pellegrini di Scozia e d’Irlanda, e quello del canonico Simon di Fasana pei poveri francesi e inglesi: prova della quantità di forestieri che vi capitavano. Gl’incendj succedevano frequenti, in grazia delle case di legno e di paglia. Nulla più facile che attribuire a malizia questi disastri, che nessuno vuol confessare dovuti a propria negligenza, e perciò severe pene si comminavano agl’incendiarj: cento lire a Moncalieri; mille soldi a Nizza di mare, e la testa se non avessero di che pagare; a Torino erano bruciati vivi. Di miglior senno fecero prova il Comune di Garessio stabilendo che, qualora non si scoprisse il reo, i danneggiati fossero rifatti dal Comune; e Siena mantenendo spegnitori del fuoco, emendando del pubblico le case e le masserizie danneggiate[68]. All’uopo stesso Ferrara nel 1288 prescriveva le case non si coprissero di paglia, ma di tegoli; Casale di Monferrato, non si facesse fuoco in casa non coperta di tegoli di buona terra; si tenevano guardie notturne; si allontanavano i pagliaj dall’abitato, si vietava d’accender fuoco quando tirasse vento. Firenze nel 1344 istituì i vigili, che, avvisati da una vedetta, accorrevano al primo manifestarsi d’un incendio[69]. Il _Breve comunis pisani_ del 1236 provvede all’illuminazione della città, e non solo nelle strade più frequentate, ma ne’ chiassi e vicoli, con lampioni numerati e guardie notturne. In tutto ciò voi ravvisate quel nobile e faticoso uscire da uno stato depresso per elevarsi a un migliore; e generalmente conservavasi molta modestia nel vivere privato, mentre voleasi che il pubblico prosperasse. Si aveva gran mistura di male, ma progresso; e la ricchezza pubblica era tale in quelle _repubblichette_ così derise dagli odierni dottrinarj, da uguagliare ciascuna i floridi regni. Firenze nella guerra contro Mastin della Scala spese seicentomila fiorini d’oro, tre milioni e mezzo in quella contro il conte di Virtù, undici milioni e mezzo dal 1377 al 1406. Meglio delle guerre ne piace rammentare le pubbliche costruzioni e il fiore delle arti belle, deve ogni nostro Comune ardiva quel che appena l’Inghilterra o la Francia: e le città, che pur aveano vicinissime città altrettanto floride, compirono imprese quali neppur si videro allorchè furono centro di vasti Stati, come Firenze o Venezia. Gran prova che sapeano e creare le ricchezze e conservarle con quell’economia che è prima dote di governi repubblicani, non spendendo mai di là del ritratto, o affrettandosi a spegnere i debiti, come era naturale in paese dove i magistrati, uscendo ogni anno o poco più, doveano render ragione dell’operato. Sol quando i principi sottentrati furono costretti a comprare la fedeltà e la difesa, e mantenersi con lusso, non si fecero coscienza di compromettere l’avvenire, e coi debiti preparavano nuovo impaccio alle finanze. A repubblica si reggevano le terre svizzere, e in paese poverissimo riuscirono a cumular capitali, di cui fecero poi comodità ai principi, e vennero a vantaggiare di territorj. Berna e Friburgo aveano largamente sovvenuto i duchi Lodovico e Amedeo IX di Savoja, singolarmente per le spese occorse a far l’antipapa Felice e a comprare il regno di Cipro. Scaduti i termini, e non potendo soddisfare, dopo profusi doni onde guadagnarsi i cittadini più creduti, i duchi dovettero lasciar occupare da essi il paese di Vaud, che cessò di appartenere alla lor casa. Così vedremo avvenire di terre del Milanese, occupate per sempre da Svizzeri e Grigioni. Che se le repubbliche erano costrette ricorrere a prestanze private, seppero convertirle in un nuovo mezzo di comodo e prosperità; e i primi tentativi nella scienza del credito sono dovuti agl’Italiani. Fin verso il 1156, trovandosi esausto l’erario veneto, il doge Vitale Michiel II propose un prestito forzato sovra i megliostanti, meritandoli al quattro per centinajo. Si formò così il primo banco di deposito, non di emissione; i contratti si faceano e i viglietti si traevano dai mercanti, non al corso della piazza, ma in moneta di banco, cioè in ducati effettivi del titolo più fine. Nuova forza acquistò dacchè il Governo introdusse di fare i suoi pagamenti in viglietti siffatti; poi vi s’aprì partita di dare e avere, talchè i fondi depositati si giravano da un nome all’altro, come oggi nel gran libro di Napoli, e pagavansi cambiali per conto di privati. Da principio il banco rifiutava i capitali di forestieri; e nel prestito del 1390 un decreto speciale vi volle per accettare trecentomila scudi da Giovanni I di Portogallo. Tanto credito ispirava, che si potè estrarne quasi tutto il denaro effettivo, senza incutere sfiducia. A questo _monte vecchio_ s’aggiunse il _nuovo_ nel 1580 per sostenere la guerra di Ferrara; infine il _nuovissimo_ nel 1610 dopo la guerra coi Turchi; indi delle loro reliquie si costituì nel 1712 il _banco del giro_, che continuò fin all’omicidio di quella repubblica. Matteo Villani ci descrive partitamente le operazioni del banco de’ Fiorentini, la riduzione, la liquidazione, la redenzione[70]. A Siena il Monte de’ Paschi fu introdotto per prevenire le usure, prestando a soli Senesi, e sodando piuttosto sulla probità individuale, garantita da una o più persone solide. Monumento più insigne è il banco di San Giorgio a Genova. Questa Repubblica contrasse un debito fin dal 1148 allorchè conquistò Tortosa; lo crebbe poi nelle successive vicende, sinchè nel 1250 fu addensato sotto il nome di _Compera del capitolo_, descrivendo in un cartulario ventottomila luoghi, sommanti a due milioni e ottocentomila lire d’allora, quando da un’oncia d’oro di pajuolo tagliavansi lire tre, soldi dieci, denari tre. Così fu consolidato il debito: ma la guerra con Carlo d’Angiò portò la compra d’altri quattrocentoventi luoghi; d’altri l’assedio de’ Ghibellini e le guerre d’Enrico VII e le successive; quattrocento novantacinquemila fiorini d’oro vi aggiunse quella di Chioggia; di più l’amministrazione del Boucicault, talchè la Repubblica era in procinto di fallire se non si fosse trovato uno spediente. Solea Genova ai creditori dello Stato cedere i proventi di alcuni dazj indiretti: essendo però le varie imposte destinate ad uffizj diversi, andavano in troppa parte assorbite dalle spese; laonde per semplificazione si ridusse ogni cosa in un collegio di otto assessori col nome di San Giorgio, nominati dai creditori, e obbligati a render conto soltanto a cento di questi. I debiti anteriori di variissima forma vennero consolidati al sette per cento: _luogo_ chiamossi ogni unità di credito, consistente in cento lire, e che si poteva trasferire; _colonne_ un certo numero di crediti, riuniti sopra un solo _logatario_ o creditore; _compere_ o _scritte_ la somma totale dei luoghi, equivalenti ai _monti_ di Firenze, di Roma, di Venezia. Registravansi in otto _cartularj_, secondo gli otto quartieri della città, rilasciando ai creditori polizzine col nome di essi e colla firma del notajo; nè dovevasi emetterne alcuna che non vi fosse l’equivalente valore nelle sacristie o casse; e pagavansi a vista. Gli otto protettori formavano ogn’anno un gran consiglio di quattrocentottanta logatarj, metà a sorte, metà a palle. I magistrati superiori della Repubblica doveano giurare di proteggere inviolato il banco. Lo crebbero i molti denari depostivi da privati, e i _moltiplici_, come chiamavansi certe disposizioni fra vivi o per testamento, mercè delle quali i proventi d’alquanti luoghi lasciavansi accumulare onde comprare altri luoghi, fin ad un certo termine, di là dal quale si applicavano ad istituzioni pie o ad altro uso. Luoghi sopravanzati alla quantità richiesta per gli annuali interessi di qualche nuova prestanza, moltiplicavansi a pro della repubblica, e costituivano le _code di redenzione_, che oggi diremmo fondo d’ammortizzamento; e questo operava così efficace, che, malgrado più di sessanta prestiti fatti alla repubblica, il banco diminuì i suoi luoghi da quattrocensettantaseimila settecento che erano nel 1407, a quattrocentrentatremila cinquecenquaranta, che trovavansi nel 1798, e di cui una quarta parte erano disposti a pubblica utilità. La Repubblica, non bastando a difendere Caffa dai Turchi, e la Corsica da re Alfonso il Magnanimo, le cedette a San Giorgio, che così fu ad un tempo banco di commercio, monte di rendite, appalto di contribuzioni e signoria politica. Mentre le inesorabili fazioni rendevano impossibili in Genova e la libertà e la tirannide, quella società, meglio consigliata, tutelava la pace e l’ordine; continuò anche dopo mutati i modi e le vie del commercio: dal saccheggio degli Austriaci nel 1746 risorse, soccombette a quel dei Francesi nel 1800. Con savie regole anche la città di Chieri nel 1415 eresse un monte, a mezzo del quale spense il debito per cui rispondeva sin il dieci e dodici per cento. Era costituito di diecimila genovine nè più nè meno; cioè lire centosettantottomila, assicurati capitale e interessi sui beni del Comune, divise in luoghi che rendeano il cinque, poteansi vendere e permutare, e chi n’acquistasse uno diveniva borghese di Chieri. Essi luoghi non doveano perdersi nè sequestrarsi per qualsivoglia misfatto, neppure di maestà: i principi di Savoja nè i loro ministri non potevano acquistarne: al Comune era dato in qualsifosse tempo redimere quel debito[71]. In tal proposito non vogliamo preterire due istituti, dimenticati dagli storici. Dodici nobili di Pisa nel 1053 cominciarono l’Opera della misericordia, contribuendo venticinque libbre di grossi ciascuno, i quali si dovessero trafficare, e del guadagno dotare povere fanciulle, riscattare schiavi, sovvenire vergognosi: bellissima alleanza della carità cristiana coll’industria moderna. Nel 1425 s’inventò a Firenze un _monte delle doti_, ove mettendo cento fiorini, in capo a quindici anni se n’avea cinquecento in dote a chi si maritasse, restavano al monte se l’assicurato morisse o andasse religioso[72]. Dove ravvisate quelle tontine e quelle casse di mutuo soccorso e di provvidenza, che tanto or prosperano in Francia e in Inghilterra. CAPITOLO XCVIII. Costumi. — Liete usanze. — Spettacoli. Non è mestieri che chiamiamo il lettore ad avvertire come fossero mutati i costumi. Quel lusso corruttore, che le fatiche d’intere provincie consumava ai godimenti e alle futili vanità di un solo, qual vedemmo al declinare del romano impero, dovette cessare sotto i Barbari, semplicemente rozzi. In un placito tenuto da Adalardo in Spoleto, al principio del regno di Lodovico Pio, ci è descritto un palazzo romano: dal _proaulio_ si passa nel salutatorio destinato al ricevimento; segue il _concistoro_, ove trattare i segreti; poi il _tricoro_ o _triclinio_, ove i convitati sedevano in tre ordini di tavole, tra i profumi esalanti dall’_epicaustorio_; ivi camere estive ed invernali, ivi terme o bagni, ginnasio per le dispute e gli esercizj, la cucina, il colombo o piscina da cui venivano le acque, l’ippodromo per corse di cavalli. Evidentemente è l’avanzo d’un palazzo antico, e tale costruttura si abbandonò coi nuovi costumi. Delle case la maggior parte non aveano che il pian piede, alcune erano coperte di tegoli (_cupæ_ o _cupellæ_), molte di assicelle (_scandulæ_) o di paglia. Da ciò gl’incendj frequenti, che talvolta distruggeano mezze le città, colpa dei quali, dice Landolfo sotto il 1106, Milano quasi più nessun muro avea di pietra o di cotto, ma solo di paglia e graticci. Scambia egli per effetto la causa; ma è vero che ajutava gl’incendj il mancar di camini. Gli antichi poco usavano tale comodità, accendendo il fuoco in mezzo alla stanza, e per un foro mandando il fumo. De’ camini colla canna innestata nel muro parla Galvano Fiamma nel XIV secolo come di trovato recente: Andrea Gattaro vuole che Francesco Carrara il vecchio da Roma nel 1368 ne portasse l’uso, dapprima ignoto: vent’anni di poi il Musso notava come le case di Piacenza fossero splendide, nitide, ben guarnite a masserizie, con armadj, stoviglie e vasellami diversi, orti, cortili, pozzi, vasti solaj, belle camere, alcune delle quali col camino[73]. In Roma la casa che vulgarmente chiamano di Pilato, e che appartenne a un discendente del console Crescenzio, è una fortezza all’uso di quel tempo, rimessa in essere da Cola di Rienzo per difendere il ponte Rotto; pesantissima nella sua solidità, straornata di pezzi tolti di qua di là, con bizzarri capitelli e rozza iscrizione[74]. Nella feudalità ogni signore, fatto quasi un piccolo re, avea grandi entrate, ma dovea spendere assai nel mantenere l’estesa famiglia, oltrechè le sue entrate consistevano in derrate piuttosto che in denari. Il palazzo prendeva l’aspetto, sovente anche la forza di un castello; grosse mura, poche finestre o nessuna, torri agli angoli, merli al tetto, una fossa intorno con ponte levatojo, che metteva alla porta principale, difesa da balestriere e feritoje e da saracinesca caditoja. Attorno al cortile, che serviva agli esercizi soldateschi, erano la cucina, colla dispensa per la cera e per le spezie; ampie scuderie, cogli altri bassi servigi; una sala d’arme, ov’erano disposte quelle da battaglia e da caccia; il tinello, bastante non solo pei famigli ma per gli ospiti numerosi. In quello del principe d’Acaja a Pinerolo nel 1367 mangiavano centrentanove persone, fra cui venticinque poveri e alquanti frati[75]. La sala da pranzare il signore, illuminata da fiaccole portate da paggi e da grandi candelabri di ferro, alla buona stagione rimaneva aperta ai venti, alla peggiore la schermivano impannate di tela o di fogli oliati, quali le conservava ancora nel 1400 il ducale castello di Moncalieri. A questa mancanza di comodi facea contrasto la suntuosità della tavola, disposta con doppieri d’argento e fin d’oro, e trionfi artistici, e coppe d’avorio, di tartaruga, di cristallo, o anche più fine per materia e lavoro. La sala di ricevimento era messa ad arazzi, venuti di Fiandra o di Damasco, e che più tardi si fecero tessere sopra disegni de’ migliori nostri artisti. Sul pavimento si stendeva paglia fresca, qualche volta tappeti, e più tardi le stuoje di sparto o di giunco. I sedili erano di legno, talvolta riccamente intagliato, e coperto di drappi e di pelli stampate, ma duri e scomodi, come gli archipanchi e le casse. Qui e qua stipi e forzieri intarsiati e ad argento e oro, ne’ cui cassettini si distribuivano quelle cento inutilità, di cui oggi facciamo pompa sulle cantoniere. Non mancavano lavatoj e bacili di rame o di più nobile metallo, e una spera metallica o di cristallo, e anche l’orologio nella primitiva sua rozzezza; un dittico o un’immagine di santo, o il crocifisso sopra il ginocchiatojo; di rado qualche libro. Il letto era attorniato da un balaustro, sormontato da un cielone di drappo a nastri e merletti, con coperte di gran valuta. Il resto della famiglia dormiva in camere disadorne. Vi è qualche castello signorile in Piemonte e negli Appennini toscani, da cui non disparvero questa distribuzione e questo addobbo. Al primo accorrere della gente dalla servile campagna nelle redente città, si provvide solo a far abitazioni alla spiccia, con travi frammezzate di cannicci e creta; sovente sulla porta un motto, un santo serviva a distinguerle, invece dei numeri moderni. Delle vie, le più erano anguste, facendosi i trasporti a spalle di somieri; tortuose poi nè fra sè corrispondenti, perchè si fabbricava senz’accordo o direzione; e tutt’altro che pulite quand’erano una rarità le ciottolate e fognate, e vi griffolavano i porci, come oggi i cani. Il popolo redentosi fece mozzar le torri, ove il signore si riparava dalla legale punizione. Vennero poi le fazioni, e spesso la trionfante atterrava le case dei vinti; talvolta era questo castigo decretato dall’autorità a sfogo dell’ira plebea: una sola parte si diroccava quando a varj padroni spettasse la casa[76]. Quel terreno restava infamato, sicchè più non vi si poteva murare: il Palazzo Vecchio di Firenze nel 1298 fu piantato fuor di squadra per non occupare lo spazzo ov’eransi distrutte le case degli Uberti, che aveano voluto tradir la patria agli stranieri; su quelle dei Quirini, complici del Tiepolo, i Veneziani formarono il pubblico macello. Il lusso non tardò ai privati edifizj, e Firenze, Genova, Venezia n’ebbero di ricchissimi e maestosi. Meno però ai comodi si pensava che alla solidità ed alla bellezza; e per tacere d’un’antica legge lombarda, la quale proibiva il dormire più di quattordici ogni camera, gli otto della Signoria di Firenze giacevano tutti in una sola fino a mezzo il Quattrocento, quando Michelozzo ne fabbricò una per ciascuno. Eppure si trattava di quella gloriosa Repubblica, i cui cittadini, semplici nei costumi privati e nell’abito, spendevano largamente in quadri e sculture e biblioteche e chiese, e le cui navi, spedite ad Alessandria e Costantinopoli coi tessuti di seta, ne riportavano manuscritti d’Omero, di Tucidide, di Platone. Nel 1270 Venezia pubblicava una prammatica sopra agli ostieri, vietando d’alloggiar meretrici, tenere aperta più d’una porta, nè vendere altro vino che quel dato loro dai tre giustizieri; inoltre non avessero meno di quaranta letti, forniti di coltri e lenzuoli: provvedimento notevole in tempo che in Inghilterra appena si poneva paglia sopra i panconi ove dormiva il re. Frà Buonvicino da Riva, che nel 1288 fece la statistica di Milano, vi dà tredicimila case e seimila pozzi, quattrocento forni, mille taverne da vino, più di cinquanta osterie ed alberghi, sessanta coperti o loggie dinanzi alle case. Questi atrj, i chiostri dei conventi, il palazzo pubblico, l’_arengo_, il _broletto_ servivano per adunarsi e parlamentare: e il podestà milanese nel 1272 proibì d’ingombrar le arcate sotto al broletto, affinchè nobili e mercatanti potessero liberamente ronzarvi; anzi vi si collocassero panche ove sedersi e pertiche ove posar falconi e sparvieri, che si portavano attorno allora come dappoi i cani. Grossolano era il mangiare plebeo, e in grand’uso il lardo, e spesso troviamo istituiti legati per distribuirlo ai poveretti[77]. Nel 1150 i canonici di Sant’Ambrogio in Milano pretendevano dall’abate, in non so qual giorno, un pranzo di tre portate: la prima di polli rifreddi, gambe in vino e carne porcina pur fredda; l’altra di polli ripieni, carne vaccina con peperata e torta di laveggiuolo; infine polli arrosto, lombetti con _panizio_ e porcellini ripieni[78]. Il molto uso delle carni facea che di pepe si consumasse, quanto di caffè o zuccaro oggi. Il pan bianco serbavasi per casi d’invito, e ancora nel 1355 Milano non n’aveva che un forno; il resto faceasi di mescolo o di segale. Il _panatone_, le _focaccie_, le _pizze_, il _panforte_, le _crostate_ ed altre varietà, che a Natale o a Pasqua si mangiano ancora, sono vestigia del tempo quando ciascuno coceva il pane in casa, di rado e massime all’avvicinare delle maggiori solennità. Generalmente il principe o signore ne’ castelli feudali dava a mangiare a tutti i suoi dipendenti, donde gl’immensi banchetti e le enormi pietanze, che poi serbaronsi per lusso. Ricobaldo Ferrarese così descriveva le usanze attorno al 1238: «Al tempo di Federico II, rozzi erano in Italia riti e costumi; gli uomini portavano mitre di squame di ferro; a cena marito e moglie mangiavan da un sol piattello; non usavano coltelli da tagliare; uno o due bicchieri erano in una casa; di notte illuminavano la mensa con una face sorretta da un famiglio, non usando candele di sevo nè di cera. Vili erano le portature degli uomini e delle donne, oro ed argento nessuno o poco sul vestire, parco il vitto: i plebei tre dì per settimana pascevano carne fresca, a pranzo erbaggi cotti colle carni, a cena carni fredde riposte: non tutti in estate costumavano ber vino. Di poca somma tenevansi ricchi: piccole cánove, con ampj granaj. Con esigua dote si mandavano a marito le fanciulle, perchè assai misurato ne era l’addobbo: le zitelle stavano contente ad una sottana di pignolato ed una socca di lino; non fregi preziosi al capo nè da marito nè spose; queste legavano le tempie e le guancie con larghe bende annodate sotto il mento. Gli uomini ponevano la gloria nelle armi e ne’ cavalli, i nobili nelle torri». Tanta rustichezza è un’esagerazione di Ricobaldo, che volea farne raffaccio a’ tempi suoi; come noi udiamo tuttodì esaltare dai vecchi i costumi sobrj e schietti di loro gioventù, e che pure formavano soggetto a beffe e rimproveri di poeti, di comici, di predicatori d’allora. Se mai l’esiglio nostro sarà prolungato, anche noi nei rabbuffi senili rimpiangeremo la beata semplicità e l’ingenua fede che correva nei giovani nostri anni. Un anonimo del secolo XIII così, ma più prolissamente che non facciam noi, ritrae i Padovani: «Prima di Ezelino, sino ai vent’anni andavano scoperti il capo; di poi presero a portar mitre ed elmi o cappucci co’ rostri, e tutti vestivano soprabito (_epitogia_) con drappi da oltre venti soldi il braccio. Bella famiglia, buoni cavalli, sempre armi. I nobili garzoni ai dì festivi imbandivano alle dame, servendo eglino stessi, e di poi ballavano e torneavano. Splendide corti tenevano in villa. Le donne, deposto il grosso pignolato crespo, vestivano sottilissimo lino, cinquanta o sessanta braccia per ciascuna, a ragione delle sue facoltà. Se ai tempi d’Ezelino alcun del popolo fosse entrato a danza, i nobili lo schiaffeggiavano; e se un nobile amoreggiava qualche popolana, non la conduceva senza permissione». Ecco un avanzo delle prepotenze nobiliari; e nella _Divina Commedia_, il più importante documento della storia nostra, troveremo un continuo rimpiangere i tempi passati, cioè quelli dell’aristocrazia, quando valore e cortesia si trovavano per le città d’Italia, quando nelle Corti ogni gentilezza splendeva, nè ancora la gente nuova e i sùbiti guadagni aveano turbato quel bello, quel riposato vivere. Lasciamo pur dire al Boccaccio che i Fiorentini sono garruli e oziosi come le rane[79], egli che altrove dice delle Pisane che «poche ve n’ha che lucertole verminare non pajano»: scrivendo egli per celia, per comando, per imitazione, da lui meno che da qualunque novelliere si possono dedurre le costumanze del paese, giacchè molte volte non fa che copiare, e persino nella descrizione della peste toglie da altrui i tratti che si crederebbero caratteristici, e avventure di tutt’altri affibbia oltraggiosamente alla regina Teodolinda o alla marchesana di Saluzzo. Meglio la vita d’allora ci è rivelata dalle _Cento novelle antiche_, alcune per certo scritte fin al tempo d’Ezelino, e da quelle di Franco Sacchetti, i cui tanti aneddoti, comunque talvolta insipidi, mostrano i costumi compagnevoli e gaj della libertà, pieni di brigate sollazzevoli, di vivaci burle, d’allegrie, e l’amore del novellare, i pronti ripicchi, l’arguzia a proposito, il vivere all’aperto, la festiva comunanza tra i signori e quelli d’umile stato, insolita nelle altre nazioni. Al tempo di Federico II di Sicilia «uno speziale di Palermo, chiamato ser Mazzeo, avea per consuetudine ogn’anno al tempo de’ cederni, con una sua zazzera pettinata in cuffia, mettersi una tovaglia in collo, e portare allo re dall’una mano in un piattello cederni, e dall’altra mele, e lo re questo dono riceveva graziosamente». Esso Federico e i suoi figliuoli Enrico e Manfredi asolavano di sera per le vie di Palermo, sonando alla serena, e cantando cobole e strambotti di loro composizione. Sovratutto piace quella universale pubblicità, tutto al differente da oggi, quando la gioja come il dolore si costipa fra le pareti domestiche, o al più si comunica a quelli che chiamiamo nostri eguali. Allora pareva contentezza di tutti quella d’un solo; e le nozze si festeggiavano con una corte bandita, i funerali coll’intervento di tutta la città; ballavasi sulle piazze, e con chi primo capitasse. Chi murava, ponea vicino della sua casa una loggia per ritrovo degli amici al cospetto di tutti[80]: chi non fosse da tanto, poneva fuor della porta una pancaccia, ove fare la chiacchiera coi passeggieri, e dove talora Cisti fornajo eccitava l’invidia de’ magnati col pan buffetto e col buon vino ch’egli reputavasi beato di mescere agl’illustri cittadini ed agli ambasciadori di grandissimo Stato[81]. L’arte di lavorar calze co’ ferri fu tardi conosciuta. Noto è che i Romani non usavano brache, sicchè venne notato come uno straordinario Cesare, il quale riparavasi dal freddo con certe mutande. I calzoni usati dai Barbari furono adottati ben presto dai vinti. Comuni erano le pelli; di volpe, d’agnello, d’ariete a’ plebei; a’ ricchi le grigie e vaje e bianche spoglie degli zibellini, delle martore, dell’ermellino. Il nome di _superpelliceum_ dato alla cotta testifica l’uso de’ preti di portar pelliccie; del che avanzano traccie nelle almuzie e nella cappamagna. I Veneziani, e forse quei dell’Esarcato, nel vestire tennero dei Greci, coi quali erano in frequente comunicazione; e quando i Crociati assalirono Costantinopoli, Pietro Alberti veneziano, che primo era salito sulle mura, fu ucciso da un Francese che lo scambiò per un Greco. Ch’essi nutrissero e pettinassero la barba alla bisantina, appare dalla maschera che n’è tipo. All’idea di que’ secoli poetici e pittoreschi associamo quella di vestiti di gran valuta, a compassi d’oro e di gemme, e a pelliccie: ma uno bastava tutta la vita, anzi tramandavasi ai figliuoli ed ai nipoti. Ciascuna condizione e grado lo portava differente, poichè uno dei caratteri del medioevo si è questa separazione che le opinioni, le leggi, le usanze mettevano tra il vulgo e i nobili, tra il ricco e l’artigiano, tra il lavoratore e lo scienziato. Vasti palazzi, di forza più che di venustà, con pochi mobili che pareano fatti per l’eternità, con ampie sale bastanti a raccogliere la numerosa clientela, con portici ove soleggiare, discorrere, novellare; buffoni, che di aneddoti e facezie esilaravano le adunanze e ai conviti; donativi di solida importanza, come vesti, denari, vivande; turme di cani, d’avoltoj, di falchi, di cavalli; estesissimi parchi chiusi per le caccie; grosse famiglie di servitori, pompa d’armi, brigate di tutta la gioventù, gualdane, comparse, discernono affatto quel lusso dall’odierno, tutto abiti e fronzoli d’apparenza più che di prezzo, e da oggi a domani mutati al capriccio della gran città che normeggia in Europa il modo del vestire e del pensare. E ciascun paese aveva un vestir proprio, e Dante si fa riconoscere nel suo pellegrinaggio[82] tanto alla favella quanto all’abito. Gli statuti e principalmente le leggi suntuarie di ciascun Comune, colle minute prescrizioni fin sul taglio, le pieghe, gli ornati, la spesa de’ vestiti, ajuterebbero a particolareggiare le costumanze d’allora, chi sel proponesse. I birri erano casacche di color rossigno, più spesso di panno vulgare, e col cappuccio; _rauba_ o _roba_ fu nome comune delle vesti migliori, conservatosi nella lingua nostra e nella francese; v’è menzione del _supertotus_, e del palandrano o cappa, distinto dal mantello perchè senza maniche e col cappuccio. Ma il dire le varie foggie di ciascun tempo è fatica degli storici municipali. Gli statuti di Mantova del 1327 vietano che alcuna donna di basso stato porti abito che tocchi terra, nè abbia al collo intrecciatojo di seta; di qual sieno grado poi, non tengano veste che strascichi più d’un braccio, nè corone di perle o gemme al capo, nè cintura che valga oltre dieci lire, nè borsa d’oltre quindici soldi. Nel 1330, racconta il Villani, «fu provveduto in Firenze al lusso delle donne, molto trascorse in soperchi ornamenti di corone e ghirlande d’oro e d’argento e di perle e pietre preziose e reti, e certi intrecciatoj di perle e di altri divisati ornamenti di testa di grande costo, e simili di vestimenti intagliati di diversi panni e di diversi drappi rilevati di seta di più maniere, con fregi di perle e di bottoncini d’argento e dorati, spesso a quattro e sei file accoppiati insieme; e fibbiati di perle e di pietre preziose al petto, con segni e diverse lettere. E per simil modo si facevano conviti disordinati di nozze, e di spese soperchie. Fu sopra ciò provveduto, e fatto per certi ufficiali alcuni ordini molto forti, che niuna donna potesse portar corona nè ghirlanda d’oro nè d’argento, nè di perle, nè di pietre, nè di vetro, nè di seta, nè di niuna similitudine di corona, nè di ghirlande, eziandio di carta dipinta, nè rete, nè treccie di nulla spezie se non semplici; nullo vestimento intagliato nè dipinto con niuna figura, se non fosse tessuto, nè nullo adogato nè traverso se non semplice partito di due colori, nè nulla fregiatura d’oro nè d’argento, nè di seta, nè niuna pietra preziosa, nè eziandio smalto nè vetro, nè di poter portare più di due anella in dito, nè nullo scheggiale, nè cintura di più di dodici spranghe d’argento; e che nessuna potesse vestire di sciamito, e quelle che l’aveano il dovessero marchiare acciocchè altro non ne potessino fare. E tutti i vestimenti di drappi di seta rilevati furono tolti e difesi, e che niuna donna potesse portar panni lunghi di dietro di più di due braccia, nè scollato più d’un braccio e quanto il capezzale; e per simil modo furono difese le gonnelle e robe divisate a fanciulli e fanciulle, e tutti i fregi, eziandio gli ermellini, se non a cavalieri e a loro donne; e agli uomini tolto ogni adornamento e cintura d’argento, e giubbetti di zendado e di drappo e di ciambellotto. E fu fatto ordine che nullo convito si potesse fare di più di tre vivande, e a nozze avere più di venti taglieri, e la sposa menare seco sei donne e non più, e a corredi dei cavalieri novelli più di cento taglieri di tre vivande, e che a’ cortei de’ cavalieri novelli non si potesse vestire per donare roba ai buffoni, che in prima assai se ne davano». Sono una miniera di curiosità e d’individue notizie questi statuti suntuarj; ma ciascuno richiederebbe un commento, che appena sul luogo potrebbe condursi. Tanto per un saggio prendiamo quello di Lucca, il quale al 1308 vieta ai funerali picchiarsi le mani, nè donne scarmigliarsi e così star piangendo al cadavere, se non sia moglie, figlia o germana. Al 1362 vuole a nozze non siano più di quaranta invitati, oltre quattordici tra servitori, cuochi e guatteri. Non si diano che due qualità di vivande, cioè carni e pesci, servendo una sola per volta, e un pezzo ogni due persone; e per l’arrosto un pollo o due pollastri, o due starne, o due tortore o quaglie, o un quarto di capretto, o un mezzo papero. Non si tien conto de’ raviuoli, tordelletti, torte, nè altri mangiari di pasta, o di latte, cacio, salsiccie, carne salata, lingue investite. A cena non si tengano che venti persone e fin a otto servitori, nè si diano che due qualità di vivande, oltre erbe o formaggio o ricotta, come sopra. Non si ardisca dare confetti prima del desinare o dopo, ma una sola volta la tragea a desinare, e una a cena. Un altro capitolo prefigge il modo del secondo giorno, dopo di che più non poteasi far convito, neppure il giorno dell’anellamento. Vietasi di avere, in tali occasioni, alcun giocolare o sonatore o buffone; bensì potrà il giorno della festa aversi sonatori, che accompagnino anche la sposa per via; e il primo dì delle nozze un sonatore in casa o fuori, purchè lo stromento non sia tromba o trombetta o nacchera o cornamusa. Le dónora che la moglie manda al marito, pongansi in cofani o casse, talchè non si possano vedere per via; e i cofani non lavorati o vistosi o dorati. E qui una serie di divieti sopra tale corredo; poi altrettanti pel ricorteo, i parti, i battesimi. E via via crebbero, e nel 1473 fu proibito portar oro e argento se non sia lo spino della cintura, o fornimenti di coltellini o di libri, o agorajuoli o bottoni; non più di sei anelli; nessun vezzo al collo o ricamo qualsiasi. Perle, giojelli, fermagli proibisconsi alle donne se non dai dieci anni in su fin a un anno dopo maritate; nel qual tempo possano portar in capo fin a tre oncie di perle, da valere trenta ducati larghi; non pianelle covertate di drappo di seta o d’oro: niuna donna abbia di più di due vestiti di drappo di seta, un solo de’ quali sia cremesi; e per evitare la frode, non si porti alcun abito se prima non sia notato nel libro da ciò; e quando vogliasi mutarlo, si faccia cangiar la scritta; e dismesso una volta, nol si ripigli: proibite le maniche aperte a campana. I cavalieri e dottori di medicina o di legge e le donne loro sono dispensati da questi divieti, i quali sono assai maggiori per le contadine. «E perchè poco varre’ far leggi saluberrime se non si provvedesse al modo della observantia», si moltiplicavano le visite, gli spionaggi e il restante corredo delle leggi assurde. Poi nel 1484 ecco nuove restrizioni, tali che insomma prescrivevano il modo di vestirsi nè più nè manco, e quanto devano costare il chiavacuore, la borsa, il grembiule, il grembialotto. E nell’89 limitavansi le spese pei pasti, non si dessero tragea, cialdoni, frutti, vini, nè si facesse ornati alla camera se non di spalliere, bancali e tappeti, e sui letti e lettucci di arazzi; e lenzuoli di lino senz’oro nè argento, e coltre di seta. Segue un’altra filatera di proibizioni, la ragion delle quali è impossibile riconoscere se non al momento che vengono fatte o tolte, il che sovente succede poco dopo[83]. Per quanto inefficaci, le leggi suntuarie poteano avere opportunità quando al Governo s’attribuiva non soltanto lo smungere denari e spenderne, ma anche, siccome ad un padre in famiglia, cercare la moralità de’ suoi dipendenti. E un mezzo di moralità era il non uscire dal proprio stato; col che il ricco non contrae i vizj del povero, nè questo i vizj di quello; e le differenze di paese e l’indole non recavano già alla virtù, ma classificavano in certo modo le genti, mantenendole nel proprio carattere. Non vogliamo uscir da questo discorso senza riferire quel che i Lucchesi nel 1346 stanziarono sul modo di trattare gli otto loro anziani, dimoranti nel palazzo di San Michele in Foro. «Ciascuno d’essi sia alla messa il mattino; e qual non vi sarà al vangelo paghi denari sei, dodici qual non vi sarà al corpo di Cristo, diciotto qual non vi sarà alla benedizione. Nessuno vada fuor di palazzo, nè risponda a chi parli al collegio senza licenza del comandatore, a pena di soldi due. Ciascuno venga a collegio quando sonerà la campanella maggiore, a pena di grosso uno. Non possano andare fuori più di tre per volta, sicchè dì e notte rimanga in palazzo il collegio; ma non vi meni o faccia menar femmina, a pena di soldi cento; non vada a tavola nè si lavi le mani, se prima non è posto e lavato il comandatore, il quale al collegio, alla messa, a tavola deve sempre stare in testa, e per città andare innanzi agli altri. Niuna parola disonesta si parli alla tavola: alla messa e alla mensa si tenga silenzio, se il comandatore non desse la parola: nessuno possa invitare forestiere a desinare o cena o merenda o panebere, senza volontà del collegio; e se alcuno n’avesse la grazia, paghi due grossi allo spenditore per volta. Nessun anziano possa andare a corpo, se non fosse per sua famiglia e consortato, pena soldi quaranta; non mandar fuori alcuna cosa da mangiare o da bere; non far venire del vino da vantaggio, se non due volte il dì, e solamente un mezzo quarto per volta pagando; e sempre si tegna la cocca pel comandatore. Niun confetto si mangi alle spese del collegio, se non fossero anisi confetti o tragea di po-mangiare e di po-desinare; e chi li facesse venire, paghi del suo». Sarebbe un ripeterci il qui delineare i costumi cavallereschi, che sono per se medesimi una poesia. E in essi e in tutti domina la convinzione; onde assoluti nei comandi, nelle credenze, negli odj, negli amori, nelle persecuzioni, nelle belle e nelle sconce imprese, nel sapere e nel volere. Colla libertà dovettero assai migliorarsi i sentimenti, su numero maggiore diffondendosi le cognizioni e l’operosità. Qual cosa innalza la dignità dell’uomo meglio che l’uscire dall’angusto circolo de’ domestici affari per occuparsi de’ pubblici, sulla piazza e nel consiglio sostenere dibattimenti da cui pende la prosperità della patria? L’agitarsi delle fazioni, i patimenti degl’individui, la premura di superare gli emuli, l’ambire le cariche come testimonio della pubblica fiducia, avvezzano fin dai giovani anni ad avere una volontà, e impediscono quella sonnolenza in cui rampollano le passioni vigliacche. L’uomo sentiva di essere cittadino; misurava le morali e fisiche sue forze nella lotta cogli emuli interni o coi nemici esteriori; e nell’allevare i figliuoli, consolavasi della certezza di lasciar loro un posto in società e una speranza. Il compilare e applicare i varj statuti costrinse a coltivare la politica e la giurisprudenza. I nobili, che un tempo non servivano se non di capitani, allora andarono anche podestà, obbligati così a qualche studio o almeno a prendere in miglior concetto i leggisti, de’ cui consulti doveano valersi. Nelle città grosse, fin ducento persone pei magistrati annuali venivano di fuori, lo che accomunava le idee, cresceva la reciproca conoscenza, diffondeva tra gl’italiani la scienza di Stato: ogni podestà era superbo di lasciare il proprio nome a qualche novità o miglioramento: ciascuna repubblica era un centro di attività; ciascun uomo si affaticava negl’interessi della città propria; onde in mezzo all’Europa feudale il nostro paese compariva come un oasi della civiltà, e ne veniva grande incremento alle forze individuali ed energia ai caratteri. Che se pochi grand’uomini si vedono primeggiare, non significa che mancassero, ma che tutti i cittadini erano ad una elevatezza. Nè però abbandoniamoci a panegirici. Era egli a sperare gentilezza quando gl’interessi esacerbavano gli odj, e gli sfoghi della violenza restavano impuniti per chi eludesse la legge fuggendo sul vicin territorio, o la affrontasse appoggiato ad una fazione? Se nei castelli duravano la prepotenza e la lascivia, se il clero prorompeva a splendidezze e lussi meno a lui convenienti, neppure i Comuni offrivano esempj di castigatezza. A migliaja contavansi le meretrici, o dietro agli eserciti anche dei Crociati, o nelle città dove talora esponeansi alle corse nelle solennità pubbliche. Nell’archivio di Massa Marittima è un contratto del 3 gennajo 1384, ove il Comune vende un postribolo ad Anna Tedesca col canone d’annue lire otto, e l’obbligo di tenerlo provvisto. In un altro del 19 novembre 1370, nel diplomatico di Firenze, il Comune di Montepulciano l’appigiona per un anno a Franceschina di Martino milanese per quaranta lire, oltre la tassa solita delle femmine di conio. Francesco da Carrara, trovate molte di queste sciagurate nel campo degli sconfitti Veronesi, le collocò al ponte dei Mulini di Padova, imponendo sui loro proventi una tassa a vantaggio dell’università. Due colonne portate da un’isola dell’Arcipelago, stettero per terra a Venezia, nessuno sapendole rizzare, sinchè un barattiere lombardo vi si provò: legatele, bagnava le corde, pel cui accorciamento sollevandosi, le puntellava, e ripeteva il fatto sinchè le ebbe erette. In gente che avea San Marco sotto gli occhi, non so che mi credere di sì grossolano ripiego; ma quel che qui importa è il compenso da lui domandato, che i giuochi di zara fossero permessi in quell’intercolunnio, come seguitò per quattrocento anni, sinchè non venne infamato facendone il luogo del supplizio. A Genova, a Firenze, a Bologna esercitavansi pubblicamente quei giuochi, altrove ripetutamente, cioè inefficacemente proibiti. Le leggi municipali rivelano le abitudini del popolo, il lusso con tutte le sue corruzioni, le speculazioni sul cambio e sui fondi pubblici. A Lucca la donna libera che peccasse, era abbandonata ai parenti, che poteano infliggerle qual volessero castigo, eccetto la morte: altrove era bruciata, severità che avrà impedito le accuse. Lo statuto di Genova del 1143 a chi ammazza la moglie non commina che l’esiglio. Quello di Nizza punisce di multa e bando l’adultero dopo scomunicato; e lo stupratore col marchio rovente in fronte, se pur non si redima con cinquanta soldi: e fino gl’incendiarj poteano riscattarsi a prezzo[84]. Quello di Mantova al bestemmiatore imponeva cento soldi: e se non li pagasse fra quindici giorni, fosse messo in una corba e affogato nel lago: se un uomo parli con una donna in chiesa, paghi venti soldi, metà de’ quali tocchi al denunziatore[85]. A Susa i ghiottoni e le bagascie erano menati nudi per la città. Da tutti i racconti traspare grossolanità di costumi, non mascherata licenza nelle relazioni col sesso gentile, un rozzo compiacersi delle buffonerie, abusi di forza, masnadieri sfacciati, clero scostumato, avaro, simoniaco, eccessi di gola anche in persone ragguardevoli, scarso quel pudore pubblico che è fiore del delicato sentire, e fino ne’ potenti sfacciato libertinaggio e il concubinato. Dante non esita a relegare nell’inferno uomini di gran conto: il padre del suo dolce Cavalcanti e il sommo Farinata degli Uberti fra gli Epicurei, cioè fra quelli che badavano a godere la vita presente senza un pensiero della postuma; e fra gli oltraggiatori della natura «la cara buona immagine paterna» di quel Brunetto Latini, che gli aveva insegnato «come l’uom si eterna». In tutti però gli attori che Dante conduce ad operare in quel gran dramma di tante catastrofi, appare un desiderio di fama, che li fa per un istante dimenticare i tormenti, dimenticar l’onta che possono ricevere dall’essere saputa la loro dannazione, tanto solo che la memoria di essi riviva fra gli uomini; desiderio appena soffocato in coloro che si tuffarono in bassa ed egoistica scelleratezza, traditori, spioni e simili lordure. Tal desiderio Dante trasportò nell’altro dal mondo che avea sott’occhio, dove, tra la barbarie non bene spenta e la civiltà non bene risorta, le passioni non avevano nulla perduto del loro vigore, operando per impulso anzichè per calcolo. Aggiungete una devozione irrazionale, che vedeva un miracolo in ogni evento, premj e castighi immediati in ogni contingenza, attribuiva un santo ad ogni passione, ad ogni speranza, e santi e apparizioni faceva intervenire dappertutto, e moltiplicava voti quasi un patto col cielo per cansare i pericoli, e fin anco per riuscire ad una ribalderia. Seriamente s’attribuivano alla statua di Marte, qualora fosse mossa di posto, le calamità di Firenze. I Milanesi hanno in Sant’Ambrogio un serpente di bronzo, che credevano, ad onta d’ogni storia, lo stesso che Mosè inalberò nel deserto, e che al fine del mondo sibilerà. A salvarsi da grandine, fulmine ed altre meteore, tendevano festoni di rose e d’erbe olezzanti nelle chiese, col che premunivansi pure dal maligno sguardo delle vecchie (DECEMBRIO). Per impetrare la pioggia, faceano un gran fuoco all’aperto, e vi metteano un pentolone o una conca a bollire, in onore di san Giovanni, empiendola di carni salate e legumi, che i monelli ciuffavano e si godeano là intorno. Alle Rogazioni, donne e fanciulle formavano di pasta figure di bambini, sperando così ottenerne; ed ornavano le vie con focaccie, ova e ogni abbondanza di verdure, e ampolle pensili di latte, vino, olio, mele. Di rimpatto mi sa d’affettuoso quel ricordare i fasti patrj dal santo che quel giorno correva, dicendo che a sant’Agnese fu la rotta di Desio, a san Barnaba la battaglia di Montecatino, a san Dionigi quella di Vaprio, a san Cosma e Damiano l’uccisione di Ezelino, e via discorrete, accoppiando una memoria storica ad una religiosa. Grandi virtù, grandi delitti, grandi calamità sono proprie di tempi simili, fra cui si foggiano que’ risoluti caratteri che l’Alighieri seppe cogliere, e dalla vita reale trasferire nella sua scena soprumana, quasi senza bisogno d’aggiungervi o togliervi. Solo nella raffinata civiltà le fisionomie morali si fogiano s’uno stampo comune, alla guisa che i lineamenti esterni vengono ingentiliti e ridotti ad uniformità maggiore nelle città, mentre nella campagna conservano carattere distinto e pronunziato. Fuori d’Italia pochi sapeano scrivere, mentre qui nel 1090 abbiamo l’atto con cui Vitale Faledro doge di Venezia dona al monastero di San Giorgio case in Costantinopoli e terre, e porta non meno di cenquaranta persone sottoscritte col proprio nome e cognome[86]. Nella vita di sant’Ambrogio de’ Sansedoni di Siena si legge ch’esso da fanciullo voleva sempre avere a mano l’uffizietto, talchè a sua madre non lasciava recitar le ore, e suo padre fece fare due libriccini d’immagini, uno de’ personaggi del secolo, l’altro di santi; e il ragazzino ricusò quello, mentre di questo si dilettava senza fine. Tra gli altri popoli d’Italia, negli atti e negli scritti primeggiano i Fiorentini, sottili nel trovare spedienti, arguti nel motteggiare e cogliere con garbo e con delicatezza il ridicolo, sollazzevoli, pieni di gioconde idee, ed insieme d’indole ferma e di composta condotta; nelle lettere poi accoppiavano forza di raziocinio e prontezza, facezie e meditazione, filosofia e giovialità. Firenze «povera di terreno, abbondante di buoni frutti, con cittadini pro’ d’armi, superbi, discordevoli, ricca di proibiti guadagni, dottata per sua grandezza dalle terre vicine, più che amata»[87], pensava far lieta vita e balli per la vicinanza. All’Ognissanti era la festa del vin nuovo; a san Giovanni correasi il palio; e a quello del 1283 un Rossi formò un consorzio di più di mille popolani con statuti e vesti bianche, e un _signor dell’amore_, per mettere insieme cavalcate, balli, trionfi, con grande affluenza di gente e giocolieri e cantastorie e lieti banchetti. E la ricchezza e insieme la serenità delle Repubbliche manifestavasi ne’ divertimenti. Folgore da San Geminiano, vissuto attorno al 1260, compose una corona di sonetti sopra i mesi dell’anno, diretta a una nobile brigata di Senesi, datasi a lieto vivere, fra cani, uccelli, ronzini, quaglie, e prodezze e cortesie. Nel gennajo le dona salottini con fuochi accesi, camere e letti con lenzuola di seta e coperte di vajo, poi confetti e vin razzente per difendersi dal garbino e dal rovajo; e gli invita ad uscir fuori il giorno a scagliar neve alle donzelle che stanno d’attorno. Di febbrajo è la caccia di cervi, capriuoli, cinghiali; onde in gonnella corta e grossi calzari escano per tornar la sera co’ fanti caricati di selvaggina, e quivi far trarre del vino e fumar la cucina e stare raggianti. D’ottobre si vada in contado a trar buon tempo e uccellare a piedi ed a cavallo; e la sera a ballo e inebbriarsi di mosto; e la mattina, dopo lavati, medicarsi con arrosto e vino[88]. «Nel tempo più buono di Firenze (dice Giovan Villani) ogn’anno si facevano le compagnie e brigate e coorti di gentili uomini vestiti di nuovo, facendo corti coperte di drappi e zandali, chiuse di legname in più parti della città, e simili di donne e pulcelle, andando per la terra ballando e accoppiate con ordine, e signore con più stromenti, con ghirlande di fiori in capo stando in giuochi e sollazzo e conviti di cene e desinari». E il Boccaccio: «Furono in Firenze molte belle usanze che l’avarizia discacciò. Tra l’altre era una cotale, che molti gentili uomini radunavansi e facevano loro brigate; e oggi uno, domani l’altro, tutti mettevano tavola, onorando la brigata, ed anche qualche forestiere; e similmente si vestivano insieme almeno una volta l’anno, cavalcavano per la città, e talora armeggiavano, e massimamente in occasioni solenni». Colà pure, nel 1333, si formarono due compagnie d’artefici, l’una divisata a giallo che furono ben trecento, l’altra a bianco che furono da cinquecento, e durò un mese in continui giuochi per la città, andando due a due per la terra con trombe e più stromenti con ghirlande in testa, danzando, col loro re molto onoratamente incoronato, con drappi a oro sopra capo, e alla loro corte facendo continuo convito e desinare con grandi e belle spese[89]. La gara de’ gentiluomini in menare a casa propria chi capitasse nella terra era tanta, che quei di Brettinoro, per ovviare alle dispute che ne nascevano, posero in mezzo del castello una colonna con molte campanelle attorno; e il forestiere legava il cavallo a qualsifosse l’una di esse; e quello cui era attribuita, restava il prescelto. Anche altrove s’istituirono brigate per onorare gli ospiti, a cui correano incontro per essere primi a levarli d’in sull’osteria. Le sanguinose feste del circo cessarono, ma sempre ne continuarono di devote fra il popolo, guerresche fra i signori, a cui imitazione le fecero poi anche le città. Alla congiuntura di coronazioni, di matrimonj o d’altri fausti successi, solevansi aprire corti bandite, preparate con una sontuosità che supera l’immaginazione. Vi accorrevano musici, sonatori, saltambanchi, spacciatori di rimedj, funamboli, buffoni, che riceveano vesti, cibo, denari; imbandivansi ne’ cortili e sui prati per chiunque capitasse; nè barone o signore lasciavasi partire senza appropriati regali. Alle nozze di Bonifazio, padre della gran contessa Matilde, tre mesi continuarono i banchetti, ove convenivano (racconta Donnizone) molti duchi coi cavalli ferrati d’argento, dai pozzi attingeasi vino per un secchio legato a catena d’oro, e indicibili altre magnificenze. Dante a’ suoi giorni vide più volte «gir gualdane, ferir torneamenti e correr giostre»[90]. Le gualdane erano brigate di giovani, che uniformemente divisati, cavalcavano per la città, armeggiando, o, come allora diceasi, bagordando. Nella giostra combatteasi con aste broccate e spade ottuse, sol cercando fare staffeggiare l’avversario[91]. Più solenni erano i tornei, banditi buon tempo prima, per grandiosi avvenimenti, e sotto la direzione degli araldi, che doveano esaminare lo scudo di qualunque campione volesse provarvisi. Tale piena di romanzi oggi c’inonda, che nessun lettore nostro sarà senz’aver visto qualche descrizione di torneo, e delle feste e cortesie che gli accompagnavano. In essi, come oggi ai balli, signoreggiavano le donne, a cui toccava incorare e ornare i campioni, decidere della prevalenza, consegnare il premio. Non che corrersi lancie a onore di esse, s’istituirono corti d’amore, ove si dibatteano problemi di galanteria, e davansi decisioni in forma; e noi pure ne avemmo qualche rara volta per imitazione dei Francesi. Altre volte si scannavano e bruciavano bellissimi cavalli; o si faceano cuocere le vivande a solo fuoco di torchi di cera; o si seminava un campo con migliaja di soldi, che poi la moltitudine andava dissotterrando. In tempi di vita isolata e scarsamente abbellita, cercavansi con avidità simili occasioni di far pompa e acquistare rinomanza; vi si pensava un anno, e spendevasi in un giorno quel che in società raffinate stillasi nei piaceri abituali. Oggi un signore mette tavole discrete tutti i giorni per otto o dieci convivi, ha il teatro alla sera, frequenti balli, quotidiane comparse: il castellano isolato, una volta in vita spendeva un tesoro; più apparenza e meno realtà, più sfarzo e meno comodi. L’usanza rimase e si ampliò nelle repubbliche e nei principati che da queste uscirono. Nel 1252 in Milano tennero corte bandita presso a porta Vercellina alcune compagnie di nobili e plebei, con divisa bianca e rossa, piantando assai padiglioni e capanni di fronde, ove ognuno fosse lautamente servito; ciascun dì uscivano a far baldoria i cittadini di tre porte; ed affinchè i rimasti non fossero senza gioja, per le strade e nelle piazze erano disposte tavole da mangiare e bere chi volesse. Occasione a feste davano la venuta dei podestà o dei principi, le vittorie, e privatamente i matrimonj, i dottorati, i cavalierati. Nel 1260 gli Aretini ornavano della cavalleria Ildebrando Giratasca a spese del Comune. Di gran mattino, egli nobilmente vestito, con gran comitiva de’ suoi entrò in palazzo, e giurò fedeltà a’ signori e al santo patrono; indi passò alla chiesa madre per ricevere la benedizione, presenti i sei donzelli di palazzo e i sei tubatori. Pranzò a casa del signor Ridolfoni con due frati camaldolesi, e sovra desinare vi fu il pane, l’acqua, il sale, giusta la legge della cavalleria, e un dei frati gli tenne un discorso sui doveri di cavaliero. Entrò poi in camera, dove stette un’ora, indi a un frate si confessò; un barbiere gli acconciò barba e capelli, e ogni cosa pel bagno. Quattro cavalieri, venuti a lui con una turba di nobili donzelli, di giocolieri, di sonatori, lo spogliarono e posero nel bagno, mentre gli esponeano i precetti e le norme della nuova sua dignità. Statovi un’ora, fu posto in un letto pulito con finissime lenzuola di mussola, e il celone e tutto il resto di seta bianca. Dopo un’ora di letto, e facendosi già notte, fu vestito di mezzalana bianca col cappuccio e con cintura di cuojo; prese una refezione di solo pane e acqua; ito poi alla chiesa col Ridolfoni e coi quattro cavalieri, fe la veglia tutta notte, assistito da due sacerdoti e due cherici, e quattro donzelle nobili e leggiadre, e quattro donne mature, pregando che tal cavalleria fosse a onor di Dio, della Vergine e di san Donato. Sorta l’aurora, un sacerdote benedisse la spada e tutta l’armadura dall’elmo fino alle scarpe ferrate; celebrò messa, dove Ildebrando prese la comunione; indi offrì all’altare un gran cero verde e una libbra d’argento, e un’altra per le anime purganti. Allora, schiuse le porte della chiesa, tutti tornarono alla casa del Ridolfoni, dov’era preparata una colazione di confetti e tartare e altre delicature, con vernaccia e trebbiano. Venuta l’ora di tornare alla chiesa, il neofito, ch’erasi alquanto coricato, fu vestito tutto di seta bianca, con una cintura rossa a oro, e stola simile; e fra i tubatori e i cantanti, che suonavano e cantavano stampite in lode della cavalleria e del nuovo milite, s’andò alla chiesa fra signori e donzelli, e fra i viva e riviva del popolo. Qui si cantò messa solenne; durante il vangelo quattro cavalieri tennero elevate le spade nude; poi Ildebrando giurò mantenersi fedele ai signori del Comune di Arezzo e a san Donato, e a poter suo difenderebbe le donne, le donzelle, i pupilli, gli orfani, i beni delle chiese contro la forza e la prepotenza. Due cavalieri gli posero gli sproni d’oro, una damigella la spada, e il Ridolfoni gli diede la guanciata dicendo: — Tu sei milite della nobile cavalleria, e questa gotata sia in memoria di colui che ti armò cavaliere sia l’ultima ingiuria che ricevi pazientemente». Finita la messa, tornarono fra suoni e canti alla casa del Ridolfoni, dove innanzi alla porta stavano dodici fanciulle con ghirlande al capo, e in mano una catena d’erbe e fiori, colla quale facendo serraglia, gl’impedivano l’entrata. Il cavaliere le regalò di un ricco anello, dicendo aver giurato di difendere donne e donzelle; ed esse gli permisero l’ingresso. Al pranzo sedettero molti cavalieri e signori, durante il quale i membri della Signoria mandarongli ricco donativo, due intere armadure di ferro, una bianca con chiovi di argento, l’altra verde con chiovi e fregi d’oro, due grossi cavalli tedeschi, due ronzini, due sopravvesti nobilmente ornate. Al popolo che rumoreggiava per istrada, si gettò spesso della tragea e mustacini e galline e piccioni e oche, donde l’allegrezza s’avvivava. Dopo pranzo, Ildebrando fu armato coll’armadura bianca, e con lui molti nobili; e su cavallo bianco andò alla piazza con adorni scudieri, che portavano le lancie e gli scudi. Colà era preparato un torneamento, e gran gente a vedere; e si combattè corpo a corpo con lancie spuntate, e il neofito si comportò egregiamente; poi si torneò colle spade come fosse vera guerra, e la Dio mercè non intervenne alcun male. Cadendo il giorno, le trombe annunziarono la fine del torneamento, e i giudici distribuirono i premj; e uno ch’era stato scavalcato, dovette lasciarsi portare s’una barella da scherno. Il primo premio, ch’era un palio di drappo di seta, toccò a Ildebrando, che mandollo a quella che gli avea cinto la spada. Poi tra fiaccole e suoni egli tornò dal Ridolfoni, cenò cogli amici e i parenti, distribuì bei doni a tutti quelli che aveano preso parte[92]. Nel 1307 Azzo d’Este domandò al senato di Bologna volesse ornar cavaliere suo figlio Pietro, di quattordici anni. Gradito l’onore, si elessero dodici sapienti per ciascuna tribù che se n’occupassero, e stabilirono alloggiasse in vescovado, provvisto d’ogni cosa occorrente per sè e sua famiglia; si preparasse un bel destriero riccamente bardato, un palafreno, un mulo da donargli; una vesta di scarlatto col cappuccio e la berretta, e tabarro per cavalcare, tutto foderato di vajo, e un giubbetto di zendado giallo e azzurro; un letto con due paja di lenzuola finissime, coperta di zendado a fiocchi gialla e vermiglia, e un ricco copertojo di scarlatto; due paja calze, tre paja scarpe di sajo, una cintura d’argento lavorata, una spada dorata col fodero guarnito d’argento, un coltello col manico d’avorio guarnito d’argento, un cappello col cordone di seta, un pajo guanti di camoscio e uno di capriuolo, una cappellina foderata di vajo, una borsa, due berrette, un pettine d’avorio, due par di pianelle. Si elessero poi quaranta paggi de’ più nobili di città, vestiti a spese del Comune di zendado bianco ed argento, con cavalli ed aste. E Pietro fece la sua entrata accompagnato da quantità di gentiluomini ferraresi e bolognesi, e incontrato dal popolo e da’ magistrati a suon di trombe e tamburi. Il giorno di Natale, nella cattedrale splendidamente addobbata, come il vescovo ebbe cantato la messa, colle note cerimonie Pietro fu dal podestà vestito da cavaliere, e dal senato dichiarato figlio della città; indi il pranzo, poi la cavalcata per la città; la sera fuochi, trombe, campane per tutto; poi il giovane riccamente donato ritornò a suo padre, convogliato dai nobili di Bologna. Nei funerali privati, dinanzi alla casa del defunto coi suoi prossimani si radunavano i vicini ed altri cittadini assai, e secondo la qualità del morto vi veniva il chiericato. Ivi la madre e le vicine cominciavano sopra lui il pianto, e i congiunti sedevano a terra su stuoje. Il morto, vestito a ragguaglio della sua condizione, veniva composto s’un feretro; e sopra gli omeri de’ suoi pari, con funerale pompa di cera e di canto, alla chiesa da lui eletta anzi la morte era portato. Molte croci lo precedeano, e laici convocati da un trombetto; poi cherici e sacerdoti; seguivano le donne, quinci e quindi sostenute[93]. Gli uccisi non si lavavano; gli altri sì, ed ungevansi e spesso empivansi d’aromi. Era pur consueto sepellire coll’armi e con magnificenza di vesti, d’anelli, di collane; grande eccitamento a violare le tombe[94]. Ai medici poneasi un libro sopra il cadavere[95]. S’introdusse poi la devozione di farsi sepellire colle tonache di battuti o di frati, come volle essere Dante. Al mortorio di principi e cavalieri assisteva gran turba in bruno; e cavalli sellati senza cavaliero, vessilli, scudi, insegne, sfoggio di ceri e di strati; ed orazioni funerali, che poi ogni vulgare denaroso volle: le pompe si rinnovavano al settimo, al trigesimo giorno, ed all’anniversario. Con grande onore a pubbliche spese si esequiava il podestà che morisse in signoria. Nel 1390 messer Giovanni Azzo degli Ubaldini capitano di Siena «venne sepolto nel duomo a lato di san Bastiano. In primo al suo corpo ebbe dugendodici doppieri, legati nel castello di legname, dugenquattro da tre libbre l’uno ed accesi mentre durò l’ufficio. Vestì il Comune quattro cavalli colla balzana e colle bandiere coll’arme del popolo, ed anche vestì da sessanta uomini a bruno. Fu portato in una bara ad alto, coperta d’un bellissimo drappo d’oro, e sopra il corpo un padiglione di drappo d’oro foderato d’ermellino; e il detto padiglione portavano a stagiuoli, cavalieri e grandi cittadini di Siena. E furono vestiti venti cavalli a bruno, colle bandiere di sue arme, tutte di sciamitello, ed un uomo armato a cavallo di tutte sue armi e barbuta, spada ignuda e speroni ed altre armadure, le quali tutte rimasero al duomo. E fu nel castello di legname grande quantità di donne scapigliate, tutte di cittadini. Furono ancora a detta sepoltura tutti i priori di palazzo, e tra preti, frati e monaci intorno a seicento, ognuno dei quali ebbe torchietti di due e d’una libbra, e i cherici di sei once l’uno. E per memoria fessi la sua figura nella cappella, e attaccaronvisi tutte e ventitrè le bandiere e sue armi»[96]. Qui pure le prammatiche intervennero a por modo; e uno statuto di Mantova vieta di far corrotto e pianto nella casa del defunto, nè l’accompagnino donne maggiori di sette anni. Il senato di Bologna nel 1297 ordina che alle esequie nessuno vada lamentandosi o piangendo come si soleva; non si suonino altre campane che della chiesa ov’è il morto; niuna donna si porti a sepellire col viso scoperto, e sopra il cataletto non si ponga che un palio di seta; e dopo sepolto il cadavere, non deva la gente radunarsi di nuovo alle case, eccetto i parenti fino in quarto grado; non si vestano i morti che di scarlatto, se non siano cavalieri e dottori in legge; non vi sia all’accompagnamento più di dieci uomini, eccettuate le compagnie delle arti e delle armi. Nello statuto di Torino era prefisso, ad evitare spese e fatiche, che nelle esequie le mogli, figlie, sorelle, nipoti fino al quarto grado non uscissero di casa per seguire il morto; non si usassero ceri di oltre quattro libbre; non si facessero banchetti. La caccia stette da principio riservata ai nobili, sicchè fu distintivo di nobiltà il falco che in quella adoperavasi; andavano in volta con questo uccello in pugno, ne ornavano i cimieri, come segno d’illustre sangue l’innestavano nello stemma e sulle tombe; per esso giuravano, gloriavansi dell’abilità nel porgli i getti o il cappuccio, lanciarlo, richiamarlo, inanimirlo, avventarlo sulla preda o ritorgliela appena ghermita; carissimo lo aveano le donne, e attestavano la loro premura ai cavalieri colle premure usate all’augello cacciatore. Domesticati portavansi alle adunanze ed ai viaggi; con quelli passarono i Crociati alla liberazione del santo sepolcro; a Milano, come vedemmo, si ordinò che nel broletto nuovo, dove adunavansi i nobili e i mercanti, si ponessero gruccie su cui collocare falconi, astori e sparvieri; il falconiere era persona importante; e Federico II dettò un trattato di falconeria. Fino i preti collocavano i falchi sui balaustri o sui bracciuoli degli stalli; e il III concilio di Laterano vietò la caccia duranti le visite della diocesi, volendo che i vescovi non traessero dietro più di quaranta o cinquanta palafreni. Vietato rigorosamente ai villani di toccare la selvaggina, che perciò impunemente devastava i seminati, e sino il timido lepre diventava un flagello. Lamberto, arcivescovo di Milano, come speciale favore concedette a Burcardo, generale del re Rodolfo, di rincorrere un cervo nel suo brolo[97]. Anche negli statuti delle città son protetti con molta cura gli animali da caccia; e quel di Milano obbliga a restituire i falchi, vieta il rubar cani e prendere colombe o rondini o cicogne. I quali ultimi uccelli, ora quasi affatto stranieri alle nostre plaghe, frequenti vi comparivano, nidificando sulle torri, e purgavano da velenosi insetti[98]. Firenze avea due compagnie, dette _i Piacevoli_ e _i Piatelli_, che a gara andavano a far caccia; e a chi meglio era riuscita, tornava in trionfo con fuochi e carri ed ostentazione. S’imitarono poi le caccie vere colle finte, massime del toro: il circo di Augusto a Roma vide spesso di siffatti esercizj. Una magnifica caccia a fanali diede Alfonso di Napoli a Federico III imperatore nel recinto della Solfatara, dove pareano rinnovarsi i prodigi della magia. In una tristamente memorevole, data il 1333 nel Goliseo, Cecco della Valle, vestito mezzo bianco e mezzo nero, recava per divisa _Io sono Enea per Lavinia_, nome della sua amata; Mezzostallo, a bruno per la morte della moglie, portava _Così sconsolato io vivo_; un dei signori di Polenta, abito rosso e nero, e il motto _Se annego nel sangue ho dolce morte!_ un altro giallo, e dicea _Guardatevi della pazzia d’amore_; uno color cinerino, e _Sotto la cenere ardo_; un Conti, vestito di argento, aveva per divisa _Così bianca è la fede_; Cappoccio vestiva rosa pallido, col motto _Io di Lucrezia romana son lo schiavo_; uno, divisato a scacchi bianchi e neri, _Per una donna pazzo_; un altro, a color marino e giallo, _Chi naviga per amore, ammattisce_; un giovinetto Stulli, a bianco con legacci e pennacchio rossi, e il motto _So’ mezzo placato_; uno, color celeste, con un cane legato al cimiero, leggeva _La fede mi tiene e mantiene_; un fosco, con brache bianche e abito nero, e una colomba all’elmo con oliva in bocca, dicendo _Sempre porto vittoria_; un altro a verde pallido, _Ebbi speranza viva, ma già muore_: taciamo altri motti e divise. Man mano che uscissero dall’urna, scendevano nell’arena, e fatti inchini alle dame, impugnate le armi, davano la caccia a tori, fra gli applausi dei riguardanti. Ma nella lotta ne furono morti diciotto dalla furia degli animali, sicchè al cruento spettacolo ne seguì un altro luttuoso di accorrere al Laterano per vedere i funerali de’ trafitti[99]. Come i nobili le feste aristocratiche, così il popolo ne voleva di proprie, motivate spesso dalla religione, anche quando alla religione facevano contrasto. I pubblici giuochi per lo più erano simulacri di guerra ed esercizj di forza. Nel broglio e nel circo a Milano si congregavano in bande ad esercitarsi alla corsa o alla lotta; a Verona in Campo Fiore, a Vicenza in Campo Marzio, a Padova nel Prato della Valle, a Lucca nel Prato. In Pisa il giuoco di Ponte rammemorava Cinzica, che dicevasi aver difeso la patria da una sorpresa dei Saracini (t. v, p. 536); e le due fazioni di Borgo e di Santa Maria, affrontatesi sul ponte d’Arno, con battocchi si davano furiosamente, sinchè all’una rimanesse il vantaggio; troppo per un giuoco, troppo poco per una battaglia, com’ebbe a dire Pietro Leopoldo. A Siena si rappresentava san Giorgio armato che azzuffavasi con un drago, finchè gli applausi annunziavano la vittoria. Quei di Prato aveano vanto nel giuoco del calcio, i Fiorentini nel pallone a bracciale, i Senesi nel pugilato, e alla Lizza e nel Campo frequentavano le feste delle quali un’ombra dura tuttavia nelle corse che, di luglio e di agosto, si fanno sopra dieci cavalli, divisati ciascuno diversamente[100]. Risalgono a quel tempo altri giuochi popolareschi non ancora dimenticati, come correre al villan rosso, alla pignatta, all’oca sospesa, e così la cuccagna, e piantare il majo, e somiglianze. La gioventù molto addestravasi nel cavalcare, preparamento alla guerra; e a frotte correvano la gualdana, o faceano pellegrinaggi di piacere, o numerosi incontri a principi e grandi. Frequenti ripeteansi anche le luminare; frequenti quanto variati i balli; e le corse ora di barberi sciolti, ora montati da un fantino; e poichè il primo premio consisteva ordinariamente in un palio di seta o di lana, dicevasi _correre al palio_; al quale poi andavano uniti ronzini, falchi, porci, galli, cani da caccia, guanti ed altre gentilezze. Reputavasi fiero insulto alle città assediate il far correre il palio sotto le loro mura; e Castruccio, vinti i Fiorentini, pose le loro porte per meta ad una corsa di cavalli, poi di pedoni, infine di meretrici. Moltiplicavansi i divertimenti al carnevale, nome che alcuni deducono dall’abbandono de’ cibi grassi, come si dicesse _vale alla carne_[101]. Pare finisse dappertutto colla prima domenica di quaresima, come si mantiene nella diocesi di Milano, ove pure san Carlo faticò assai per escludere le baldorie da essa domenica. A chi non è conto il venerdì gnoccolare di Verona? Roma ha i suoi moccoletti; e più antica la processione di carri, che l’ultima domenica di carnevale drizzavasi a Monte Testacio. A Pavia in due piazze sotto le mura due parti della città venivansi incontro squadra a squadra ed uomo a uomo con elmetti di vinco imbottiti, portanti il segno di ciascuna compagnia; la celata al volto, la criniera, e scudi e mazze di legno. I generali precedevano colla bacchetta, accennando all’assalto d’un monticello, d’una casa, d’un ponte, ove ciascuno facea sue prove. Il podestà vegliava non si offendessero con armi vere; e dopo il carnevale continuavano duelli con mazza e scudo[102]. «In Firenze (dice Benedetto Varchi) usavano nei giorni di carnevale i giovani, massime i nobili, uscire fuori travestiti con un pallone gonfio innanzi, e venire in Mercatovecchio e in tutti i luoghi ov’erano le botteghe e i traffichi dei mercanti e degli artefici, e quivi dando a quel pallone, e mescolandosi con gli altri cittadini, e traendo loro addosso il pallone, e cercando di metterlo fra le botteghe, farle serrare, e finire così per quei pochi giorni le faccende. Così non facendo ad alcuno male, fuor quello di scioperarlo, in Mercatonuovo talora si formavano in cerchio, e spartiti faceano una partita al calcio... Degenerato poi l’uso innocente, sturbavano tutti, e gettavano fango»[103]. In Venezia era così antico il gusto de’ divertimenti, che Pietro Orseolo I, nel 978 abbandonando il corno ducale e il mondo pel chiostro, dispose delle sue facoltà mille libbre d’oro a favore de’ parenti, mille pei poveri, mille pei divertimenti pubblici[104]. Già nel 1094 erano segnalati i suoi carnevali, che fin agli ultimi tempi trassero da ogni parte chi amasse il libero sollazzarsi. La maschera, che sottraeva l’uomo alle indagini, permetteagli di penetrare fino nel gran consiglio, e ravvicinava il plebeo al nobil uomo, il barnabotto al frate, la merciaja alla dogaressa, v’era dalle leggi protetta con punizioni più severe a chi l’ingiuriasse. Vinto Ulrico patriarca d’Aquileja e fattolo prigione con molti nobili, i Veneziani il gravarono di mandare al doge, ogni mercoledì grasso, dodici majali e altrettanti grossi pani; poi al giovedì, in commemorazione faceasi la festa di tagliare il capo ad un bue e ad alcuni porci che il popolo si godeva. Intanto eransi eretti nella sala del Piovego piccoli castelli di legno, che il doge e i senatori demolivano. Poi dall’antenna di una nave tiravasi una gomona fin alla sommità del campanile di San Marco, per la quale un marinaro ascendeva ajutato da certi ordigni, indi calava alla loggetta per presentare al doge un mazzo di fiori. Anche fuor del carnevale, Venezia era particolarmente rinomata per le sue feste; balocchi che la nobiltà offeriva alla plebe onde sviarne il pensiero dai rapitile diritti. Il ratto delle fanciulle (t. V, p. 526) diede origine all’annua festa dell’ultimo di gennajo, ove dodici _Marie_ erano sposate con dote pubblica, portata entro arselle: ma poichè l’allegria era degenerata in turpitudini, vi si surrogarono dodici fantocci. Il giorno delle Palme, liberavansi alcuni uccelli e piccioni dalla loggia di San Marco, ed era una festa il rincorrerli e il narrar le venture. Alquanti, scampati all’attacco, si annidarono sul campanile e moltiplicarono, fin ad oggi rispettati dalle rivoluzioni e dal despotismo. All’Ascensione, quando traeva un mondo di gente alla fiera, esponevasi un fantoccio di donna, che diventava modello al vestir femminile di quell’anno, non variato, come ora si fa, ad ogni arrivo di corriere. Ivi pure esibivansi all’ammirazione i capi d’arte; ed in una delle ultime, Canova preluse al risorgimento della scultura, presentando il suo Dedalo ed Icaro. Quel giorno stesso il doge sposava il mare. Le mense, che per santa Marta disponevansi lungo il canale della Giudecca, servite quasi di solo pesce, porgevano occasione a stringere o rannodare amicizie. Ai patrizj poi la Repubblica stessa imbandiva solennemente in certi giorni, con isfoggio di cristalli e quantità di zuccherini e canditi, che i convitati portavano a casa. Volgendosi i divertimenti a formare buoni marinaj, si frequentavano le regate, delle quali la prima è ricordata nel 1315; quindi il senato decretò si facessero nel giorno di san Paolo. Una volta per settimana, nobili e popolani doveano esercitarsi al bersaglio a Lido. Il pugilato faceasi da settembre a Natale su ponti senza sponda. Nelle famose forze d’Ercole gareggiavano i Castellani vestiti a rosso, e i Nicolotti a nero, vincendo quelli che s’elevassero a maggior numero di palchi; poi finito, traevano certe spade smussate, e paravano e ferivano come in moresca, o ballavano la furlana. Nei boschi della badia di Sant’Ilario fra Gambarare e la laguna, i caccianti dovevano ai monaci la testa e un quarto d’ogni cinghiale che pigliassero; a vicenda i monaci doveano al doge prestar cani e cavalli quando vi venisse a cacciare, e nutrirne i falconi e i bracchi. La vigilia di Natale faceasi una gran caccia, e il doge distribuiva a ciascun magistrato e padrefamiglia cinque capi di selvaggina: al che, sotto Antonio Grimani, si surrogarono le _oselle_, monete d’argento, a questo sol uso coniate; e la raccolta delle quali oggi è una preziosità. Il giovedì santo egli riceveva il tributo del pesce, che parimenti distribuiva. Cinque banchetti pubblici s’imbandivano ogni anno; a san Marco, all’Ascensione, a san Vito, a san Girolamo, a santo Stefano: per lo più di cento coperti, il doge invitandovi antichi magistrati e persone ragguardevoli. Nella sala del banchetto si sfoggiavano argenti del doge e dello Stato, trionfi di cristalli colorati; i ministri poteano parlare al doge e corteggiarlo; un popolo di curiosi vi assisteva in bautta, fra cui spesso insigni forestieri; le donne correano da un convitato all’altro motteggiando colla vivacità ch’è sì propria delle veneziane; qualche volta un poeta v’improvvisava, come più tardi fece la Cassandra Fedeli; più spesso v’avea musica e spettacoli. Allo sparecchio, gli scudieri dogali venivano a presentare a ciascun convitato un gran paniere di dolci, e mentre i padroni accompagnavano il principe alla sua dorata prigione, il gondoliere di ciascuno entrava a prendersi quel paniere, e recarlo a chi gli era stato imposto, invidiato testimonio di predilezione. Secondo Rolandino, nel 1214 si finse in Treviso il castello dell’onestà, invece di spaldi e di merli, munito con pelli di vajo, porpore, zendadi, stoffe, ermellini, e dentro le più belle donne e donzelle, coperte non d’elmi e corazze, ma di vesti pompose. Erano accorsi alla festa i giovani da Padova, da Venezia e dal contorno, tutti in bell’addobbo; e divisi in drappelli sotto lo stendardo della patria, s’accinsero ad attaccare l’amorosa fortezza. Da projetti servivano melarancie, confetti, fiori e frutti, acque odorose, e dolci parolette. Con armi siffatte si prolungò la scherma, finchè i Veneziani mutaronle in zecchini; per raccorre i quali le Trevisane si diedero vinte. E già lo stendardo di San Marco penetrava nelle porte indifese, quando i Padovani, tenendosi soperchiati, cominciarono a forbottare, stracciarono il gonfalone, e si diè di piglio alle armi. La rissa fu chetata, ma Venezia pretese soddisfazione; e fu imposto che ogni anno i Padovani spedissero alla città trenta chioccie, alle quali davasi la libertà; ed era una ressa tra ’l popolo per raggiungere le _galline padovane_. Dopochè, cacciando Pagano podestà del Barbarossa, si furono vendicati in libertà, i Padovani celebravano annualmente la festa de’ Fiori, menando attorno il carroccio, tirato da bovi e cavalli coperti di rosso coll’arma del Comune, e su di esso dodici fanciulle nobili inghirlandate di fiori e spargendo fiori, mentre fiori piovevano loro dalle finestre e davanti ai passi: ventiquattro cavalieri marciavano di fianco al carroccio, giunto il quale nel prato della Valle, cominciavasi una zuffa di questi con quelle a fiori, poi tra i soli cavalieri con arme; seguivano combattimenti di campioni armati con rotelle e mazze di legno, e di bravi inermi con sacchetti di sabbia. Le naumachie, colà rammentate fin da Tito Livio, si continuavano lungo il canale di Sant’Agostino, o in quello che lambiva a occidente il Campo marzio. Ad avventure incerte dell’età dei Comuni attacca Vicenza la festa della Rua, per la quale, il giorno del _Corpus Domini_, strascina per la città a tutta forza di braccia un’altissima macchina a pennoncelli e stemmi e persone; baccano carnevalesco in giorno devoto. Quando Bologna ebbe, nel 1281, acquistato Faenza per tradimento di Tibaldello Zambraso, ordinò che ogni anno il giorno di san Bartolomeo si corresse per strà maggiore un cavallo addobbato, uno sparviero, due cani bracchi, un carniero e la baracagna, cioè la gruccia che si attacca all’arcione quando si va a caccia col falco. Inoltre si arrostisse una porchetta, e a mezza cotta il cuoco a cavallo la portasse sullo spiedo per detta strada fin alla porta, tenendo nella man sinistra lo sparviero; poi tornato la cocesse a perfezione, e, finito il corso, fosse a suon di trombe gittata dal palazzo in piazza ai biricchini colà famosi. Messina, per l’Assunta, oltre le luminare e le corse, manda in volta un finto camello, in cui la tradizione ravvisa la memoria del conte Ruggero, allorchè, cacciati i Saracini, v’entrò alla orientale; mentre in due statue colossali, che pur si portano attorno fra assordante schiamazzo, indica Zancle e Rea, favolosi fondatori di essa città. I Cremonesi, la vigilia di quel dì, celebravano una festa a cui attaccavano le memorie di Zannino dalla Balla, che li redense dal tributo d’una palla d’oro all’imperatore: e quelle della vittoria sopra i Parmigiani. Cominciavasi dalla _battaglia_ fra ragazzi sulla piazza maggiore; poi i facchini schizzavano dell’acqua, e i mugnaj della farina sopra la folla, che ne restava tutta bianca: lasciavasi correre un toro legato, che menavasi quindi per la città: poi nuove zuffe per acquistare il _rigotto_, berretto listato che gettavasi tra i facchini, e chi se ne impadronisse toccava sei zecchini: le statue di Zannino e di Berta vestivansi di panni adogati bianco e rosso, ogn’anno rinnovati a spese dei fornaj. A Verona, il 26 dicembre, esponeansi le maschere: poi il lunedi e martedì del carnevale si andava nell’Arena a festeggiare: dopo le ventiquattro ore poteva chicchessia levare le insegne di qualsifosse bottega, e sopra di essa, per quanto minima di valore, farsi dare dall’oste fino a sei lire e quattro soldi in vitto; il quale oste faceasene rimborsare dal padrone dell’insegna. Due vedovi che si sposassero doveano contribuire ciascuno l’un per cento della dote ai ragazzi della contrada ove abitavano, altrimenti venivano derisi con un baccano fatto sotto le loro finestre (le bacinelle): del denaro avuto si facea gozzoviglia o limosina o qualche festa sacra. Tali feste continuarono a lungo fra gl’Italiani, e valsero a renderne lieti e arguti i caratteri, quali li vediamo personificati nelle nostre maschere da scena. I tiranni ne preparavano di più frequenti, sapendo quanto facilmente si conduca un popolo che ama divertirsi; e nel secolo XVI le vedremo abbellirsi di tutto lo splendore delle arti. I buffoni erano arnese necessario non solo nelle Corti ma e nei palazzi del Comune, sì lautamente trattati da patirne gli erarj[105]: alcuni nobilitaronsi col nome di minestrelli. Spesso eran nani, che coi frizzi vendicavansi degli scherzi cui la loro deformità gli esponeva. Talvolta usarono del privilegio della pazzìa per dire ai principi verità che altrimenti non v’avrebbero trovato accesso: per questa via alcuni ottennero l’immortalità, negata agli scopritori delle più utili arti, come il Gonnella del duca di Modena, Ponzino della Torre fra i Cremonesi, altri altrove. Alle varie solennità ecclesiastiche dell’anno erano affisse certe costumanze, in parte derivate dall’antichità, in parte introdotte di fresco, e che non ancora furono dimentiche. Per l’Epifania a Firenze si portava attorno un fantoccio di cenci in mezzo ai lumi, ed altri si esponeano alle finestre, onde le tante baje sulla befana. Meglio a Milano una comitiva figurante il corteo de’ re magi moveva da Sant’Eustorgio preceduta da una stella; alle colonne di San Lorenzo incontrava re Erode, e gli domandava del nato Messia; poi tirando innanzi giungeva al duomo, e quivi trovato un magnifico presepio, offriva i doni; indi dall’angelo avvisata, volgevasi al ritorno per porta Romana. Più affettuosa era la domestica gioja del dì di Natale, quando il capocasa levavasi sulle spalle un ceppo, ornato di rami e fronde sempreverdi, e recatolo per la casa, il ponea sul focolare, attorno al quale esultava la riunita famiglia. Quando a Pavia, la vigilia di san Siro, offrivansi al tempio ceri enormi, precedeano la processione i tavernaj, recando sopra una tavola un castello; dietro a loro i cacciatori con un albero, a’ cui rami erano legati di ogni razza uccelli, che portati in chiesa liberavansi: poi venivano le corse degli scudieri al gallo vivo e alla porchetta arrostita, e quella delle meretrici a’ salcicciotti; e finalmente gozzoviglie[106]. A Firenze pel san Giovanni faceasi un carro altissimo pien di santi e figure simboliche; e sulla piazza de’ Signori fin cento torri dorate, con entro uomini; e dappertutto palj, e gonfaloni, e macchine cariche di ceri e d’altri doni; infine fuochi d’artifizio, di cui i migliori artisti non isdegnavano dare le invenzioni variate. In alcuni luoghi, a Pentecoste davasi il volo in chiesa a piccioni bianchi, tra fiori e lingue di fuoco e frastuono popolare. Quando Firenze fu signora di molte città, ciascuna dovea quel giorno mandarvi il suo cero, e fin ventotto se n’ebbero, alti sei o otto braccia, con bambocci di carta, e quello di Pescia e San Miniato quaranta persone ci voleva a portarlo. Qualcosa di simile praticavasi nelle altre città, a Milano per la Madonna nascente, a Bologna per san Petronio, a Modena per san Geminiano, e così discorrete. Qual v’è città o borgata che non festeggiasse con modi drammatici il santo tutelare? Alcuna fiata poi se ne celebrava qualche maggiore, come i Fiorentini nel 1304 mandarono un bando che «chi volesse sapere novelle dell’altro mondo, dovesse andare il dì di calen di maggio in sul ponte alla Carraja e d’intorno all’Arno»; e su quel fiume ordinarono palchi, ove figurarono l’inferno coi tormenti e i tormentati. La soverchia folla cagionò che il ponte cadesse, e molti ne guastarono la persona, sicchè il giuoco da beffe tornò a vero, e «com’era ito il bando, molti per morte andarono a sapere novelle dell’altro mondo». E come presso gli antichi gli spettacoli dovevano invigorire il coraggio ed eccitare sentimenti patriotici, così nel medioevo sentivano l’ispirazione comune, l’ecclesiastica, e insinuavano devozione. Per ciò facevansi il più spesso in chiesa, e da diaconi o preti; donde abusi che rivelano più sempre la mistura di serio e beffardo, di compunzione e d’allegria, che ricorre in tutte le opere di quell’età. A certe feste, tutti dovevano comparire in figura di volpi, e in qualunque abito fossero, magistrati o prelati, usciva loro di dietro la lunga coda. In commemorazione della fuga in Egitto celebravasi la festa degli Asini, ove al canto affettuoso s’intercalavano ridicoli ragli. Queste cose facevansi sul serio, e noi stessi in fanciullezza potemmo vedere processioni e feste, che, come oggi a riso, così allora ci movevano a devozione. Men ridicoli apparecchi atteggiavano i fatti che la Chiesa rammemorava in quel giorno. A tali _misteri_ tutte le arti prestavano servigio, e davansi, non nelle angustie mefitiche d’un teatro a scapito della salute e della fermezza del cuore, ma al gran sole, nelle piazze, talvolta trasportandosi da paese a paese. Ne crebbe l’uso colle crociate, quando i pellegrini reduci voleano al vivo riprodurre gli atti su cui avevano meditato in Palestina; e scelte situazioni analoghe al Calvario, a Betlem, a Gerusalemme, vestivano sè ed altri cogli abiti che aveano veduto agli Orientali. A Roma nel 1264 era istituita la società _del gonfalone_ per rappresentare la passione di Gesù. Alla compagnia _de’ battuti_ a Treviso i canonici doveano annualmente somministrare due cherici, bene istruiti a cantare, per far Maria e l’Angelo nella festa dell’Annunziata[107]. Rolandino al 1244 riferisce come, nel prato della Valle a Padova, si figurò la passione di Cristo: ivi stesso il 1331 si ordinò di rappresentare ogn’anno nell’anfiteatro il mistero dell’Annunziazione. La cronaca del Friuli di Giuliano Canonico ricorda che, il 1298, alla corte del patriarca si rappresentarono dal clero la passione e la risurrezione di Cristo, la venuta dello Spirito Santo, il giudizio finale; e nel 1304, dal capitolo di Cividale, la creazione, l’annunziazione, il parto, la passione, l’anticristo. Chi tra’ miei lettori è così giovane da non averne visto gli avanzi in contado? Sono queste le origini del teatro, che ritoccheremo quando il troveremo cresciuto. CAPITOLO XCIX. Belle arti. Fu di mezzo a tale prosperità che risorsero fra noi le lettere e le arti belle, serena gloria d’Italia. Caduto l’impero d’Occidente, coi resti della civiltà le arti si erano rifuggite a Costantinopoli, onde venne intitolato bisantino il modo che allora ebbe corso. L’arco e la volta, immenso progresso portato dai Romani, si continuarono abbandonando l’architrave, e voltando direttamente l’arco sopra colonne, le quali non erano fatte di nuovo, ma tolte da edifizj anteriori: mancavano i capitelli? se ne surrogavano di rozzi, con qualche fogliame grossolano e poco rilevato, o incrociamenti di linee, o qualche testa disavvenente. Gli archi, acciocchè impostassero su colonne di diversa altezza, furono talvolta allungati in basso; in alcuni meno appariscenti si deviò dal perfetto semicircolo, ora schiacciandolo verso il sesto acuto, ora prolungandolo a ferro di cavallo, ora dandogli forma d’un frontone; talvolta nello sfogo d’un arco se ne chiusero altri minori, appoggiati sopra colonnine[108]. Ravenna, che conservò meglio il carattere dell’Oriente, ha maggiori esempj di stile bisantino, sempre ad archi e volte. San Vitale, che san Massimiano eresse imperante Giustiniano, all’esterno è informe costruzione di cotto, ma, come entri, ti sorride in un regolare ottagono del diametro di quaranta metri, con cupola emisferica e due ambulacri, de’ quali l’inferiore imposta su otto pilastri, vestiti di marmo greco venato; ogni cosa poi adorna senza discrezione con avanzi antichi, massime dell’anfiteatro, e con bei musaici. La quale pittura di marmo fregia e contorna le porte, le finestre, gli altari in tutti gli edifizj di quello stile. Il vicino mausoleo di Galla Placidia, sacro ai santi Nazaro e Celso, forma croce latina senza anditi laterali nè tribuna, avente al centro l’altare di tre grandi tavole d’alabastro orientale. Quadrilungo a tre navi è pure Sant’Apollinare nuovo, eretto da Teodorico, con musaici, tombe, iscrizioni, e lavori di alabastro, di porfido, di cipollino, di marmo pario e serpentino; comunque guasto dai Barbari, e forse più dai correttori. Ivi stesso, fin dal 417 era finita Sant’Agata, a tre navi sorrette da venti colonne, ma ogni cosa fu mutata, eccetto la pianta; e così la gran basilica di Sant’Apollinare in Classe con tre ampie navate e tre tribune, ed archivolti robustamente profilati. Al duomo, fabbricato da sant’Orso nel 540, è annesso un battistero forse dell’età medesima, formato di due circoli da otto arcate, che portano la cupola. V’è chi reca al IX secolo il battistero d’Asti, a quattro angoli fuori e otto dentro, e il palazzo delle Torri a Torino, facciata di cotto[109]. La parola _edificare_, trasferita a senso morale, accenna come la scienza architettonica accoppiasse idea di devozione e lode di esemplari costumi. In fatto i vescovi erano talvolta gli architetti, più spesso i promotori di nuovi edifizj; per cura del vescovo Epifanio si fabbricò il duomo di Pavia; pel vescovo Eufrasio la basilica di Parenzo in Istria, ricca di musaici; per altri il monastero e il tempio di Montecassino, le chiese di Sant’Evasio a Casal Monferrato, di Napoli, di Siponto, di Firenze, di Lucca. L’atrio della basilica di Sant’Ambrogio a Milano, comandato dall’arcivescovo Ansperto, con archi semicircolari sorgenti dai pilastri, tiene della maestà se non dell’eleganza romana. Le tante dispute sull’età delle chiese presunte d’età longobarda ci tolgono di valerci degli esempj del San Michele e San Pietro di Pavia, della Santa Giulia di Brescia, del San Fridiano di Lucca; sol bastando che non vi si vede uno stile nuovo, ma variazioni dell’antico. Nessun papa forse passò senza d’alcun lavoro giovare le chiese della sua metropoli, decoro al culto e alimento alle belle arti quando ogn’altro mancava. Leone III, oltre fabbriche assai, profuse lavori di metallo fino, fece rivestire la Confessione di San Pietro con 453 libbre d’oro, e sotto all’arco trionfale collocare un balaustro d’argento di 1573 libbre, coll’effigie del Salvatore, e un leggìo al pulpito, e un ciborio, tutti di argento; riedificò il battistero di Sant’Andrea, rotondo colla fonte nel mezzo, circondata da colonne di porfido, in cui versava linfe un agnello d’argento stante sovra una colonnina; e pose alla basilica di Laterano vetri dipinti, che sono i primi mentovati. San Giorgio in Velàbro, Santa Prassede, Santa Maria in Dominica, Santa Cecilia in Trastevere, San Nereo e Achilleo, Santa Sabina, San Giovanni a Porta Latina, San Martino ai Monti, San Michele in Sassia, San Pietro in Vincoli, Santa Maria in Cosmedin, altre chiese di Roma furono in quelle età adorne colle spoglie di tempj antichi. Nè di pitture manca menzione. Gregorio Magno vide espresso un sacrifizio di Abramo sì al vivo (_tam efficaciter_), da commoverlo al pianto; le geste de’ Longobardi fece ritrarre Teodolinda a Monza; una madonna a Gravedona sul lago di Como, regnante Lodovico Pio, pianse miracolosamente; altre di poco posteriori sono rammentate nelle chiese della Cava, di Casuaria, di Subiaco, di Montecassino. Alcune ancora sopravanzano, principalmente ne’ musaici, nelle miniature, ne’ sigilli, nelle monete; e sono inamene figure, con occhi spiritati, mani assiderate, piedi in punta. Il tesoro di Monza convince che neppure il lavoro de’ metalli nobili era dismesso sotto i Longobardi; eppure le costoro monete non potrebbero essere più rozze. Insigni sono la pala d’oro di San Marco a Venezia, tutta a smalti; e il paliotto di Sant’Ambrogio a Milano, già menzionato a pag. 436 del tomo V, su cui sono a continuo parallelismo le azioni del santo e quelle di Cristo: l’Annunziazione della Vergine, e le api che fanno il favo nella bocca del neonato Ambrogio: l’Ascensione del Salvatore, e l’entrare del santo nella gloria; e così via[110]. In molte chiese, ma più nelle romane, si conservano lampade, turiboli, evangeliarj di quel tempo; e in San Pietro la dalmatica di cui si rivestivano gl’imperatori, con soggetti sacri a ricamo d’oro e argento riccamente composti. Niuna età fu dunque diseredata d’arti fra noi, ma attorno al Mille crebbe l’operosità, sia per la devozione alle reliquie, cresciuta allora, come narrammo; sia che gli uomini si sentissero rassicurati sulle terre che dapprima erano percorse da orde o da nazioni intere predatrici; sia che si manifestassero anche in ciò la risurrezione delle città annichilate dal feudalismo, e il prosperare del commercio e della libertà comincianti. San Ciriaco di Ancona, alzato allo spirare del X secolo, architondo a croce greca con cupola, è bisantino, come Santa Maria Rotonda fuor di Ravenna, e le sette badie che il marchese Ugo fece in Toscana. Nel 1014 il duomo vecchio di Arezzo modellavasi sul San Vitale di Ravenna, a otto faccie, e l’architetto Mainardo lo compiva nel 1022, servendosi delle spoglie del teatro e d’altri edifizj vetusti. A Firenze, verso il 1013, Ildebrando vescovo edificò San Miniato al Monte, dov’è un musaico che mostra indirizzo al bello; San Lorenzo fu ingrandito nel 1059; nel 1085 fabbricata Sant’Agata. Nel 1028 il vescovo Jacopo Bavaro avea fondato San Pietro e Romolo, cattedrale di Fiesole, a tre navate, con colonne e capitelli romani, dicono tolti da un vicino tempio. Pistoja nel 1032 avea cominciato il suo San Paolo: il Sant’Andrea, colla facciata a marmi bianchi e neri, è del 1166 a disegno di Gruamonte e Adeodato fratelli, che fecero a bassorilievo l’Adorazione de’ magi. Dal 1060 al 70 si compì San Martino di Lucca, e Anselmo da Bagio vescovo vi collocava il voltosanto, coperto poi dal vago tempietto di Matteo Cividale: dal 1043 al 78 San Zeno di Verona, ove la torre di piazza è del 1172. Sulla facciata del duomo d’Empoli si legge il 1093[111]. Anteriore certo al 1118 è la magnifica chiesa di Sant’Antimo in val d’Orcia, a tre navi arcuate a tutto sesto sopra colonne. Nel 1099 Modena da un Lanfranco facea rinnovare la sua cattedrale, ove dopo sette anni trasferivansi le reliquie di san Geminiano; ancora di stile longobardo a tre navate a pieno centro, col santuario elevato sopra la confessione, e con molte sculture d’un Wiligelmo, che argomenterebbesi germanico dall’avervi raffigurato i fiordalisi e la storia di re Arturo. Il duomo di Borgo San Donnino fu consacrato nel 1106, coperto poi di ricche sculture, e l’anno 1190 i collegati lombardi vi si adunavano a giurare i patti della pace di Costanza. Nel 1107 Adamo Ognibene e Ossolaro Tiberio disegnavano il duomo di Cremona; e Teodosio Orlandino il battistero nel 1167. Nel 1166 Gruamonte e Adeodato fratelli faceano la facciata del duomo di Pistoja, scolpendovi l’adorazione de’ Magi. Del battistero di Parma, disegno di Benedetto Antelami ricchissimo di sculture, fu messa la prima pietra nel 1196, l’ultima nel 1270. Seguono il Piscopio di Napoli, San Pietro e San Petronio di Bologna, Santa Maria di Sarzana, con colonne di marmo portanti arcate arditissime e non legate di ferro. Altre chiese del Valdarno superiore a questo modo, che ora denominano lombardo, meritano attenzione, e singolarmente quella di San Pietro a Grossina. Le repubbliche marittime si proposero d’emulare i monumenti antichi che vedeano in Levante. San Marco di Venezia, cominciato nel 977, dicono nel 1071 fosse terminato, press’a poco quale oggi si vede, disposto a croce greca col centro coronato da gran cupola, e ciascun braccio da una minore, non emisferiche, ma oblunghe, e con forami arcuati. Le colonne con capitelli quadrati sono congiunte per archetti tondi, che attorno alla nave e ai bracci sorreggono gallerie; sopra un’altra serie di archi piantasi il tetto; e un velo copre il santuario, alla orientale. La facciata, larga quanto l’edifizio, ha cinque porte in sghembo: finissimi i marmi, e gli archivolti di curva variata. La Signoria stanziò che nessuna nave tornasse di Levante senza prendere fra ’l suo carico statue, colonne, bassorilievi, marmi, bronzi, altri materiali di prezzo, che uniti ai musaici, formarono il più bel tipo d’architettura bisantina in Italia, regolare nel piano quanto capriccioso ne’ particolari. Avanti al 1008 da Orso Orseolo vescovo era edificata Santa Maria di Torcello, non alla orientale, ma sulle basiliche romane, col coro elevato, e sovra alla cripta l’altare; e più lungi l’abside semicircolare, con magnifico presbiterio. Contemporanea ma di modo bisantino è Santa Fosca nell’isola stessa. Di questo tempo pure la regina del mar ligure fabbricava San Lorenzo, della cui facciata la parte migliore si terminò nel 1100. Già vi esistea la chiesa dei Santi Vittore e Sabina: Santo Stefano si cominciò nel 960, le Vigne nel 991. Nel 994 sorse la nuova cattedrale di Savona, dove un dipinto serba la data del 1101. I Pisani già possedeano San Pietro in Grado con colonne e capitelli greci e romani, dov’erano dipinti i papi fin a Giovanni XIII del 965: ora colle spoglie dei Saracini vollero fabbricare la primaziale, maestosamente elevata sopra un terrazzo. Il Buschetto, che l’architettò, avea combinato una macchina, per cui dieci fanciulle sollevavano un peso, cui sarieno appena bastati mille bovi od una nave[112]. Ch’egli avesse studiato sulle opere de’ primi tempi cristiani lo palesa la disposizione di quattrocencinquanta colonne, recate da Levante e tolte da anteriori monumenti o tagliate allora, forse nell’isola d’Elba, e perciò di proporzione e merito diverso. Nel 1100 l’opera era compita, e diciott’anni appresso papa Gelasio II la dedicava a Maria. Capi d’arte raccattati di lontano l’arricchirono, e cimase ed epigrafi antiche e spezzate e capovolte, e tritamente collocate alla rinfusa con altre nuove ricordanti i fasti pisani, confondendo statue grandi e piccole, lavori squisiti con goffi. Servì d’esempio ad altri edifizj fra lo stile greco e il romano, de’ quali un de’ migliori fu il battistero, che porta la data del 1153 ed il nome di Diotisalvi. Rotondeggia sovra tre gradini, ornato da tre schiere di colonne corintie affisse al muro, e da infiniti fregi di maniera gotica; per tre gradini si scende nell’interno, dove sta il vaso ottagono pel battesimo: otto colonne e quattro pilastri sopportano le arcate, sopra cui corre un secondo ordine, che regge la cupola allungata a pera. Qui pure l’architetto si dovette adattare ai materiali che aveva alla mano, e supplire come seppe alla variante misura delle colonne e de’ capitelli, alcuni dei quali furono ben imitati sopra gli antichi. Terza meraviglia di quell’incantevole piazza, nel 1174 vi si alzava il campanile; gran cilindro, rivestito a profusione di bassorilievi e statue, con ducentosette colonnine, varie di forma e di materia, e con capitelli, alcuni di greca eleganza, altri a fogliami grossieri e teste d’uomini e d’animali. È opera di Buonanno da Pisa, cui si aggiunsero Guglielmo e Giovanni d’Innspruk: e sembra che, già sorto a certa altezza, il terreno cedesse da una parte, e l’architetto s’accorgesse di poter proseguire senza pericolo l’innalzamento; talchè ora strapiomba di tre metri sopra quarantacinque d’altezza: bizzarria derivata dall’accidente, e altrove imitata di proposito. Perchè potessero entro terra santa riposare quelli cui non era dato passare in Soria, cinquanta galee pisane, ite alla crociata con Federico Barbarossa, riportarono terra di colà, e se ne formò il Camposanto, finito il 1283. Giovanni da Pisa lo foggiò a chiostro, con portico ad archi tondi, ma a frastagli e archetti gotici, tutto marmo bianco; e dentro si adunarono sarcofagi, iscrizioni, anticaglie, quasi in un museo; abbellito poi dai pennelli migliori delle età successive, tanto che vi si può seguitare la serie degli artisti italiani. Il campanile di San Nicola è opera alquanto più tarda di Nicola pisano; e fors’anche quello della badia di Settimo, rotondo al piede, ottagona la canna, piramidale la cuspide. Procedeano dunque contemporanei due sistemi d’architettura: l’uno conforme alla basilica romana con linee rette e coperture angolari; l’altro alla bisantina con curve e con cupole, le quali, da emisferiche sopra un cilindro come le facea Roma, sorsero a più vaste proporzioni, e svilupparono i pennacchi, per appoggiarsi su quadrato o ottagono. La cupola di San Vitale a Ravenna è formata con doppio ordine di vasi a spira: quella di San Michele a Pavia posa su piano ottagono che s’innesta al quadrato mediante pennacchi, prima idea dei timpani: al domo di Pisa e di Corneto sono ellittiche; oblunghe quelle di San Marco, senza intermezzo fra la calotta e i pennacchi. Gli edifizj che su mentovammo, e i duomi di Piacenza, di Verona, di Terracina, di San Leo di Ancona, passavano dal romano bisantino allo stile lombardo o romano: in alcuni appare l’arco acuto, se non altro nell’incrociarsi dei costoloni della volta. La nazionale vanità sarebbe blandita dal credere che da questa derivasse l’architettura gotica; ma non ce n’ajuta la storia. L’arco acuto, suggerito naturalmente dalle grotte, fu imitato in sostruzioni e acquedotti; e senza uscire d’Italia, l’abbiamo nella porta Sanguinaria ad Alatri nel Lazio, città fondata da Saturno forse duemila anni avanti Cristo, e nella porta Acuminata pur nel Lazio, di costruzione ciclopica[113], e in alcune fogne di Roma. Quelli delle cento canterelle di Nerone a Miseno, e di qualche forno di Pompei, sono piuttosto capriccio e accidente che sistema. Da noi l’arco acuto dapprima apparve unito col tondo. A Subiaco, deliziosa solitudine a cinquanta miglia da Roma presso le fonti dell’Anio, attorno alla grotta di San Benedetto si fabbricarono chiesuole e celle, dinotate col nome di Sacro Speco: distrutte o guaste da Longobardi e Saracini, vennero riedificate nell’847 dall’abate Pietro, che particolarmente restaurò la cappella da Leone IV consacrata a San Silvestro, scarpellata nella roccia, a volta acuta, come altre escavazioni di colà. Sopra le quali nel 1053 l’abate Umberto cominciò una chiesa, e dopo tredici anni l’abate Giovanni la fece servire di confessione al tempio che vi eresse: e fosse per rispetto ai venti ed alle nevi, o per imitazione d’essi sotterranei, fu disposto a volte acute, come anche il monastero di Santa Scolastica che ne dipende. È arcacuta la chiesa di Chiaravalle tra Ancona e Sinigaglia del 1172: nel qual modo l’anno seguente fu restaurata parte della cattedrale di San Leo nell’Urbinate. Tali appajono alcuni portici di Rimini nel 1204, e si mescolano agli emisferici nel San Flaviano presso Montefiascone, rifabbricata da Urbano IV. Così timidamente s’insinuava quella novità, spesso non occupando che gli spazj ove non poteva tondeggiarsi la volta. Nella Porziuncola, cameretta di san Francesco or rinchiusa in Santa Maria degli Angeli d’Assisi, l’arco acuto della porticina è inserito in uno a pieno centro. Buon pezzo prima che l’arco acuto divenisse comune, l’ampiezza delle cattedrali, l’elevazione delle guglie, il girar delle navi attorno al coro, ed altri caratteri del gotico si trovano nelle tante chiese erette verso il Mille, avanti che si vedessero nelle crociate le asiatiche, da cui alcuno vorrebbe l’imparassimo. Non escludiamo però l’influenza orientale; e dagli Arabi furono probabilmente erette la Zisa e la Cuba a Palermo, e certo la fortezza e i bagni d’Àlcamo sul monte Bonifato, le une e gli altri aventi l’arco retto. Altre fabbriche mostra il Mongibello presso Siracusa, le città di Polemi e Lonama due secoli fa serbavano ancora pregevolissimi avanzi; e così il porto di Marsala. Prima del 1132 Ruggero normanno faceva nel suo palazzo di Palermo la cappella di San Pietro, dove, sopra colonne corintie di preziosi marmi orientali, voltano in punta tutti gli archi e il trionfale; ed ergeva l’ampia cattedrale di Cefalù, con capricciosi intrecci d’archi acuminati d’ogni grandezza o sfogo: dorature, musaici, iscrizioni servono d’ornamento. Al 1174 rapidissimamente si finiva il più splendido monumento d’arte siculo-normanna, il duomo di Monreale, ad archi acuti, con profusione di musaici e con un mirabile chiostro, tutto, fin le colonne, a scolture e musaici. Contemporaneamente s’innalzavano la Martorana, Santa Maria dell’Ammiraglio, San Cataldo, la Matrice e Santo Spirito a Palermo, la cattedrale a Messina, di cui il tremuoto non risparmiò che una porta, Santa Maria di Randazzo; e sempre col sesto acuto, quale pure nella cappella di San Cataldo a Palermo, anteriore al 1160[114]. Colà dominavano e Arabi e Normanni, sicchè ne traggono prove e quei che derivano il gotico dall’Oriente e quei che dal Settentrione. Però la pianta ritrae ordinariamente dalla romana-cristiana, la cupola ha del bisantino, mentre l’arco si allunga alla musulmana, e i fregi e ghirigori arabeschi s’alternano con pezzi tolti da edifizj classici. Le fabbriche normanne e sveve dell’Italia meridionale sono simili, pur non eguali a quelle di Sicilia; e primeggia il duomo di Salerno, eretto il 1080 da Roberto Guiscardo. Il portico quadrilatero che precede, ha colonne corintie, levate dalle ruine di Pesto, sormontate da archi tondi: la porta maggiore è fregiata con gusto classico: bisantini sono il coro e le tre tribune: squisito il musaico al coro, all’ambone e alla cantoria. Archi acuti sopra colonne antiche sono nel duomo di Amalfi, e archi moreschi nell’attiguo chiostro; siccome pure in quel di Ravello, legantisi con fantastica varietà. I duomi di Troja, di Trani, di Bitonto, San Nicolò di Bari, hanno parti che si rivelano di quell’età; e il Castel del Monte, palazzo di Federico II, quadrangolare con torre simile, abbellisce le forme germaniche con cornici e frontoni antichi. Destatasi poi in quel tempo portentosa attività di fabbricare e restaurare, si moltiplicarono le opere arcacute. Nel sacro convento d’Assisi poco dopo il 1226 frate Elia eresse a san Francesco il famoso tempio, o piuttosto tre tempj un sovrapposto all’altro. Nell’inferiore prevale ancora l’arco tondo; ma nel superiore appajono regolarmente gli archi in punta, impostati sovra piloni, da cui sorgono le colonne del corpo superiore a fasci, e il cui costolone principale s’incrocia con quello del pilastro vicino per formare il colmo. Divenuta modello delle altre chiese innalzatesi al nuovo santo, questa contribuì non poco a diffondere il gotico. Sull’architetto non s’accordano, ed il Vasari nomina a sproposito un tedesco, padre di Arnolfo di Lapo: altri opina che e Lapo ed Arnolfo imparassero da Nicola pisano, al quale darebbero lode di quel disegno[115], del resto troppo somigliante ai tedeschi. Del vedere a un tratto gli edifizj assumere il sistema gotico, non si può per avventura dare più conveniente spiegazione che l’influenza delle loggie massoniche. Come le altre arti, così i maestri di fabbrica erano stretti in corporazioni, e fin le leggi longobarde ripetutamente parlano de’ _magistri comacini_ (t. V, p. 144). Intende de’ capomastri, i quali dai laghi di Como e di Lugano andavano già, come vanno ancora, per tutto il mondo in uffizio di fabbricare: e forse per opera loro le corporazioni muratorie furono connesse ne’ varj paesi con riti solenni d’ammissione, e riconosciuta giurisdizione particolare, cioè franca; onde il loro nome di Franchi muratori o Franchimassoni. Essi trasmettevansi tradizioni arcane intorno ai metodi del costruire; il che fece progredire la meccanica, conoscere a punto la spinta delle volte, la forza degli archi, la forma meglio conveniente, ed altre norme che dipoi andarono perdute in grazia del segreto con cui erano custodite. Ma per quel misto di regola e d’indipendenza che riscontrammo sì spesso negli istituti del medioevo, gli accessorj abbandonavansi al genio inventivo di ciascuno, poichè i Franchi muratori erano fratelli, non manovali; donde una varietà inesauribile, fino a nuocere all’armonia del tutto, e non congiungere alla grandezza di concetto e all’ardimento meditato la ragionevolezza de’ particolari. Non v’è bello fuor del classico, diceano fin a jeri gl’idolatri dell’antichità, e perciò consideravano il gotico un erramento d’ignoranti, tutto insania e capricci; alla bella quantunque uniforme colonna ne surroga di isolate, or tozze, or gracilissime, or a fasci, ora attortigliate, spirali, poligone, striate; ad alcune s’avviticchiano pampini, su altre arrampicano animali; spesso portano iscrizioni; sovrappongonsi fila a fila senza interposto cornicione; alla voluta e al grazioso acanto succedono ne’ capitelli le grasse foglie del cavolo e del fico; spesso costoloni sgarbati, membri incoerenti senza riposo nè armonia, sicchè il debole sostiene il robusto; piloni di rinforzo ingombrano l’arco; facciate fuor di proporzione, con gugliette e tabernacolini e frastagli e sporti d’enormi acquarj; finestre altissime finite a lancetta, o divise da colonnine, e spesso sormontate da un altro foro a trifoglio o a rosa; boni che portano colonne o pile dell’acqua benedetta, nanerottoli e mostri, ed altri delirj di fantasie ineducate. Eppure chi guarda senza prevenzioni di scuola, s’accorge che un pensiero armonico coordina le parti a un concetto comune e vivo, sicchè, vedendo un edifizio, si dice _È gotico_. A differenza delle regole odierne prestabilite, tutto era libero, tutto si sperimentava, nè un genere escludeva l’altro; e come nella letteratura era un misto delle tradizioni antiche colle ispirazioni nuove, così nell’architettura si accordarono concezioni indigene, ricordanze greche e romane, gusto orientale. Era un grande progresso l’ottenere con minori mezzi eguale effetto, un dato spazio coprendo con numero e volume minore di sostegni e con più facili materiali. Se poi i monumenti sono la scrittura de’ popoli, talchè il cambiare d’architettura esprime cambiamento di civiltà, e non avrà originalità in essa chi non l’abbia nelle idee; confessiamo che quei così detti rozzi ottennero ciò che fu impossibile ai secoli di Leon X, di Luigi XIV e di Napoleone, creare una novità, ergersi ad un bello più elevato e spirituale. In questa nuova sua fasi come nella primitiva, l’architettura era sacra, ed esercitavasi specialmente nelle case di Dio, immagini imperfette e finite del modello infinito della creazione progressiva[116]. Pertanto la gotica adottò quanto avea di forme simboliche e di mistiche proporzioni la basilica de’ primi Cristiani; arcano massonico. Tutto era allegorico, tutto traeva i fedeli verso l’origine del vero culto e la superna destinazione del tempio, tutto dovea rammentare che la Chiesa non è compagine di sassi, ma edifizio vivente, di cui Gesù Cristo è pietra angolare, e membri i fedeli. Il numero tre e la figura triangolare dirige l’elevazione, non meno che le costruzioni secondarie; a croce la pianta, a croce le areste sovra il capo del pregante, e lo stromento della redenzione messo in ogni dove, ricorda la rigenerazione per via del patimento; sgomento e fiducia, vita e morte ne spirano d’ogni dove con un misto indefinibile; e Dio lo riempie tutto, come l’universo di cui è immagine. L’arco in punta, le smerlature, le piramidette, le guglie elevate al cielo, pare invitino il pensiero a staccarsi dalle basse cose, o rappresentino i voti dei mille credenti che s’elevano concordi a Dio. Il bujo delle navate, la nudità delle pareti, le sfogate volte echeggianti, gli enormi pilastri dietro a cui nascondersi a piangere l’uom penitente, le tombe di persone addormentate nella speranza della risurrezione, tutto infonde una pietà austera insieme e consolante. Poi il suono degli organi (istrumento per eccellenza, che le mille voci accorda in una sola sublime), e i moti e le pose de’ cherici, e la piena de’ cori popolari, rappresentano la vita, che riceve spiegazione dalla morte. Solito abbellimento n’erano le vetriate a colori. Già trovatisi in chiese greche e latine, come in Santa Maria Maggiore di Roma; nel XII secolo poi si cominciò a divisarvi storie sacre, ripetendo all’occhio ciò che all’orecchio avevano detto i sacerdoti, e così pei sensi e per l’immaginazione giungendo al cuore e all’intelletto. Vi ebbero lode molti Gesuati, ed anche varj Domenicani. Le cattedrali ornavansi pure col culto de’ sepolcri, seconda religione dei popoli e delle famiglie; e stesi sovra la propria tomba si figuravano cavalieri, dame, prelati, anch’essi con un’espressione determinata, sicchè poteasi leggere in quella generazione di statue la storia de’ tempi. Qui il re in trono con diadema e scettro, o il doge col suo corno; colà la sposa di Cristo, con allacciati alla cintura i capelli che recise il giorno che si consacrò a Dio; l’amor conjugale era indicato dal riposare costa a costa i due sposi colle mani intrecciate; l’angelo della morte sospendeva le corone sopra il bambolo che portò seco tutte le speranze de’ genitori; una nuda pietra col nome, e colla parola _De profundis_ o _Miserere mei_ indicava il requietorio d’un frate, che forse aveva regolato i consigli dei principi e le sorti d’un regno. Le basiliche dei Frari e di San Giovanni e Paolo a Venezia danno nei sepolcri la storia delle arti dal 1300 in poi: di più antichi se ne riscontrano in tutte le nostre cattedrali e chiese, che sfuggirono alle vandaliche restaurazioni. Ben è scarso di sentimento chi non ammira la fratellanza di popoli che potevano sollevare opere tali senz’altri sussidj che della spontanea carità; la fede che gittava le fondamenta d’edifizj, a cui solo i più tardi nepoti porrebbero il fastigio; la religione d’uomini che empivano quelle vaste navate per ringraziare il Signore d’aver loro dato una patria! Perocchè, un altro dei caratteri per cui piaciono le cattedrali gotiche, si è l’essere alzate per concorso di tutto il popolo, per limosine e spontanei servigi di corpo. I Crociati al ritorno fondavano un monastero od una chiesa per voto o per memoria o colle spoglie degl’infedeli; la predicazione di un frate animava a farvi ciascuno oblazioni secondo sua possa; talvolta la tassa per la dispensa dalle astinenze quaresimali volgevasi a quest’uso, o il ricavo d’alcune indulgenze; a chiunque testava, ricordavasi la fabbrica del duomo; i Comuni contribuivano a questi edifizj le somme che poi furono obbligati tributare al fasto di principi; il San Lorenzo di Genova percepiva il decimo di tutte le eredità e un tanto per cento sulle gabelle, ebbe donazioni molte in Terrasanta, e a vantaggio suo si stipulavano tributi e omaggi cogl’imperatori. L’essere le costruzioni dirette per pubblico consiglio, anzichè impacciare il genio degli artisti, faceva che il gusto si estendesse. Ma, come accade, l’impeto veniva meno, laonde rimasero incompiute la più parte delle opere gotiche[117]. Fosse poi in essi sentimento di devota abnegazione, o ignorante incuria ne lasciasse perir la memoria, ben pochi conosciamo degli architetti; neppur si trovano i primi disegni o piani, o si volessero ravvolgere nel mistero, o si mandassero alle loggie massoniche di Germania, da’ cui archivj di fatto ne uscì alcuno recentemente. A Bono lombardo sono attribuiti diversi lavori in Napoli, Ravenna e altrove, e specialmente il campanile di San Marco in Venezia, costruzione inconcussa benchè appoggiata sopra palafitte. Al San Martino e al San Michele di Lucca pose la facciata un Guidetto nel 1200, a più ordini di colonnette e che man mano si restringe, come in altre fra le poche chiese dì Toscana finite. A mezzo quel secolo contava Siena sessantun maestri di pietra, e probabilmente siffatte compagnie costituivansi dovunque si fabbricasse. Il suo duomo, cominciato forse nel 1089, coperto e consacrato nel 1180, non s’ammira tanto per grandiosità quanto per la bellezza e la profusione di marmi e bronzi. La cattedrale di Ferrara è del 1135, opera d’un Guglielmo, e colle sculture d’un Nicolao, che lavorò pure la facciata di San Zeno a Verona nel 1138, ov’è scolpito, come su quella di Ferrara, _artificem gnarum qui sculpserit hæc Nicolaum_ ecc. Su entrambi v’erano ghirigori, animali simbolici, porta coll’arco sporgente, sostenuto da colonne intrecciate, e queste da leoni; e sulle porte laterali erano rappresentati i dodici mesi. Ma il duomo ferrarese è d’arte più avanzata, con più grandiosi concetti, più ricco ornamento, potendo la facciata di questo considerarsi come il punto più elevato dell’arte lombarda, e forse il primo in Italia dove l’arco acuto si mescolasse al tondo. Sciaguratamente l’interno fu tutto rinnovato, parte nel 1498, parte nel 1637 e finalmente nel 1711[118]. Duccio di Buoninsegna senese inventò i pavimenti di marmo bianco, con incavi riempiti di pece, a modo di giganteschi nielli: e n’è l’esempio più insigne nel duomo della sua patria, colla sacristia ricca di preziosi codici miniati, e abbellita poi dagli affreschi del Pinturicchio sopra disegni di Raffaello. Macchione d’Arezzo servì di molte fabbriche Innocenzo III, e nel 1216 alzò la pieve della sua patria ed il campanile con tre ordini sovrapposti di colonne variatissime ne’ fusti, ne’ capitelli, nelle combinazioni, e con istrane fantasie d’uomini e belve che sopportano le moli. Arnolfo di Cambio di Colle, che falsamente chiamano di Lapo, diresse in Firenze la loggia in piazza de’ Priori, l’ultima mura, Santa Croce, e il palazzo vecchio della Signoria, di vigorosa semplicità e grandezza. L’impeto medesimo che portava sì innanzi gl’Italiani sulle vie della civiltà, li traeva pure ad ornarsi colle arti belle; nè fu favore di principe che queste allattasse, ma l’entusiasmo popolare. Margaritone non credea compensar meglio il magnanimo Farinata, che col regalargli un suo crocifisso; i Veneziani a Gentile da Fabriano assegnano un ducato al giorno e il privilegio di portar toga da senatore; i Pisani aveano ceduto qualche città dell’Asia all’imperatore Calojanni perchè sovvenisse a fabbricare il loro arcivescovado e la cattedrale di Palermo. I Perugini mandarono a supplicare Carlo d’Angiò di conceder loro Giovanni da Pisa onde ornare di sculture la loro città: quando poi esso Carlo giunse a Firenze, il Comune l’invitò a vedere il quadro che allora Cimabue stava terminando; ed egli vi andò col suo corteggio, e dietrogli i magistrati e tutto il popolo; e tanta fu la contentezza, tanto l’applauso, che quella strada ne conserva ancora il nome di Borgo Allegri: e poichè il quadro fu compito, venne recato alla chiesa con solennissima processione, e all’autore lauti premj ed onori. Quando Andrea pisano ebbe fuso le porte di San Giovanni a Firenze, alla Signoria fu concesso uscire dal palazzo ove dovea stare rinchiusa, per venire a vederle cogli ambasciadori di Napoli e Sicilia. Poi esso Comune emanava questo memorabile decreto: — Atteso che la somma prudenza d’un popolo di origine grande sia di procedere negli affari suoi di modo, che dalle operazioni esteriori si riconosca non meno il savio che magnanimo suo operare, si ordina ad Arnolfo, capomastro del nostro Comune, che faccia il modello o disegno della rinnovazione di Santa Reparata, con quella più alta e suntuosa magnificenza che inventar non si possa nè maggiore nè più bella dall’industria e poter degli uomini; secondo che da’ più savj di questa città è stato detto e consigliato in pubblica e privata adunanza, non potersi intraprendere le cose del Comune se il concetto non è di farle corrispondenti ad un cuore, che vien fatto grandissimo perchè composto dell’animo di più cittadini uniti insieme in un sol volere»[119]. Conforme a tale decreto, Arnolfo di Cambio architettò Santa Maria del Fiore a croce latina ed archi ottusi, sostenuti da piloni formati di quattro pilastri, con capitelli a fogliame; e l’ampiezza degli archi dà idea di grandissima estensione, mentre la semplicità, da altri disapprovata, tempera l’aspettativa, talchè il riflettervi non diminuisce la prima impressione. Quattro denari per lira, esatti sulle merci che uscissero di città, e due soldi per testa ogn’anno, fu l’ajuto che Firenze diede alla devozione per esigere quell’insigne monumento religioso e nazionale. Il vicino battistero, fabbricato forse nel VI secolo con materiali antichi, fu da Arnolfo disposto e ornato, levando ciò che discordava dalla sua destinazione, e rivestendolo del marmo nero di Prato. Di bella e maestosa semplicità fece egli prova anche in Santa Croce, ove allo scolo dell’acque provvide con tetti a frontispizio e doccie di pietra immurate. Di Santa Maria Novella (di cui si poser le fondamenta il 7 ottobre 1279) fanno architetti frà Jacopo Talenti da Nipozzano e due Domenicani frà Sisto e frà Ristoro, i quali dentro, dicono per ottico accorgimento, diminuirono a gradi lo sfogo degli archi, come si userebbe in prospettiva. Lorenzo Maitani senese ergeva allora il duomo d’Orvieto, che in quell’altura dovette costare ingente prezzo; e riuscì finitissimo nelle particolarità, massime nella facciata, d’eleganti proporzioni, e tutta a rilievi e musaici che sono una bellezza a vedere: la varietà delle pietre che li divide a fasce, è spesso riprodotta negli edifizj toscani. E se si pensi come piccola città sia quella, più fa meraviglia che abbia voluto emulare le maggiori con iscolture di Arnolfo, di frà Guglielmo, di Agostino ed Angelo da Siena, di Mosca, e pitture di Gentile da Fabriano, del beato Angelico, di Benozzo Gózzoli, del Signorelli e d’altri eccellenti. Di gran sapere architettonico diede segno Nicola pisano ne’ Frati Minori di Firenze, poi nel Santo di Padova, alla cui costruzione papa Alessandro IV invitava tutta cristianità(1231). Suo figlio Giovanni si sperimentò in molti luoghi, e singolarmente a Perugia nel mausoleo di Benedetto XI, e nella ricca fontana storiata, di tre bacini sovrapposti, elevata su dodici gradini, e tutta a ninfe e grifoni di bronzo, costata censessantamila ducati. In patria lavorò Santa Maria della Spina, giojello di minuto artifizio, e il famoso camposanto. Da Carlo d’Angiò fu chiamato a fabbricare il Castelnuovo a Napoli, disegnò le facciate del Duomo d’Orvieto, condusse un bellissimo musaico per l’altar maggiore di Arezzo. Andrea pisano nel 1304 cominciò l’arsenale di Venezia, il più glorioso monumento di quella città, come ora il più compassionevole. Gattapane o Catapane fece il palazzo di Gubbio, ove si conservano le tavole eugubine. Da noi nel gotico prevaleva il massiccio al finestrato, non si poneano i contrafforti, consueti in Germania, ma piuttosto molte decorazioni di frontoni, di gugliette, di tabernacoli; e di rado si seppe innestare i campanili al tutt’insieme. Poi non fu mai esclusivo, e v’avea contraddizioni di stile fra le parti inferiori e le superiori, le quadre e le puntute; la linea perpendicolare e piramidale non lanciavasi coll’ardimento de’ nordici, e cedea spesso alla classica orizzontale; nè l’arco acuto escludeva l’emiciclico, che troviamo unito a quello in insigni edifizj, quali il camposanto di Pisa, Or San Michele di Firenze, le cattedrali di Siena, di Orvieto, di Padova, la cappella sotterranea di Montefiascone. Il Palazzaccio dei Soderini a Corneto internamente è di marmo bianco a tre ordini di loggie, di cui i due primi arcoacuti, l’altro di colonnette corintie sostenenti l’architrave piano. A Roma, se ne togli Aracœli e Santa Maria presso Minerva, ai restauri non sopravive quasi di gotico che qualche decorazione. Tutto insomma indica che il gotico qui fu imitato, non indigeno, e venne sovraposto all’antica forma bisantina ed alla romano-cristiana. Misti sono gli ordini anche nel broletto di Milano e in quello di Como a marmi tricolori: nella qual città fu il 1396 tolta a rifabbricare la cattedrale, ch’è tra le migliori di gusto lombardo, tutta marmi del paese, arricchita poi con ornati d’ottimo sentimento. Pel San Petronio di Bologna, architettato nel 1388 da Antonio di Vincenzo, uno dei sedici riformatori e ambasciatore a Venezia, si fece un modello di legno e carta a un dodicesimo del vero, e doveansi demolire otto chiese circostanti; e sebbene non compiuto nella grandezza designata[120], mirabili ne sono gli ornamenti, e maestosa l’interna disposizione. Il Piemonte, oltre Sant’Andrea di Vercelli, fondato dal cardinale Guala de’ Bicchieri nel 1219 quando tornava dalla nunziatura di Inghilterra, ad archi acuti, torre a cupola, finestre rotonde, mostra un bel gotico nella badia di Vezzolano, inosservata fra le colline del Monferrato. La cattedrale di Asti e San Secondo hanno maniera lombarda. Appartengono a men severi e più splendidi tempi il duomo di Milano e la Certosa di Pavia. Il primo si cominciò, o piuttosto si ripigliò con fervore nel 1386[121]; e l’architetto ignoto, tenendosi nella pianta alla regolarità delle basiliche, nell’elevazione s’avvicinò alle cattedrali nordiche, e specialmente a quelle di Strasburgo e di Spira, che sono i più bei monumenti di Germania. Gli acutissimi archi delle cinque navate a croce latina impiantano su cinquantadue piloni poligoni, con capitelli adorni di ricchissima varietà; centodue guglie, quante nessun’altra fabbrica italiana, ornate esse e tutto l’edifizio di tremilatrecento statue di marmo. Fino a quest’oggi fu palestra agli artisti; e nel cinquecento il Gobbo Solaro, il Vairone, il Bambaja, il Brambilla, il Fusina ed altri lo fregiavano di sculture, gran pezza superiori al San Bartolomeo scorticato di Marco Agrati, che gode una fama popolare non meritata dall’esecuzione, e meno dal pensiero. Contemporanea, ma in istile più italiano, cominciavasi la Certosa presso Pavia. Ignoto l’architetto primitivo; l’ortografia esteriore è ad elegantissimo disegno d’Ambrogio da Fossano, pittore detto il Borgognone nel 1472, e potè dirsi compiuta nel 1542. Non cede che a San Marco di Venezia in marmi e pietre preziose; ed è foggiata a croce latina, lunga settantasei, larga cinquantatre metri, in tre navate ad archi acuti, quattordici cappelle e due sfondi di croce. All’incrociamento sorge il pinacolo a loggiati interni ed esterni, più simiglianti al bisantino che al tedesco, e dove l’effetto è cresciuto dalla policromatìa, essendovi bellamente uniti il marmo e la terra cotta. Vi sono fusi varj ordini, e profusi gli ornati, i trofei, i monumenti, dove singolarmente notevoli sono la porta maggiore e il mausoleo di Gian Galeazzo. Capolavoro poi credo il cenobio, con un cortile di cento metri il lato, a colonnine di marmo, e tutt’intorno un fregio ornatissimo di terra cotta; e dà accesso a ventiquattro cellette, ciascuna a due piani con giardinetto, scompartimento comodo quanto ingegnoso. E speciale bellezza degli edifizj sacri d’allora sono i chiostri, derivati dal cavedio che gli antichi aprivano nel mezzo de’ loro palazzi per dar aria e luce ed agevolare le comunicazioni interne. Stendonsi i più in un vasto parallelogrammo, circondato da uno stilobate, sul quale posano colonnine, che sostengono altrettanti archetti o un continuo architrave: in mezzo sta il giardino con un pozzo: le pareti offrono le storie dell’Ordine, o iscrizioni sepolcrali. Il bellissimo di Santa Scolastica a Subiaco[122] è dovuto ai Cosmati, generazione d’artisti che spesso ricompare ne’ monumenti romani di quel tempo. Quello de’ Benedettini a Monreale di Palermo ha le colonne binate secondo la grossezza dello stilobate, differenti una dall’altra, rivestite di musaici, e particolarmente ricche attorno alla fontana, per quanto risparmiarono le man ladre degli Spagnuoli. Tra i molti di Roma basti mentovare quel di San Paolo fuor delle mura, colle arcate divise da grossi pilastri quadrati, che sostengono le volte della galleria; e sulla facciata da colonne doppie come a Monreale, e sormontate da un cornicione: variatissimi i membri, non meno che i capitelli e la cimasa; e ogni cosa a musaici, fino il gocciolatojo della cornice. Tali esempj stavano certo sott’occhio a Michelangelo quando condusse lo stupendo di Santa Maria degli Angeli, con cento colonne, degno d’emulare le terme di Diocleziano, sulle cui rovine lo piantava. Come la Chiesa, così la patria dava lavori e ispirazioni agli artisti: nessuna città mancò del palazzo comunale, con sale bastanti al popolo congregato, senza fasto, e sopra di esso la campana elevava la voce solenne per congregare tutti a discutere degl’interessi di tutti. Fra Giovanni eremitano modellò il coperto della sala della Ragione di Padova, la più vasta d’Italia: frà Ristoro e frà Sisto fiorentini fecero in patria i ponti sull’Arno e varie vôlte del palazzo pubblico. I signori poi, costretti a prendere domicilio cittadino, vi vollero abitazioni solide quanto i castelli che abbandonavano. E tante erano, che i Ghibellini, presa Firenze nel 1248, demolirono trentasei palazzi con torri, fra cui quella de’ Tosinghi in Mercato vecchio, ornata a colonne di marmo, alzavasi centrenta braccia; di quella di Guardamorto tale era la solidità, che coi picconi non se ne poteva levar pietra, onde Nicola pisano suggerì di puntellarla con travi, scalzarla da un dei lati, poi, bruciando i sostegni, lasciare che diroccasse. Così a Bologna, a Cremona, a Padova e altrove si obbligarono i signori a mozzare le torri fin ad una certa misura, perchè gli uni non soperchiassero gli altri[123]. Le città, viste da lontano, con tante torri e comignoli e cupole e campanili, davano un aspetto differente in tutto dalle antiche: dentro poi modificavasi l’architettura a norma del terreno o del governo. A Genova, angusta di spazio, si fanno palazzi elevatissimi, e giardini pensili a scaglioni: a Venezia occorrendo grandi sale e magazzini aerati e chiari, si fa correre su tutta la fronte un finestrato: a Bologna, per fiancheggiare di portici la strada, se n’aggiunge uno a ciascuna casa: a Napoli e in Sicilia, non temendosi neve, si surroga ai tetti il terrazzo ove asolare: a Firenze le diresti fortezze, con finestre anguste, enormi bugne, porte massicce: il palazzo dei duchi di Ferrara, cinto di fossa, palesa un uomo che fa tremare e trema; mentre quello del doge di Venezia sta in mezzo al popolo da cui trae il potere. A ogni passo poi si trovano in presenza chiesa, feudalità, Comune, la cattedrale, il palazzo, le rocche, la città, i borghi, gli spedali, i conventi; tutti gli edifizj sono un elemento della storia; e il sentimento della loro destinazione faceva si cercassero le grandiose proporzioni, più che l’eleganza, la grazia, la purezza, che fanno l’eterno vanto dei Greci e Romani. Roma imperiale avea già preso gusto ai marmi variegati, cui coloriva anche artifizialmente e dorava, e disponevali a tarsie o a musaico. L’arte fiorì tra i Bisantini, ma presto se ne lavorò anche altrove, e massime fra i monaci in Italia; più che a pavimenti però adoprandola ad ornare pareti, balaustri, sedie vescovili, con pietre dure incastrate in marmo riccamente scolpito e talvolta ricoperto di smalto e d’oro. A Roma v’è musaici d’ogni epoca, che basterebbero a tessere una storia dell’arti: il più antico è forse quello di Santa Sabina, comandato il 424 da papa Celestino[124]; e il più notevole quello di Sant’Apollinare dentro a Ravenna, con figure alte da tre metri, che coprono tutte le pareti laterali. Non ne mancano nelle città occupate da’ Longobardi, da essi ebbe nome San Pietro _in ciel d’auro_ a Pavia, e Liutprando ne ornò la basilica di Sant’Anastasia a Corteolona presso il Po. Attorno al Mille, Leone Ostiense scrive che Desiderio abate di Montecassino trasse da Lombardia (col qual nome intendeva l’Italia meridionale), da Amalfi e sin da Costantinopoli valenti artefici di musaici, di marmo, d’oro, argento, ferro, legno, gesso, avorio; e soggiunge che la maestra latinità, avendo trascurato da cinque secoli la musivaria e la quadrataria, la ricuperò pei molti fanciulli addetti a quel convento, che in tal magistero s’addestrarono, e che forse eseguirono poi i tanti musaici delle chiese normanne in Sicilia. Le storie del Testamento fatte in musaico sotto Sisto III nella Liberiana di Roma, e già citate nel concilio Niceno II del 787, ancora vi si vedono. Nell’arcone e nella tribuna di Santa Prassede n’ha del IX secolo. Sotto al portico di Santa Maria in Transtevere, ove i capitelli presentano immagini di Iside, Arpocrate, Serapide, sta un’Annunziata del secolo XIII, molto notevole, e musaici nella tribuna del 1143, rozzi di forma, eppur già mossi più che i bisantini. Erano lavorati da nostrali o da Greci? Risoluzione difficile ove gli artisti per imitazione modificavano la maniera, o si tenevano a tipi indeclinabili. Certamente vi divennero poi abilissimi i nostri, e agli antichi del Vaticano di nuovi ne aggiunsero Jacopo e Mino da Torrita senesi; il qual ultimo, ajutato da fra Jacopo da Camerino, condusse quello nella nave traversa del Laterano, compiuto poi il 1292 da Gaddo Gaddi, con ricca simbolica. Sulla facciata del duomo di Spoleto è un musaico del 1207, coll’iscrizione _Doctor Solsernus hac summus in arte modernus_, con vivacità occidentale. Sei anni dappoi nasceva a Firenze Andrea Tafi, gran maestro di questo artifizio. Neppur l’arte del fondere metalli erasi perduta. Il lodato Desiderio abate di Montecassino, viaggiando il 1062, vide da un Andrea compiuta la porta di bronzo ad Amalfi; Pantaleone di Viaretta fece fare nel 1087 quella di San Salvadore in Atrani; di dieci anni la precedette quella che alla cattedrale di Salerno pose Roberto Guiscardo, rozza per verità e somigliante a quelle teste consunte a San Paolo di Roma, e lavorate il 1070 da Stauracio a Costantinopoli: un’altra chiude la tomba di Boemondo d’Antiochia a Canossa; due alla cattedrale di Troja portano gli anni 1119 e 1127; il 1150 quelle di San Bartolomeo in Benevento. Oltre quella di Ravello, è notevole una di quelle di Trani, perchè non più a niello, ma a figure rilevate, e non di guisa bisantina, ma barbara, lavorata da Barisano tranese. Quelle che Buonanno da Pisa poneva nel 1180 alla primaziale della sua patria, guastò l’incendio del 1596[125]; ma restano quelle che, sei anni più tardi, fece pel duomo di Monreale, con molto ragionevole disegno. Nel 1191 l’abate Gioele ne facea porre a San Clemente, dodici miglia presso Chieti; quattr’anni dipoi, Uberto e Pietro di Piacenza finivano quelle della cappella orientale di San Giovanni Laterano; e poco appresso, Marchione quelle di San Pietro in Bologna, e Nicola pisano nel 1282 quelle di San Pietro Martire a Lucca. Sono di quel torno le porte di bronzo dell’atrio di San Marco a Venezia; ma anteriore, e forse levata da Santa Sofia di Costantinopoli, è quella a destra, niellata e a tarsia di diversi metalli, con figure e santi e caratteri greci; a cui imitazione Leone da Mojno, che fu procuratore di San Marco il 1112, fece fondere la media: le porte di mezzo della facciata appartengono al 1300 e ad un Bertuccio, di scarsa maestria. Celestino II regalava un paliotto d’argento cesellato alla cattedrale di Civita di Castello nell’Umbria; e nel 1166 Gonamene e Adeodato operavano i bassorilievi della porta principale di Sant’Andrea in Pistoja. Non taceremo del vescovo Pacifico di Verona, che lavorava di metalli e di marmi, e che inventò[126] l’orologio notturno. Tutti superò Andrea pisano facendo nel 1330 la porta meridionale del battistero di Firenze in alto rilievo, a comparti che formano altrettanti quadri di meravigliosa bellezza; gittata a fuoco di fornello per maestri veneziani. Nella pala d’oro di San Marco a Venezia, venuta da Costantinopoli il secolo XII e ricchissima di smalti e gemme[127], trovi vigore ingenuo e maestà di pose jeratiche in ciascun pezzo, ma stravagante la disposizione de’ gruppi, scorrette le particolarità, secco il disegno, ignorata la prospettiva, sparuto lo stile. In ogni età si scolpì di bassorilievo, siano arche sepolcrali, sieno frontoni a porte di chiesa, dove effigiavasi la divinità con attributi diversi; Cristo in trono, con veste prolissa e la mano elevata a benedire, e con attorno angeli e gli animali simbolici; Maria, che sotto lo spiegato manto raccoglie i devoti: su alcune facciate correva la serie dei segni dello zodiaco, accompagnati talora dalle operazioni agresti convenienti al mese. Notevoli sono le quattro colonne di pietra dell’altar maggiore in San Marco di Venezia, tutte liberamente storiate; due lastre di marmo figuranti Cristo e Sansone, già appartenenti all’ambone di Santa Restituta di Napoli: ed altre nel duomo di Salerno. Nel secolo XII appajono più diligentemente lavorate le colonne e i capitelli; arabeschi e frastagli acquistano finezza; le statue di santi e di persone illustri mancano ancora di vita e d’individualità, non di ardimento ed eleganza. Di un Wiligelmo sono i rilievi del duomo di Modena del 1099, e alcuni della facciata del San Zeno a Verona, dove le migliori sculture appartengono a Nicola da Ficarolo (almeno a detta del Baruffaldi) che nel 1135 ne lavorava sulla facciata del duomo di Ferrara. Roberto, Gruamonte, Biduino scolpirono a Pistoja, a Lucca, a San Casciano. Di Benedetto Antelmi è una Deposizione del 1170 nella cattedrale di Parma. Avanzano a Milano un bassorilievo, che rappresenta la riedificazione di questa città; ed un monumento a Oldrado da Tresseno, podestà nel 1233, la prima statua equestre dopo gli antichi. In piazza di San Domenico a Bologna è la tomba del giureconsulto Rolandino Passaggeri, che dettò la risposta a Federico II quando minacciosamente chiedevagli si restituisse il re Enzo; e quella dei Foscherari, fatta il 1289, con rozzi bassorilievi: dentro poi sta la tomba di Taddeo Pepoli, rappresentato dal veneziano Giacomo Lanfrani in atto di rendere giustizia al popolo. Nel duomo di Sessa avvi un pulpito grandioso, retto da sei colonne di granito con capitelli bellissimi, e adorno di musaici, come i due di Salerno; e un candelabro stupendo, che l’iscrizione attribuisce a un Pellegrini da nessun nominato, e fra gli anni 1224 e 1283[128]. In generale ne’ lavori di metallo è più seguito il metodo bisantino, in quelli di pietra predomina l’occidentale; forse perchè di Costantinopoli venissero i maestri di fonderia, arte ivi ancora fiorente, mentre v’era perita quella della scoltura o bassa o intera. Di ben altra maestria lavori offre Pisa, dove Giunta avea formata una buona scuola, e dove Nicola, studiando i bassorilievi antichi del cimitero si propose imitarne la bontà, senza forse ignorare i sassoni artisti, che allora abbellivano Wechselburg e Freyberg. Al pergamo di San Giovanni egli pose figure mirabili, malgrado i molti difetti di disegno[129], poi una Deposizione in San Martino di Lucca, ispirata ancora dal sentimento devoto, al quale lasciò poi prevalere la perfezione tecnica, come in un altro pulpito ottagono a Siena, di gusto e diligenza e complicata composizione, con numerose figure e leoni bene studiati, e tra altre cose un Giudizio universale, ch’e’ trattò per la prima volta con larghezza, benchè non ancora ispirato da Dante. È migliore l’arca di San Domenico in Bologna[130], sobria composizione, ajutata o finita da scolari. Sulla facciata del duomo di Siena sono fregi e statue di Giovanni della Quercia, del 1339. Così ornata era quella di Bologna. Giovanni di Nicola pisano continuò la buona scultura, operò al magnifico duomo d’Orvieto, esercizio de’ migliori pennelli e scalpelli di quel secolo, e donde Bonifazio VIII tolse artisti pel San Pietro di Roma, fra i quali Agostino ed Angelo da Siena. Con questi due, Giovanni condusse il sepolcro di Guido Tarlato, il più bello che ancor si fosse veduto, con sedici storie di sue imprese. Ad alcuno di essi vorrebbero attribuire la bellissima tavola in San Francesco di Bologna, tutta istoriata, che invece è di Jacobello e Pietropaolo de’ Masigni[131]; e chi dice anche l’arca di Sant’Agostino a Pavia, ricca di ducennovanta figure, che in sole opere di marmo costò quattromila fiorini d’oro. Sotto Giovanni cominciò Andrea Ugolino da Pisa; a Firenze ornò la facciata del duomo che poi fu distrutta, non restando di lui che qualche bassorilievo sul campanile, e le porte di San Giovanni, eclissate poi da quelle del Ghiberti: a torto gli attribuiscono il monumento di Cino da Pistoja e la bellissima statua sull’altare del Bigallo, opera di Alberto Arnoldi fiorentino. Da Pisa pure veniva a Milano Giovanni di Balduccio, che fece la meschina porta della chiesa di Brera e il monumento di san Pietro martire a Sant’Eustorgio, marmo di Carrara con otto bassorilievi e diverse statue simboliche, le quali sostengono ed ornano un sarcofago, sormontato da piramide, aggiunto un tempietto con Cristo e varj santi; opera che cede in gusto ai pergami di Pisa e Siena e all’arca di San Domenico, ma le pareggia in magnificenza. Nè la pittura era morta mai; e i monaci che miniavano manoscritti, e principalmente salterj e benedizionarj, non aveano modelli antichi a cui sagrificare il pensiero, e studiavano il movimento e l’espressione. Ottone III menò via d’Italia un Giovanni pittore, affinchè ornasse un oratorio del suo palazzo in Aquisgrana; dal quale il vescovo Nolker fece pur dipingere il chiostro della cattedrale di Liegi, e il suo successore edificar la chiesa di Sant’Andrea[132]. Le dame di Modena nel 1157 faceano esemplare il codice delle lettere di san Girolamo, bel monumento d’arte, e più di civiltà. Nulla ci rimane di frate Oderisi da Gubbio, e di Franco Bolognese, encomiati da Dante. Nell’archivio delle riformagioni a Siena ammirano miniature della metà del XIV secolo, massime di Nicola di Sozzo, e magnifici corali di frà Benedetto di Matera: a Montecassino altri lavorati dalla scuola ivi esistente, che poi produsse in Sandolio, di cui v’è un mirabile uffizietto: altri a Ferrara: nella Laurenziana un preziosissimo, de’ molti che appartennero a’ Camaldolesi degli Angeli, fra cui andavano distinti quelli di Giovan del Monte e di don Silvestro fiorentino; e que’ religiosi conservarono come reliquia la mano di frà Lorenzo degli Angeli. Gherardo e Atavante, pur di Firenze, vennero con altri chiamati ad abbellire i codici di Mattia Corvino re d’Ungheria. Dal 1477 al 1535 sono i corali di Ferrara, belli quanto quelli di Siena, e ne son conosciuti gli autori. Son lavori, ai quali lo storico dell’arte dee molta attenzione, perocchè l’imitazione v’è minore e più vivace l’ispirazione religiosa. Profusione d’oro, sul cui campo rilievano il Creatore o il Redentore; crocifissi somiglianti a mummie, coi piè disgiunti, e ferite da cui sgorga a rivi un sangue verdastro; madonne nere e torve, con dita lunghe stecchite e occhi tondi, e un rozzo bambino in grembo; e in generale figure lunghe, teste vulgari, niuna espressione, composizioni sgraziate, sono i distintivi di quel dipingere anteriore al XII secolo, che intitolarono bisantino. I Greci, non ancora invasi dai Barbari, aveano conservato il meccanismo dell’arte; ma invece di ritrarre la natura, atteggiavansi a certi tipi sacerdotali, indeclinabili. Nella presa di Costantinopoli forse i nostri conobbero sostanze e stromenti, e con migliore abilità tecnica imitarono alcune forme greche. Del qual modo sono i severi dipinti di San Pietro in Grado presso Pisa, e una pala d’altare nella galleria di Siena del 1215, dalla quale città diede i primi lampi la pittura nuova. Ivi nei Domenicani è una preziosa Madonna di Guido da Siena, che mal si porrebbe al 1221: ma di quel tempo Bonamico, Parabuoi, Diotisalvi vi dipingevano i libri del camerlingo: poi sul fine del secolo Duccio di Buoninsegna faceva il gran quadro della cattedrale, dipinto sul dritto e sul rovescio, ove dalla dignità jeratica non iscompagna la dolcezza e la nobile grazia convenienti alle scene della passione. Si conserva il Cristo, che i Senesi portarono alla battaglia di Monteaperti; per la quale vittoria fecero da Simone di Martino, lor cittadino, dipingere la Vergine, con un fare che si stacca dalla bisanlina durezza. Ispirata dalla religione e dalla patria, quella scuola ha maggior estro della fiorentina, e i suoi lavori non s’ammucchiano in gallerie principesche, talchè chi visita quella città, ch’è una visione del medio evo, inclina a darle la priorità nelle arti belle. Giunta pisano fin dal 1202 è intitolato pittore, e di man sua non di Margaritone sono il Cristo d’Assisi, fors’anche le pitture di quella tribuna; e un altro Salvatore nel San Renieri di Pisa. Jacopo francescano ornò di musaici l’altare di San Giovanni di Firenze. D’altre opere non si accerta il tempo. A Margaritone d’Arezzo, scultore e architetto, il Vasari attribuisce l’aver primo riparato al fendersi delle tavole coll’incollarvi una tela e intonacarla di gesso, e insegnato a dar di bolo, mettere l’oro in foglie e brunirlo. Molte cose lasciò a fresco, a tempra e su tela; ma restò amareggiato dal veder sorgere una generazione migliore. Ferrara vanta Gelasio di Nicolò della masnada di San Giorgio, forse del 1242; Lucca il suo Buonagiunta; i Bolognesi Guido, Ventura, Ursone, e molte pitture serbano del secolo XII; i Cremonesi altre nel loro duomo, a contorni secchi e colorito forte, e da Lanfranco Oldovino fecero dipingere la vittoria sui Milanesi del 1213. Rilevando su fondo d’oro e d’oltremare, i contorni di tali lavori pajono rigidi; ma i lineamenti cominciano ad apparir meno burberi, e il riposo che fin allora credeasi unicamente convenire alla santità, inclina a qualche movenza. Al difetto d’espressione si suppliva con liste scritte; spediente ben anteriore a Bufalmacco, al quale lo attribuiscono[133]; e Simone di Martino o Memmi volendo esprimere che violentemente il diavolo tentava san Renieri, dipinse quello col capo basso e gli occhi coperti dalle mani, e di bocca gli usciva _Ohimè, non posso più_. Era dunque la pittura risorta prima di quel che ne proclamano restauratore, Giovanni Cimabue. Nato il 1240 in Firenze, ammaestrato sui Greci, bentosto se ne staccò, colorendo più sfumato e fuso, e rendendo morbide le vesti, vive le attitudini, quantunque manchi di prospettiva lineare ed aerea, e paja secco a causa del fondo cilestro o verde: le madonne faceva ancora fosche e disavvenenti, per riverenza verso i tipi; ma meglio arieggiò le altre teste, e con dignità e vita espresse i caratteri ne’ due gran quadri di Santa Maria Novella e di Santa Trinita a Firenze, il primo più sciolto d’imitazione e soave nei volti, l’altro di minor grazia e più robusta maestà. I vasti dipinti murali di San Francesco d’Assisi ingegnosamente aggruppò e svolse con affetto e naturalezza. Allora dappertutto germogliarono artisti: Tommaso degli Stefani dipingeva a Napoli, e in Santa Chiara Simone da Cremona; in Perugia il 1297 si facea la _Maestà delle volte_, cioè una madonna e alcuni santi (or mutati in angeli) sotto al palazzo del popolo, con manto d’oro rabescato, e con molta grazia nelle teste e nel bambino; Scipione Maffei, nella _Verona illustrata_, cita non poche opere di questa città; il Malvasia altre di Bologna, anteriori a Giotto; artisti paesani coprivano il battistero di Parma con pitture imitanti il musaico, a contorni meno angolosi, e con partiti nuovi di pieghe, e movenze passionate fin all’esagerazione. Ad emanciparsi dai tipi greci diè spinta il dover rappresentare cose nuove, quali erano gli stemmi, e sovente i ritratti dei podestà[134], le arme del Comune, le geste di san Francesco, e de’ suoi, con bontà d’atti semplici, e fra persone e casi positivi e recenti; sicchè mancando esemplari classici o tipi prestabiliti, si imitò il vero. Teofilo, monaco vivente in Lombardia, che alcuni rimandano al X secolo, ma pare piuttosto dei tempi che discorriamo[135], descrisse «tutto quanto possiede la Grecia sulle specie e le mescolanze de’ varj colori; tutta la scienza de’ Toscani sulle incrostazioni e sulle varietà de’ nielli; tutte le sorta d’ornamenti che l’Arabia adopera in opere fatte colla malleabilità, la fusione, la cesellatura; tutta l’arte della gloriosa Italia nell’applicar l’oro e l’argento alla decorazione delle differenti maniere di vasi, o al lavoro delle gemme e dell’avorio; quel che la Francia ricerca nella preziosa varietà delle finestre; i delicati lavori d’oro, d’argento, di rame, di ferro, di legno, di pietre che onora l’industre Germania». Egli accenna chiaramente il dipingere a olio, ignoto agli antichi, ma s’adoprava quello di linseme, lentissimo ad essiccare, donde la difficoltà del sopradipingervi; e forse la scoperta di cui vien gloriato Giovanni da Bruges consistette nel surrogarvi olio di noce e di papavero, od aggiungervi un essiccante. A questo punto ritrovava l’arte Giotto da Bondone (-1337). Fanciullo, mentre custodiva l’armento paterno, copiava in disegno pecore e capre, avvezzandosi così a ritrarre dal vero. Cimabue il tolse dall’oscurità e l’istruì nel dipingere, ove presto acquistò un colorire giocondo e trasparente, buona disposizione de’ componimenti, giuste forme ed espressione naturale, abbandonando i tipi arcaici e convenzionali. Primo o de’ primi suoi lavori furono i ritratti di Dante, di ser Brunetto, di Corso Donati e d’altri illustri fiorentini nella cappella del Bargello; per ultimo nella sala della Mercanzia «con propria e verosimile invenzione dipinse il Comune rubato da molti, per mettere paura ai popoli» (VASARI). Di tali patriotici concetti doveva ispirarlo l’amicizia di Dante, a illustrazione del quale adoperò il pennello, e come lui vagò per Italia, quasi scuola ambulante, e in più di venti città lasciò lavori ed esempj, e i principali in Firenze, massime l’Incoronata in Santa Croce. Bonifazio VIII gli diede varie commissioni, e 1200 fiorini pel disegno della nave di san Pietro, sviluppo d’allegoria cristiana, condotto a musaico da Pietro Cavallini sotto al portico della basilica Vaticana; frescò l’interno del vecchio portico di San Giovanni Laterano; a Padova nella cappellina gotica degli Scrovegno entro l’antica arena, fece la vita di Maria Vergine, composizione carissima, oltre un Giudizio finale, e figure simboliche de’ vizj e delle virtù, più meditate che lodevoli. A’ suoi dipinti in Santa Chiara di Napoli un’età di barbara eleganza diè di bianco per crescer luce alla Chiesa: quelli nel Santo d’Assisi sono rialzati dalla pietà e dalla simbolica intelligenza. Come gli altri contemporanei, lavorò anche d’architetto, e nessun campanile supera quello che pose alla cattedrale di Firenze, tutto a compasso di marmi varj, con finestre, nicchie, statue, fasce di rappresentazioni civili, figurando la creazione e lo sviluppo dell’umanità nel vivere domestico, ne’ viaggi, nelle arti, nelle scienze, nelle virtù cristiane, nei sacramenti. È in cinque piani, e intendea sovrapporvi un’alta piramide, che avrebbe dato un mirabile vedere. Gli scolari suoi studiarono di più le tinte, e rammorbidirono i contorni fin a dare nello stentato: ma nel giudicare di loro, la critica sistematica biasima o loda la medesima mano, secondo vi vede l’imitazione della antica purezza, o l’ispirazione del sentimento cristiano. Stefano nipote di Giotto migliorò la prospettiva e tentò gli scorti; educò il Giottino, che per grave espressione e colorire unito superò i precedenti, e forse solo dalla precoce morte fu impedito di uguagliar l’avo. Taddeo Gaddi, lavorato ventiquattro anni con Giotto, lo emulò nel cappellone di Santa Maria Novella, facendo la religione trionfante per opera dei santi Domenico e Tommaso, con ricchezza d’allusioni, di ritratti, di grandiose invenzioni. Vi operò seco a concorrenza Simone di Martino o Memmi senese, coloritore soavissimo e di composizioni ispirate ed espressive fisionomie; immortalato dal Petrarca, pel quale ritrasse madonna Laura, e miniò un Virgilio, serbato nell’Ambrosiana di Milano. In altre città d’Italia dipinse egli, ed in Avignone pei papi: sicchè le due scuole toscane, procedendo di fronte, assodavano l’onore dell’arti italiane, con senso del bello e convenienza di rappresentazione; la fiorentina più erudita, ingegnosa ed ampia; la senese più profonda di sentimento. I Lorenzetti, e massime Ambrogio, alle soavi composizioni unirono forza di colorito; il Berna ben ritrasse gli animali; Andrea di Vanni non si distolse dall’arte per elevate magistrature; Duccio fe prove eccellenti in quel duomo; Taddeo di Bartolo di Fredo forma passaggio tra questa scuola e la perugina, studiando più allo spirito che all’esterna correzione del contorno. La terribile peste vi rincalorì le idee religiose, mantenute nell’accademia ivi formatasi. Anche Giacomo di Casentino nell’accademia di San Luca di Firenze riunì i principali artisti. Assisi era sempre la palestra de’ pittori, come Subiaco, Montecassino ed altri chiostri. Al cimitero di Pisa coll’Orcagna gareggiarono Stefano Memmi, Pietro Lorenzetto, Spinello aretino, Anton veneziano e Bufalmacco Buonamico, rinomato per bizzarrie. Dell’apparire di Giotto nell’alta Italia danno segno i pittori che vi sorsero. Verona si abbella di Turone e Stefano da Zevio, e di Jacopo d’Avanzo, che stupendamente dipinsero nel Santo di Padova e nella vicina cappella di San Giorgio: poi di Vittor Pisanello; nella qual città si ammirano anche opere di Giovanni Miretto e di Giovanni e Antonio Padovano. Crebbe la perdonabile vanità delle cappelle gentilizie, ornate dai migliori pennelli e scalpelli, come singolarmente si ammirano in Firenze quelle de’ Baroncelli e de’ Rinuccini in Santa Croce, degli Strozzi in Santa Maria Novella, de’ Brancacci nel Carmine: poi nelle case private voleansi dipinte camere, cassapanchi, teste di letti. Ma già siamo entrati nell’età, ove riprendea piede il gusto classico, e principalmente in Toscana nacque e crebbe l’idea di metter tutto sull’imitazione antica, fin al punto di rinnegare ogni originalità. A questa teorica s’inchinarono i precettori e gli storici, e compiansero come miseria e barbarie quant’erasi lavorato nel medio evo. A ciò li condusse il vagheggiare soltanto la forma, anzichè elevarsi all’idea; riporre il bello nella rappresentazione vera ed eletta della natura, anzichè ne’ concetti da cui è ispirato, e dai sentimenti che suscita; nel rigoglio della gioventù e della forza, anzichè nella ascetica magrezza, nella paziente sofferenza e nella pacata devozione. Al tempo che descriviamo, le arti, più che ritrarre al vero la vita, pareano proporsi di spiritualizzare la materia; più che la bellezza plastica, stavano fedeli ad un’espressione delicata e spirituale; più che ai particolari, badavano all’effetto generale, onde tutte e tre si teneano per mano, e l’artista potea valersi d’ogni mezzo, del simbolo, del rilievo, della doratura, delle parole che or uscivano di bocca, or giravano col lembo della veste, or coll’aureola al capo. A vicenda la pittura doveva esprimere il suo concetto nel modo più semplice ed evidente, senza distrazione di accessorj, nè tampoco nel fondo, senza ricerca di bellezze naturali; poichè il dilettare non era che mezzo. Insomma le arti si conservavano mistiche e religiose, benchè dall’erigere e ornare i tempj di Dio passassero già ad abbellire le stanze degli uomini, e credeano non si potesse raggiungere il vero bello se non mediante l’ispirazione, nè questa ottenere se non con cuore mondo, viva fede, orazione fervorosa. Bufalmacco diceva che i pittori, «attendevano a far santi e sante per le mura e per le tavole, ed a far perciò, con dispetto dei demonj, gli uomini più devoti e migliori»: un’iscrizione a piè del quadro[136] o l’effigie del pittore medesimo pregante, dovevano attestare la sua devozione. Quel Teofilo che dicemmo, diresse l’opera sua alla pittura sacra, ai vasi, ai messali, alle vetriate delle chiese; onde non solo nella proposizione, tutta elevatezza di spirito, ma ad ogni tratto erge l’artista a Dio _da cui emana l’arte_, e vuol consideri la propria professione come un incarico divino; e per ricompensa della fatica di stendere il suo libro _ut quoties labore meo usus fueris, ores pro me ad misericordiam Dei omnipotentis_. Cennino Cennini, che cento anni dopo Giotto esponeva i precetti e segreti da questo tramandati ai discepoli, chiudeva il trattato della pittura col pregar Iddio e la Madonna e san Luca primo pittore cristiano, acciocchè quei che leggessero il facciano con frutto, e ne ritengano per sempre gl’insegnamenti. Il beato Giovan Dominici, in tutti i conventi che metteva o riformava, stabiliva scuole di miniare, e alle Domenicane del _Corpus Domini_ di Venezia scriveva regole sul ben lavorare di minio, e offrivasi a terminar egli quel ch’esse non sapessero, parendogli arte opportuna ad elevare a casti pensieri[137]. Lippo Dalmasio non si poneva mai a dipingere la Madonna, che non v’avesse premesso il digiuno e la comunione. Gli statuti dell’arte dei pittori senesi del 1355 cominciano: — Noi siamo per la gratia di Dio manifestatori agli uomini grossi che non sanno lettera de le cose miracolose, operate per virtù et in virtù de la santa fede; et la nostra fede principalmente è fondata in adorare et credere uno Idio in ternità, et in Idio infinita potentia et infinita sapientia et infinito amore et clementia; et neuna cosa, quanto sia minima, può aver cominciamento o fine senza queste tre cose, cioè senza potere, et senza sapere, et senza con amore volere». E per lungo tempo artisti e scienziati continuarono a considerare l’uomo come il principale strumento, e la morale come il fine delle discipline; laonde Leonardo da Vinci, disegnando un oriuolo, vi scriveva a fianco: — Usa le ore in modo da vivere nella prosperità»; Michelangelo diceva che la mano è nulla, ed obbedisce allo spirito che sa dirigerla; il Marchi cominciava il suo trattato d’architettura militare da capitoli sull’uomo, sull’elevare lo spirito alla considerazione delle cose, sull’acquistar onore e gloria colle virtù; e alle tavole di disegno apponeva detti morali: — L’uomo può tutto quando voglia. La fatica vince ogni ostacolo». CAPITOLO C. Lingua Italiana. Avvenimento importantissimo nel medioevo è il formarsi, o, dirò meglio, l’apparire delle lingue nuove, e della nostra specialmente, che di buon’ora troviamo svolta a segno, da bastare ai più nobili argomenti. Ne dedussero le voci e i modi chi dal tedesco, chi dal greco, chi dal provenzale, chi dal celtico, e fin dall’arabo e dal persiano: e al vederli tutti sostenere l’assunto con lauta erudizione e spesso con lealtà, tu inclini a credere che nessuno avesse interamente ragione, tutti n’avessero parte. Effetto dell’impicciolire la quistione isolandola, mentre anzitutto bisogna aggruppare le lingue derivanti da ceppo comune, le quali perciò tengono somiglianze grandissime, senza che l’una sia figliata dall’altra. È abbastanza conosciuto che le lingue si raccolgono sotto tre gruppi, denominati dai tre figli di Noè. Delle giapetiche, una vasta famiglia s’intitola indoeuropea, perchè abbraccia quasi tutte quelle della moderna Europa, insieme col persiano e col sanscrito dell’India; lingue aventi un organismo comune, e maggiori o minori somiglianze fra sè. Appartiene a queste la latina, la quale assai partecipa della greca, ma non per questo è a credernela figlia; tant’è vero che tiene della sanscrita molto maggior numero di termini che non la greca. Espressioni della società che le adoperava, la sanscrita era lingua sacerdotale, popolare la greca, grave ed aristocratica la latina, avente per carattere speciale la _maestà_, di cui persino il nome è ignoto alle altre; lingua singolarmente opportuna ad esprimere il comando, sicchè in essa furono dettate le più insigni legislazioni, poi i canoni del nuovo impero incruento: lingua della civiltà, che si fuse cogli idiomi tutti dei Barbari per redimerli dalla materialità; che fu adottata come universale nella società cattolica, ove tutto doveva esser uno. Il latino si formò da un fondo indiano derivatole per la Tracia, e dai dialetti delle varie colonie stabilitesi in Italia, e delle genti sottomesse o consociate. I più antichi monumenti lo mostrano vago e incerto, come quello che non era scritto o poco; anzi gli uni differiscono dagli altri talmente, che senza estrinseci argomenti non si arriverebbe a determinarne l’età, e l’epitafio di Lucio Scipione si direbbe più antico che quello di Barbato suo padre (Capitoli III e XXXI, e Appendice I, dove le prove di ciò che qui si asserisce). Regola ed affinamento ricevette mediante la letteratura greca; e mentre appariva rauco ed inculto nel _Carme Saliare_, sonò breve e marziale in Ennio. Via via si andò ripulendo e fissando; l’assoggettamento del Lazio fece che, se la lingua di Roma andava corrotta da tanto affluir di genti d’ogni favella, ne rimanesse quale tipo la lingua del Lazio, la latinità, distinguendosi Roma soltanto per quell’urbanità, di cui, come dice Cicerone, più si avverte la mancanza in provincia che la presenza in città. Fomentato dal patriotismo e dalla libertà, invigoritosi nelle lotte esteriori ed interne, fatto robustamente conciso dall’orgoglio nazionale, arricchito colle spoglie altrui, perfezionato da tanti scrittori, il latino negli ultimi tempi della romana repubblica aveva nobiltà di forme, pienezza di senso, eleganza e maestà degna d’un popolo re. La grandezza patria lasciava presumere che in tale eccellenza dovesse persistere lungamente; se non che la durata di ciò ch’è artifiziale non può essere perenne. Marco Tullio, che collocava ai tempi di Scipione e di Lelio il miglior parlare, già all’età sua ne sentiva la decadenza, e piacevasi sulla bocca di Lelia sua suocera udir quella vecchia loquela incorrotta che gli rammentava Plauto e Nevio; appunto come a noi pare d’udire il Sacchetti o il Firenzuola sulla bocca di una pistojese o d’una ciana. Una sterilità organica non permetteva alla latina d’arricchirsi a modo della lingua greca, mediante la composizione; mancava della parte metafisica e trascendente, la popolare ripudiava; e quando, sbandita dalla tribuna, ricoverò alla Corte, dipendente dal capriccio de’ cesari, e obbligata a saldare l’avvilimento con uffiziali dottrine, ostentò dignità col tono declamatorio; ricorse all’arcaismo, sintomo di decadenza come il rimbambire de’ vecchi; e insieme abusò di voci nuove, non giustificate dal bisogno di esprimere nuove idee o di meglio precisare le filosofiche. Già Augusto derideva il _fetore delle parole recondite_ e i cercatori d’anticaglie; poi gli ispanici vi insinuavano gonfi neologismi, mentre dal greco accattavansi pedantesche affettazioni. Il turbine divenne sempre più vorticoso quando cittadini di Roma furono i Barbari di tutto l’orbe conosciuto, sicchè con pari diritto introducevano le voci native quelle poche volte che al popolo od in senato favellassero: e quando ai gradi supremi e fin al seggio imperiale salivano capitani stranieri al Lazio e all’Italia, era egli a pretendere purità di favella? Eppure fu allora che le conquiste la portarono alle estremità dell’Oriente e dell’Europa, e che col cristianesimo riformata, divenne lingua universale, e veicolo della scienza e della civiltà, sicchè i limiti di questa sono là dove il latino è inteso. Chiunque abbia meditato sulla natura delle lingue, sarà convinto che il vulgo romano doveva averne una propria, diversa da quella che scrivevano Livio e Cicerone, più analitica, trascurante delle desinenze, alla cui varietà suppliva colle preposizioni, cogli ausiliarj alle inflessioni de’ verbi, e le relazioni meglio determinava mediante gli articoli. I bei parlatori aveano forbito la lingua col _delectus verborum_, cioè mediante l’eufonia e l’analogia rimovendo le parole troppo usuali ed aspre, per attenersi alle dolci, tornite e numerose. I grammatici con Fortunaziano insegnavano che _longioribus verbis decora et lætior fit oratio_; onde si accettarono i composti come _inaurare, aggregare, apparere, extinguere, observare, exprimere_, non i loro semplici, i quali dovettero però restare nella lingua del popolo. Di fatto raccogliamo che questo dicea _scopare, stopa, sufolo, bellus, caballus_, dove gli aristocrati usavano _verrere, linum, tibicen, pulcher, equus: anellus_ e _scutella_ abbiamo in Cicerone, _adjutare_ in Pacuvio, _minaccias_ in Plauto, in Lucrezio _bene sæpe_, come _bene impudentem_ in Cicerone; e negli scrittori agrarj raccolti dal Goes, _botones_ per mucchi di terra, _brancam lupi, campicellus, monticellus, flumicellus, montaniosus, fontana, planuria, quadrum_, e ben altri vocaboli ignoti al parlar letterario. Donde ci si fa persuaso che, fra i patrizj latini prevalendo elementi etruschi e greci, di questi si nutrisse la loro lingua, mentre gli oschi e sabini prevalevano nella rustica, adoperata da’ plebei, la quale noi, per annunziarci senza ambagi, crediamo sia la stessa che oggi parliamo, colle modificazioni portate da trenta secoli e da tante vicende. Le prove di tutto ciò noi le adducemmo altrove: e certamente Plauto discerne la lingua _nobilis_ dalla _plebeja_; la prima dicevasi anche _urbana_ o _classica_, cioè propria delle prime classi; l’altra rustica o vernacola, dal nome dei servi domestici (_vernæ_), e anche da Vegezio _pedestris_, da Sidonio _usualis, quotidiana_ da Quintiliano, il quale move lamento che «interi teatri e il pieno circo s’odano spesso gridar voci anzi barbare che romane», e avverte che in buona lingua non dee dirsi _due, tre, cinque, quattordice_, e geme che ormai il parlare sia mutato del tutto. Che v’avessero maestri del bel parlare latino l’accerta Cicerone, aggiungendo che non è tanto gloria il saper di latino, quanto vergogna l’ignorarlo; ed esortando, giacchè s’ha il linguaggio di Roma corretto e sicuro, a seguir questo, ed evitare non solo la rustica asprezza, ma anche l’insolito forestierume. Ovidio raccomanda ai fanciulli romani d’imparare _linguas duas_, cioè il latino e il greco, e di scrivere alle amanti in lingua pura e usitata: un purista censurò il _cujum pecus_ di Virgilio, come parola di contado. Che se la passionata imitazione del greco diede al latino una consistenza che lo preservava almeno dalle profonde e repentine alterazioni, al popolo non importarono questi raffinamenti, e continuò a seguir l’abitudine di ciò che aveano detto il nonno e la nonna. Nè le lingue prische erano spente ne’ paesi conquistati della restante Italia. Quando Bruto veniva proconsole nelle Gallie, Cicerone l’avvertiva che v’udrebbe parole poco usate a Roma (_parum trita_): a Decimo Bruto, negli ultimi aneliti della repubblica, fu agevolata la fuga da Bologna verso Aquileja dal sapere il dialetto di quei paesi. Tito Livio fu tacciato di patavinità. In lingua osca i giovani romani rappresentavano le Atellane, e il popolo ne andava pazzo. Pompeo Festo si duole che ormai non si conoscesse il latino in quel Lazio, da cui avea dedotto il nome. E i così varj dialetti nostri attestano antichissime differenze di idiomi, ben anteriori all’invasione dei Barbari. Viepiù doveano le prische lingue sussistere fuori d’Italia, e basterebbe a provarlo il consulto d’Ulpiano che consente di stendere i fedecommessi non solo in latino e greco, ma in lingua punica, gallica, o di qualsiasi altra gente. Le legioni nostre che per le provincie accampavano, e quelle reclutate di stranieri che s’assidevano poi in Italia, doveano trasportar qui voci e modi ignoti ai colti parlatori. Aggiungansi le varietà di pronunzia. Il vecchio latino era aspro, quanto lo prova il _rozzo_ numero saturnino; e tale si conservò in gran parte nello scritto: ma favellando si temperava per sentimento d’eufonia, sin a ledere la grammatica. Quest’alterazione, già operata dal vulgo ne’ bei tempi romani, e talora accettata dagli scrittori, teneva, cred’io, ai prischi idiomi o dialetti italici, nei quali quanto si amasse la terminazione in o appare dalle monete della bassa e media Italia, dal famoso senatoconsulto de’ Baccanali, e dagli epitafi degli Scipioni. Colla lingua dunque a terminazione variata, consueta negli scritti, viveva quella a terminazione fissa che parlavasi, e che crebbe col volger de’ secoli, tanto che nell’italiano noi ci troviamo aver conservato le parole che escono in vocale (_acqua, stella, porta_...), mentre a quelle in consonante appiccicammo una vocale, o ne prendemmo l’ablativo (_fronte, ardore, arbore, libro_...). Dappertutto ci salterà all’occhio questo studio, o dirò meglio istinto del raddolcimento, manifestato col troncare, aggiungere, trasporre: e che di più si richiede per ridurre italiane la più parte delle voci latine? Segnalate vestigia n’abbiamo nelle iscrizioni, massime in quelle de’ primi Cristiani, fatte da persone vulgari, cioè che scriveano secondo uso, non secondo grammatica. Per tali accidenti, sopprimevansi spesso la _s_, la _c_, la _m_ finale, stringevasi il dittongo _au_ in _o_, proferivasi l’_e_ per l’_o_ e per l’_i_, il _v_ pel _b_, sicchè _mundus, fides, tres, aurum, scribere, sic_ diventavano _mondo, fede, tre, oro, scrivere, sì_; e più la coltura diminuiva, più gli scriventi s’avvicinavano alla pronunzia, anzichè all’uso letterario. Quando poi la gente meglio stante e la Corte si trapiantarono a Costantinopoli, e ringhiera e senato qui ammutolirono, nè v’ebbe corpo di scrittori o impero di tradizioni che gli conservasse l’aristocratica castigatezza, il latino, come uno stromento complicato in mani inesperte, doveva alterarsi viepiù perchè così sintetico, e perchè non procede per mezzi semplici secondo il rigoroso bisogno delle idee, ma con tanti casi e conjugazioni e artificiosa inversione di sintassi. Sottentra allora il pieno arbitrio dell’uso, cui stromenti sono il tempo e il popolo, operanti nel senso medesimo. Il popolo vuole speditezza, e purchè il pensiero sia espresso, non sta a cercare d’esattamente articolar la parola o di adoprare tutti gli elementi, lusso grammaticale. Adunque, invece della finezza di declinazioni e conjugazioni, adoperò la generalità delle preposizioni e degli ausiliarj, specificò gli oggetti coll’articolo, mozzò le desinenze. Pei quali modi la lingua latina, forbita dagli scrittori classici, non imbarbariva, come dicono i più, ma tornava verso i principj suoi, riducendosi in una più semplice, poco o nulla distante dalla nostra odierna; sicchè il parlare che chiamano del ferro era un’altra fasi della lingua, ove la scritta accolse in maggior copia voci e forme della parlata, e modificate secondo paesi: donde quel lamento di san Girolamo, che la latinità ogni giorno mutasse e di paese e di tempo. Ajutarono siffatta evoluzione gli scrittori ecclesiastici, che più non dirigendosi a corrompere ricchi e ingrazianire letterati, ma recando al vulgo le parole della vita e della speranza, non assunsero la lingua eletta, ma la comune, la vernacola. Essi mostrano sprezzare l’eleganza e perfino la correzione; sant’Agostino dice che Dio intende anche l’idiota, il quale proferisca _inter hominibus_; san Girolamo professa voler abusare del parlare, per facilità di chi legge. Chi dunque abbia mente alla purezza ciceroniana, dee nausearsi ai tanti modi che si scontrano ne’ Padri, e fulminarli col nome di barbarismi: ma il fatto era che il cristianesimo, come le altre cose, così trasformava la lingua. Nel tradurre la Bibbia, destinata non ad aristocratico allettamento, ma ad edificazione della plebe, si sbandirono le forme convenzionali e l’artifizioso periodare de’ classici, il quale del resto non s’incontra in coloro che con minore arte scrissero, come nell’inarrivabile Cesare o nelle epistole di Cicerone e de’ suoi amici; ma secondo il parlar comune, si tenne semplice l’andamento, ingenua l’esposizione. I precettori, che la sentenziano di corruzione e barbarie, dovrebbero riflettere che l’antichissima versione detta _italica_ fu eseguita nel fiore della latina favella; e in quei salmi l’idioma del Lazio prende un vigore inusato, e per secondare la sublimità dei concetti ripiglia la nobile altezza che dovette avere ne’ sacerdotali suoi primordj, un’armonia, diversa da quella che i prosatori cercavano nel periodeggiare e i poeti nell’imitazione dei metri greci, e che pure è tanta, da farla ai maestri di canto preferire persino all’italiano. Questo rifarsi della favella plebea, questo ritorno verso l’Oriente dond’era l’origine sua, avrebbe potuto ringiovanire il latino, infondendogli l’ispirato vigore delle belle lingue aramee e la semplice costruzione del greco; ma troppo violenti casi sconvolsero quell’andar di cose; e quando l’Impero cadeva a fasci, era egli a promettersi un ristoramento della letteratura? L’esclusivo patriotismo degli antichi idolatrava la patria favella, repudiando ogni altra. Temistocle fece dannare a morte l’interprete venuto cogli ambasciadori di Persia, perchè aveva profanato il greco coll’esporre in questa lingua l’intimata del fuoco e della terra: ai Cartaginesi fu proibito di studiare il greco: latino parlavano i magistrati romani anche ai Greci, nè altrimenti che in quella lingua poteano darsi gli editti del pretore. Tra le altre servitù che Roma imponeva ai vinti, era l’obbligo di parlar latino; e Claudio imperatore tolse la cittadinanza ad uno di Licia, il quale non seppe così rispondergli. Davanti al senato contendevasi se avventurare o no un tal vocabolo di greca etimologia, e Tiberio imperatore voleva ricorrere ad una circonlocuzione piuttosto che dire _monopolio_. Da ciò alle antiche favelle l’unità, il carattere specifico, non alterato nelle derivazioni e ne’ composti; mentre le moderne sono formate dei frantumi di varie, sicchè in un solo periodo potresti incontrar voci delle origini più distanti: e più popolare essendo la letteratura, meno squisita riesce la forma. Ma che a generare le lingue nostre, dette _romanze_ perchè uscite dal romano, principal parte avessero i Barbari, a noi sembra tutt’altro che provato. I Goti dominarono lungo tempo la Spagna, eppure non riscontri vocabolo gotico in quell’idioma: Venezia non fu invasa da alcun Barbaro, Verona da tutti, e i loro dialetti si somigliano ben più che non il veronese col contiguo bresciano, o questo col bergamasco, o il bergamasco col milanese, separati appena da qualche fiume. E appunto un corso d’acque o la cresta d’un monte frapponevansi a due linguaggi diversissimi, quanto è il toscano dal bolognese. Qui che hanno a fare i Barbari? Nondimeno, a sentire certuni, avrebbe a credersi che un bel giorno i nostri d’accordo avessero dismesso il parlare romano, e assunto quello dei Barbari. Ma a qual fine? l’Italiano non aveva nulla a chiedere al conquistatore se non misericordia: questi invece bisognando dei vinti per tutte le necessità della vita, era costretto modificare la sua loquela sulle nostre, non il contrario. E che ciò sia vero, voi trovate nella nostra rimasti ben pochi termini d’origine teutonica, e questi significano armi e generi nuovi di oppressioni; i pochi che si applicano alle occorrenze della vita, hanno a fianco ancora vivo il sinonimo latino; a ogni modo son meno assai che non le voci latine accettate dai Tedeschi. Anzi alla storia dice qualche cosa il vedere che le parole de’ vincitori adottate furono spesso tratte al peggio senso; e _land,_ che pei Tedeschi è _terra_, per noi fu un terreno incolto; e _ross_ non espresse un cavallo, ma un cavallaccio; e _barone_ divenne sinonimo di paltoniere e birbo; e _grosso_ significò tutt’altro che grandezza. Ben troveremo nel parlar nostro voci e locuzioni assai, che non traggono origine dalle latine, o dirò più preciso, non dalle latine scritte; e queste sono spesso delle più necessarie; di molte la radice non si riscontra neppure fra i Settentrionali; e più frequentano nei paesi ove i Nordici non posero mai nido, come sarebbero Toscana, Sicilia, Venezia, Romagna. Ora, donde vennero elle se non dai prischi dialetti, ch’erano sopravissuti alla dominazione romana? e non n’è altra prova la conformità mantenutasi tra dialetti di paesi ove pure si parlano due lingue differenti? Se fossero certe due carte addotte dal Muratori, sino dal 900 i Corsi e i Sardi avrebbero usato un vulgare assai simile al nostro; eppure non vi presero dimora le genti tedesche. Adunque la nostra lingua (e vale a un bel circa lo stesso delle altre romanze) non è che la parlata dagli antichi Latini, colle modificazioni che necessariamente, in qualunque favella, introduce il volgere di venti secoli. Altre prove ne troverà chi osservi come noi tuttodì usiamo termini che il latino classico repudiava come vecchi o corrotti, ma che doveano correre tra il popolo, giacchè li vediamo resuscitare quando si guasta o ammutolisce il linguaggio letterario. E poichè noi non nasciamo dai pochi letterati, ma dal grosso della popolazione latina, perciò le parole d’oggi tengono il significato de’ bassi Latini, anzi che quello degli aurei. Più che delle parole vuolsi tener conto delle differenze grammaticali che dicemmo, come il supplire alla varietà di desinenze colle preposizioni, l’anteporre ai nomi l’articolo, il formare coll’ausiliario molti tempi della maniera attiva e tutti quelli della passiva, l’abbandono dell’inutile genere neutro e dell’inesplicabile verbo deponente. Ma è natura di tutte le lingue, nel loro procedere, di farsi più chiare, più analitiche, in ragione che s’impoveriscono di forme grammaticali; e ciò si avvera ben anche nel tedesco e nel persiano, per accennare solo a lingue del gruppo stesso della latina, e a paesi cui non arrivarono immigrazioni della natura delle nostre. Già nel latino de’ migliori tempi si trovano indicate le relazioni per via di segnacasi, non erano ignoti gli ausiliarj _avere_ e _stare_, del qual ultimo ci sopravive il participio _stato_. L’articolo, proprio della lingua greca e delle germaniche, non era raro fra i Latini, sia il determinante _ille_ o l’indeterminato _unus_; e sentendosi il vantaggio di quella precisione nel parlare ordinario, anche nello scrivere si ammetteva l’_ipse_ e _ille_, o si surrogava l’articolo a questi prenomi, come oggi si fa; talchè nelle litanie che cantavansi in chiesa al tempo di Carlo Magno, il popolo rispondeva _Ora pro nos, Tu lo adjuva_. In tal modo s’introduceva o confermava l’uso dell’articolo, caratteristico alle lingue dell’Europa latina, differente però da quel de’ Greci e del gotico, i quali non escludono la declinazione. Ed esso e gli ausiliarj vennero a risarcire in chiarezza e analitica precisione ciò che le lingue perdevano in dovizia e simmetria. Il fondo però restava sempre latino, ed è noto che in varj dialetti d’Italia occorrono intere frasi prettamente latine, nel friulano per esempio; si scrissero poesie bilingui, lunghe composizioni sardo-latine. Nè le parole, dunque, nè il sistema grammaticale fa mestieri derivare dagli invasori: ma poichè monumenti mancano onde seguire storicamente questa trasformazione, siam ridotti cercarla a tentone in qualche parola sfuggita a quei che usavano la lingua letteraria. Un singolare documento ci rimane nei comandi militari dei tribuni: _Silentio mandata implete — Non vos turbatis — Ordinem servate — Bandum sequite — Nemo dimittat bandum — Inimicos seque_. Quel _bandum_ per _vexillum_, quel _sequite_ e quel _turbatis_, imperativi insoliti, sono i precursori delle contorsioni che in ogni parlare si fanno pel comando delle milizie. Dell’anno trentotto di Giustiniano trovasi un istromento sopra papiro, fatto in Ravenna e già pieno di modi all’italiana, come _Domo quæ est ad sancta Agata; intra civitate Ravenna; valentes solido uno; tina clusa, buticella, orciolo, scotella, bracile, baudilos_. Ammiano Marcellino dice che i Romani del suo tempo giacevansi _in carrucis solito altioribus_; e _carrocia_ per carrozza dice oggi il vulgo lombardo. La _Storia miscella_ riferisce al 583, che, mentre Commentiolo generale guerreggiava gli Unni, un mulo gittò il carico, ed i soldati gridarono al lontano mulattiere nella favella natia, _Torna, torna fratre_; onde gli altri lo credettero un ordine di tornare indietro e fuggirono. Ajmonino racconta che Giustiniano ebbe prigioniero il re di certi Barbari, e fattoselo sedere a lato, gli comandò di restituire le provincie conquistate, e poichè quegli rispose _Non dabo_, l’imperatore replicò _Daras_; forma nostrale del verbo _dare_ al futuro. Così la lingua parlata scostavasi più sempre dalla scritta, sin a formarne due diverse; siccome anche i Barbari conservavano la favella nazionale, ma per ispiegarsi coi vinti adottavano un gergo fra il tedesco e il latino, bilingui anch’essi. Ma se in altri paesi il vinto gloriavasi di usar la lingua del vincitore come segno d’emancipazione, l’Italiano preferiva l’antica come ricordo di gloria; e il vincitore stesso che non avea letteratura, si serviva di secretarj nostri, e perciò della lingua latina onde scrivere le leggi. In queste sovente alle parole latine s’aggiunge il sinonimo vulgare: prova evidente dell’esistenza di questo, e che trapela anche dalle poche carte di quell’età. Nel feudalismo, trovandosi i signori diffusi ne’ castelli, in contatto cogl’indigeni e non coi nazionali, smetteano più sempre il tedesco, e diventava comune anche a loro il vulgar nostro nel parlare, il latino nello scrivere. Quando gli studj erano così scarsi, difficile dovea riuscire lo scrivere questa lingua, mentre già in un’altra si pensava e parlava; e ciascuna v’inseriva gli idiotismi del proprio paese; e, come in idioma non famigliare, vacillavasi per l’ortografia, pei reggimenti, pei costrutti. Laonde ne’ rozzi scrittori di carte e di cronache è a cercare l’origine dell’italiana, o dirò meglio il progressivo mutarsi dell’antica nella nostra favella. Nel musaico che papa Leone III poneva in Laterano il 798, cioè nella città più colta del mondo e pel ristoratore degli studj, è scritto: _Beate Petrus dona vita Leoni pp. e victoria Carulo regi dona_; dove già vedete abbandonate le desinenze, e raccorcia la congiunzione. Il testamento di Andrea arcivescovo di Milano nel 908 legge: _Xenodochium istum sit rectum et gubernatum per Warimbertus humilis diaconus, de ordine sancte mediolanensi ecclesiae nepote meo et filius b. m. Ariberti de befana, diebus vite sue_. E quattro anni più tardi un altro: _Pro me, et parentorum meorum, seu domni Landulphi archiepiscopi seniori meo, animas salutem._ E altrove: _Foris porte qui Ticinensi vocatur — Ego Radaperto presbitero edificatus est hanc civorio sub tempore domno nostro_.... Strafalcioni così madornali, e fra persone addottrinate come erano prelati roganti e notaj rogati, convincono che il latino non parlavasi più nemmeno fra la classe elevata; giacchè chi detta in lingua propria accorda nomi e verbi senza dare in fallo, mentre in bizzarre sconcordanze inciampa chi presume adoperarne una differente. Di qui pure la durezza delle costruzioni, la ineleganza degl’idiotismi, la mancanza di spontaneità, la varietà degli stessi solecismi, attesochè non provenivano da un comune modo di favellare, ma dal capriccioso stento di ciascuno nel latinizzare il proprio linguaggio. Siccome Romani erano chiamati dal conquistatore tutti i vinti, così romana o romanza fu detta la loro favella, non solo in Italia, ma dovunque a colonie latine si sovrapposero i Barbari. Nè però noi sogniamo con quelli che credono una lingua romanza fosse parlata in tutta l’Europa latina; fatto da nessun documento provato, e dalla ragione smentito. Se latino non parlavano le provincie neppure ai tempi più robusti dell’Impero, allorchè da Roma venivano e leggi e magistrati, quanto meno dopochè furono inondate da popoli di vulgari differenti e incolti? Papa Gregorio V nel suo epitafio è lodato perchè _Usus francisca, vulgati et voce latina,_ _Instituit populos eloquio triplici._ Questa lingua vulgare in Italia tenea molta conformità col latino letterale: talchè Gonzone, italiano del 960, dice che nel parlar latino gli era talvolta d’impaccio l’abitudine della lingua vulgare, tanto a quella somigliante. Pure que’ notaj o cronisti molte volte si tengono obbligati a spiegare la parola latina con una più conosciuta, la quale si riscontra identica a quella che oggi usiamo; a modo de’ vulgari italiani sono nominate alcune località indicate in esse carte, o persone e mestieri; il vulgo poi attribuendo, come è suo stile, soprannomi di beffa o di qualificazione, lo facea con parole che diremmo italiane. Talvolta ancora lo storico mette voci vulgari in bocca de’ suoi personaggi, o lasciasi per abitudine cascar dalla penna idiotismi e frasi, quali usavano nel parlare casalingo, e che ritraggono non meno dell’ignoranza dello scrittore, che del paese ond’egli è. Tutte prove che già era distinto il linguaggio nuovo dall’antico. Il domandare però quando la latina lingua nell’italiana si trasformò, equivale al domandare in che giorno un fanciullo diventò giovane, e di giovane adulto. E come voi oggi vi credete quel di jeri, e di giorno in giorno, restando lo stesso, vi cambiaste pure di bambino in fanciullo, poi in adolescente, in uomo, in vecchio; al modo stesso procede il travaglio delle lingue. Ai pochi scienziati tornava comoda e gradita una lingua comune, per cui mezzo partecipare i loro pensieri anche a quelli d’altra favella; onde coltivarono il latino, negligendo i vulgari. I signori avranno trattato degli affari in dialetti tedeschi; ma quando era da ridurli in iscritto, ricorreano a _cherici_ nostrali, che si servivano di quel gergo da loro chiamato latino; gli strumenti stendevansi da notaj colle formole antiche; in latino erano dettate leggi e convenzioni; nè verun grande interesse spingeva a svolgere le lingue vulgari. Le prediche possiam credere fossero capite dalla gente comune, come sono oggi quelle che, per mezza Italia, si recitano in lingua tanto diversa dai dialetti: qualche volta però il predicatore esponeva in latino, poi egli stesso o un altro spiegava in vulgare. Nel 1189 consacrandosi Santa Maria delle Carceri, Goffredo patriarca d’Aquileja predicò _liberaliter et sapienter_: Gherardo vescovo di Padova spiegò al popolo _maternaliter_, cioè tradusse in vulgare. Nel 1267 assolvendosi il Comune di Milano da censura incorsa per avere aggravezzato beni d’ecclesiastici, vien letto l’atto in presenza di molti congregati, _primo literaliter et secundo vulgariter, diligenter, per seriem de verbo ad verbum_. Fanciulleggiarono le lingue finchè scarse le comunicazioni e gli affari in cui adoperarle; ma quando anche il popolo, redento dalla servitù feudale, fu chiamato a discutere de’ proprj interessi, dovettero acquistare estensione e raffinamento i dialetti, non volendo l’uomo ne’ consigli parlare altrimenti che nell’usuale conversazione, nè potendo ciascuno avere in pronto il notaro che esponesse i suoi sentimenti. Non sorgono dunque le lingue nuove per arte e proposito, ma dietro all’eufonia e all’analogia, secondo la logica naturale e quell’istinto regolatore che così meraviglioso si manifesta ne’ fanciulli. Alla parte poetica, educatrice di ciascun dialetto, si univa l’erudizione, cioè gli elementi trasmessi dal mondo antico; e così le lingue moderne, poetiche e popolari di natura, acquistarono coltura sull’esempio delle precedenti. La separazione dei Comuni e dei feudi avea portato prodigiosa varietà di dialetti: quando si fusero in piccoli Stati, e i piccoli in grandi, un dialetto speciale fu tolto a raffinare di preferenza, e le nazioni acquistarono anche quel che n’è distintivo primario, la lingua. Ed anche in questa si rivela la condizione politica; e mentre la Francia riducevasi a unità di dominio, e con questa veniva unità di linguaggio; da noi, fra tanto sminuzzamento di Stati, altrettanto se n’ebbe dei parlari, e più d’uno recò innanzi pretensioni di priorità o di coltura. Un’opinione da scuola vorrebbe che prima in Sicilia siasi parlato italiano. Se fosse, n’avrebbe rinfianco il nostro assunto sulla poca influenza de’ Barbari: ma altro è parlare, altro scrivere; e immiseriscono la quistione quelli che attribuiscono la formazione della lingua ad alcuni, e fors’anche a tutti i letterati, mentre solo dal popolo essa riconosce vita e sovranità. Forse che filosofi o poeti hanno l’intelligenza che inventa, e la possanza che fa adottar le parole? al più, sanno dall’uso arguire le leggi. Per ispiramento ghibellino, e per adulazione a Federico II e sua corte si asserì che in questa siasi primamente sostituita nel poetare la lingua italiana alla provenzale. Ma i pochi frammenti che ce n’avanzano, non differiscono dal toscano che contemporaneamente si usava; e per indurre col Perticari che il buon italiano si parlasse in quell’isola prima che in Toscana, bisognerebbe non avessimo canzoni in dialetto siculo, a gran pezza discosto dalla lingua usata dagli scrittori. Dante imperiale dice: «Perchè il seggio regale era in Sicilia, accadde che tutto quello che i nostri precessori composero in vulgare si chiama siciliano; il che ritenemmo ancora noi, e i nostri non lo potranno mutare». Ebbene, noi sfidiamo a trovare che altri mai lo dicesse; e solo il Petrarca per condiscendenza d’erudito scrive che il genere della lingua poetica apud _Siculos, ut fama est, non multis ante seculis renatum, brevi per omnem Italiam ac longius manavit._ Ove, del resto, s’intende di poesia, non di lingua; e potrebb’essere che Federico, viste in Germania le canzoni che i minnesingeri ripetevano per le Corti, volesse averne alla sua in lingua italiana. Dante stesso, quando antepone i Siciliani, non vuole intendere del loro parlare; anzi i parlari riprova tutti, e quel della gente media di Sicilia non trova migliore degli altri: ma poichè colà sedevano que’ da lui vantatissimi Federico e Manfredi, e accoglievano il fiore di tutta Italia, al contrario de’ sordidi e illiberali principi del restante paese, gli scrittori riuscivano in nulla diversi da ciò ch’è lodevolissimo. Nè si creda (conchiude) che il siculo o il pugliese sia il più bel vulgare d’Italia, giacchè quei che bene scrissero se ne discostarono. Dante pone che cose per rima vulgare in lingua d’_oc_, cioè in provenzale, e in lingua di _sì_, cioè in italiano, non siensi dette se non cencinquant’anni prima di lui, lo che riporterebbe al 1150; e lo rincalza il commento di Benvenuto da Imola. Quanto al provenzale, egli è smentito da numerosi documenti; dell’italiano nulla abbiamo di più certa antichità, tardi sentendosi il bisogno di scriverlo, perchè già si possedeva il latino, formato e nazionale. Una lingua che succede ad un’antica, difficilmente sa sciogliersi dall’imitarla, anche dopo che, formata ed ingrandita, viene assunta dagli scrittori. Così avvenne della nostra, ove nel Trecento si riscontra ancora la fisionomia materna nel non restringere l’_au_ in _o_, non mutare la _l_ in _i_ avanti ad _a b c f p_, nè lo _j_ in _g_, nè inserire la _i_ avanti ad _e_. È conforme alla natura dei vulghi che colla lingua a parola finita, adoprata negli scritti, restasse la parlata a parola tronca. Oltre poi il toscano, che fu elevato a lingua nazionale, io penso che anche gli altri dialetti avessero già allora preso il carattere proprio che tennero dappoi, e che traevano da fonti più lontane. Se il Lombardo pronunzia l’_eu_, l’_u_ e l’_on_ e l’_an_, nasali a modo francese, e contrae l’_au_ in _o_, forse è debito alle immigrazioni de’ Galli, anteriori ai Romani; donde pure i tanti nomi di località, affatto gallici o celti, e l’udirsi dal vulgo nostro voci proferite tal quale si fa colle antiche galliche. Anche in altri dialetti si rinvengono modi non adottati dagli scrittori, e che hanno riscontro con provenzali; prova che sono anteriori alla separazione delle due lingue. Già le carte venete del XII secolo mutano _g_ in _z_ (_verzene, zorzi_); le bolognesi ci offrono _altare sanctæ Luziae, Cazzavillanus, Cazzanimicus, Bonazunta, rivum Anzeli, Delai de la Bogna, Adam de Amizo, Mulus de Bataja, Arderici de Mugnamigolo_; sull’arco alzato dai Milanesi, quando riedificarono la patria, eran nominati _Settara, Mastegnianega, Prevede_, idiotismi odierni; Boso Tosabò è uno de’ cinque consoli di giustizia che nel 1170 compilarono gli statuti di Milano; frà Buonvicino da Riva, che scriveva nel secolo seguente, ha un dialogo fra la Madonna e un villano, che comincia: _Chi loga se lumenta lo satanas rumor_ _D’la verzene Maria matre del Salvator;_ e anch’oggi i villani dicono _chiloga_ per qua (_hoc loco_), e _lumentà_ per ricordare, rammentare. Altre voci dei dialetti serbano l’impronto delle dominazioni e comunicazioni forestiere, greche a Ravenna, tedesche e spagnuole in Lombardia, arabe e greche in Sicilia, levantine a Venezia, francesi in Piemonte, mentre nei paesi de’ Volsci, Sabini, Vejenti, Falisci, Sanniti, Marsi e di là dal Tevere, maggiori reliquie sopravivono di romano rustico. Tant’era lontano che tutte le città italiche parlassero il linguaggio stesso; fatto repugnante a natura quand’anche non restassero prove del contrario, e non vedessimo Dante poco di poi riprovare quattordici dialetti, cioè le voci troppo zotiche e troppo municipali, per iscegliere le più acconce _alla poesia_. Ben merita considerazione che que’ primi scrittori (comunque il lor paese natìo parli trinciato, e squarti e scortichi le parole; o sdruccioli sulle desinenze, o le strascichi, o adoperi voci bazzesche e croje quale le lombarde già parevano a Dante, o accumuli frasi sgraziate e villani costrutti), di qualunque parte fossero, ingegnavansi, come oggi ancora si fa, d’accostarsi al dialetto toscano. La quale norma generale, se non si fosse voluta disconoscere da coloro che vennero a ragionar poi sopra ciò che già si praticava, avrebbe schivate deh! quante sofisterie e discussioni, che empirono biblioteche intere per fare avviluppato e controverso ciò che è chiaro e consentito col fatto. Perocchè il linguaggio è come il diritto. Una logica naturale domina la sua prima formazione, poi qualche alto ingegno ajuta il popolo nel costituirlo; prende il cumulo informe degli elementi di esso, ne trae il bello, e dà norme alla lingua e la fissa. In quell’alto ingegno il popolo non vede un tirannico comando, bensì la fedele espressione del suo modo di essere, pensare, sentire, quantunque nobilitato. Ma mentre il nostro popolo conservò il titolo di toscana alla lingua, i dotti la chiamarono dapprima vulgare, quasi non conveniente che a vulgo; quando essi l’assunsero, vollero dirla cortigiana, come destinata a blandire le Corti dei signorotti; vergognatine poi, la vollero dotta e letterata, non osando rifondervi la popolare vitalità: di modo che la lingua che, svoltasi prima ne’ paesi meno imbrattati da Barbari e retti a Comune, potè ben presto divenire variata di melodie, dolce di cadenze, ricchissima di passaggi, flessibile ad esporre concetti sublimi con Dante, teneri con Petrarca, vivaci con Ariosto, civili con Machiavelli, ci tocca sentir ancora discutere come nominarla, e quel ch’è più tristo, a quali autorità conformarla. CAPITOLO CI. Italiani letterati. Primordj della poesia nostra fino a Dante. E già la letteratura, che è espressione delle credenze, degli usi, delle passioni de’ popoli, col fissarsi di questi comincia a individuarsi anch’essa: ma la nostra non fu la primogenita fra le neolatine. Il mezzodì dell’odierna Francia, ridotto di buon’ora provincia (_Provenza_) dai Romani, e che conservò traverso alla barbarie la costituzione comunale, e al favore di questa fiorì di commercio e civiltà, subito dopo il Mille intese alcuni poeti, famosi col nome di Trovadori. Di essi sopravivono molti componimenti, ma in generale pieni d’artifizj, di giuochi di parole, di sensi ambigui, di amorose freddure, di dispute fin nella galanteria, di rado o non mai quell’ispirazione che va franca e semplice, non il fervido linguaggio del cuore, nè tampoco l’individualità, avendo e pregi e difetti comuni; e nessuno per avventura meritò durevole lode letteraria. Noi li accenniamo in primo luogo per un’opinione corsa secoli fa, e per brev’ora resuscitata ai dì nostri, che la lingua italica derivasse dalla provenzale[138]; poi perchè molti Italiani, per un precoce spirito d’imitazione, poetarono in quella lingua, molti altri ne imitarono i modi e i pensieri. Folchetto di Marsiglia genovese fu il primo de’ nostri che _trovasse_ in provenzale; gli tenner dietro a Genova Bonifazio Calvi, Percivalle e Simone Doria, Ugo di Grimaldo, Jacopo Grillo, Lanfranco Cicala; in Piemonte Pier della Caravana, Pier della Rovere, Nicoletto da Torino che disputò con Ugo di San Ciro, e poeticamente morì nel 1255 pel crepacuore di non vedersi corrisposto dalla sua bella; ad Albenga Alberto Quaglia; a Nizza Guglielmo Brievo; nel Monferrato Pier della Mula; a Pavia un Lodovico; a Fossano un monaco; a Venezia Bartolomeo Zorzi, che, preso in viaggio dai Genovesi e tenuto prigione sette anni, avventò un serventese contro Genova, poi liberato, fu messo castellano a Corone, ove morì. Aggiungiamo Siccardo lombardo, che «dà del poltrone a tutti i vicini suoi, ma ad ogni pericolo è il primo a fuggire; s’inorgoglia delle arie grossolane, che adatta a parole prive di senso»[139]. I più sono dunque nell’alta Italia; però troviam ricordati Alberto de’ Malaspina in Lunigiana, Paolo de’ Lanfranchi a Pisa, Ruggerotto a Lucca, Migliore degli Abbati a Firenze, Lambertino Bonarello a Bologna. Tanto comune era quel vulgare, e tanto credeasi opportuno alla poesia più del nostro. Va distinto Ugo Catola, perchè, in luogo di futili galanterie, elevò il canto a fulminare la corruzione de’ signorotti. Emerico di Peguilain, venuto in Italia verso il 1201, vi rimase oltre cinquant’anni, festeggiato alle corti di Monferrato, d’Este, dei Malaspina, componendo canzoni popolari anche sopra soggetti di stagione, la lotta degl’imperatori coi papi, de’ Guelfi co’ Ghibellini. Largheggiò co’ trovadori Azzo VII d’Este signor di Ferrara; e lui e le figliuole sue, come paragoni di cortesia e di virtù, troviamo spesso cantati da poeti, liberali di lodi a chi era liberale di doni. Carlo d’Angiò nella conquista d’Italia fu accompagnato da Percivalle Doria suddetto, il quale scrisse anche la _Guerra di Carlo re di Napoli col tiranno Manfredi_. Allorchè Corradino periva sotto la mannaja dell’Angioino, Zorzi prorompeva: — Se il mondo cadesse in rovina per catastrofe spaventosa, se quanto luce nell’universo si trovasse sepolto in tenebra, non potrei farne lamento maggiore che dell’aver veduto il giovane Corradino e il duca Federico sì perversamente posti a morte. Oh maledetta mille volte la Sicilia che lasciò commettere tanto misfatto! Oh, le persone dabbene che possono ormai aspettarsi, se non di vivere nell’abjezione? ebbero giammai nemici più spietati che il conte d’Angiò?» In maggior nominanza rimase Sordello da Mantova, che accoppiò la palma di guerriero, il mirto d’amante e l’alloro di poeta. Strane avventure di lui raccontano, e degli amori suoi con Cunizza, sorella d’Ezelino IV: ma lasciandole al romanzo[140], noi diremo come delle poesie sue le più ricantino d’amore, e in altro modo che non ci aspetteremmo dall’_anima lombarda altera e disdegnosa_; nè pare fosse appo i contemporanei in quella nominanza di eroismo, in cui lo posero le cronache mantovane e l’Alighieri. Si rivela piuttosto buontempone; vantasi de’ trionfi sopra tutte le donne, come un don Giovanni, senza delicatezza cavalleresca nè urbana; invitato da Carlo d’Angiò a crociarsi, — Signor conte (risponde), non esigete da me ch’io vada a cercar la morte. Per coteste acque salse troppo presto si guadagna il paradiso: io non ho fretta d’ottenerlo, e il più tardi possibile voglio arrivare all’eternità». Ameremmo credere che le prime fossero millanterie, profonda ironia le seconde; giacchè altrove Sordello, disdegnoso ed elevato, nè a grandezza nè a potenza riguardando, sfolgora la viltà dovunque gli appaja. Tal è il famoso suo _serventese_ in morte di ser Blacasso, ove con ardimento ingiurioso i pezzi del cuore di quel forte manda ai varj re, a ciascuno rinfacciando il poco cuor suo. Non vogliamo dimenticate alcune poesie, nelle quali i Valdesi espressero le loro dottrine religiose, in un dialetto che ai Lombardi s’accosta più che non facciano oggi quel di Genova o del Monferrato, sicchè datevi la terminazione odierna e sono italiane[141]. Nè tra noi mancò chi coltivasse il francese, e in esso dettarono Marco Polo, Brunetto Latini, Da Canale e varj romanzieri. Se tardi fu scritta la lingua vulgare in Italia, non ne inferite che tardi si svolgesse; bensì, considerandosi il latino come lingua nazionale e poco differendo dalla parlata, non v’era perchè i dotti avessero ad affrontare le troppe difficoltà del maneggiare una favella non mai scritta, e per conseguenza incerta e scarmigliata nelle forme, nelle voci, nell’ortografia. Gl’Italiani, come rimpiansero sempre l’antica grandezza di Roma, e, qualvolta poterono di sè, prescelsero ordinamenti consoni agli antichi almen di nome, così più tenaci conservarono la latina lingua ne’ pubblici atti fin al secolo nostro, anche per imitazione della curia romana, cui il far così tornava necessario perchè corrispondeva con tutto il mondo. Più dovettero farlo i padri nostri, anche quando la crescente libertà li recava a trattare più spesso gl’interessi proprj, benchè già il parlare avesse assunto le forme nuove. Ma qual latino fosse, se già non bastassero le carte addotte qua e là, potrà darcene indizio Odofredo, celebre professore dell’università di Bologna, il quale terminando il discorso del Digesto, così congedava gli scolari: _Dico vobis, quod in anno sequenti intendo docere ordinarie, bene et legaliter sicut unquam feci. Non credo legere extraordinarie, quia scholares non sunt boni pagatores; quia volunt scire sed nolunt solvere, juxta illud, _Scire volunt omnes, mercedem solvere nemo_. Non habeo vobis plura dicere; eatis cum benedictione Domini_[142]. In tutte le età le epistole della cancelleria pontifizia furono di gran lunga migliori, per le parole come per le cose. Fra i chiostri sorse qualche scrittore nell’XI secolo, lontano a pezza dai classici, ma più preciso e purgato che non qualche autore della decadenza dell’Impero: molti già ne mentovammo, e non vuolsi dimenticare Arrigo da Settimello, il quale, dal vescovo di Firenze spogliato di un pingue benefizio e ridotto a povertà, se ne spassionò nell’elegia _De diversitate fortunæ et philosophiæ consolatione_, quattro libri di latinità non affatto infelice[143], e saliti a così pronta fama, che vivo l’autore leggeansi nelle scuole. Facilmente si potrebbe rovistarne d’altri: ma chi usa una lingua separata dalla vita attuale, n’ha sempre scapito e al raziocinio e alla immaginazione, forme vecchie traendosi dietro i vecchi pensieri. Neppure il greco fu dimenticato; e i monaci Basiliani, diffusi nel mezzodì dell’Italia, lo conservavano nell’uffiziatura: nelle crociate poi si cominciò studiarlo anche per uso pratico, e qualche autore fu allora portato dalla Grecia, come portavansi reliquie. Per commissione di Eugenio III e per suffragare all’anima di suo figlio, Burgondione giudice di Pisa mutò in latino alquante omelie del Grisostomo, le opere di Giovanni Damasceno, e la _Natura dell’uomo_ di Gregorio di Nissa. Crebbe allora anche la messe delle storielle sacre e de’ miracoli o falsi o alterati, massime sulla passione di Cristo, notando di prodigi ogni zolla della Palestina, ogni nonnulla portato di colà: e Jacopo da Varagine pel primo, dopo gli antichi biografi degli eremiti, nella _Leggenda dorata_ raccolse vite de’ santi, zeppe di favole[144]. In reputazione meno rea sono quelle di frà Pietro Calo da Chioggia: ma tra la farragine indigesta e sconcia delle leggende allora comparse, i Protestanti menarono gran rumore del _Liber conformitatum sancti Francisci cum domino nostro Jesu Christo_, di scempia semplicità. Bartolomeo da Lucca, vescovo di Torcello e amico di Tommaso d’Aquino, stese una storia ecclesiastica fino al 1313, copiando quel che trovò, e conservandoci importanti notizie. Guido delle Colonne, giudice messinese, fu alcun tempo in Inghilterra, ove scrisse _De regibus et rebus Angliæ_, opera lodata, che il cronista inglese Roberto Fabyan usurpò. Nel 1287 già vecchio, da Ditti e Darete cretese tradusse o compilò _De rebus trojanis_, opera divulgatissima, volta poi in tutte le lingue, e nella nostra già nel 1333 da Matteo di ser Giovanni Bellebuoni pistojese, ed una delle prime messe a stampa[145]. Anco furono in uso biblioteche, tesori, specchi o con altro nome enciclopedie di tutto quel che un autore imparasse; libri di opportunissimo soccorso in quella penuria di libri. Il _Catholicon_, o Somma universale di Giovanni Balbi genovese, è una tavola alfabetica e ragionata di quanto allora gli Europei sapevano, e per attestazione dell’autore _valet ad omnes fere scientias_. Il latino non era soltanto lingua de’ letterati, ma correva tra il vulgo, non altrimenti che oggi il toscano ne’ paesi d’altro dialetto; e Gaufrido Malaterra, nel proemio alla cronaca sua, adduce canzoni da lui composte ad istanza del principe _plano sermone et facili ad intelligendum, quo omnibus facilius quicquid diceretur patesceret_; e quando a re Ruggero nacque Simone poco dopo la morte del primogenito, fece questa: _Patre orbo_ _Gravi morbo_ _Sic sublato filio,_ _Unde doleret_ _Quod careret_ _Hæreditati gaudio,_ _Ditat prole_ _Quasi flore_ _Superna prævisio._ I quali versi ci presentano la misura e la rima alla moderna, e c’invitano a cercare se sia vero che dai Provenzali noi imparammo il verseggiare. Come una lingua parlata differente dalla scritta, così ci si fa credibile che, colla poesia metrica, cioè misurata per lunghe e brevi, tra i Romani ne vivesse una ritmica, attenta solo al numero delle sillabe. Tale dovette essere la primitiva dei versi Saturnj e del carme Arvale, e degli altri carmi deprecatorj, medici, magici, che recitavansi _assa voce_, vale a dire senz’accompagnamento musicale, ma con una danza virile, ove col piede marcavasi l’accento[146]; e le canzoni convivali ricordate da Catone, ove al suon della tibia recitavansi le lodi de’ maggiori. Chi abbia intelligenza dell’accento latino, facilmente si persuaderà che ai canti mal potea servire la misura prosodica, bensì la ritmica. E tali noi crediamo durassero i versi Fescennini, lacchezzo del popolo; e tali i canti militari e bacchici e da celia, di cui ci conservò taluni Svetonio, come alcune strofe di Adriano imperatore, indocili alle conosciute misure[147]. L’imitazione greca introdusse i metri dattilici, ma come armonia fittizia, arbitraria, non mai connaturata colla lingua, e preoccupandosi delle convenienze accidentali del metro o di pretese analogie coi modelli greci, anzichè della vera pronunzia; tant’è vero che spesso il tono cadeva sulle brevi, e un gran numero di sillabe rimanevano incerte. Questa melopea tutt’artifiziale rendeva più corruttibile la quantità, che non negl’idiomi dove aveva un’esistenza naturale, come sarebbero il greco e il sanscrito: e per quanto i poeti cercassero crescere armonia ai loro versi sottomettendo a un ordine sistematico i piedi liberi, cioè determinando la successione de’ dattili e degli spondei, e regolando il posto delle cesure e fin la lunghezza delle parole[148], l’armonia non acquistò in Roma nè tampoco la forza d’un’abitudine. I Barbari affluenti colà, introduceano sempre più parole ribelli alla prosodia; e la pronunzia, men rispettosa alle tradizioni letterarie, riconduceva le capricciose differenze di quantità a una specie d’unità: i poeti dapprima variarono le regole prosodiche, poi confessarono d’ignorarle[149], e sul tipo dell’antico esametro si foggiarono versi che sistematicamente s’allontanavano da ogni misura. Cessata la classica squisitezza, rivalsero le forme indigene; e ciò viepiù in grazia del cristianesimo, dove l’ispirazione era più personale e più dominante il sentimento, talchè i poeti, invece di subordinare le loro emozioni a una misura inanimata, vollero appropriarla ai pensieri, e l’espressione melodica sostituirono alla regolarità plastica. Allora dunque si neglesse la quantità delle sillabe per curarne solo il numero, e lasciare campo alla musica; e l’orecchio, ineducato a quella finezza, preferì essere carezzato dalla rima. Di tal modo abbiamo versi d’autori[150], iscrizioni, inni della Chiesa, facili al canto ma ribelli alla prosodia; e se ne variò la misura, sempre con ragione al numero, non alla quantità delle sillabe. La rima conobbero i classici e latini e greci, e sebbene la evitassero come poco acconcia alla metrica, talvolta accumularono le consonanze in modo, da non potere attribuirle a inavvertenza[151]. Questo vestire di forma più musicale i pensieri, e rendere più sensibile l’armonia, piacque ognor meglio al declinare del latino, e man mano che sentivasi la necessità di dare un ritmo più libero ed espressivo a concetti, sui quali il sentimento acquistava maggiore imperio. Da prima bastava l’assonanza, cioè la cadenza simile della sillaba estrema o delle due ultime nelle voci sdrucciole[152]; poi si vollero eguali tutte le lettere che succedessero all’accento tonico. Leonini furono denominati questi versi; forse ad indicarne la forza, o forse da Leone benedettino di San Vittore a Parigi, fiorito verso il 1190, che (fatto non raro tra quella nazione) se n’attribuì il merito benchè assai prima fossero in uso[153]. E la rima passò in tutte le lingue romanze, come già l’avevano gli Arabi e i popoli settentrionali, il cui esempio potè forse divulgarla tra noi, certo non la insegnò. Chi non badi alla quantità, già può nei classici latini riscontrare la misura dei nostri versi quinarj, senarj, settenarj, ottonarj, di cui le combinazioni crebbero e si svincolò l’andamento quando furono destinati al canto ecclesiastico[154]. L’eroico nostro viene dagli endecasillabi antichi, o dal saffico o dal giambo iponazio[155]: fu consueto nei secoli bassi, e in quello i soldati confortavansi nel 900 a custodire gli spaldi di Modena (t. V, p. 339). Del decasillabo, ignoto ai Latini e ai Provenzali, si fa merito a ser Onesto bolognese[156]. E sempre la poesia sottometteasi alla musica; come attestano anche i nomi di canzone, cantilena, sonetto, aria, ballata, antifona, responsorio. Che mestieri dunque di cercare da’ Provenzali le nostre forme poetiche? erano evoluzione logica del progresso della versificazione, del sottentrare le lingue antiprosodiche, e dell’associarsi più intimamente la poesia colla musica. Bensì da loro ci vennero le canzoni a versi disuguali e rime incrociate, chiuse con un invio, le quali noi intitoliamo petrarchesche; e il faticoso intreccio delle sestine antiche e delle ballate, ove ad ogni dato spazio ricorre il verso o il vocabolo medesimo. Il loro sonetto fu ben altro dai nostri, dei quali il più antico che ci resti attribuiscono a Pier delle Vigne[157]; determinato poi regolarmente da Guitton d’Arezzo, che vogliono pel primo usasse gli ottonarj. Meritano al Boccaccio l’invenzione dell’ottava[158], della quale non è che mutilazione la sestina moderna. De’ terzetti grandemente si piacquero i primi nostri poeti. Così via via la versificazione perfezionavasi, combinando in maniera più melodica elementi più conformi alla natura della lingua. La Sicilia udì verseggiare italiano Pier delle Vigne, Federico II, Enzo e Manfredi suoi figli (pag. 122). Sembrano anteriori Ciullo d’Alcamo e Mazzeo Ricco di Messina, e più forbito Rinaldo d’Aquino, Jacopo notajo da Lentino, e Guido delle Colonne. Contemporanei coltivavano poesia in Toscana due Buonagiunta da Lucca, Chiaro Davanzati, Salvino Doni, Guido Orlandi, Noffo notajo d’Oltrarno, che si nominano solo perchè primi. Già lodammo san Francesco e frà Pacifico, e forse sin dal 1177 poetava Folcalchiero Folcalchieri senese, parendo alludere alla pace di Costanza quando col verso — Tutto lo mondo vive senza guerra» comincia la più antica canzone di nostra favella. Dante da Majano, per fama invaghitosi della Nina Sicula, ricambiò versi con essa, dove non si riscontra differenza fra lui toscano e lei siciliana; tant’è vero che tutti s’ingegnavano di conformarsi allo stesso tipo. Più rozzamente, ma pure scriveasi nel settentrione d’Italia; e i milanesi Pietro Besgapè che fece la storia del Vecchio e Nuovo Testamento, e frà Buonvicino da Riva che insegnò le belle creanze[159], e Guido da Sommacampagna retore veronese che nel 1360 espose _lo tractato e la arte delli ritmi vulgari_[160], non vagliono se non ad attestare quanto già allora fosse superiore il dialetto toscano. Tanto basta perchè più non si ripeta quel triviale dettato, aver Dante creato la lingua e la poesia italiana; egli che nel suo trattato _De vulgari eloquio_ esamina e giudica gli scrittori che lo precedettero, condannando quelli che la lingua accettarono tal quale si parlava senza forbirla; e anche nella _Divina Commedia_ gli accusa che non s’ispirassero al sentimento, e volessero piacere con altri ornamenti che colla verace espressione dell’amore[161]. Severissimo egli si mostra a Guitton d’Arezzo, eppure costui, dotto di provenzale, francese, spagnuolo, sotto forme ruvide espose alti concetti, sì nei versi come in quaranta lettere di vario soggetto, e le più scritte per edificazione delle anime, per incorare a virtù i cavalieri Gaudenti, ai quali apparteneva, esortare alla pace Firenze e l’altre città di Toscana, e per poco che siano dirugginate, appajono tutt’altro che spregevoli. Jacopone da Todi, letterato e dottore, intese a guadagni e voluttà sin quando, assistendo ad uno spettacolo ed essendo caduto il palco, vi rimase ammazzata sua moglie, alla quale scoprendo il seno, la trovò stretta di cilicio sotto le vesti scialose. Compunto, si rese terziario di san Francesco, e per attirarsi disprezzo, si finse mentecatto. Eccogli addosso le baje de’ fanciulli, la persecuzione de’ suoi frati e di papa Bonifazio VIII; e cacciato prigione, vi canta versi e sacre laudi, grossolane e scorrette, pure a volta robuste e spontanee di pensieri come d’espressioni. Nel primo ordine de’ Francescani non fu voluto ricevere se non dopo avere scritto sul disprezzo del mondo; ma passar sacerdote non volle mai. Brunetto Latini ci lasciò in vulgare il _Tesoretto_, raccolta di precetti morali in settenarj rimati a coppia. «Fu dittatore (segretario) del Comune di Firenze, ma fu mondano uomo. Fu egli cominciatore e maestro in digrossare Fiorentini, e farli scorti in bene parlare e in sapere giudicare e reggere la repubblica secondo la politica» (VILLANI). Perseguitato da re Manfredi, riparò in Francia presso Luigi IX, ove scrisse il _Tesoro_, che vollero dire enciclopedia di quel tempo, mentre non è che un affastellamento di cose desunte dalla Bibbia, da Plinio, da Solino. E dic’egli, _le composa en français pour ce que nous sommes en France, et par ce que la parleure en est plus delitable et plus commune à tous gens._ L’originale rimase inedito, ma due traduzioni italiane, contemporanee all’autore, di idee e vocaboli molti accrebbero la nostra lingua, e dovettero a lungo conservarsi in pregio, se all’introdursi della tipografia furono delle prime date alla stampa[162]. Buje nella forma e tutte lambiccature mi sembrano le rime, in cui Cino da Pistoja celebrò la bella Selvaggia: eppure il lodano di eleganza e dolcezza, e Dante asserisce che le costui canzoni e le sue aveano «innalzato il magistero e la potenza del dire italico, il quale essendo di vocaboli tanto rozzi, di perplesse costruzioni, di difettosa pronunzia, di accenti contadineschi, era stato da essi ridotto così egregio, così districato, così perfetto e civile». Gran lode meritò commentando il Codice, e cacciato in bando perchè ghibellino, era chiesto a gara dalle università. Guido Guinicelli bolognese, spatriato coi Lambertazzi, e morto in esiglio due anni dopo, fu chiamato da Dante «nobile e massimo, e padre suo, e de’ migliori che mai cantassero rime d’amore dolci e leggiadre... il primo da cui la bella forma del nostro idioma fu dolcemente colorita, la quale appena dal rozzo Guittone era stata adombrata»[163]. Poco ce ne rimane e guasto, ma abbastanza per vedervi elevazione e vigore, pensamenti nobili, stile dirozzato, da far meraviglia in autore di seicento anni fa; se non avessimo anche e prose e versi di esso Guittone, troppo superiori al concetto che vorrebbero darcene l’Alighieri e chi gli fa eco. Sorvolò ai precedenti il fiorentino Guido Cavalcanti, che, cantando la Mandetta di Tolosa[164], mischiò la filosofia all’amore, e usò la lingua con una forbitezza tutta moderna. Insieme v’avea non pochi che adopravano la prosa sia a prediche, sia a cronache, come già notammo, sia a traduzioni, le quali soglion essere utilissimo esercizio delle nuove lingue. Frà Guidotto da Bologna nel _Fior di retorica_ vulgarizzò compendiando il libro ad Erennio; e — conoscendo te e la tua gran bontade, alto Manfredi, lancia e re di Cicilia, siccome a diletto e caro signore nell’aspetto de’ valenti principi del mondo, essere sovra gli altri re grazioso, ho compilato questo Fiore, nel quale, secondo il mio parere, voi potete avere sufficiente ed adorno ammaestramento a dire in piuvico ed in privato». Ma forse le molte traduzioni di quel tempo non sono dal latino, bensì dal francese; e di là i romanzi, di là molte delle Cento Novelle, dedotte dal monaco di Montalto. Sono questi, che, usando del popolo le parole, ma combinandole secondo l’ingegno naturale e la coltura propria, stabilirono il primato della lingua toscana, contrastato indarno da coloro che vollero tenere di Dante piuttosto le mal chiarite dottrine, che non gl’immortali esempj. Esempj così grandiosi e inaspettati, ch’egli fu salutato qual creatore non solo della poesia ma della lingua: mentre e dell’una e dell’altra non fece che accogliere le tradizioni, accostandovi la fiaccola del genio; tanto più mirabile quanto men colta era la restante Europa, e scarsamente conosciuti gli antichi modelli. Dimenticati questi, l’immaginazione avea preso due vie, delle idee religiose e delle cavalleresche; e dalle prime era venuta una serie di leggende, applicate a personaggi e tempi diversissimi, e che costituivano una mitologia cristiana, di gran lunga men bella della gentilesca, ma più morale ed efficace, e cui forma erano l’allegoria e la visione. La cavalleria, portata in Europa colle crociate, ed avvivata dall’alito di queste, avea partorito tutte quelle imprese degli eroi della Tavola Rotonda e de’ paladini di Carlo Magno, oppure vestito alla moderna i compagni di Alessandro Macedone, e inventato genealogie delle Case regnanti e principalmente della francese. In questi predominavano la satira e il grottesco, fosse nel narrare imprese ridicole, fosse nell’esagerare le eroiche ed esporle sogghignando. Trovammo pure i poeti storici, narrazioni sprovvedute di fantasia. Il sentimento individuale esprimevasi nella lirica, tutta d’amore; ma se teneva forma leggera e spensata fra Provenzali e Francesi, in Italia ben presto la assunse colta, divenne platonico e metafisico, tanto che fu mestieri di commenti alle canzoni amorose[165]. Il sentimento e la bellezza ne scapitavano; ma faticando ad esprimere quelle idee o ad analizzarle, la lingua prendeva ampiezza e vigore. Anche i tanti _fabliaux_ e poemi e romanzi in francese, in tedesco, in provenzale, in italiano, erano rozzi di apparenza e scempj di concetto, istintivi piuttosto che d’arte; nè era sorto chi (uffizio de’ poemi primitivi) raccogliesse tutte le tradizioni viventi, le combinasse colla scienza più raffinata del suo tempo, mescolasse la satira, la storia, l’amore, la devozione e, forme loro, la lirica, il dialogo, il racconto, l’allegoria; e culto, dogmi positivi, istituti civili, fatti storici, speculazioni filosofiche e teologiche unisse mediante il proprio genio, e coll’arte che sola può eternare le opere. Ciò fece Dante con ingegno sommo ajutato dai casi. Discendente (1265-1321) da un Cacciaguida, che erasi meritato il paradiso crociandosi dietro all’imperatore Corrado, a nove anni capitato coi parenti in casa di Folco de’ Portinai quando si festeggiava il calen di maggio, vide Bice figlia di questo, la quale «di tempo non trapassava l’anno ottavo, era leggiadretta assai, e ne’ suoi costumi piacevole e gentilesca, bella nel viso, e nelle sue parole con più gravezza che la sua piccola età non richiedea. E Dante così la ricevette nell’animo, che altro sopravvegnente piacere la bella immagine di lei spegnere nè potè nè cacciare» (BOCCACCIO). Sopra l’amata fanciulla cominciò egli a far versi, inviandoli, com’era costume, ad altri poeti toscani, che o l’avranno dissuaso da una via dove il prevedevano emulo, o donato di que’ compassionevoli conforti che somigliano ad insulto. Chi si commove alla passion vera, sentirà quant’egli e come l’amasse allorchè scriveva: — Questa gentilissima donna venne in tanta grazia delle genti, che, quando passava per via, le persone correano per veder lei; e quando fosse presso ad alcuno, tanta onestà venia nel cuore di quello, che non ardìa di levare gli occhi nè di rispondere al suo saluto. Ed ella coronata e vestita d’umiltà s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedeva e udiva. Dicevano molti, poichè passata era, _Questa non è femmina, anzi è de’ bellissimi angeli del cielo_; ed altri dicevano, _Questa è una meraviglia: che benedetto sia il Signore, che sì mirabilmente sa operare!_ Io dico ch’ella si mostrava sì gentile, che quelli che la miravano, comprendevano in loro una dolcezza onesta e soave tanto, che ridire nol sapevano; nè alcuno era, lo quale potesse mirar lei, che nel principio non gli convenisse sospirare»[166]. Bice si maritò in un de’ Bardi; ma ben presto (racconta esso poeta) «lo Signore della giustizia chiamò questa nobile a gloriare sotto l’insegna di quella reina benedetta virgo Maria, lo cui nome fue in grandissima reverenza nelle parole di questa beata Beatrice». Dante, a cui, com’è dell’anime passionate, parve tutto il mondo avesse a prender parte al suo lutto, per lettera ne informò re e principi; poi, affine di distrarsi, si affondò in solitarj studj, e promise seco stesso di «non dir più di questa benedetta infintanto che non potesse più degnamente trattar di lei»; e sperava dirne «quello che mai non fu detto d’alcuna». Gli amori suoi raccontò nella _Vita nuova_, il primo di quei libri intimi alla moderna, dove uno analizza il sentimento e rivela le recondite sue tribolazioni. Dettato troppo spesso con pretensione erudita e scolastica aridità, qui e qua con semplice candore, come di chi narra se stesso, e governata da una malinconia non arcigna, Dante vi si mostra poeta più che in molte poesie; contempla Beatrice nelle visioni, anche molt’anni dopo morta, e ne favella come fosse di jeri. A tale entusiasmo voi sentite che non riuscirà uomo nè scrittor vulgare: e se tanto soffriva per amore, che doveva essere quando vi si unissero i patimenti politici, l’esiglio immeritato, e il cader con indegni?[167]. Il profondo sentire lo spingeva a volersi cingere il cordone di san Francesco, poi se ne distolse per mescolarsi ne’ parteggiamenti cittadini: dai quali spinto fuor di patria, ideò e compì un’epopea affatto differente dagli esempj classici, di cui aveva imperfetta notizia. L’_Iliade_ esponeva le vicende guerresche; l’_Odissea_, il vivere domestico de’ principotti greci; l’_Eneide_, la grandezza di Roma. Questa Roma stessa avea Dante veduta quando, l’anno 1300, centinaja di migliaja di pellegrini vi accorrevano al giubileo, mossi da un unico pensiero, la salute dell’anima, eppur ciascuno portandovi gli affetti, le passioni, le fantasie proprie. Il devoto entusiasmo di tutta cristianità si accentrò nel poeta, il quale tolse a cantar l’uomo, e come i suoi meriti in terra sono retribuiti nell’altro mondo. Il dispetto verso gli uomini, l’aver toccato con mano le miserie d’Italia, il conversare cogli artisti che allora, innovando la pittura, gli davano esempio di nobili ardimenti, maturarono la vasta sua facoltà poetica; e amore, politica, teologia, sdegno gli dettarono la _Divina Commedia_, che, come l’epopea più ardita, così è l’opera più lirica di nostra favella, giacchè nel canto egli trasfonde l’ispirazione propria, l’entusiasmo onde ardeva per la religione, per la patria, per l’impero, e gl’immortali suoi rancori. Nel tempio, nel duomo eransi tutte le arti novamente congiunte, com’erano state prima che il separarsi raffinasse le singole, a scapito dell’universale espressione. Così Dante ripigliava l’epopea vera, che comprendesse i tre elementi di racconto, rappresentazione, ispirazione, i lanci dell’immaginativa e le speculazioni del raziocinio; toccasse all’origine e alla fine del mondo; descrivesse terra e cielo, uomo, angelo e demonio, il dogma e la leggenda, l’immenso, l’eterno, l’infinito, colle cognizioni tutte dell’intelligenza sua e del popolo. Laonde il suo poema riuscì teologico, morale, storico, filosofico, allegorico, enciclopedico; pure coordinato a insegnar verità salutevoli alla vita civile[168]. Il Boccaccio, di poco a lui posteriore, lasciò cadersi dalla penna che scopo unico ne fosse il distribuir lodi o biasimo a coloro, di cui la politica e i costumi reputava onorevoli o vergognosi, utili o micidiali. Ridurre un sì vasto concetto alla misura di un libello d’occasione! e forse era siffatta l’opinione de’ vulgari, soliti a non veder che allusioni e attualità, perchè in fatto stanno racchiuse nelle verità eterne, e in quella vastità dei generali che è il carattere degl’ingegni elevati. Ma a gran torto s’appongono coloro che solo un’allegoria politica vogliono trovare in un poema, cui poser mano cielo e terra. Il problema cardinale, che Eschilo presentiva nel _Prometeo_, che Shakspeare atteggiò nell’_Amleto_, che Faust cercò risolvere colla scienza, don Giovanni colla voluttà, Werter coll’amore, fu l’indagine di Dante come di tutti i pensatori; questo contrasto fra il niente e l’immortalità, fra le aspirazioni a un bene supremo, e l’avvilimento di mali incessanti. «L’autore, in quel tempo che cominciò questo trattato, era peccatore e vizioso, ed era quasi in una selva di vizj e d’ignoranza; ma poichè egli pervenne al monte, cioè al conoscimento della virtù, allora la tribolazione e le sollecitudini e le varie passioni procedenti da quelli peccati e difetti cessarono e si chetarono »[169]. Ciò fu _nel mezzo del cammin della vita_ del poeta, quando il giubileo lo richiamò a coscienza. I poeti pagani sono pieni di calate all’inferno. I Padri cristiani non insistettero sul descriverlo, e di volo vi passa sopra anche l’estatico di Patmos; ma cresciuta la barbarie, parve si volessero rinforzare i ritegni col divisare a minuto que’ fieri supplizj. Divenuto unico sentimento comune il religioso, in centinaja di leggende ricomparivano viaggi all’altro mondo. Pel pozzo di San Patrizio in Irlanda Guerrino il Meschino scende a laghi di fiamme, ove l’anime si purgano: e nell’inferno, disposto in sette cerchj concentrici un sotto l’altro, in ciascuno dei quali è punito uno de’ peccati mortali, trova molte persone conosciute: infine Enoch ed Elia lo elevano alle delizie del paradiso, e risolvono i dubbj suoi[170]. Le lepide composizioni del _Sogno d’inferno_ di Rodolfo di Houdan, e del _Giocoliere che va all’inferno_, correano per le mani come espressioni di credenze vulgatissime, e comuni ai popoli più lontani. In Italia principalmente dovea essere conosciuta la visione d’Alderico, monaco a Montecassino attorno al 1127, il quale dopo lunga malattia rimane nove giorni e nove notti privo di sentimento; nel qual tempo, portato su ali di colomba e assistito da due angeli, va nell’inferno, poi nel purgatorio, donde è assunto ai sette cieli e all’empireo. Da tali credenze Brunetto Latini, maestro di Dante, avea dedotto l’idea d’un viaggio, in cui dicevasi salvato per opera d’Ovidio da una selva diversa, dove avea smarrito il gran cammino[171]. Ben sarebbe meschino l’imputar Dante d’imitazione. Forse la Madonna col bambino non è la stessa, sgorbiata dall’imbianchino del villaggio, e dipinta da Rafaello? Dante vi era portato dai tempi e dalle credenze universali; e il libro più comune e quasi unico del medio evo gli somministrava queste allegorie, e le visioni, e perfino le tre fiere che l’impediscono al cominciar dell’erta[172]. E talmente la visione è forma essenziale dell’opera di Dante, che durò anche dopo lui morto, e si disse che otto mesi dopo la tomba foss’egli apparso a Pier Giardino ravignano per indicargli dove stessero riposti gli ultimi tredici canti del poema, di cui in conseguenza la terza parte fu pubblicata solo postuma. La predilezione di Dante pei concetti simbolici trapela da tutte le opere sue. Conobbe Beatrice a nove anni, la rivide a diciotto alla nona ora, la sognò nella prima delle nove ultime ore della notte, la cantò ai diciott’anni, la perdè ai ventisette, il nono mese dell’anno giudaico; e questo ritorno delle potenze del numero più augusto gl’indicava alcun che di divino[173], come il nome di lei parevagli cosa di cielo, aggiuntivo della scienza e delle idee più sublimi; onde la divinizzò come simbolo della luce interposta fra l’intelletto e la verità. Adunque Dante non poeteggia per istinto, ma tutto calcola e ragiona; compagina l’uno e trino suo poema in tre volte trentatrè canti, oltre l’introduzione, e ciascuno in un quasi ugual numero di terzine[174]; e gli scomparti numerici cominciati nel bel primo verso (_nel mezzo_), lo accompagnano per le bolge, pei balzi, pei cieli, a nove a nove coordinati. Questo rispetto per la regola, questo _fren dell’arte_ che crea egli stesso e al quale pure si tiene obbligato, non deriva da quell’amore dell’ordine, per cui vagheggiava la monarchia universale? La mistura del reale coll’ideale, del fatto col simbolo, della storia coll’allegoria, comune nel medio evo[175], valse all’Alighieri per innestare nella favola mistica l’esistenza reale e casi umani recenti; sicchè i due mondi sono il riflesso l’uno dell’altro, e Beatrice è la donna sua insieme e la scienza di Dio, come dalle quattro stelle vere son figurate le virtù cardinali, e dalle tre le teologiche. Smarrito nella selva selvaggia delle passioni e delle brighe civili, dalla letteratura e dalla filosofia, personificate in Virgilio, vien Dante condotto per l’esperienza fin dove può conoscere il vero positivo della teologia, raffigurata in Beatrice, alla cui vista, prima gioja del suo paradiso, egli arriva traverso al castigo ed all’espiamento. Al limitare dell’inferno, incontra gli sciagurati che vissero senza infamia e senza lode, inettissima genia, chiamata prudente dalle età che conoscono per unica virtù quella fiacca moderazione la quale distoglie dall’_esser vivi_. Con minore acerbità sono castigati coloro, di cui le colpe restano nella persona; e peggior ira del cielo crucia quelli che ingiuriarono altrui. Così nel secondo regno si purgano le colpe con pene proporzionate al nocumento che indussero alla società; e a questo assunto sociale si riferiscono, chi ben guardi, le quistioni che in quel tragitto presenta e discute il poeta, le nimistanze civili, il libero arbitrio, l’indissolubilità dei voti, la volontà assoluta o mista, come di buon padre nasca figlio malvagio, e come nell’eleggere uno stato non devasi andare a ritroso della natura. Erano tempi, ove, non conoscendosi i temperamenti dell’educazione, tutto veniva spinto all’assoluto; e Dante ce li dipinge colla credulità, coll’ira, la morale, la vendetta. Secondo è uffizio del poeta, s’erge consigliere delle nazioni, giudice degli avvenimenti e degli uomini, re dell’opinione: ma la mal cristiana rabbia onde tesse l’orditura religiosa, pregiudica non meno alla forma che all’interna bellezza. E bellezza sua originale è quella rapidità di procedere, per cui non s’arresta a far pompa d’arte, di figure rettoriche, di descrizioni, a ripetere pensieri altrove uditi; ma cammina difilato alla meta, colpisce e passa. Insigne nel cogliere o astrarre i caratteri degli enti su cui si fissa, egli è sempre particolare nelle dipinture; vedi i suoi quadri, odi i suoi personaggi. Libero genio, adopera stile proprio, tutto nerbo e semplicità, con quelle parole rattenute che dicono men che il poeta non abbia sentito, ma fanno meglio intravvedere l’infinito, acciocchè ne cerchiamo il senso in noi medesimi. La forza e la concisione mai non fecero miglior prova che in questo poema, dove ogni parola tante cose riassume, dove in un verso si compendia un capitolo di morale[176], in una terzina un trattato di stile[177]; e in eleganti versi si risolvono le quistioni più astruse, come la generazione umana, e l’accordo fra la preveggenza di Dio e la libertà dell’uomo, le quali non apparivano fin là che nell’ispido involucro dell’argomentazione scolastica[178]. Ond’è che Dante opera sul lettore non tanto per quel che esprime quanto per quel che suggerisce; non tanto per le idee che eccita direttamente, quanto per quelle che in folla vengono associarsi alle prime. Capirlo è impossibile se l’immaginazione del lettore non ajuti quella dell’autore: egli schizza, lasciando che il lettore incarni; dà il motivo, lasciando a questo il trovarvi l’armonia, il quale esercizio dell’attività lo fa sembrare più grande. Ma egli non è un autor da tavolino; _fa parere la sua nobiltà_ scrivendo ciò che vide; laonde con libero genio, non teme la critica, pecca di gusto, manca della pulitura qual richiedono i tempi forbiti; e intese la natura dello _stil nuovo_, che non può reggersi colla indeclinabile dignità degli antichi: ma, come nella società, mette accanto al terribile il ridicolo; donde quel titolo di Commedia[179]. Dell’introdurre tante questioni scolastiche nol vorrò difendere io; ma, oltrechè è natura de’ poemi primitivi il raccorre e ripetere tutto quanto si sa, se oggi appaiono strane a noi disusati, allora si discuteano alla giornata, ed ogni persona colta avea parteggiato per l’una o per l’altra, non altrimenti che oggi avvenga delle disquisizioni politiche. Neghi chi vuole, ma il maggior difetto di Dante resterà l’oscurità[180]. Locuzioni stentate, improprie; voci e frasi inzeppate per necessità di rima; parole di senso nuovo; allusioni stiracchiate, o parziali, o troppo di fuga accennate; circostanze effimere e municipali, poste come conosciute e perpetue, l’ingombrano sì, che Omero e Virgilio richiedono men commenti; e tu italiano sei costretto a studiarlo come un libro forestiere, alternando gli occhi fra il testo e le chiose; e poi trovi concetti che, dopo volumi di discussioni, non sanno risolversi. Vero è che quel fraseggiare talmente s’incarna col modo suo di concepire e di poetare, da doverlo credere il più opportuno a rivelar l’anima e i pensamenti di esso. Anzi si direbbe che l’allettativo di Dante consista in una virtù occulta delle parole, le quali devono essere disposte a tal modo nè più nè meno; movetele, cambiate un aggettivo, sostituite un sinonimo, e non son più desse: ha versi senza significato, e che pure tutti sanno a memoria: udite que’ terzetti quali stanno, ed eccovi la vanità divien persona, e presente il passato, e figurato l’avvenire. Con sì stupendi cominciamenti rivelavasi la nostra lingua. Dante nella _Vita nuova_ avea riprovato coloro «che rimano sopra altra materia che amorosa; conciossiachè cotal modo di parlare (l’italiano) fosse da principio trovato per dire d’amore». Ma nelle trattazioni civili ebbe a riconoscere la forza del vulgar nostro, e come «la lingua dev’essere un servo obbediente a chi l’adopera, e il latino è piuttosto un padrone, mentre il vulgare a piacimento artificiato si transmuta»; onde nel _Convivio_ diceva: — Questo sarà luce nuova e sole nuovo, il quale sorgerà ove l’usato (il latino) tramonterà, e darà luce a coloro che son in tenebre e in oscurità per lo usato sole che loro non luce». Frate Ilario, priore del monastero di Santa Croce del Corvo nella diocesi di Luni, dirigendo la prima cantica a Uguccione della Faggiuola così gli scrive: — Qui capitò Dante, o lo movesse la religione del luogo, o altro qualsiasi affetto. Ed avendo io scorto costui, sconosciuto a me ed a tutti i miei frati, il richiesi del suo volere e del suo cercare. Egli non fece motto, ma seguitava silenzioso a contemplare le colonne e le travi del chiostro. Io di nuovo il richiedo che si voglia e chi cerchi; ed egli girando lentamente il capo, e guardando i frati e me, risponde, _Pace!_ Acceso più e più della volontà di conoscerlo e sapere chi mai si fosse, io lo trassi in disparte, e fatte seco alquante parole, il conobbi: chè, quantunque non lo avessi visto mai prima di quell’ora, pure da molto tempo erane a me giunta la fama. Quando egli vide ch’io pendeva della sua vista, e lo ascoltavo con raro affetto, e’ si trasse di seno un libro, con gentilezza lo schiuse, e sì me l’offerse dicendo: _Frate, ecco parte dell’opera mia, forse da te non vista; questo ricordo ti lascio, non dimenticarmi_. Il portomi libro io mi strinsi gratissimo al petto, e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le parole vulgari, e mostrando per l’atto della faccia la mia meraviglia, egli me ne richiese. Risposi ch’io stupiva egli avesse cantato in quella lingua, perchè parea cosa difficile e da non credere che quegli altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo; nè mi parea convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a quel modo plebeo. Ed egli: _Hai ragione, ed io medesimo lo pensai; e allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo, presero a germogliare, scelsi quel dire che più n’era degno; nè solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:_ _Ultima regna canam fluido contermina mundo,_ _Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt_ _Pro meritis cuicumque suis._ _Ma quando pensai la condizione dell’età presente e vidi i canti degl’illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per servigio de’ quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono ahi dolore! le arti liberali a’ plebei; allora quella piccioletta lira onde m’era provveduto, gittai, ed un’altra ne temprai conveniente all’orecchio de’ moderni, vano essendo il cibo ch’è duro apprestar a bocche di lattanti_». Di fatto l’Alighieri osò adoprare l’italiano a descriver fondo a tutto l’universo; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà d’una lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime; se non fissolla, la determinò, _e mostrò ciò che potea_. Togli le voci dottrinali, o quelle ch’egli creava per bisogno o per capriccio (avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola, o la parola alla rima)[181], le altre sue son quasi tutte vive. Se, come alcuno fantastica, egli fosse andato ripescandole da questo o da quel dialetto, avrebbe formato una mescolanza assurda, pedantesca, senza l’alito popolare che solo può dar vita. Forse le prose e i versi de’ suoi contemporanei, quanto a parole, differiscono da’ suoi? Nato toscano, non ebbe mestieri che di adoperare l’idioma materno; e le voci d’altri dialetti che per comodo di verso pose qua e là, sono in minore numero che non le latine o provenzali, a cui non per questo pretese conferire la cittadinanza. Irato però alla sua patria, volle predicare teoriche in perfetto contrasto colla propria pratica; e nel libro _Della vulgare eloquenza_ (dettato in latino per una nuova contraddizione), dopo aver ragionato dell’origine del parlare[182], della divisione degli idiomi e di quelli usciti dal romano, che sono la lingua d’_oc_, la lingua d’_oui_ e la lingua di _sì_, riconosce in quest’ultima quattordici dialetti, simili a piante selvaggie, di cui bisogna diboscare la patria. E prima svelle il romagnolo, lo spoletino, l’anconitano, indi il ferrarese, il veneto, il bergamasco, il genovese, il lombardo, e gli altri traspadani _irsuti ed ispidi_, e _i crudeli accenti_ degli Istrioti; dice «il vulgare de’ Romani, o per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i vulgari italiani, e non è meraviglia, sendo ne’ costumi o nelle deformità degli abiti loro sopra tutti puzzolenti»; dice che Ferrara, Modena, Reggio, Parma non possono aver poeti, in grazia della loro loquacità[183]. Insomma lascia trasparire che quel che meno gl’importa è la questione grammaticale; ma sovratutto condanna i Toscani perchè _arrogantemente si attribuiscono il titolo del vulgare illustre_, il quale, a dir suo, «è quello che in ciascuna città appare ed in niuna riposa; vulgare cardinale, aulico, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia in niuna; col quale i vulgari di tutte le città d’Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare». Per disservire questa patria, ne _depompa_ il linguaggio; i dialetti disapprova quanto più s’accostano al fiorentino; eppure insulta ai Sardi perchè dialetto proprio non hanno, ma parlano ancora latino: loda invece il siciliano, dicendo che così si chiama l’italiano e si chiamerà sempre; eppure all’ultimo capitolo mette che il parlar nostro, _quod totius Italiæ est, latinum vulgare vocatur_; e semprechè gli cade menzione del parlar suo o del comune italiano, lo chiama vulgare, o parlar tosco, o latino, e neppure una volta siciliano. A rinfianco del suo sofisma reca poche voci di ciascun dialetto, prova inconcludentissima; e versi di poeti di ciascuna regione, lodando quelli che si applicarono a cotesta lingua aulica, riprovando quelli che tennero la popolare, massimamente i Toscani. Nulla men giusto che tali giudizj, e basta leggere anche solo le poesie da lui addotte, per vedere che le toscane popolesche sono similissime alle cortigiane d’altri paesi: donde deriva che il cortigiano d’altrove, cioè lo studiato, era il naturale e vulgato di Firenze[184]. Malgrado i commenti di eruditissimi, o forse in grazia di quelli, io non so se meglio di me altri sia riuscito a cogliere l’assunto preciso di Dante in questo lavoro; tanto spesso si contraddice, tanto esce ne’ giudizj più inattesi. Chi volesse vedervi qualcosa più che un dispetto di fuoruscito, potrebbe supporre che i dotti avesser mostrato poco conto della sua Commedia, perchè scritta nella lingua che egli avea dalla balia, senza i pazienti studj che richiedeva il latino; quindi egli tolse a mostrare che nessun dialetto è buono a scrivere, ma da tutti vuolsi scernere il meglio. E qui v’è parte di verità: chè chi voglia formare un mazzo, non coglie tutti i fiori d’un giardino, ma i più belli; e quest’arte del _crivellare_ e dello scriver bene non può impararsi se non da chi bene scrive, nè a questi è prefisso verun paese. Ma il giardino dove trovare i fiori più abbondevoli e genuini, qual sarà se non la Toscana? e di fatto egli confessa che fin d’allora _non solo l’opinione dei plebei, ma molti uomini famosi_ attribuivano il titolo di vulgare illustre al fiorentino; nel che dice _impazzivano_, egli che pur credea necessario dare per fondamento alla lingua scritta un dialetto, benchè lo sdegno gli facesse ai Fiorentini, _obtusi in suo turpiloquio_, preferire sino il disavvenente bolognese; egli che asseriva il latino dovere scriversi per grammatica, ma il _bello vulgare seguita l’uso_. Nella scarsa metafisica d’allora, confondeva la lingua collo stile, giacchè è affatto vero che, adottando quella dei Fiorentini, bisognava poi aggiungervi l’ingegno e l’arte perchè divenisse colta; e poichè a ciò serve non poco l’usare con chi ben parla e ben pensa, Bologna per la sua Università offriva campo a migliorar lo stile, più che non la mercantesca Firenze. L’appunteremo noi se non seppe fare una distinzione, la cui mancanza offusca anc’oggi i tanti ragionacchianti in siffatta quistione? Al postutto egli non argomenta della lingua in generale, ma di quella che s’addice alle canzoni: lo che dovrebbero non dimenticare mai coloro che vogliono di Dante fiorentino far un campione contro quel fiorentino parlare, ch’egli pose in trono inconcusso. Altri versi dettò, e massime canzoni amorose, delle quali poi fece un commento nel _Convivio_, fatica mediocre, dove maturo tolse a indagar ragioni filosofiche a sentimenti venutigli direttamente da vaghezze giovanili, e vorrebbe che per amore s’intendesse lo studio, per donna la filosofia, per terzo cielo di venere la retorica, terza scienza del trivio; per gli angeli motori di questa sfera, Tullio e Boezio unici suoi consolatori. Ivi esprime di valersi dell’italiano «per confondere li suoi accusatori, li quali dispregiano esso, e commendano gli altri, massimamente quello di lingua d’oc, dicendo ch’è più bello e migliore di questo»: eppure altrove soggiunge «molte regioni e città essere più nobili e deliziose che Toscana e Firenze, e molte nazioni e molte genti usare più dilettevole e più utile sermone che gli Italiani». Locchè vedasi se a que’ tempi potea dirsi con giustizia. Quella che l’Alighieri creò veramente, è la lingua poetica, che fin ad oggi s’adopera con più o men d’arte, ma sempre la stessa, e per la quale sin d’allora egli era cantato fin nelle strade[185]. La sua prosa invece è povera d’artifizio, pesante, prolissa, con clausole impaccianti, periodi complicati. Quanto più doveva essere ne’ coetanei suoi, eccetto que’ Toscani che s’accontentassero di usarla nell’ingenuità natìa? Pure la prosa su que’ primordj va più originale che non divenisse in man di coloro i quali di poi vollero applicarvi la costruzione latina. Doveva l’eloquenza ingrandire fra’ pubblici interessi: ma quel gran sintomo dello sviluppo di un popolo, la potenza politica della parola, il talento applicato a governar le nazioni, non ad esilarare gli spiriti, rimase impacciato dall’inesperienza delle lingue. I pochi discorsi riferiti dagli storici non mostrano aspetto d’autenticità; pure sappiamo che, uniformandosi alle consuetudini scolastiche, gli oratori di tribuna si appoggiavano a un testo, sovente plebeo, e su quello ragionavano senz’arte. Farinata degli Uberti, quando, dopo la battaglia dell’Arbia, si alzò a viso aperto contro la proposta di distruggere Firenze, prese per testo due triti proverbj: — Come asino sape, così minuzza rape. Si va la capra zoppa, se lupo non la intoppa». E san Francesco predicando a Montefeltro, tolse un altro motto vulgare: — Tanto è il ben che aspetto, che ogni pena m’è diletto». Que’ predicatori che traevansi dietro le moltitudini, spingevanle alla guerra e, ch’è più mirabile, alla pace, li trovi rozzi e inordinati raccozzatori di scolastiche sottigliezze o di mistiche aspirazioni, lardellati di testi scritturali e di trascinate allusioni, dividendo e suddividendo a modo dialettico, senz’ombra di genio e rado di sentimento. Predicavano forse in latino rustico, e a tanta folla che a ben pochi era dato di sentirli e a meno d’intenderli, sicchè i cronisti ricorrono al miracolo. E davvero l’efficacia portentosa va attribuita al concetto di loro santità, e alla persuasione con cui parlavano, e che facilmente trasfondesi in chi ascolta. CAPITOLO CII. Ingerenza francese. — I Vespri siciliani, e la guerra conseguente. Parve la parte guelfa avesse confitto la ruota della fortuna al cadere degli Svevi e al piantarsi Carlo d’Angiò nelle Due Sicilie (Cap. XCII). Questo avea tributarj il bey di Tunisi e molte città del Piemonte, ligie quelle della Romagna e della Lombardia; vicario della Toscana, governator di Bologna, senatore di Roma, protettore degli Estensi e perciò della marca Trevisana; arbitro de’ papi e del re di Francia suo nipote; da Baldovino II, imperatore spodestato di Costantinopoli, si fa cedere i titoli sull’Acaja e la Morea; il regno di Gerusalemme da Maria figlia di Boemondo IV d’Antiochia; da Melisenda, il regno di Cipro; titoli vani, ai quali sperava ottener realtà facendo dai papi scomunicare Michele Paleologo imperatore bisantino, e allestendo grosse armi per isbalzarlo. Nel Regno egli non mutò gran fatto della costituzione, conservando i pesi e i freni che la robusta mano di Federico II e i bisogni della guerra v’aveano introdotto; migliorò Napoli di edifizj, fra’ quali il Castel Nuovo per assicurar l’accesso al mare, il duomo, Santa Maria la Nuova con ampio monastero di frati Minori; San Lorenzo, eretto sul Palazzo del Comune, da lui abbattuto; fece lastricare le vie interne; favorì l’Università attribuendole un giustiziere proprio, e determinando i prezzi degli oggetti di consumo per gli scolari, cui esentò dalle gabelle. Estese l’usanza di far cavalieri in tutte le solennità, e con quest’onore si amicò alcuni popolani grassi, come molti signori francesi col distribuir loro i feudi sottratti ad amici degli Svevi. Soltanto gentiluomini, o notevoli per ricchezza o per senno ammise nei _seggi_, ristretti ai cinque di Capuana, Nido, Montagna, Porto, Portanuova; i quali gareggiarono a fabbricare nel proprio quartiere palazzo e teatro; nominavano ciascuno cinque o sei capitani annui, che potessero convocare i nobili per qualunque pubblico affare; e gli Eletti, che governavano la città insieme coll’Eletto della piazza del Popolo. I parlamenti, che si accoglievano or qua or là, allora furono fissati a Napoli, e v’intervenivano la più parte de’ baroni, i sindaci di tutto il regno, e i due ordini de’ nobili e della plebe; i prelati soltanto in qualità di baroni. Ma la nobiltà antica prendeva in dispetto la nuova; le sventure della dinastia caduta convertirono l’odio in compassione; il popolo fremeva ai supplizj di coloro che non erano stati tanto vili da rinnegare gli antichi benefattori. I baroni, che soleano retribuire soltanto un donativo ne’ casi preveduti dal diritto feudale, cioè per invasione del paese, prigionia del re, nozze della sua figliuola o sorella, e nell’ornar cavaliere lui o suo figlio, erano stati sottomessi da Federico a gravezze regolari, mantenute o aumentate da Manfredi pel bisogno della guerra; e se Carlo avea promesso esoneraneli, si giovò del favore mostrato a Corradino per mancare agli accordi. Ragioni di popoli e ragioni della Chiesa aveva egli a rispettare, ed entrambe violò. Alla santa Sede avea giurato abolire le esazioni arbitrarie inventate dagli Svevi, e ripristinare le immunità come al tempo di Guglielmo il Buono; poi, per ambizione ed avarizia e per soddisfare l’esercito, introduceva sottigliezze fiscali, tasse sopra ogni minimo consumo; e se non trovasse pubblicani, obbligava qualche ricco a pigliarne l’appalto, come per forza dava in socida i beni del regio dominio, stabilendo a sua discrezione il fitto; estendeva le bandite per la caccia, ripristinava i servizj di corpo, di carri, di navi; arrogavasi ragioni di acque: la prigione era spalancata per ogni ritardo, per ogni richiamo, pur beato chi potesse fuggire, lasciando incolto il campo, deserta la casa, che talora veniva diroccata. Pose in corso la moneta scadente del carlino, minacciando chi la ricusasse di marchiarlo in fronte colla moneta stessa rovente[186], e producendo scompigli nelle private contrattazioni. Che diremo dei delitti di maestà, delle fiere procedure per sospetti, del proibire che i figli de’ rei di Stato non potessero accasarsi senza licenza del re?[187] Il quale pure o gli eredi di pingui feudi condannava al celibato, o le ricche ereditiere maritava co’ suoi stranieri. Ad esempio di lui soprusavano i ministri, smungeano denaro per ogni occasione, rubavano, poi otteneano connivenza spartendo col re; sopra gente avvezza alle franchigie normanne e alla cortesia sveva, si comportavano con quella sbadata insolenza, per cui i Francesi in Italia non seppero farsi amare se non quando non vi sono. Più castigata fu la Sicilia quanto più dagli Svevi favorita; fraudata de’ privilegi, posta in dipendenza da Napoli, abbandonata a magistrati violenti o avari, a giustizieri che angariavano le città e le coste; e col pretesto della crociata, smunta con sempre più gravi imposizioni; dei baroni, molti spogliati, molti ritiraronsi ne’ castelli montani. Tutti dunque sospiravano un’occasione di svelenirsi, e se la promettevano dallo sgomento che Carlo eccitava ne’ potentati. Le città del Piemonte, messesi a signoria di lui, se ne riscossero, sollecitate da Guglielmo VI marchese di Monferrato, e dai Genovesi che spesso nel Mediterraneo sconfissero la flotta provenzale. Michele Paleologo, che aveva usurpato e risanguato l’impero d’Oriente, vedeva con sospetto i preparativi di Carlo. E i popoli, ridotti a non avere speranza che nella rivoluzione, s’immaginano d’esservi ajutati da tutti i nemici del loro tiranno. La leggenda, che sbizzarrì sui fatti di quel tempo, racconta come radunasse in sè i dolori, le passioni, gli anatemi della sua patria Giovanni da Prócida, nobile medico salernitano, che, privato de’ suoi beni come creatura degli Svevi[188], con odio infaticabile girò per tutta Europa cercando nemici agli Angioini: aggiunge ch’egli avesse raccolto il guanto che Corradino gettò dal patibolo, e recatolo a Pietro III re d’Aragona, il quale, per la moglie Costanza, figliuola di Manfredi e cugina di quello, poteva (dicono essi) pretendere alla successione di lui. Fatti incerti: ma potrebbe darsi che Pietro adoprasse alle sue aspirazioni questo Procida, il quale era stato medico di Federico II e cancelliere di Manfredi, poi dei primi a fare omaggio a Carlo d’Angiò, e che forse s’indettava coi baroni siciliani, non per redimersi in libertà, ma per mutare padrone. Al re d’Aragona, signore di piccolo Stato, ma di valore ed ambizion grande e voglioso di vendicare il suocero, non potea che piacere un tale acquisto; ma Corradino avrebbe mai pensato a trasmettere la sua eredità al genero di colui che glie l’aveva usurpata? Il fatto sta che, «come vuolsi a buona guerra, l’Aragonese erasi preparato con amistà, denari, segreto» (MONTANER); e concertatosi coll’imperatore di Costantinopoli, dava voce di voler sbarcare contro i Mori d’Africa; e a chi tentava succhiellarne di più, rispondeva: — Tanto mi preme questo segreto, che se la mia destra il sapesse, la mozzerei colla sinistra». Il prendere la Sicilia era tutt’altro che facile, dove erano quarantadue castelli regj, pronte alla chiamata le truppe feudali, disposti grossi armamenti per l’impresa di Levante. Il popolo poi, men tosto che al re d’Aragona, volgea gli sguardi al pontefice, come quello che poteva da Carlo ripetere le liberali convenzioni giurate. Clemente IV l’aveva ammonito più volte con norme, che beato il re e i popoli se le avessero osservate: — Chiama i baroni, i prelati, i migliori delle città, esponi ad essi i bisogni tuoi, e col loro assenso determina i sussidj. Di questi poi e de’ diritti tuoi sta contento; del resto lascia liberi i sudditi: ordina col tuo parlamento in quali casi tu possa richiedere la colletta ai vassalli e ai baroni»[189]. Gregorio X, che per ismania della crociata voleva la pace, blandiva l’antico campione della Chiesa, ed erasi limitato a doglianze mansuete e inesaudite; non che secondare le ambizioni di Carlo sull’impero greco, sudò anzi a riconciliare quella Chiesa colla latina; e rimase tradizione popolare che Carlo avvelenasse san Tommaso d’Aquino mentre andava al concilio ecumenico di Lione, ove lo temeva avverso a’ suoi divisamenti[190]. I tre pontificati brevissimi (1276-77) che succedettero (Innocenzo V, Adriano V, Giovanni XXI) nulla innovarono; ma Nicola III degli Orsini, uomo altero e volente la liberazione d’Italia forse per ingrandirne la propria famiglia, adoperò con senno e cuore per rimetter pace, e mandò Latino cardinale d’Ostia a sedare le maledette parti. A Firenze, ove si combattevano Adimari e Donati, Tosinghi e Pazzi, dopo datosi attorno per quattro mesi, il cardinale raccolse tutti davanti a Santa Maria Novella, messa a fiori e gale, e indusse a darsi il bacio della pace, bruciar le sentenze ottenute, restituire i beni e unirsi con matrimonj; insieme rimpatriò i Ghibellini esigliati. Più ammalignavano le nimicizie in Bologna. Quivi Imelda de’ Lambertazzi avendo accolto in casa Bonifazio della nemica famiglia de’ Geremei, i fratelli di essa lo colpirono d’un pugnale avvelenato. La fanciulla credè salvarlo col succhiarne la ferita, ma contrasse ella pure il veleno, e morì coll’amante. La pietà pei due infelici esacerbò gli odj, si pugnò in città e fuori per sessanta giorni, infine i Geremei prevalsi cacciarono ben dodicimila cittadini. Questi, rifuggiti a Faenza e Forlì, menarono lunghe ostilità, finchè esso cardinale Latino riuscì a farli ripristinare nella patria e negli onori, abolendo le società popolari, tizzoni di discordia, e sulla piazza solennemente parata, davanti a molti vescovi, fu sui vangeli giurata la pace, sottoscritta da trentotto famiglie ghibelline, e cenventinove guelfe[191]. Poco dopo i Lambertazzi ripigliarono le offese; o almeno ne gli incolparono i Geremei, che gli espulsero di nuovo e ne demolirono i palazzi. Nicola III fu de’ pontefici più magnifici; tolse a rifabbricare la basilica di San Pietro, e vicino a quella il palazzo Vaticano, munito a guisa di città, e un altro a Montefiascone; ai parenti largheggiò prelature e signorie, e fu sin dubitato che, per ingrandirli, distraesse il denaro destinato per Terrasanta. Appoggiato a quelli, aspirava alla capitananza d’Italia; e dicono chiedesse una figlia di Carlo d’Angiò per un suo parente e dal superbo francese n’avesse risposta: — Perchè egli porta calzari rossi, presumerebbe mescere il sangue degli Orsini con quello di Francia?» Ne indispettì Nicola, e per ostare a Carlo fece nominar se stesso senatore di Roma, proibendo di più mai portare alcun re a quella dignità; elesse molti cardinali italiani; mandò assolvere i tanti scomunicati che i più erano Ghibellini; aveva anche in concetto di dividere l’impero in quattro regni ereditarj: quel di Germania per la discendenza mascolina di Rodolfo; quello d’Arles a Clemenza figlia di lui, maritata in Carlo Martello; la Lombardia e la Toscana a due nipoti del papa. Quali ne sarebbero state le conseguenze? non distruggevasi così quell’impero elettivo, di cui si compiacevano come di gloriosa creazione i suoi predecessori? e v’è diritto di spartire per tal maniera i popoli, ed assegnarli come un retaggio? e sovratutto sarebbe ciò stato possibile? — Nicola ne fece la proposizione a Rodolfo d’Habsburg, ma la morte (1280) interruppe il trattato[192] e la sua breve e vigorosa amministrazione. Carlo vide l’importanza d’avere un papa suo, onde prepotentemente cacciò i tre cardinali di casa Orsini, gli altri fe chiudere a pane e acqua; e d’accordo cogli Annibaldeschi, portò alla tiara il francese Martino IV (1281). Questo lo ripagò col buttarsi interamente agli interessi di lui, rinominollo senatore di Roma, scomunicò il Paleologo, e mentre il predecessore avea sudato per tenere in pace Guelfi e Ghibellini, egli cercò sempre la preponderanza dei Guelfi, all’uopo abusando delle armi spirituali. Guerreggiò Forlì, ricovero de’ cacciati di Bologna, non solo ponendo all’interdetto tutta la città, ma volendo che i beni de’ Forlivesi, côlti in qual si fosse paese, cadessero nel fisco papale: fatto nuovo, dappoi spesso imitato. Mandarono essi implorar perdono, ma egli no, se prima non cacciassero tutti i forestieri. I fuorusciti di Bologna lo pregarono, — Assegnateci un luogo dove ricoverare, giacchè dalla patria siamo espulsi»; e neppur tanto ottennero. Ma Giovanni d’Appia, creatura di re Carlo e fatto conte di Romagna, che spingeva quella guerra ajutato dai denari raccolti per la crociata, toccò grave sconfitta dai Forlivesi, comandati da Guido di Montefeltro. Un tal pontefice poteva aver orecchie disposte alle suppliche de’ Siciliani? anzi gittò prigioni il vescovo e il frate da loro deputati a portargli lagnanze. Ne imbaldanziva la francese tracotanza, e i Siciliani taciti e torvi aspettavano i tempi; quando privati oltraggi fecero che l’impeto popolare de’ Siciliani prevenisse le ambizioni de’ re e le brighe dei baroni. La terza festa di Risurrezione del 1282, mentre i Palermitani pasquavano a vespro alla chiesa di Santo Spirito, mezzo miglio dalla città, Drouet soldato francese, sott’ombra di cercare se portasse armi nascoste, frugò una nobile fanciulla; i parenti di lei se ne risentono, e lo uccidono; i Francesi vogliono vendicarlo, ma periscono quanti sono: il grido di _Mora, mora_ si diffonde; Ruggero Mastrangeli incora, e grida alla strage di chiunque non sa proferir _ciciri_; non altare li difende, non l’ordine sacro o la cocolla, non sesso o puerizia: nei giorni seguenti per tutta l’isola e per gl’invano difesi castelli e ne’ boscosi nascondigli si dilata la carnificina, della quale si dimenticò l’orrore per farne lezione ai regnanti. Solo Guglielmo Porcelet, feudatario di Calatafimi, uom giusto e umano, fu salvo e rinviato in patria. Il popolo, che nulla sapeva di trame d’Aragona, e che soleva associare l’idea di chiesa a quella di libertà, fermò di reggersi a comuni tra loro confederati e sotto la protezione del papa, di cui alzò la bandiera, e dava i suoi atti «al tempo del dominio della sacrosanta romana Chiesa e della felice repubblica, anno primo». Ma papa Martino montò in estremo furore, e quando alcuni frati vennero da Palermo, inginocchiandoseli colle mani sul petto, e intonandogli _Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis_, l’irato rispose pur col vangelo: _Dicebant, ave rex Judeorum, et dabant ei alapam_. Poscia «ai perfidi e crudeli dell’isola di Sicilia, corrompitori di pace e ucciditori di cristiani» intimò dovessero a lui pontefice e a Carlo signor legittimo sottomettersi, se no «li metteva scomunicati e interdetti secondo la divina ragione». Adunque i Siciliani aveano distinto saviamente le ragioni della propria libertà da quelle della Chiesa: Martino confondendole costringeva i popoli ad osteggiare la Chiesa, la quale non potendo rinunziare alla sua supremazia sovra la Sicilia, trovavasi incaricata di vendicare l’Angioino, e farsi complice de’ passati eccessi di lui. Carlo, tra dolore e rabbia inteso il fatto, s’affrettò a riversare sui subalterni ogni colpa del mal governo, e dar provvedimenti, ai quali anche allora i popoli rispondeano col fatale _Troppo tardi_. Pure egli trovavasi in pronto grossi apparecchiamenti di terra e di mare, destinati contro la Grecia[193]; sicchè facilmente avrebbe potuto rimettere all’obbedienza una provincia senza tesoro nè arsenali nè capitani, e che se gli proferiva purchè si contentasse di quanto esigeva re Guglielmo il Buono, e negl’impieghi non mettesse Francesi nè Provenzali. Egli ricusò togliergli a misericordia; onde anch’essi fecero raunata di gente e di moneta, e l’odio profondo, il timore delle punizioni, l’ardore d’una vendetta nazionale li mutarono in eroi. Il popolo, attissimo a far rivoluzioni, è poi incapace a sistemarle (1282); e i baroni poterono trarre a sè la direzione d’una impresa non cominciata da essi: e come avviene quando alcuno ha un disegno predisposto a fronte di chi non n’ha veruno, i partigiani d’Aragona invitarono re Pietro, il quale sbarcò a Palermo e si cinse la corona dei re normanni. Ruggero di Lorìa, calabrese ribelle, grandissimo di valore e d’ardire, come di fortuna ed efferatezza, eletto suo almirante, sorprendeva Carlo dinanzi all’assediata e intrepida Messina[194], e ne bruciava il navile, preparato con tanta spesa e fatica; il che udendo questi, morse lo scettro esclamando: — Signor Iddio, molto m’avete elevato; piacciavi almeno che il mio calare sia a petitti passi» (VILLANI). Per questa insperabile vittoria e per l’eroismo di Messina fallì dunque a Carlo quel primo impeto di vendetta; e tra per bizzarria cavalleresca, tra per guadagnar tempo, appellò traditore Pietro, e per araldi sfidollo a battaglia singolare con cento cavalieri e col patto che il soccombente perdesse non solo le ragioni sulla Sicilia, ma anche sul proprio patrimonio, e fra i gentiluomini passasse per ricreduto e traditore. Era questo un richiamo ai non ancora dismessi giudizj di Dio: i due re giurarono sul vangelo di darsi soddisfazione, e dal re d’Inghilterra ottennero campo franco a Bordeaux[195]. Carlo vi si condusse, ma l’Aragonese trovò pretesti per non mettere alla ventura d’un colpo di stocco un bel regno ciuffato; e lasciando che l’emulo lo tacciasse a gran voce di fellone, si fe intitolare «Pietro d’Aragona, cavaliere, padre di due re, e signore del mare»; e combattendo sì nelle acque nostre, sì nelle spagnuole (1284), ebbe la fortuna propizia, sino a far prigioniero Carlo il Zoppo, figlio del suo nemico. Il papa, che avea chiarito l’Aragonese scomunicato e spergiuro, decaduto dal regno avito e da ogni onore, spedì a chiedere la costui liberazione; ma i Siciliani, irridendo gl’interdetti, voleano sacrificarlo in espiazione del sangue di Manfredi e Corradino: irruppero anche a Messina sulle prigioni ove stavano rinchiusi i Francesi, e non potendo altrimenti averli, vi misero il fuoco. La regina Costanza fece dire a Carlo si preparasse a morire domani venerdì; ed esso: — M’è lieto di morire nel giorno in cui è morto Cristo». Il pio ricordo tornò in mente alla sdegnata che Cristo avea perdonato, ed essa pure campò la vita a quel nemico. Indispettito da questo colpo, dalle sconfitte, e dall’udir Napoli gridare _Muoja re Carlo_, come sogliono le plebi ai re vinti, l’Angioino voleva mandar a fuoco la propria capitale, se non si fosse interposto il legato apostolico; pure fece impiccare più di cencinquanta cittadini. A Brindisi poi allestì un nuovo armamento, ma appena usciva, la tempesta glielo rovinò; e Carlo rammaricato moriva (1285), con lode d’insigni qualità, ma eclissate da smisurata ambizione. Moriva pure in quel torno Martino papa; e Onorio IV de’ Savelli succedutogli, con ispiriti vivi in corpo rattratto, bandì due decreti assai favorevoli alle libertà del Reame. Nell’uno assodava i privilegi ecclesiastici; nell’altro incolpava della ribellione di Sicilia le avanìe ed ingiustizie de’ governanti; proibiva di spogliare i naufraghi; estendeva ai fratelli e loro discendenti il diritto d’ereditare i feudi; disobbligava dal servizio militare fuor dei confini, vietando le collette, salvo che ne’ quattro casi feudali; permetteva ai Comuni di portare richiami alla santa Sede; e se mai il re violasse queste franchigie, rimanesse sul fatto interdetta la sua cappella. Sono franchigie che i re successivi affrettaronsi di mandare in dimenticanza, intitolandole usurpazioni della sede romana[196]. Del regno d’Aragona, da cui scadeva Pietro scomunicato, il papa aveva investito Carlo di Valois, secondogenito di re Filippo l’Ardito, che di molta gloria aveva fatto procaccio col vincere la Fiandra. Ma bisognava conquistarlo; onde allora si bandì per Francia un’impresa, insanamente come tant’altre intitolata crociata, che di sangue, incendj, stupri empì la Catalogna; re Pietro vi fece grandi prove di valore; Ruggero di Loria dovette sospendere le imprese in Sicilia, per farne colà; migliaja di Francesi vi perirono e lo stesso loro re (1285), al quale tenne dietro re Pietro, lasciando ad Alfonso primogenito l’Aragona, a Giacomo la Sicilia. Onorio papa iterò contro questo le scomuniche, ma le avea spuntate lo scialacquarle, e Giacomo non se ne sgomentò; diede buone franchigie ai Siciliani, e più d’una rotta agli Angioini e ai Pontifizj. Frattanto Carlo il Zoppo, riconosciuto re della Puglia (1288), era stato dai Siciliani reso in libertà, con certi patti, i quali se non potesse adempiere, perdesse la Provenza e tornasse prigione. Egli cercò affezionarsi il clero coll’assicurarne i privilegi, i baroni e cavalieri col concedere di levare imposte ed esercitare giurisdizione, il popolo col promettere di non gravarlo più che ai tempi di Guglielmo il Buono; provvide anche alle monete, alla giustizia, a riparare abusi; poi non potendo attenere quanto avea giurato al nemico, tornò a rimettersi nelle mani dell’Aragonese (1291). Intanto combinatasi la pace fra Aragona e Francia, fu saldato Carlo nel Napoletano, cedendo il Maine e l’Angiò come dote di sua figlia sposata a Carlo di Valois, e rimettendo al papa il decidere della Sicilia. Fra questi trattati il re Alfonso di Aragona moriva; e suo fratello Giacomo, per andare a succedergli, rassegnò la Sicilia al papa, che ne investì Carlo il Zoppo. Quanto improvvidamente si ponga a fidanza di stranieri la propria liberazione compresero i Siciliani allorchè, dopo dieci anni di accannitissima guerra, si trovarono venduti come un branco di pecore agli uccisori di Manfredi e di Corradino; onde, ripigliata la virtù della disperazione, in generale parlamento presieduto dalla regina Costanza acclamarono Federico (1296), fratello di Giacomo. Assunse egli la corona e la difesa dell’isola, comunque contrariato da tutta la famiglia, venuta in accordo e parentela cogli Angioini, e fin da Ruggero di Loria, che aspirando a signoria, aveva conquistato le isole delle Gerbe nella giurisdizione di Tunisi, e col pretesto di tenerle al cristianesimo, se ne fece dar l’investitura da papa Bonifazio VIII, che ribenedendolo lo staccava dalla causa siciliana, come già se n’era staccato Giovanni da Procida, il quale finì oscuramente a Roma. Re Giacomo, guadagnato dall’oro papale, menò egli stesso l’armata contro il fratello, ma restò vinto[197]; e un figlio di Ruggero di Loria fu preso e decapitato dagl’implacabili Siciliani. Ruggero se ne vendicò sconfiggendoli malgrado gli ajuti genovesi; mentre i reali di Napoli, sostenuti dai Toscani, faceano mirabili prodezze e guasti infiniti. Che due piccoli re d’una frazione d’Italia avessero tante forze per combattersi accanniti, farà meraviglia solo a chi non abbia visto anche per recenti esempj di che sia capace un paese in rivoluzione, dove cioè le forze sono tutte avvivate e spinte. I re di Sicilia poi tenevano negli armamenti navali la stessa economia dei terrestri; e invece di assumerli tutti a carico dell’erario, comandavano ai conti e baroni che ciascuno armasse una o più navi secondo il suo stato; onde dall’interno paese venivano le ciurme pagate, e servito che avessero quattro o cinque mesi secondo il convenuto, tornavano a casa, e cessava ogni aggravio, dovendo l’erario soltanto far buono ai baroni quanto avessero realmente speso. Invano Bonifazio VIII cercò indurre i Siciliani a sottomettersi alla santa Sede, mandando carta bianca perchè vi scrivessero le condizioni, e scegliessero qual cardinale preferivano per governarli. Abituatisi a considerare i pontefici come traditori, e la loro causa come ostile alla papale, cacciarono a strapazzo il messo pontifizio, e incoronarono Federico che li difese da Carlo di Valois: ma poi contro i patti giurati conchiuse con questo (1302) la pace di Calatabellota[198], fiaccamente rassegnandosi a tenere la Sicilia vita durante e col titolo di re di Trinacria, sposando una figlia degli Angioini, ai quali non disputerebbe la Calabria nè il titolo di re di Sicilia; si professava vassallo della santa Sede, tributandole ogni anno tremila once d’oro. I Siciliani, che una rivoluzione scoppiata per sdegno nazionale aveano sostenuta con eroico coraggio contro fior di cavalieri ed ammiragli, e contro le armi irreparabili di Roma, vinto tre battaglie campali, quattro navali, moltissimi combattimenti, pei quali non solo respinsero tre eserciti dall’isola, ma acquistarono le Calabrie e val di Crati, fremettero di quella pace che li riponeva al giogo (dicean essi) di stranieri. Però Federico ebbe il merito di metter l’isola in cheto, e civilmente ordinarla o consentire si ordinasse con savj provvedimenti, restringendo spontaneo i diritti della monarchia. Re Giacomo, nella urgente necessità di tenersi amici i Siciliani, avea fatto immuni provincie intere; onde povere le finanze quando la guerra interminabile facea sentir maggiore la necessità di denaro. Federico penò a restaurarle, nuove imposizioni facendosi consentire dai parlamenti, ne’ quali fece costantemente coi prelati e baroni intervenire i sindachi delle città rappresentanti il popolo, che formarono un terzo _braccio_; e imitando, come il nome, così alcune forme della costituzione aragonese. Il re, vestito delle insegne di sua dignità, apriva l’assemblea con un discorso ai tre bracci; prelati e baroni sedevano a lato al trono, i sindachi di fronte; e ciascun braccio deliberava separatamente. Il primo parlamento a Catania in cui Federico fu eletto, stanziò l’unione perpetua del parlamento; obbligo al clero di contribuire alle gravezze per tutti i beni che non fossero specialmente affetti alle loro funzioni. Quel diritto della monarchia siciliana, per cui Urbano II avea concesso a re Ruggero II autorità di legato papale, sebbene Carlo d’Angiò l’avesse rinunziato alla corte pontifizia, gli Aragonesi lo ricuperarono. I baroni, sentendosi necessarj a sostenere colle proprie forze l’elezione, montavano in arroganza; straordinaria pompa nel vestire, nel trattamento, nelle comparse; e incoraggiati dall’esempio della nobiltà aragonese, tanto ricca di privilegi, mettevansi attorno clienti e affidati, che s’obbligavano con giuramenti a favorire i loro interessi[199]. Alle alte dignità non conducevano i meriti, ma la nascita; e il maestro giustiziero, e il maestro camerario, e tutti i comandanti di terra e di mare cernivansi fra i baroni. Già aveano preteso che nessuna derrata si esponesse sui mercati sinchè non fossero vendute le loro, e che i vassalli pagassero i canoni colle misure che ciascun di loro adottava. Poi verso il re alzavano ogni dì le pretensioni, tanto che il forte e insieme dolce Federico a pena riusciva a reprimerli. Per frenare l’avidità de’ magistrati foresi ne limitò la giurisdizione e la potenza; divise l’isola, non più in due, ma in quattro valli; nominò molti giudici subalterni, dipendenti da quattro magne curie. Dal capo delle finanze (_magister secretus regni_) fece dipendere segretarj speciali in Palermo, Messina, Catania, Siracusa: i maestri giurati, che Carlo d’Angiò aveva istituito uno in ogni terra per vegliare sulla giustizia del re, de’ nobili, degli ecclesiastici, Federico ridusse ad una specie di magistrati comunali: ai municipj affidò pure la nomina e la vigilanza di molti magistrati già regj, che di lontano mal si poteano tener d’occhio, e solo riservò al trono la nomina del primo giudice di ciascun luogo. Divideva eziandio al possibile le varie città, in modo che formassero corpi indipendenti, più deboli contro la regia prerogativa. L’ordinamento per municipj, impacciato dagli Svevi, venne così a prendere sviluppo, e potè poi far argine all’autorità regia. Un balio, alcuni giudici e giurati costituivano il collegio municipale, che in certi casi s’aggregava alquanti consiglieri, mercanti e seniori. Dalle cariche municipali, almeno delle città regie, erano esclusi i nobili, anzi più tardi anche gli affidati loro, sicchè il corpo cittadino restava separato e opposto all’aristocratico. Federico ai nobili diè licenza di vendere e ipotecare i feudi, purchè non fosse a favore del clero, al fisco si pagasse un decimo del valore, e il nuovo possessore assumesse gli obblighi del precedente. Pareva strappatagli dalla necessità una concessione sì opportuna a spicciolire i possessi e mettere in giro ricchezze, che accumulate incagliavano il suo potere[200]. Usciva dunque Sicilia dalla sua rivoluzione con un ordinamento monarchico, unico in Italia; e vuolsi saper grado a Federico I d’avere in tempi sì fortunosi mantenuto tranquillità e giustizia senza opprimere. Ma d’allora comincia il dechino dell’isola, ove non più all’ordine pubblico, ma al vantaggio dell’aristocrazia mirarono i parziali statuti. CAPITOLO CIII. Bonifazio VIII. — Dante politico e storico. Stringemmo in uno i fatti spettanti alla Sicilia; ma altri di gran rilievo se n’erano in quel mezzo compiuti altrove. Morto l’imperatore Rodolfo (1291), la corona germanica fu disputata tra suo figlio Alberto d’Austria, Venceslao IV di Boemia e Adolfo di Nassau: l’ultimo «di gran cuore, ma di piccola potenza» restò preferito, ma Alberto non volle mai sottoporsi, onde si prolungò, se non la vacanza, il disordine. E peggiore ne nacque alla morte di papa Nicola IV, giacchè, ristrettisi in conclave sei cardinali romani (1292), quattro della restante Italia e due francesi, non fu mai che potessero accordarsi: Matteo degli Orsini, famiglia ingrandita di Napoli, voleva un papa ben affetto ai Guelfi e a Carlo di Napoli; il contrario cercava Jacopo Colonna, capo dell’altra famiglia cui Onorio IV avea corteseggiato di favori e possessi. Roma prendea parte con loro; battagliavasi, saccheggiavasi, incendiavansi palazzi e chiese; finchè si elesse un senatore dei Colonna e uno degli Orsini, compenso che sorprese, non tolse i guaj. I cardinali, che eransi collocati parte a Rieti, parte a Viterbo, alfine si radunarono a Perugia, ma non s’accordavano nell’elezione, fin quando, dopo diciotto mesi, a meraviglia di tutti, i voti s’accolsero sovra Pietro Morone (1294), settagenario, che viveva sul monte Majella presso Sulmona a guisa degli antichi cenobiti, in pregio di virtù e miracoli. Vedendo giungere cardinali nel povero romitorio, egli si buttò ai loro ginocchi; essi a vicenda gli caddero dinanzi venerandolo papa; e per quanto si ostinasse al no, l’obbligarono ad accettare le somme chiavi col nome di Celestino V. Carlo II fu ben lieto d’aver pontefice un suo suddito, e quando fece l’entrata in Aquila sopra un somiero, egli stesso tenne le briglie col figlio Carlo Martello. Quel pio, scevro dagli uomini e dalle passioni e intrighi loro, non addottrinato in altre scienze che nella contemplazione di Dio, avvezzo a far tutto a cenno d’obbedienza, fu dal re avviluppato d’omaggi, di legulej, di regie catene, talchè non più volesse che il beneplacito di Carlo: allora questi l’indusse a fissar sua sede in Napoli; di dodici cardinali, nominarne sette francesi, tre napolitani; e ad altri atti che Celestino fece (al dir del Varagine) meno in _plenitudine potestatis_, che in _plenitudine simplicitatis_. Però non gli era venuta meno la cenobitica umiltà; e conoscendosi inetto agli affari, e nell’avidità di curiali abusanti del suo nome, nelle prepotenze regie sotto il suo manto celate vedendo un pericolo dell’anima propria[201], ribramò la quiete e le consolazioni del devoto ritiro, e avutone consiglio coi cardinali, e indarno impedito dal re e da’ suoi vicini, dopo cinque mesi abdicò al papato. Nel posto che non richiedeva un angelo ma un uomo, gli fu sortito successore colui che dicono maggiormente lo spingesse a tal passo, Benedetto dei Gaetani d’Anagni, che prese il nome di Bonifazio VIII[202] e il motto _Deus in adjutorium meum intende_, quasi presentisse le lotte preparategli, e nelle quali tanto bisogno avrebbe de’ superni ajuti. Valente in scienza e massime nel diritto civile e canonico, severo e pertinace, ben addentro negli accorgimenti mondani, e altamente compreso de’ diritti della santa Sede, vedendo questa in dechino, riassumeva l’opera di Gregorio VII e d’Innocenzo III di sottoporre la potenza temporale alla ecclesiastica, la materia allo spirito. Comincia dal sottrarsi al re di Napoli, che col fermarli nel suo paese volea rendersi ligi i pontefici; e coll’inaspettato comparire a Roma, da tre anni vedovata, ripiglia padronanza sovra le fazioni, deprime i Colonna, e come ghibellini e patarini incorreggibili e perchè alleati a suo danno coi re di Sicilia e d’Aragona, li scomunica e guerreggia, tanto che li riduce a venire ad obbedienza. Con ciò ebbe estinta la fazione ghibellina, ma procacciato a a sè irreconciliabili nemici. Revocò le concessioni improvvide del predecessore, e le tante bolle che di esso non portavano se non il nome; e poichè era a temere che alcuno non si valesse della costui inettitudine per indurlo a rivoler la tiara, sbranando la Chiesa con uno scisma, lo rinchiuse in un castello della Campania, ove i mali trattamenti gli accorciarono i giorni (1296). La santa vita meritò a Celestino V gli onori degli altari, e la debolezza i vilipendj di Dante[203]. Come gli antichi celebravano il centenario della fondazione della città, così i Cristiani solevano concorrere a Roma ogni capo di cent’anni, credendo, benchè non ne fosse motto ne’ libri liturgici, che grandi indulgenze meritasse quel pellegrinaggio. L’anno 1300, vedendo alla festa de’ santi Apostoli quell’affluenza, Bonifazio volle santificarla indulgendo generale perdonanza a chiunque, al chiudersi d’un secolo, visitasse in Roma certe chiese, e designò quella festa col nome di _giubileo_, dato dagli Ebrei a quella in cui venivano sciolti da debiti le persone e i beni. La smania delle crociate si sfogò allora in questo pellegrinaggio, che tanto maggior facilità offriva d’acquistare le indulgenze plenarie, che prima si concedevano solo per quelle. I popoli, che omai cercavano la civiltà per altre vie oltre le religiose, e ne’ parlamenti e nelle carte trovavano alla libertà quelle guarentigie che prima non traevano se non dalla tutela papale, sembrò che si unissero ancora personalmente per ravvivare la carità del capo colle membra, e rinvigorire la fede nell’aspetto delle cose sante. La cronaca d’Asti pretende v’andassero due milioni di persone: Giovan Villani, che v’intervenne, dice vi si contavano ogni giorno ducentomila forestieri d’ogni sesso, età e nazione; onde rincarirono i comestibili e il fieno, i Romani arricchirono collo spacciar le derrate e dare alloggi, la Camera apostolica colle oblazioni, le quali vennero sì copiose, che giorno e notte due cherici stavano con rastrelli per raccoglierle davanti all’altare. Fra gli altri vi peregrinò Giotto (1300), rinnovatore della pittura in Italia; e per commissione del papa, che già avea chiamato frate Oderisi d’Agubio a miniar libri, molti dipinti condusse nella basilica Lateranese, de’ quali ancora vedesi uno che esprime Bonifazio in atto di pubblicare il giubileo. Le solennità furono a proporzione, e il pontefice vi si mostrò alla città e al mondo cogli ornamenti imperiali, preceduto dalla spada, dal globo e dallo scettro, e da un araldo che gridava: — Ecco due spade, ecco il successore di Pietro, ecco il vicario di Cristo»[204]. Bonifazio, benchè di gente ghibellina dovea per natura propendere ai Guelfi; avendo udito che Alberto d’Austria, senza autorità pontifizia, erasi dichiarato imperatore, si pose la corona in capo, in pugno la spada ed esclamò: — Io cesare, io imperatore, e farò valere i diritti dell’impero»; i Siciliani che non vollero accettar la pace da lui proposta scomunicò, senza riguardo alle ragioni che possono determinare un popolo a preferire la guerra; inanimava i Guelfi contro re Federico in Sicilia ricettatore di Patarini e Ghibellini, ai nemici di esso concedeva le decime levate a titolo della crociata, e a danno di lui invitò Carlo di Valois, promettendogli l’impero d’Occidente mal conferito, e quello d’Oriente, a cui gli dava diritto la moglie, nipote di Baldovino imperator titolare di Costantinopoli. Venne Carlo romoreggiando; e ricevuto festosamente da tutti i Guelfi, fatto conte di Romagna, governatore del Patrimonio, signore della marca d’Ancona, fu coronato a Roma. Primo incarico che il papa gli affidò, fu di praticar la pace in Toscana, a cui grave incendio di discordia era venuto da Pistoja. Quivi, domati i Panciatichi ghibellini, primeggiavano i Cancellieri, schiatta nobile che «avea in quel tempo diciotto cavalieri a speroni d’oro, ed erano sì grandi e di tanta potenza, che tutti gli altri soprastavano e battevano; e per la loro grandigia e ricchezza montarono in tanta superbia, che non era nissuno sì grande nè in città nè in contado, che non tenessono al di sotto; molto villaneggiavano ogni persona, e molto sozze e rigide cose faceano; e molti ne faceano uccidere e ferire, e per tema di loro nessuno ardiva a lamentarsi» (_Storie pistoiesi_). Era quella famiglia distinta in Bianchi e Neri; e mentre parecchi insieme bevevano in una taverna, vennero a parole, e Carlino di Gualfredo de’ Bianchi ferì Doro di Guglielmo, ch’era dei Neri. Doro per tradimento colse un fratello del suo offensore, e assalitolo per ucciderlo, gli troncò una mano. Guglielmo credette rassettar la pace consegnando Doro a Gualfredo, ma questo ebbe la viltà di tagliare a lui pure il pugno sopra mangiatoja dei cavalli. Il sangue chiamò sangue: Cancellieri bianchi e Cancellieri neri si fecero i peggiori danni in città e per tutta la montagna di Pistoja, colla forza e col tradimento esercitando la vendetta. I Fiorentini, temendo non fra il tumulto una delle fazioni si accostasse ai Ghibellini, s’interposero, e ottenuto per tre anni la balìa della città, ordinarono ai capi delle due fazioni di trasportarsi a Firenze. Credeano poterli tenere a freno quando fossero staccati dai loro clienti e conciliar pace; e invece trapiantavano il germe di cittadine discordie. I Bianchi furono accolti dai Cerchi, famiglia popolana, venuta su col traffico, mentre i Donati, loro emuli, gentiluomini e cavallereschi, riceveano i Neri; e adottando i nomi degli ospiti, parteggiarono coi soliti avvicendamenti, e nelle case vicine, ne’ campi confinanti, a balli, a nozze, a funerali, si davano di cozzo. «Così sta la nostra città tribolata, così stanno i nostri cittadini ostinati in mal fare; ciò che si fa l’uno dì, si biasima l’altro;.... non si fa cosa sì laudabile, che in contrario non si reputi e non si biasimi. Gli uomini vi si uccidono, il male per legge non si punisce: ma come il malfattore ha degli amici o può moneta spendere, così è liberato dal maleficio fatto» (COMPAGNI). Capi delle due divise erano Vieri de’ Cerchi, portato in alto dalla sua posizione anzichè da talento superiore, e Corso Donati, uomo pieno di vigore e d’attività, colla quale bilanciava le maggiori forze degli emuli. A papa Bonifazio venne riportato l’occorrente colle solite esagerazioni: ed egli, per ridurli al suo intendimento, ch’era tutto di pace, credette bene chiamare a Roma Vieri, e spedire a Firenze frà Matteo d’Acquasparta cardinale, che ebbe dal Comune facoltà di dispensare gli ufficj tra le due parti, e ricomporre le differenze; ma nulla profittando, partì lasciando interdetta la città. Allora, come interviene, ciascuno metteva in mezzo qualche partito: Dante Alighieri suggeriva di relegare i capi delle due fazioni; Corso Donati indusse il papa (1301) a spedirvi come paciere Carlo di Valois. L’introdursi d’uno straniero potea piacere ai faziosi, non ai buoni; tra i quali Dino Compagni, modello di virtù cittadina e di storica moderazione, cercò almeno si deponessero le sconcordie, e «ritrovandomi io in detto consiglio (narra egli stesso) desideroso di unità e pace fra’ cittadini, avanti si partissono dissi: _Signori, perchè volete voi confondere e disfare una così buona città? Contro a chi volete pugnare? contro a’ vostri fratelli? Che vittoria avrete? non altro che pianto_. Risposono che il loro consiglio non era che per ispegnere scandalo e stare in pace. Udito questo, m’accozzai con Lapo di Guazza Olivieri, buono e leale popolano, e insieme andammo ai priori, e conducemmovi alcuni che erano stati al detto consiglio; e tra i priori e loro fummo mezzani, e con parole dolci raumiliammo i signori». E Bianchi e Neri desideravano pace, ma quelli la voleano spontanea, questi per intromessa dello straniero, il quale di fatto ebbe invito e denaro. «Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto pensiero immaginando: questo signore verrà, e tutti i cittadini troverà divisi, di che grande scandalo ne seguirà. Pensai, per lo uffizio ch’io tenea e per la buona volontà che io sentia ne’ miei compagni, di raunare molti buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni; e così feci, dove furono tutti gli uffizj, e quando mi parve tempo dissi: _Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendeste il sacro battesimo di questo fonte, la ragione vi sforza e stringe ad amarvi come cari frategli, e ancora perchè possedete la più nobile città del mondo _(1301)_. Tra voi è nato alcuno sdegno per gara d’uffizj, li quali, come voi sapete, i miei compagni e io con sacramento v’abbiamo promesso d’accumularli. Questo signore viene, e conviensi onorare. Levate via i vostri sdegni, e fate pace tra voi, acciocchè non vi trovi divisi; levate tutte le offese; e le ree voluntà, state tra voi di qui addietro, siano perdonate e dimesse per amore e bene della vostra città. E sopra questo sacrato fonte, onde traeste il santo battesimo, giurate tra voi buona e perfetta pace, acciocchè il signore che viene trovi i cittadini tutti uniti._ A queste parole tutti s’accordarono, e così feciono toccando il libro corporalmente, e giurarono attenere buona pace e di conservare gli onori e giurisdizione della città: e così fatto, ci partimmo di quel luogo. I malvagi cittadini, che di tenerezza mostravano lagrime e baciavano il libro, e che mostrarono più acceso animo, furono i principali alla distruzione della città, de’ quali non dirò il nome per onestà. Quelli che avevano mal talento, dicevano che la caritatevole pace era trovata per inganno: ma se nelle parole ebbi alcuna fraude, io ne debbo patire le pene, benchè di buona intenzione ingiurioso merito non si debba ricevere; di quel sacramento molte lagrime ho sparte, pensando quante anime ne sono dannate per la loro malizia». Consigli prudenti in mezzo alle ire, chi vi bada? Piuttosto si ascoltava a Baldino Falconieri, che tutto il giorno perseverava a vantare la presente tranquillità a fronte delle passate turbolenze e delle peggiori temute; a Berto Frescobaldi, che mostravasi infervorato dei Cerchi per ottenerne in prestanza dodicimila fiorini; a Lapo Salterello, avvocato e poeta, già processato per ribalderie, che non cessava dal fare opposizione ai rettori, e li chiamava ladri, traditori. — Ah! sono fisionomie che conosciamo, e che sotto altri nomi riscontriamo ogni dì sulla piazza e in parlamento. I Neri prevalsi accolsero Carlo in città, facendogli giurare di non mutar le leggi nè esercitare giurisdizione. Entrato con cinquecento cavalli, cominciò a usar da tiranno; tolse diritti più preziosi della pace, e lasciò che i Neri per cinque giorni saccheggiassero case e beni dei Bianchi, sposandone le eredi, incendiando, uccidendo; col solito titolo d’una congiura scoperta, sbandeggiò i primani, e pose giudice il severissimo Cante de’ Gabrielli da Gubbio, che circa seicento persone colpì d’esiglio e di grosse multe. Fra queste compajono Dino Compagni, Guido Cavalcanti, Dante Alighieri e Petracco dell’Ancisa, che, abbandonata la politica, si applicò tutto ad allevare i proprj figliuoli[205], un de’ quali divenne illustre col nome di Francesco Petrarca. Guido, filosofo e poeta, fu genero di Farinata degli Uberti, e perciò accannito ghibellino e caldo nemico de’ Donati. Corso tentò farlo uccidere mentre andava pellegrino a San Jacopo di Galizia; ed egli, tornato e saputolo, gli si avventò un giorno nel bel mezzo di Firenze e gli tirò, ma fallito il colpo, fu preso a sassi dal figlio e dai seguaci del barone. Relegato a Sarzana, per l’aria insalubre cadde malato, e ottenuto di riveder la patria, vi morì. Pellegrinava a San Jacopo, eppure appo la gente era in voce d’epicureo, cioè d’incredulo, e perchè speculava molto astratto dagli uomini, si diceva cercasse se trovar potea che Dio non fosse. Egli era secondo occhio di Firenze[206], di cui primo era Dante Alighieri, entrambi in fresca età mescolatisi ai movimenti cittadini; attesochè nelle democrazie, massime se ristrette, i giovani sono facilmente portati verso gli affari pubblici, e vedendo il governo da vicino, credono ben conoscerlo e facile il guidarlo. Dante «fu uomo molto polito, di statura decente, e di grato aspetto e pieno di gravità, parlatore rado e tardo, ma nelle sue risposte molto sottile. Nè per gli studj si racchiuse in ozio, nè privossi del secolo; ma vivendo e conversando con gli altri giovani di sua età, costumato, accorto e valoroso, ad ogni servizio giovanile si trovava. Ed era mirabil cosa che, studiando continuamente, a niuna persona sarebbe paruto ch’egli studiasse, per l’usanza lieta e conversazione giovanile». (L. ARETINO). E fu veramente suo distintivo il passare agevolmente dalla contemplazione all’attività, che esercitò a servizio della fazione avita in magistrature, in ambascerie e colle armi a Campaldino; e alla scuola della politica, allo straziante contatto degli uomini, al laborioso insegnamento delle rivoluzioni ebbe vero esperimento dell’inferno, del purgatorio e del paradiso. L’antica nobiltà fiorentina, che pretendeasi discendere dai Romani, avea sempre messo ostacolo all’alzarsi della gente nuova, e parteggiato coi Guelfi. Così aveano usato gli Alighieri, e Dante stesso, fin quando la divisione in Neri e Bianchi li sconnettè di modo, che poterono considerarsi come Guelfi e Ghibellini. Dante stette fra questi ultimi, e con loro fu mandato in esiglio (1303 — marzo). Che sia della malversazione addebitatagli nella sentenza da Cante da Gubbio, nol possiamo chiarire; Dante non ne fa motto in verun luogo, perchè v’ha delle cose di cui uno non si difende, come altre di cui non si vanta; e troppo è nota l’arte delle fazioni di denigrare chi vogliono perdere, e di sceglier le accuse appunto che più ripugnano al carattere dell’oltraggiato, correndo le plebi a creder più facilmente ciò ch’è meno credibile. Dante badossi alcun tempo alla guelfa Siena e ad Arezzo ghibellina, insieme cogli esuli; ingrata società, che lo costringeva a partecipare ad ire impotenti, a garrule speranze, a persecutrici esagerazioni che non erano le sue. Con soccorsi di Bartolomeo della Scala signor di Verona tramarono essi di ripatriare per forza (1303), e fallito il tentativo, ne imputarono Dante, che pure l’avea sempre dissuaso; ond’egli risolse abbandonare la _compagnia malvagia e scempia_, e farsi parte da se stesso, schermendosi da entrambe le sêtte, delle quali vedeva i torti; il che dai settarj s’interpreta come un tradirle entrambe. «Cacciato di patria (racconta nel _Convivio_), per le parti quasi tutte, alle quali questa lingua si stende, peregrino quasi mendicando sono andato, mostrando contro a mia voglia la piaga della fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte essere imputata. Veramente io sono stato legno senza vela e senza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento secco che vapora la dolorosa povertà». Passò a studiare teologia e filosofia sull’università di Parigi, piena testè degli insegnamenti di Tommaso d’Aquino, e allora di quelli dell’abate Suggero: nè mai deponendo l’eterna speranza degli esuli, cercò «con buone opere e buoni portamenti meritarsi di poter tornare in Firenze per ispontanea revoca di chi reggeva la terra; e sopra questa parte s’affaticò assai, e scrisse più volte non solamente a’ particolari cittadini del reggimento, ma ancora al popolo, e intra l’altre un’epistola assai lunga, che, comincia, _Popule mi, quid feci tibi?_»[207]. E diceva: — Ogni infelice mi fa pietà; più di tutti, coloro che logorandosi nell’esiglio, non rivedono la patria che in sogno»[208], ma per quanto gemesse o fremesse, più non potè rivedere il suo _bel San Giovanni_. Solea Firenze, nella solennità del Battista, far grazia ad alcuni condannati, che colla mitera in capo e con un cero in mano venivano offerti al santo. Fu esibito a Dante di ricuperar la patria a questo modo[209], ma egli: — È questo il richiamo glorioso con che Dante degli Alighieri è richiamato alla patria? questo han meritato il sudore e la fatica continuata nello studio? Non per questa via si deve tornare alla patria; e se per niun’altra si può, io non entrerò mai in Firenze. Forse non vedrò io da qual sia luogo gli specchi del sole e degli astri? non potrò io speculare dolcissime verità sotto qualsiasi cielo, senza arrendermi, spoglio di gloria, anzi con ignominia, al popolo fiorentino?» Il Boccaccio, che ce lo racconta nella _Vita_ di lui, soggiunge che «veggendosi non poter ritornare, in tanto mutò l’animo, che niuno più fiero ghibellino ed ai Guelfi avverso fu come lui. E quello di che io più mi vergogno in servigio della sua memoria, è che pubblichissima cosa è in Romagna, lui ogni fanciullo, ogni feminella, ragionando di parte e dannando la ghibellina, l’avrebbe a tanta insania mosso, che a gittar le pietre l’avrebbe condotto non avendo taciuto»[210]. Eppure egli stesso ripeteva quel che non mai fia ripetuto abbastanza agli Italiani; che il buono non dee prender guerra col buono finchè non siano riusciti a vincere i malvagi; che è follia il non abbandonare un cattivo partito per rispetto umano[211]. Ispirato da dolore e da sdegno scrisse la sua _Commedia_, poema essenzialmente storico, dove vitupera o esalta da uom di parte, il quale, fremendo della persecuzione, di tutto fa arma alla vendetta; e coll’autorità che danno l’ira, l’ingegno, la sventura, insieme coi dolori e rancori suoi eternò le glorie e le sventure d’Italia. E noi, che già l’esaminammo come poesia, ora vi cercheremo i giudizj del poeta sopra le cose e gli uomini che lo circondavano, e che tutti chiamò ad austera rassegna, traendone concetti di speranza o di vendetta. E poichè fra gl’Italiani fu sempre grande il numero di questi infelici «che la patria non rivedono se non in sogno», Dante fu immedesimato ai patimenti di tutti, preso come il tipo di quanti soffrono tirannia e ingiustizia. Natura degli scontenti, egli non preterisce occasione di lodare i tempi preteriti, quando valore e cortesia soleano trovarsi in sul paese rigato dall’Adige e dal Po, quando Firenze si stava in pace sobria e pudica, con donne massaje, con uomini contenti alla pelle scoverta, con abbondante figliolanza. In così riposato, in così bel vivere di cittadini, a cittadinanza così fida, a così dolce abitare stavano i Fiorentini gloriosi e giusti, guerreggiando nelle crociate, o mercatando, nè mai il giglio era posto a ritroso sull’asta, nè fatto vermiglio per divisione; non v’avea case vuote di famiglia per gente che esulasse in grazia dei Francesi. Se alcuno rimane di quella buona stirpe antica, non serve che a raffaccio del secolo selvaggio, ora che la città è turpe di gola, superbia, avarizia, invidia, nemica ai pochi buoni che ancor vi allignano; del resto sconsiderata sì, che ogni tratto cambia leggi, monete, uffizj, costume, e provvede sì scarsamente che a mezzo novembre non giunge quel che filò d’ottobre. Dei quali peccati trova Dante la ragione nell’aver ricevuto a cittadinanza quei di Campi, di Certaldo, di Figline, mentre le gioverebbe trovarsi ancora ristretta fra il Galluzzo e Trespiano, nè avere accolto il villan puzzolente d’Aguglione e il barattiero da Signa[212] in mezzo alla nobiltà veramente romana rimastavi dalle prime colonie, e mal attorniata da quelli che discesero da Fiesole, e che tengono ancora del natìo macigno. Voi qui sentite il patrizio intollerante, il quale, stizzito non solo coi rettori della patria, ma colla patria stessa, non che eccitasse l’imperatore a «venir abbattere questo Golìa colla frombola della sua sapienza e colla pietra della sua fortezza», professò che «per quanto fortuna l’avesse condannato a portare il nome di fiorentino, non voleva che i posteri immaginassero tener lui di Fiorenza altro che l’aria e il suolo» (_Epistola dedicatoria_). Avesse almeno aggiunto e _l’idioma_, senza cui non avrebbe egli potuto farsi per gloria eterno. Ma chi dalle care illusioni della gioventù, infiorate da una benevola fantasia, trovasi per iniquità degli uomini balestrato negli acerbi disinganni e fuori del circolo dell’operosità, degli affetti, delle speranze primitive; chi abbia sentito profondamente come Dante, e come Dante sofferto le persecuzioni del secolo, che non suol perdonare a chi di buon tratto lo precede; quegli solo ha diritto a condannarlo di tali iracondie. Nè men gravi dispetti mostrava Dante alle altre città italiche: _gente vana_ più che i Francesi è quella di Siena; i Romagnuoli _son tornati in bastardi_; i Genovesi _diversi d’ogni costume, e pien d’ogni magagna;_ in Lucca _ogn’uomo è barattiere_; _avari e lenoni_ i Bolognesi; i Veneziani _di ottusa e bestiale ignoranza, di pessimi e vituperosissimi costumi, e sommersi nel fango d’ogni sfrenata licenza_[213]: l’Arno appena nato passa _tra brutti porci, più degni di galle che d’altro cibo_; poi viene a _botoli ringhiosi_, che sono gli Aretini; indi tra’ _lupi_ di Firenze; infine _alle volpi piene di frodi_, quai sono quelli di Pisa. A questa, _vitupero delle genti_, impreca che ogni persona si anneghi; a Pistoja, che sia incenerita perchè procede sempre in peggio fare. Le antiche case rimorde come _diredate_ delle prische virtù: i Malatesti _fan dei denti succhio_; i Gallura divennero _vasel d’ogni frode_; Branca Doria vive ancora, eppure l’anima sua già spasima in inferno, e lasciò un diavolo a governare il corpo suo e d’un suo prossimano; in Verona i Montecchi e Capuleti sono gli uni già tristi, gli altri in sospetto; Alberto della Scala è _mal del corpo intero, e peggio della mente_; Guido da Montefeltro ebbe _opere non leonine, ma di volpe_, e seppe _tutti gli accorgimenti e le coperte vie_; al buon re Roberto iterò oltraggi, come meno acconcio allo scettro che alla cocolla. Così augura che Brettinoro fugga via per non soffrire la tirannide de’ Càlboli; così sentenzia Rinier da Corneto che _fe guerra alle strade,_ e Provenzan Silvani che _presunse recar Siena alle sue mani_, e i Santafiora che malmenarono i dintorni di questa città. Sono, al contrario, encomiati gli Scaligeri e i Malaspini, suo _rifugio ed ostello_, e Uguccione della Faggiuola, cui pensava intitolare la prima cantica: onde, chi cerca la storia non per declamazione o per teorica preconcetta, veda se uom possa, altrimenti che a retorico esercizio, sostenere l’equità di Dante nel distribuire i vituperj e il guiderdone; e il suo amor patrio, se non sia pel perdonabile intento di voler trovare tutto grande nei grandi. Le vendette sue non si limitano fra l’Alpi, ma le scaglia ad Edoardo d’Inghilterra e Roberto di Scozia che non sanno tenersi _dentro lor meta_, al codardo re di Boemia, all’effeminato Alfonso di Spagna, al dirazzato Federico d’Aragona, all’usurajo Dionigi di Portogallo, agl’infingardi austriaci e fino al re di Norvegia, e a non so qual principe di Rascia (Servia), falsatore di ducati veneti. Principalmente infellonisce contro i Capeti, che maledice già nel loro stipite Ugo _figliuol di beccajo_, la cui discendenza _poco valea, ma pur non fece male_, sinchè acquistata Provenza, _cominciò con forza e con menzogna la sua rapina_. Di là uscì Carlo di Valois senz’altre arme che quella di Giuda; di là Filippo il Bello, _il mal di Francia_, che crocifigge di nuovo Cristo nel suo vicario: onde il poeta invoca di presto esser consolato nel veder la vendetta che Dio prepara in suo segreto; come altrove invoca il giusto giudizio divino sopra la stirpe di Alberto d’Austria, tanto che il mondo ne rimanga tutto sgomentato. Conforme agl’imperiali d’allora ed ai leggisti, palesa somma riverenza della «nostra antichissima ed amata gente latina, che mostrar non poteva più dolce natura in signoreggiando, nè più sottile in acquistando, nè finalmente più forte in sostenendo; e massimamente di quel popolo santo, nel quale l’alto sangue trojano era mischiato, cioè Roma; quella città imperadrice, per cui guidata, la nave della umana compagnia per dolce cammino al debito porto correa... E certo sono di ferma opinione che le pietre che stanno nelle sue mura sieno degne di riverenza, e il suolo dov’ella siede ne sia degno, oltre quello che per gli uomini è predicato» (_Convivio_). Dagl’imperatori sperava ristoro ai mali d’Italia, e gl’invitava a sostener le ire sue e i suoi amori: tutto in rialzare l’opinione della loro autorità, nel maggior fondo dell’inferno pose gli uccisori del primo Cesare, e in cima al paradiso l’aquila imperiale, e stese un libro particolare _De Monarchia_. Tocco anche personalmente delle tribolazioni in cui il disaccordo delle due potenze gettò la cristianità, pensava che, a volere il progresso, si richiedesse la pace sotto un monarca, unico arbitro delle cose terrene, mentre il pontefice dirige quelle riguardanti l’eterna salute. Quando uno solo sia padrone di tutte cose, è tolta la cupidigia, radice d’ogni male, e nascono la carità, la libertà. Questa monarchia universale trova egli attuata nel popolo romano, il cui fondatore discende al pari dall’Europa e dall’Atlante; popolo a cui vantaggio Dio operò i miracoli che si leggono in Livio, e gli concesse vittoria nel conflitto colle altre genti. Che se diritti s’acquistano legittimamente col duello, ben s’ha a credere che il giudizio di Dio si manifesti non meno nelle battaglie generali, e perciò abbiano legittimamente ottenuto l’imperio i Romani, popolo che quanto amasse gli altri mostrò col conquistarli, posponendo le comodità proprie alla salute dell’uman genere. Eccovi prevenuta di secoli la teorica moderna, che asserisce vincere sempre la parte migliore: ecco dichiarata ottima salvaguardia della pubblica felicità la massima potenza d’una monarchia, universale e dipendente da Dio solo, non da alcun suo vicario; ecco in conseguenza tolto l’unico schermo che allora contro l’imperatore avessero i popoli, ed usurpata a questi la indipendenza nazionale che ne è vanto e desiderio[214]. Eppure egli aveva imprecato giusto giudizio dalle stelle sopra il sangue di Rodolfo tedesco e d’Alberto suo figlio, che _per cupidigia_ lasciavano disertare il giardin dell’impero; e bestemmiò Venceslao _pasciuto d’ozio e di lascivia_; ma al _divino e felicissimo_ Enrico VII di Luxemburg preparò un seggio in paradiso, e lo inizzava contro quella città, che allora e poi fu rôcca della libertà italiana. A questa bassezza non scendeva Dante per viltà, sì per dispetto; e dalle servili conseguenze arretrava, e gli avveniva, come troppo spesso agl’Italiani, di desiderare quel che non hanno, per tardi pentire quando n’abbian fatto esperimento. I voti del poeta furono esauditi; furono _inforcati gli arcioni_ di questa Italia, _fiera fella e selvaggia_; e gli abbracci degl’imperatori, quand’ebbero i papi non più oppositori ma conniventi ed alleati, prepararono un’età di obbrobrioso servaggio, e la necessità malaugurata di violenti tentativi per riscattarsene. Ma cotesto imperatore universale e onnipossente, Dante volea risedesse in Italia, e intimava essere i monarchi fatti pel popolo, non questo per quelli; anzi essi sono i primi ministri del popolo: tanto il senno abituale rivaleva, appena che l’ira attuale cessasse d’allucinarlo. Parimenti, geloso come si mostrò delle pure origini, bersaglia i privilegi di nascita e l’edifizio feudale, sino a volere abolita l’eredità dei beni, non che quella degli onori. «La pubblica potenza non dee andare a vantaggio di pochi, che col titolo di nobili invadono i primi posti. A sentirli, la nobiltà consiste in una serie di ricchi avoli: ma come far caso sopra ricchezze, spregevoli per le miserie del possesso, i pericoli dell’incremento, l’iniquità dell’origine? La quale iniquità appare o vengano da cieco caso, o da industrie fine, o da lavoro interessato e perciò lontano da ogni idea generosa, o dal corso ordinario delle successioni. Poichè questo non potrebbe conciliarsi coll’ordine legittimo della ragione, che all’eredità dei beni vorrebbe chiamar solo l’erede delle virtù. Che se il diritto de’ nobili sta nella lunga serie di generazioni, la ragione e la fede riconducono tutte queste a’ piedi del primo padre, nel quale o tutti furono nobilitati o tutti resi plebei. Poichè dunque un’aristocrazia ereditaria suppone l’ineguaglianza, la primitiva moltiplicità delle razze repugna al dogma cattolico. Vera nobiltà è la perfezione, che ciascuna creatura può raggiungere ne’ limiti di sua natura: per l’uomo specialmente è quell’accordo di felici disposizioni, di cui la mano di Dio depose in esso il germe, e che, coltivate da solerte volontà, divengono ornamenti e virtù». Questi sfoghi egli si permetteva, non senza domandare scusa dell’opporsi all’opinione di Federico II; e nel _Convivio_, dove più blandisce alle plebi e ai signorotti, intima: — Ahi malestrui e malnati, che disertate vedove e pupilli, e rapite alli men possenti; che furate ed occupate l’altrui ragioni, e di quelle corredate conviti, donate cavalli ed armi, robe e denari; portate le mirabili vestimenta, edificate li mirabili edifizj, e credetevi larghezza fare! E che è questo altro fare che levar il drappo d’in sull’altare, e coprire il ladro e la sua mensa? Non altrimenti si dee ridere, tiranni, delle vostre mansioni, che del ladro che menasse alla sua casa li convitati, e ponesse sulla mensa tovaglia furata d’in sull’altare, con li segni ecclesiastici ancora, e non credesse che altri se n’accorgesse». Noi volemmo qui esporre i suoi concetti, come il giudizio del più grande uomo d’allora sopra gli avvenimenti che si compivano. Ove ci pare gran segno della civiltà di quegl’Italiani il saper essi discernere l’evangelo dalle false interpretazioni, la Chiesa dagli abusi, il principe di Roma dal pontefice universale, e con baldanza imprecare all’adultera di Babilonia, mentre si mostravano così sommessi all’autorità pontifizia. Il che poco videro quegl’intolleranti d’un tempo che pretesero fare dell’Alighieri un precursore della dottrina protestante, o quei ghiribizzosi d’adesso, che lo chimerizzarono autore di una eterna allegoria contro la Chiesa, e fino istitutore di non so qual nuova religione[215]. Dante batte i frati, di cui le badie erano fatte spelonche, e le cocolle _sacca di farina ria_; eppure le lodi più calde del suo poema tributa ai santi Tommaso, Francesco, Domenico: caccia in inferno i papi; Nicola III, pastore senza legge e di più laid’opra (_Inf._, XIX), colloca con Simon Mago ad aspettare Bonifazio VIII; trova fatto cloaca il cimitero di san Pietro; eppure espose precisissima la formola del cattolicismo, professava _riverenza alle somme chiavi_, e credeva che l’imperio di Roma fosse stato da Dio costituito per la grandezza futura della città ove siede il successore di Pietro. Bensì l’opinione ghibellina, e il vindice dispetto contro Bonifazio, e le disonestà del clero gli facevano bestemmiare il lusso de’ prelati che coprivano _de’ manti loro i palafreni, sicchè due bestie andavano sotto una pelle; e la corte ove tuttodì Cristo si mercava; e i lupi rapaci in veste di pastori, che fattosi Dio dell’oro e dell’argento, attristarono il mondo calcando i buoni e sollevando i pravi._ E sebbene esaltasse Matilde contessa, mal sapeva grado a Costantino Magno d’aver dotato di terre i pontefici, e a Rodolfo d’Habsburg di avergliele confermate. Disapprova l’abuso delle scomuniche, che toglieano _or qui or quivi il pane che il pio padre a nessun serra_; e non le crede mortali all’anima, tanto che _non possa tornar l’eterno amore_ a chi si pente (_Purg._, III). Riprovava insomma i pontefici, ma perchè erano o li supponeva tralignati; nè il guelfo Villani od altro contemporaneo vediamo fargliene colpa. Quand’egli morì a Ravenna presso Guido da Polenta, è scritto che il cardinale Bertrando del Poggetto, legato pontifizio in Romagna mentre la santa sede stava serva ed avvilita in Francia, cercasse sturbare le ossa di lui. Questa follia sarebbe a cumulare alle tante onde quel prelato contaminò la sua missione politica; potrebb’essere una vendetta ch’egli meditasse del male che Dante disse di quella Francia, alla quale allora i papi eransi fatti vassalli. Ma non ne fece nulla; e non che molestarne il sepolcro, subito anzi cominciò pel poeta una venerazione, che tanto meno s’attaglia ai moderni sogni, in quanto si sa che i Guelfi prevalsero. I suoi concittadini ripararono i loro torti istituendo una cattedra per leggerlo e spiegarlo in duomo, ove Domenico di Michelino[216] lo dipingeva vestito da priore e coronato, colla Commedia aperta in mano, mostrando a’ suoi cittadini le bolge dell’inferno e la montagna del paradiso. Al concilio generale di Costanza leggevasi Dante; e frà Giovanni di Serravalle minorità riminese, vescovo di Fermo, ad istanza del cardinale Amedeo di Saluzzo e dei vescovi di Bath e di Salisburg, lo tradusse in prosa latina e ne fece un commento, che sta manoscritto nella Vaticana. Nessuno fu più bersagliato dall’Alighieri che Bonifazio VIII, contro del quale ben nove volte si scaglia, come ad uomo non mai satollo dell’avere, pel quale non temè togliere a inganno la santa Chiesa, e poi farne strazio; che mutò il cimitero di san Pietro in cloaca della puzza e del sangue onde si placa il demonio, affinchè i Cristiani siedano parte a destra e parte a manca, e i vessilli segnati colle chiavi s’inalberino contro i battezzati, e Pietro s’impronti sovra suggelli a privilegi venduti e mendaci. Agli occhi di lui, la colpa mortale di quel pontefice era l’aver favorito ai Neri, e causato la cacciata dei Bianchi coll’inviare a Firenze Carlo di Valois. Questo «signore di grande e disordinata spesa» voleva denaro, e poichè ne ebbe estorto assai, andò chiedendone al papa, il quale gli rispose: — Non t’ho io messo nella fonte dell’oro?» E oro e peccato e onta cavato dalla sua venuta, se n’andò coi tesori e colle maledizioni de’ Toscani. Passò a osteggiare la Sicilia, ma presto vi conchiuse la pace di Calatabellota (pag. 276): laonde i Guelfi lo proverbiavano che, venuto a mettere pace in Toscana, vi lasciò la guerra; ito a far guerra in Sicilia, la condannò alla pace. Questa era stata opera di Bonifazio, che, qual padre universale dei fedeli costituitosi pacificatore dell’Europa, terminò anche la contesa germanica col riconoscere imperatore Alberto d’Austria[217]. Ma essendosi offerto mediatore tra il re francese e quel d’Inghilterra che si disputavano la pingue Fiandra, e volendo che il primo rilasciasse Guido conte di Fiandra e i figli suoi con vile tradimento imprigionati, il re gli rispose, «nessuno doversi intromettere fra lui e un suo vassallo; udrebbe volentieri consigli, non accetterebbe comandi». Questo re era Filippo il Bello, di gran cuore, di gran valentia, calcolatore e pertinace, che nè per giustizia nè per umanità nè per riguardo a tempi, a persone, a opinioni recedeva da’ suoi propositi. Principale tra i quali era il dilatare la regia prerogativa; e l’ottenne coll’abbattere fieramente i feudatarj. A quella parevagli repugnasse la supremazia papale, sotto cui la Francia era ingrandita, e cominciò a molestare gli ecclesiastici, crescere imposte sui loro beni, imprigionare il vescovo di Pamiers, vietare si portassero gioje o denari a Roma; e dal clero di Francia adunato fe dichiarare quelle che poi si chiamarono libertà gallicane, vale a dire che il pontefice non possa restringere l’arbitrio che ha il re di Francia sopra il suo clero. Così i Francesi, che poc’anzi aveano accettato da un papa i regni di Sicilia e d’Aragona, e fatto guerra spietata ai natii che li ricusavano, ora al papa negavano sino il diritto di far rimostranza al loro re[218]. Bonifazio, qual tutore delle ecclesiastiche immunità, colla bolla Clericis laicos si lagnò dell’invadere che i principi faceano i beni ecclesiastici, e scomunicò (1296) qualunque cherico pagasse, qualunque laico ne esigesse sovvenzioni, prestito, donativo senza licenza della santa Sede[219]. Nessuno però nominava: ma avendo Filippo per dispetto tassati maggiormente gli ecclesiastici, Bonifazio ne lo querelò, mostrando che era in via d’incorrere nelle censure comminate a chi attenta alle immunità della Chiesa; al tempo stesso facea rimostranze sull’amministrazione del regno e sulla guerra inglese, che tanto costava al popolo. Filippo rispose acremente, sostenendo l’indipendenza dei diritti reali; e Bonifazio, tuttochè irascibile, pure come capo de’ Guelfi d’Italia bramando tenersi in buon’armonia con Francia, mandò una schietta spiegazione della sua bolla (1297); non aver egli inteso sottrarre al re i servigi e le prestazioni dovute dagli ecclesiastici come vassalli, bensì distorlo dallo aggravezzare in generale il clero; del resto lasciava alla coscienza di esso il determinare i casi ove di una contribuzione straordinaria fosse bisogno. Parvero dunque conciliati: il papa con una condiscendenza inaspettatissima assentì a Filippo la decima per tre anni, e promise procurare che al trono imperiale vacante venisse eletto Carlo di Valois fratello di lui, quel che più volte già nominammo, e che parve destinato a ricevere tutte le corone e non portarne alcuna; e canonizzò san Luigi, a gran consolazione di quei che vivo l’aveano venerato. Filippo in compenso lo tolse arbitro della contesa sua con Fiandra e Inghilterra: ma che? del lodo si tenne oltraggiato, o se ne infinse; lasciò che suo fratello gettasse la bolla al fuoco; e per far onta a Bonifazio accolse i Colonna fuorusciti da Roma, s’alleò con Alberto d’Austria, processò il vescovo Bernardo di Saisset, scrisse al papa con ironica crudeltà perchè degradasse cotesto traditore di Dio e degli uomini, di cui voleva offrire un olocausto al Signore. Bonifazio non recossi in pazienza l’indegnità (1301), e rispose al re (_Asculte, fili_) ponendo che Iddio collocò il pontefice di sopra degl’imperj per isvellere, distruggere, dissipare, edificare, piantare; non presumesse egli re di non aver superiori in terra; e gli rinfacciava le lese immunità clericali, la falsata moneta, i beni delle chiese usurpati; sospese il privilegio che i re di Francia aveano di non essere scomunicati; invitò il clero gallicano ad un concilio in Roma; aggiungeva che il potere del papa e nello spirituale e nel temporale sorpassa quello del re[220]. Credette ancora che Carlo di Valois, da cui egli si era ripromesso il trionfo de’ Guelfi in Italia, avesse a bello studio menate sì inettamente le cose in Sicilia; e al suo passaggio per Roma il rimbrottò con tal calore, che Carlo tirò la spada contro di esso. Filippo nell’abbattere i feudatarj e ingigantire la primazia reale valeasi delle sottigliezze de’ legulej, invidi delle altre autorità, ed educati al despotismo degli imperatori romani e ai cavilli del fôro. Principali tra questi erano il guardasigilli Pietro Flotte e l’avvocato Guglielmo Nogaret, maligni caparbj, come cortigiani che mettono l’onor loro nel servire alle passioni del padrone, e che, non paghi d’insultare in Roma al papa con ammonizioni ipocrite ed audaci, vollero eludere l’effetto che la paterna e dignitosa lettera di Bonifazio produrrebbe, col fingerne una, dove esso, con franchezza resa più assoluta dall’imperativa concisione, esponeva quelle pretensioni che la Corte romana velava di buone parole, e ne tolsero pretesto ad una risposta del re violenta e brutale, che cominciava: — Filippo, per la grazia di Dio re dei Francesi, a Bonifazio sedicente papa, poco o punto salute. Sappia la vostra fatuità che noi non siamo sottomessi a nessuno nel temporale, ecc.». Quelle lettere erano apocrife o per lo meno interpolate[221], ma doveano valere a scandagliar l’opinione. Il popolo, fra cui si erano eccitate le passioni malevole, applaudì, come fa troppo spesso agli atti violenti; e il parlamento dichiarò non soffrirebbe mai in Francia altro superiore che Dio e il re. E poichè tenevasi che l’intimato concilio generale fosse un artifizio onde allontanare dalle chiese i pastori, dal re i consiglieri, dal popolo i sacramenti, fu interdetto al clero d’andarvi, bruciata la supposta bolla, divulgate le lettere dei tre Stati, in cui le pretensioni della sede pontifizia erano oppugnate con pompa di cavilli, di erudizione, di servilità. Bonifazio sventò le calunnie del maligno legulejo, che erasi messo dal canto della ragione col fargli dire il falso; mandò un nunzio in Francia che assolvesse il re se pentivasi; compassionò la Chiesa francese «figlia delirante, cui una madre amorevole era disposta a perdonare gl’insensati discorsi»: poi radunato il concilio, pubblicò la bolla _Unam sanctam_ (1302), ove pronunzia, la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica avere per capo Cristo e il suo vicario in terra; la potenza spirituale, benchè conferita ad un uomo, pure esser divina, e chi ad essa resiste, resiste a Dio; la potenza temporale è inferiore all’ecclesiastica, e dee lasciarsi da questa guidare come dall’anima il corpo, e quando i re trascorrono gravemente, il papa li può ammonire e ravviare; ogni creatura umana essere sottoposta al pontefice, nè ottener salute chi creda altrimenti. E decretò che imperatori e re dovessero comparire all’udienza apostolica qualora citati, «tale essendo la volontà di noi che, Dio permettente, comandiamo a tutto l’universo». Un’autorità sicura non ha bisogno di violenze, minacciata, esagera per meglio difendersi: e quest’espressione così assoluta della papale potenza veniva appunto dal sentirsi essa intaccata. Perocchè i tempi della inconcussa credenza già tramontavano, le società europee si sottraevano a quell’ala da cui erano state covate, e ogni popolo voleva l’indipendenza, ogni principe la potestà illimitata. Più la bramava Filippo, che pertanto si dispose a cozzar con quei papi, da cui erano stati vinti gli Enrichi e i Federichi. Assicuratosi il suo popolo con alcune concessioni, chetata di sue pretensioni l’Inghilterra, fa dal Nogaret mandar fuori una furibonda diatriba contro Bonifazio (1303), ch’e’ chiamava Malifazio, falso, intruso, ladrone, eretico, nemico di Dio e degli uomini; e non che piegare la fronte fulminata, arresta il legato pontifizio, togliendogli i dispacci; da’ suoi avvocati fa in parlamento formulare contro Bonifazio ventinove accuse, di eresie, di bestemmie, d’ogni sorta nefandità; appella ad un concilio raccolto dal pontefice legittimo; gli ecclesiastici che ricusarono aderire, furono espulsi o imprigionati; gli altri e la Università di Parigi assentono a quegli atti, e preparasi uno scisma. Bisognava colla violenza compire ciò che la calunnia avea cominciato; e il Nogaret, in compagnia di Musciatto Franzesi potente magnate senese, castellano di Staggia, con buone cambiali e carta bianca è spedito a Roma, in apparenza per informare Bonifazio, ma con incarico secreto di arrestarlo e spedirlo a Lione. Ripetemmo a sazietà come i Romani fossero sempre volenterosi a ingiuriare il loro papa, e i signori si tenessero armati contro l’autorità di lui. Basti per mille citare Ghino da Tacco, il quale, espulso da Siena, avversato dai conti di Santa Fiora, ribellò Radicofani alla Chiesa, e postosi colà, facea rubare chiunque passasse. Un fratello e un nipote suo che gli aveano tenuto mano, furono presi da messer Benincasa aretino, giudice a Siena, il quale poi andò giudice a Roma. Ghino un bel giorno entra con sua masnada in questa città, si difila al palazzo del senatore dove Benincasa sedea sul banco a render ragione, e presenti molti gli spicca il capo, e se ne torna senza che alcuno osi fermarlo. Dappoi l’abate di Cluny, ch’egli avea svaligiato non senza cortesie, lo rappacificò col papa, il quale lo ornò cavaliere e gli conferì una grossa priorìa. Prepoteano fra que’ signori i Colonna. Giordano avea lasciato cinque figli, Jacopo cardinale, Giovanni, Oddone, Matteo, Landolfo, ciascuno con porzioni distinte d’eredità: ma d’accordo essi lasciaronla amministrare a Jacopo, anche dopo che Giovanni morì lasciando sei figli, Pietro cardinale, Stefano, Giovanni, Jacopo, Oddone, Agapito. Lo zio cardinale malmenava la sostanza de’ fratelli e de’ nipoti, e Bonifazio, che se ne volle mescolare, incorse nello sdegno del ladro e de’ rubati. Jacopo nipote, fra gli altri, mostravasi accattabrighe e violento, sicchè meritò il nome di Sciarra, e volendo vendicarsi, assalì ottanta some di masserizie e argenti papali che passavano da Anagni a Roma, e se le portò. Avea ragione Bonifazio di volerne vendetta, ed esso temendola lo esecrava: del quale rancore si valse Federico di Sicilia a danno del papa nemico: e i cardinali di quella casa cominciarono a dire che Bonifazio fosse eletto illegalmente, perchè papa Celestino non poteva abdicare. Citati non comparvero, onde il concistoro tolse la porpora a Jacopo e Pietro, e li scomunicò, implicandovi anche la discendenza. Essi risposero dichiarando Bonifazio pontefice intruso, appellando al futuro concilio, e insieme con libelli d’infami accuse preparavano armi, popolo, nemici; sicchè Bonifazio bandì contro di loro la crociata. Moltissimi vi accorsero e primi gli Orsini avversarj dei Colonna, poi i Fiorentini; e molte donne davano di che far armi. Colonna, Nepi, Zagarolo furono presi, e infine anche Palestrina, che andò distrutta, ergendo incontro ad essa Civitapapale[222]. Pensate se rimanevano accanniti i Colonna, e ancor peggio Sciarra, il quale, nel fuggire di Roma, essendo dato ne’ Barbareschi, anzichè rivelare il proprio nome, avea sofferto di essere messo s’una galea, ove per quattro anni tirando il remo, avea stillato feroce rancore contro il papa; ed ora per isfogarlo si esibiva al Nogaret. Bonifazio, vedendosi tenuto in posta, fuggì ad Anagni, e preparava la scomunica che rinnovasse le scene della casa Sveva; ma Nogaret lo previene, e a denaro raccolta una ciurma a sua posta, secondato dai nobili di Ceccano e Supino e fin da alcuni cardinali, assalta quella città al grido di — Viva Francia! Muoja Bonifazio!» Il papa, di ottantasei anni, e abbandonato da cardinali, esclama: — Tradito come Cristo ai nemici, morrò, ma papa»; si pone la tiara di Costantino, e colle chiavi di san Pietro e la croce in mano, si asside sul trono. Ed ecco entrano i masnadieri rubacchiando, violando le reliquie e li archivj: Nogaret lo ingiuria, Sciarra lo schiaffeggia. Tenuto prigioniero, Bonifazio ricusa ogni vitto, temendolo avvelenato; il popolo, rinvenuto dallo sgomento, si solleva, e sclamando — Viva il papa, morte ai traditori», a forza libera il pontefice, che menato sulla piazza pubblica, ripeteva: — O buoni uomini e buone donne», e a tutti narrava doloroso i suoi patimenti, e chiedeva un tozzo per carità; e il popolo gridava — Viva il santo Padre», e tutti potevano parlargli come a un altro povero. Ricondotto in Roma a Dio lodiamo, Bonifazio rimbaldisce, deponendo i sensi di perdono e di riconciliazione mirabilmente manifestati ad Anagni: ma gli Orsini stessi, in cui confidava, il tengono chiuso in palazzo; ond’egli per tanti colpi abbattuto, muore fra otto cardinali, confessando la fede vera[223]. Lo combatterono i prelati colle dottrine d’indipendenza nazionale, i re coi legulej, gli scrittori coll’opinione: e Filippo il Bello, i Colonna, Dante tengono ancora in fama sinistra questo pontefice, col quale spirò (11 8bre) l’onnipotenza della santa Sede. Benedetto XI (Nicola Boccasini), datogli successore, «uomo di pochi parenti e di piccolo sangue, costante e onesto, discreto e santo» (Compagni), non volle riconoscere sua madre quando gli si presentò in vesti signorili, bensì quando venne colle abituali. Egli non era guelfo nè ghibellino, ma papa della pace, come si deve; trovavasi però angustiato in questa Roma, dove ogni palagio era una fortezza, e i cardinali stessi erano capi e turcimanni delle fazioni de’ Colonna o degli Orsini o de’ Gaetani: e costretto sempre a difendersi da chi aveva a’ fianchi, come poteva mostrar vigore contro i lontani? Per togliersi al coloro arbitrio, si ricoverò ad Assisi, e dicesi pensasse trasferire la sede in Lombardia[224]; e non avendo parenti, e più dolce che robusto di carattere, gemeva degli eccessi che non valeva a reprimere. Per mostrare il desiderio di pace cassò molte costituzioni del suo predecessore, massime quelle contro Filippo di Francia, e l’assoluzione dei sudditi dal giuramento di fedeltà, ma lanciò la scomunica contro il Nogaret e quattordici signori italiani ch’egli stesso avea veduti oltraggiare Bonifazio. Il Nogaret venne a chiederne perdono a nome del re (1304); ma pochi giorni di poi Benedetto moriva avvelenato, e al Nogaret crescevasi lo stipendio da cinquecento a ottocento lire. Allora i venticinque cardinali si chiudono in conclave a Perugia, e l’elezione bilicò lungamente fra i Gaetani fautori degli atti di Bonifazio, e i Colonna che pendeano pei Ghibellini e per Francia. Costretti dai Perugini, che scemarono loro fin le razioni, stabilirono una tripla di forestieri, fra cui il partito nazionale scegliesse il pontefice; e il prescelto fu Bertrando di Goth arcivescovo di Bordeaux (1305). Erasi proferito ostile al re, ma Filippo, che per mezzo dei Colonna rimestava nel conclave, avutone avviso prontissimo, andò a lui, e mostrando dimenticare le nuove animadversioni per l’antica famigliarità, — Io posso alzarvi papa, se promettete farmi contento di sei servizj: il primo di riconciliarmi colla Chiesa; il secondo rendere la comunione a me e a tutti i miei; terzo, le decime del clero nel mio regno per cinque anni, onde bastare alle spese della guerra di Fiandra; quarto, annulliate ogni memoria di papa Bonifazio; quinto, rendiate la dignità di cardinale a Jacopo e Pietro Colonna, e la concediate ad alcuni amici miei; della sesta grazia vi parlerò a luogo e tempo». L’arcivescovo, che per lui credevasi pontefice, promise sull’ostia, e fu eletto col nome di Clemente V. Giovan Villani, che riferisce questo assurdo colloquio, era forse in terzo?[225]. Nessun altro contemporaneo ne parla, e il buon cronista l’avrà raccolto dalle bocche del popolo, che traduceva in patto anteriore le posteriori condiscendenze. Il fatto è che Clemente già avea veduto come i papi in Roma fossero servi della plebe e delle fazioni; e forse nell’intento d’emanciparne l’autorità, invece di venire a Roma, chiamò i cardinali a coronarlo a Lione. Nella cavalcata un muro cascò, uccidendo molti cardinali e domestici, molti ferendo; una rissa tra i papali e i Lionesi costò altro sangue: accidenti, donde la superstizione traea funestissimi augurj. La capitale dell’antico impero, la città di maggiori memorie, la tomba del principe degli apostoli e di tanti martiri, la meta dei pellegrini, lo studio degli eruditi, mal si mutava con una cittadina d’altrui, povera, e disastrata da guerre: ma più che l’abbandono, abbiamo a deplorare che questo paresse giustificato dalle inquietudini di Roma. Dopo girato di diocesi in diocesi con un nugolo di famigliari e cortigiani, alfine Clemente si piantò ad Avignone (1309), città del contado Venesino, possesso dei papi, ma appartenente al conte di Provenza sotto la supremazia dell’Impero; e di qui comincia quella che gl’Italiani chiamarono cattività di Babilonia. Avignone, che al Petrarca pareva piccola, schifosa, fetente, confinata sovra una rupe, con vie anguste e case basse e mal costrutte, ben presto scese al piano, si popolò di palazzi, d’alberghi; all’altra riva del Rodano su terra di Francia i prelati edificarono la città di Villanova, e il concorso di tanti forestieri e di tanti principi ricreò quel paese. Messosi in terra altrui e perciò in altrui arbitrio, il papa cominciò operare abjettamente: concedendo le decime, impinguava il terzo e il quarto con denari altrui[226]; cassò la costituzione _Clericis laicos_, dichiarò la _Unam sanctam_ non pregiudicare al regno di Francia; assunse dodici cardinali ligi a Filippo, fra i quali i due Colonna sporporati da Bonifazio VIII, modo di perpetuare la servitù; assolse il Nogaret. Con ciò volea calmare Filippo, sempre pertinace nel chiedere la condanna di quel pontefice; e sperava forse che il tempo ne intepidirebbe la passione, mentre invece non facea che attizzarla, ed ogni tratto domandava che Bonifazio fosse chiarito eretico e cancellato d’infra i papi, dissepolto, arso, disperso al vento. Non era soltanto rancore personale, ma lotta di principj: se lo spirituale dovesse prevalere al temporale, come ai tempi di Gregorio VII, o d’Innocenzo III; o se fosse giunta l’ora che nessuno potesse frenare i re, e che la legalità medesima si piegasse alle esigenze di questi. Il papa cercò sottrarvisi colla fuga: alfine decise che d’affare così supremo non poteva decidere se non un concilio. Vi si complicava un altro processo non men vergognoso. Accennammo (t. V, p. 565) l’origine dei cavalieri del Tempio, e come da Gerusalemme fossero propagati a tutta Europa. Delle provincie in cui divideasi quest’ordine, le più antiche in Oriente erano state occupate da’ Musulmani, salvo Cipro; quelle d’Occidente, tre delle quali erano Italia, Puglia, Sicilia, possedeano ben novemila commende, fruttanti da otto milioni di lire. Dei trentamila _frieri_, i più erano francesi, e francese sceglievasi comunemente il granmaestro, principe sovrano. Tanti privilegi, tante ricchezze faceanvi accorrere i cadetti delle principali famiglie d’Europa. Ma perduta Terrasanta, mancò il principale oggetto di loro attività, e vissero oziosi, egoisti, insolenti, fra bagordi e lascivie, velate dal mistero, assolte in generica confessione nei loro capitoli. Il popolo dalla venerazione passò a guardarli con arcano timore, fomentato dalle forme orientali di cui circondavano l’iniziazione, la quale faceasi nelle loro magioni, nottetempo, a porte serrate, escluso ognuno, foss’anco il re. Mentre il vulgo prendea spavento di tali accuse, i grandi, spesso non meno vulgari, gl’imputavano d’aspirare alla dominazione universale, istituendo una repubblica aristocratica in tutta Europa: la quale imputazione, fatta a cavalieri armati dipendenti assolutamente dal granmaestro, era meno assurda che non applicata, come la udirono i padri nostri, dai filosofi ai Gesuiti. Ma come di questi, così di quelli il delitto maggiore erano le ricchezze che aveano o che si supponeva; e i cencinquantamila fiorini d’oro e i dieci somieri carichi d’argento che bucinavasi avessero da Palestina portati in Francia, equivalgono ai barili di polvere d’oro che diceansi empire le cave de’ Lojoliti. Le ricchezze divenivano viepiù necessarie ai re nel cambiato sistema di governo; sicchè da quelle de’ Templari non poteva non esser mossa la gola di Filippo, che stabilì rovinarli coi mezzi da lui adottati, i legulej ed un processo. Il prode Giacomo Molay, loro granmaestro, avuto sentore delle accuse date a’ suoi, chiese una giustificazione giuridica. Filippo lo menò a parole, poi d’improvviso fece arrestar lui e quanti cavalieri trovavansi in Francia, e ne staggì i beni. Molay interpose i privilegi dell’Ordine; novecento cavalieri se ne dichiararono difensori; quei che aveano dato accuse, le ritrattarono; vennero in chiaro le iniquità della procedura, le durezze della prigionia e della tortura; onde Clemente esclamò d’essere ingannato, e sentendo quel che sia un pontefice in dominio straniero, tentò fuggire. Filippo per isgomentarlo rimise in scena il processo contro Bonifazio, accuse d’ogni sorta gravando sopra lui morto come sopra i Templari morituri; e il Nogaret con lacrime e gemiti, a man giunte e ginocchione davanti al papa, insisteva acciocchè Bonifazio, per onor della Chiesa, per amore della patria, per tutte le più sacre cose, fosse dissotterrato ed arso, dicendovisi tenuto in coscienza. Per evitare questo scandalo, Clemente accondiscese alle domande regie; e purchè Filippo rimettesse in lui il giudizio del suo predecessore, il lasciò fare del resto. Le accuse contro Bonifazio furono a lungo esposte e dibattute, finalmente se ne rimise la decisione al concilio. Raccoltosi a Vienna nel Delfinato (1311) il XVI concilio ecumenico, questo dichiarò non sussistere le luride incolpazioni, e due cavalieri catalani vi si presentarono gettando il guanto, come disposti a sostenerne l’innocenza colla spada. Pure fu confermato quel che Clemente avea già concesso, cioè Filippo avere operato per giusto zelo; che nè egli nè i successori suoi sarebbero mai inquietati perciò; che fossero casse tutte le costituzioni pregiudicevoli alla libertà del regno, e si cancellassero negli archivj le sentenze proferite. Con tante soddisfazioni, Filippo consentiva a recedere dal suo puntiglio; ma lo faceva per essere contentato in un altro: e Clemente, messo nella via delle condiscendenze, non potè negare la soppressione de’ Templari. Nè pago a ciò, Filippo volle il supplizio di moltissimi e de’ principali di loro. «In un grande parco chiuso di legname fece legare, ciascuno a un palo, cinquantasei dei detti Tempieri, e fece metter fuoco al piede, ed a poco a poco l’uno innanzi l’altro ardere, ammonendoli che quale di loro volesse riconoscere l’errore, il peccato suo, potesse scampare: e in questo tormento, confortati dai loro parenti ed amici che riconoscessero e non si lasciassero così vilmente morire e guastare, niuno di loro il volle confessare, ma con pianti e grida si scusavano com’erano innocenti di ciò e fedeli cristiani chiamando Cristo e santa Maria e gli altri santi; e col detto martorio tutti ardendo e consumando finirono la vita»[227]; e dopo gli altri il granmaestro Molay. Il quale spirando sul rogo, citò Filippo e Clemente al tribunale di Dio entro un anno, dove in fatti comparvero. Noffi Dei, giudice fiorentino, s’era adoperato moltissimo nel convincere i Templari dei delitti, ch’egli diceva averne conosciuti quando apparteneva all’Ordine loro; poi servì il re in altri processi contro streghe, untori, maliardi. In Lombardia e Toscana i Templari furono condannati; assolti a Ravenna, a Bologna, in Castiglia; Carlo II di Napoli fece mandare a morte i provenzali, attribuendone le terre agli Spedalieri. Non per definitiva sentenza, ma in via di provvisione il papa abolì quell’ordine in tutta cristianità come inutile e pericoloso; e vuolsi che col re di Francia spartisse ducentomila fiorini d’oro di loro beni mobili; gli stabili doveano assegnarsi agli Spedalieri perchè allestissero cento galee centro i Turchi: ma i regj legulej addussero tante spese di processo e debiti da spegnere, che gli Spedalieri ne rimasero più poveri. Il lettore già sente che s’avvicinano tempi nuovi. Due gran fatti si compivano: la distinzione delle varie nazionalità, e la secolarizzazione de’ Governi. Quell’unica repubblica cristiana posta sotto la mano dei papi, si discioglieva; cessava l’uniformità delle ordinanze: alla fede sottentrava la critica, all’età organizzata un’età di rimpasto, all’autorità della Chiesa la potenza dei re. Tutte le nuove energie voleano rompere le fasce, donde veniva una lotta generale contro la Chiesa, non combattendo ancora lei stessa, ma la sua dominazione, la quale pareva divenuta soverchia. LIBRO DECIMO CAPITOLO CIV. Gli storici del medioevo. Dei tempi che fin qua descrivemmo «non solamente son venute meno le storie, ma possiamo anche sospettare, se non credere, che pochissime ne fossero allora composte; e se la nostra buona fortuna non ci avesse salvata la _Storia longobardica_ di Paolo Diacono sino all’anno 774, resterebbe in un gran bujo allora la storia d’Italia. Continua nulladimeno la medesima ad essere anche da lì innanzi sì povera di lumi fin dopo il Mille, che qualora fosse perita la cronaca di Liutprando, e non ci recassero ajuto quelle de’ Franchi e de’ Tedeschi, noi ci troveremmo ora, per così dire, in un deserto pel corso di quasi tre secoli dopo il suddetto Paolo. Oltre poi all’essersi perduta la memoria di moltissimi avvenimenti d’allora, quelli che restano, sì mal disposti bene spesso ci si presentano davanti, che di poterne assegnar gli anni via non resta, stante la negligenza o discordia degli scrittori, ed è forzata non di rado la cronologia a camminare a tentoni». Tali disadorne parole del padre della storia italiana valgano, se non ad ottenere scusa, a dar ragione dell’esitanza che il lettore avrà notato alcuna volta nel nostro racconto, della scarsità di fatti, dell’ignoranza delle cause. E sì che non ci credemmo tenuti ad accertare ciascun anno come il cronologo, nè dissertar sulle date se non quando esse mutano natura e significazione agli avvenimenti; e risparmiando le discussioni, abbiamo esibito le convinzioni prodotte in noi da indagini, delle quali velammo ai lettori l’ingratissimo tessuto. Man mano abbiamo accennato i poveri cronisti da cui attingemmo, e oltre Paolo Diacono, intorno ai primi Carolingi ci sussidiarono Erchemperto che va dal 774 all’889, e la cronichetta d’un prete Andrea bergamasco, tutt’altro che spregevole nè per le cose nè per la forma nè per quella dote che, rarissima ne’ cronisti, non è comune negli storici, il sapere quali eventi importi riferire, quali trasandare. Giovan Diacono tessè la vita di Gregorio Magno; Agnello prete, grossolano ne’ fatti e nell’esposizione, quella dei vescovi di Ravenna, in tempi che era città importantissima; alquanto meglio quella dei papi il bibliotecario Anastasio, o piuttosto i varj autori del _Libro pontificale_, interrotto all’889, al 1050 ripigliato dal cardinale d’Aragona, sempre in sentimento encomiastico; aggiunta la vita di Alessandro III, viva pittura del tempo della Lega Lombarda. All’uscita dell’XI secolo, Gregorio monaco di Farfa ebbe pel primo la buona ispirazione di raccogliere i diplomi attinenti al suo monastero, e sulla scorta loro compilò una cronaca, proseguita da altri e imitata da molti, e deh fosse stata da tutti i monasteri, ch’erano il centro dell’attività non solo intellettuale ma sociale. Delle più importanti è quella di Montecassino, cominciata da Leone Marsiccino, condotta sino all’abate Desiderio che fu poi Vittore III, indi seguitata rimessamente da un diacono Pietro. Nel tradurre alla lingua e alle fogge nostre le tradizioni de’ popoli invasori, i cronisti le alteravano, al tempo stesso che divenivano causa od occasione che si perdessero gli originali, come avvenne dei Goti pel Jornandes, e dei Longobardi per Paolo Diacono. Usando una lingua che più non parlavano, nelle parole, non nate a un parto col pensiero, esprimevano più o meno del concetto, quand’anche non vi attribuivano un senso arbitrario; avendo letto gli antichi, ne traevano le frasi ben o male a rappresentare tutt’altre cose, tutt’altra condizione di società. Della quale società aveano sott’occhio l’andamento, sicchè non gittano più che un cenno per descrivere una complicazione che a noi riesce inestricabile, una rivoluzione, che per essi era evidente, mentre noi fatichiamo invano a spiegarcela; toccano di volo un fatto rilevantissimo alla posterità, mentre si distendono sopra un’inondazione o una cometa, che turbava l’immaginazione o gl’interessi dei contemporanei. Per chi non voglia rimanersi alle generalità convenzionali e sistematiche, quanta fatica ad annodare in una catena probabile le confessioni sorprese, i monumenti sconnessi, le congetture sopra notizie mal determinate, incerte, sovratutto scarse! Di mezzo a questa inopia si discerne Liutprando di Pavia, adoprato in gravi affari, segretario, poi nemico dell’imperatore Berengario II, esigliato in Germania, e di là ricondotto da Ottone il Grande, e posto vescovo di Cremona. Le vicende contemporanee, dalla presa di Frassinetto nell’891 fino al concilio Romano del 963, espose con istile colto e con un’arguzia che spesso degenera in frivolezza, e una passione che neppur rifugge dalla calunnia. Nelle ambascerie sue, con uno spirito ostico e negativo, affatto discordante dalla bonarietà de’ cronisti, egli critica, ride, esagera i vizj e i difetti della Corte bisantina per adulare la tedesca, e vagheggiando la puerile o senile affettazione, e raccogliendo senza discernimento, piacesi sfogare la sua parzialità fin a costo del pudore. Ciò ne spiega quella sua frase, ripetuta poi a sazietà e quasi oracolo storico, che, quando si volesse dinotare il colmo d’ogni vizio, si diceva _romano_. Spedito dall’imperatore tedesco a quel di Costantinopoli, che vantandosi del titolo di romano, come tale pretendeva primazia sopra l’occidentale, Liutprando toglie a cuculiarlo, trasmodando nel lodare i Tedeschi, e asserendo che romano non è più che titolo di contumelie e compendio d’ogni improperio. È dunque bassa adulazione questa contumelia, la quale, del resto, il complesso del suo racconto convince ch’egli non la diceva alla Corte bisantina, ma la inseriva solo nella sua relazione per ingrazianire gli Ottoni. Di buoni storici furono fortunati i Normanni. Gaufrido Malaterra, comandato da Roberto Guiscardo di conservar memoria delle sue imprese, le dedicò al successore di esso. Guglielmo Apulo cantò in cinque libri le azioni de’ Normanni, cominciando magnifico, seguendo rimesso, terminando con orgogliosa bassezza[228]. Ad Ugo Falcando di Benevento la dipintura del regno di Guglielmo il Malvagio acquistò il titolo di Tacito della Sicilia; poi passato a Guglielmo il Buono, non ha parole bastanti ad esaltare la felicità della nazione: il quale rapido tragitto non meno che la retorica eleganza ne rendono sospette le asserzioni. Coraggioso e sensato, previde le sciagure che sull’isola trarrebbe il passare in signoria de’ Tedeschi; e come altri Siciliani anche di tempi più civili, non dissimulava l’odio e lo sprezzo verso i Pugliesi, gente, al dir suo, «di suprema incostanza, avidi sempre del nuovo, agognanti libertà senza saper conservarla; sul campo attendono appena il segno dell’attacco per fuggire; inabili alla guerra, non sanno requiar nella pace»[229]. Matteo Bonello, ricco prelato, scrisse con sentimento la storia di Guglielmo I, di cui fu ministro. Goffredo da Viterbo tirò un _Panteon_ dal principio del mondo fino alle nozze dell’imperatrice Costanza, «avendo (dice egli) per quattro anni, di qua e di là dai mari rovistato tutti gli armadj latini, barbari, greci, giudaici, caldei». Romoaldo arcivescovo di Salerno, ministro di Guglielmo II, avvivò la sua cronaca con preziose particolarità; un’altra di Amato monaco di Montecassino, conosciamo dalla versione francese[230]. Pietro d’Ebulo verseggiò i moti della Sicilia, avverso a re Tancredi: Ricardo da San Germano notajo, testimonio oculare e sincero per quanto ghibellino, delinea i tempi di Federico II. Dalla morte di questo alla coronazione di Manfredi prosegue Nicola di Jamsilla, con parzialità ghibellina, ma con ingenuità carissima. Matteo Spinelli di Giovenazzo dal 1247 fino alla battaglia di Tagliacozzo, ove morì, stendeva un giornale ch’è il più antico in vulgar nostro. Saba Malaspina, l’anonimo Salernitano, Alessandro di Telesa, Nicola Speciale, la cronaca del tempo di regina Giovanna di Domenico Gravina, son robusti ajuti alla storia del Reame, de’ cui scrittori diede il catalogo Francesco Soria. Ma già colla libertà era cresciuta la coltura, alla cronaca del monastero sottentrava quella del Comune, e l’importanza delle cose esposte rialzava la narrazione e l’associava alla politica, in modo di istruire e allettare, mostrando e sufficienza di cognizioni, e arguta stima degli avvenimenti, e caratteristiche particolarità, e quel movimento che deriva da sentimenti veri. Nella grande agitazione comunale, nessuna città può dirsi mancasse del suo cronista, tanto più che molte nel XII e XIII secolo fecero ridurre in registro tutti gli atti per assicurarli dalle eventualità; e molti se ne valsero per la storia. Arnolfo e Landolfo il vecchio, milanesi vissuti poco dopo il Mille, e primi laici che stendessero civile storia, per quanto difettino d’esattezza, piace udirli esporre l’origine delle contese fra nobili e popolani, fra cherici e secolari, donde restò mutata non solo la costituzione civile, ma la sociale. Il primo mostra la feudalità trafitta dal popolo guidato dai preti, i quali danno le prime libertà. Landolfo mostra gli arcivescovi vincitori dei nobili; poi Landolfo juniore dirà come devoti tribuni vincessero gli arcivescovi imposti dall’imperatore, e facessero trionfare la libera elezione. Nei tempi del Barbarossa giova correggere il genio repubblicano di sire Raul o Rodolfo milanese (_De gestis Frederici_) colle inclinazioni imperiali di Ottone Morena magistrato lodigiano (_Rerum Laudensium_), il quale fu seguitato in tono più generoso e liberale dal figlio Acerbo, che militò col Barbarossa, e morì nella spedizione contro Roma il 1167. Entrambi cedono la mano a Ottone vescovo di Frisinga e Radevico suo canonico, che, l’uno in continuazione dell’altro, tratteggiarono le guerre di cui erano testimonj e parte, non contentandosi più, come i cronisti, d’una sola città e ignorando le vicine, ma abbracciando l’Italia tutta, e osservando alla legalità nell’organica lotta dei due poteri. Galvano Fiamma (_Manipulus florum_), dopo ingombrati di baje i primordj della storia milanese, migliora di senno e di colorito accostandosi ai proprj tempi. Pietro Azario narra i fatti dei Visconti con limpida prosa e gustosissima ingenuità, e con un’imparzialità insolita nelle precedenti fazioni. Gherardo Maurisio vicentino scrisse di Ezelino III quando ancora non s’era mostrato ribaldo; onde gli cammina parziale, quanto avversissimi i cronisti di tutte le vicine città, fra cui primeggia Rolandino di Padova. Costui, come maestro di grammatica e retorica, fece opera più ordinata e chiara delle contemporanee, e la lesse davanti ai professori e scolari di quell’università, che l’approvarono, od almeno l’applaudirono. Albertino Mussato, magistrato padovano, da cui abbiamo le prime tragedie moderne nell’_Achille_ e nello _Ezelino_, in sedici libri di _Storia Augusta_ magnificò l’infelice tentativo d’Enrico VII contro i tirannelli, in altri otto i successi fino al 1317, poi in tre canti l’assedio posto da Can Grande della Scala a Padova, da ultimo i dissidj che questa sottomisero ai signori di Verona. La continuazione dei due Cortusj nel narrare la laboriosa ribellione di Padova è ben lontana dall’eguagliarne il merito. I due Gattari vedono l’uno il dechino, l’altro la perdita della patria indipendenza, deplorandone le cause, e stendendo le scene della guerra civile anche al resto d’Italia; perocchè già i cronisti volgevano l’occhio anche fuor della terra natale. Cristoforo da Soldo bresciano va sino al 1468; ma destituito di critica e ineducato, si appoggia alle dicerie, e rozzamente espone ciò che rimessamente pensa. Il Malvezzi trova ne’ disastri nuovi la spiegazione degli antichi. Castel da Castello bergamasco con grossolana verità descrive le miserie a cui la sua patria ridussero le guerre civili fino al 1407. Ricobaldo da Ferrara[231] tuffato tra guelfi e ghibellini, Ferreto da Vicenza favorevole ai tiranni che trionfano, altri ed altri noi giudicammo servendocene. Basti dire che la collezione del Muratori dà le cronache di ben sessantotto città fra il V e il XV secolo, e che la sola _Bibliografia storica delle città e luoghi dello Stato Pontifizio_ empie un grosso volume in-4º con null’altro che il nome degli storici di settantuna città ancora esistenti e di sedici distrutte in quel paese. Una ignorante gelosia, che i posteri redimono splendidamente, negò al Muratori le cronache piemontesi; fra le quali son prime quelle che sovra le precedenti compilava un Ogerio Alfieri, a torto creduto monaco, finendo al 1294, cui succedette Guglielmo Ventura al 1325, e poco poi Secondino Ventura. Frà Jacopo d’Acqui empì di sogni le origini de’ marchesi di Monferrato nel _Chronicon imaginis mundi_, ove le molte letture stivò senz’ordine nè discernimento[232]. Alcuni peggiorarono la storia col voler verseggiarla, all’inettezza del narrare aggiungendo la difficoltà del metro. Lorenzo Diacono di Pisa non incoltamente cantò la spedizione de’ suoi contro le isole Baleari: Donnizone, vescovo di Canossa, rimò le azioni della contessa Matilde; un innominato le lodi di Berengario; il Cumano la guerra decenne de’ Lombardi contro Como; Moisè del Brolo i fasti di Bergamo circa il 1120; Gaetano degli Stefaneschi i tempi di Bonifazio VIII; maestro Pietro d’Eboli espose in elegi le guerre fra Enrico VI e Tancredi; Antonio d’Asti le lotte guelfe e ghibelline nella Storia elegiaca della sua patria fino al 1341; frà Stefenardo di Vimercate, ne’ migliori versi della sua età, i fasti milanesi dal 1262 al 95. Poi in italiano Boezio Poppleto e Anton di Boezio cantarono le cose d’Aquila dal 1252 al 1382, la cronaca aretina ser Gorello de’ Sinigardi, la mantovana Buonamente Aliprando, la perugina Bonifazio veronese nell’_Eulistea_. A Genova presentavasi in pien consiglio la cronaca di ciascun anno, ed approvata riponeasi negli archivj. Di qui il Caffaro, che fu console e capitanò le patrie flotte contro i Pisani e i Saracini, desunse la sua storia, che per morte lasciò in tronco al 1163. Per pubblico decreto proseguita da Ottobono, da Ogerio Pane, da Marchisio, da Bartolomeo, cancellieri della Repubblica fino al 1264, fu poi commessa a personaggi illustri e consolari, Marino Usodimare, Jacopo Doria, Guglielmo Multedo, Arrigo Guasco marchese di Gavi, Oberto Spinola ed altri che arrivano al 1294: dopo l’intervallo di quattro anni, Giorgio Stella ed altri di sua famiglia e dei Senarega ripigliano fino al 1514; da ultimo Filippo Casoni fa punto al 1700. Sono essi le fonti della storia genovese, parziale sì, ma preziosissima continuità di contemporanei, quale niun’altra città può vantare. Anche Giovanni Bracelli da Sarzana, in buon latino senza ostentazioni retoriche, riandò i fatti dal 1412 al 44, ben informato come cancelliere che era della Repubblica. Altri scrittori indipendenti riempiono l’ufficiale orditura, ma frà Jacopo da Varagine, noto per la leggenda dei santi, nella lunga cronaca di Genova dal trojano Giano fin al 1297 insacca pedantescamente senza vagliare, e v’innesta della morale scolorita. Giovanni Diacono, vulgarmente fin qui cognominato il Sagornino, buon dicitore mentre dogava Pietro Orseolo II, è il meglio accreditato fra i molti cronisti dei tempi oscuri e congetturali di Venezia, i quali furono eclissati da Andrea Dandolo. Istrutto in leggi e belle lettere, tutto decoro, gravità, amor patrio, e prudenza qual si addice al guidatore di grande repubblica, costui spiegò in latino una storia dall’êra vulgare 1342, esangue e senza critica pei tempi vecchi, pei successivi ricco di documenti, e meno parziale che non aspetteremmo da nobile e repubblicano. Lo continuarono Benintendi de’ Ravegnani, poi Rafaelle Caresini. Pur testè videro la luce la cronaca Altinate, che è piuttosto un nodo di cronache di differente merito; e, più allettativa a leggere se non più feconda di notizie, la cronaca scritta in francese o in francese tradotta dal Da Canale nel 1267. Furono poi nel 1516 assegnati ducento zecchini annui a uno storiografo e bibliotecario di San Marco, che registrasse i fasti patrj; e il primo fu Marcantonio Coccio detto il Sabellico, ma abborracciò; Bernardo Giustiniani erasi appigliato a buoni documenti per indagare l’evo primo, ma si arrestò all’809. E in generale Venezia non fu guari fortunata di storici; nè i suoi mostrano prepotente il bisogno dell’esattezza, e adulando la patria, guastano il conoscerla quanto i moderni romanzisti. Non vuolsi dimenticare il partito preso in essa fin dal 1296, che gli ambasciadori esponessero al magistrato un ragguaglio della condizione fisica e morale del paese a cui erano spediti; poi nel 1425 fu ordinato di ridurli in iscritto[233], e si conservavano nell’archivio pubblico, donde, forse illegalmente, se ne trassero le copie oggi possedute da privati; e per pienezza dei ragguagli, e per l’opportunità che aveano di conoscere i grandi dappresso, sono preziosissimi fondamenti a quella scienza, che poi fu prostituita col nome di statistica. Anche Bologna ebbe una cronaca di quasi quattrocent’anni. La napoletana di Matteo Spinelli credesi una contraffazione, e certo il suo italiano è più sciolto che quello posteriore del Malespini. Ma Firenze ci dà le migliori per dettatura insieme e per buon senso e accorta ingenuità. Ricordàno Malespini scrisse nel patrio dialetto quanto «trovò nelle storie degli antichi libri de’ maestri dottori»; e poichè allora erano sinonimi scritto e vero, vi trae il nome di Pisa dal _pesare_ che i negozianti vi fanno le merci, di Lucca dalla _luce_ del cristianesimo ivi portata, di Pistoja dalla _pistolenza_; fa la chiesa di San Pietro in Roma fondata ai tempi di Augusto, al tempo di Catilina celebrar messa nella canonica di Fiesole, Firenze devastata da Attila[234]; ma con miglior senno e con mirabile pacatezza, quantunque propenso a’ Guelfi, espone gli accidenti di cui fu testimonio egli stesso fino al 1280. Lo continuò fin al 1312 Dino Compagni, volendo «scrivere il vero delle cose certe che vide e udì; e quelle che chiaramente non vide, scrivere secondo udienza; e perchè molti, secondo le loro volontà corrotte, trascorrono nel dire e corrompono il vero, propose di scrivere secondo la maggior fama». Strani canoni della credibilità, che ci attestano come fosse ancora in fasce la vera storia, uffizio della quale non è soltanto il raccorre fatti, ma cernirli, ordinarli, esporli. Come nelle frequenti magistrature della patria procurava insinuar pace, così nelle scritture; e da tale sentimento trae non di rado veemenza il suo stile, e — Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco colle vostre mani, e distendete le vostre malizie, palesate le vostre inique volontà e i pessimi proponimenti; non penate più, andate, e mettete in ruina le bellezze della vostra città, spandete il sangue dei vostri fratelli, spogliatevi della fede e dello amore, nieghi l’uno all’altro ajuto e servizio, seminate le vostre menzogne, le quali empieranno i granaj de’ vostri figliuoli; fate come fe Silla nella città di Roma, che tutti i mali che esso fece in dieci anni, Mario in pochi dì li vendicò. Credete voi che la giustizia di Dio sia venuta meno? pur quella del mondo rende una per una. Guardate ai vostri antichi se ricevettono merito nelle loro discordie; barattate gli onori che eglino acquistarono. Non v’indugiate, miseri; chè più si consuma un dì nella guerra, che molti anni non si guadagna in pace; e piccola è quella favilla che a distruzione mena un gran regno». Con sì nobili intendimenti e retto giudizio e gran probità reca nel suo lavoro brevità, precisione, vigore, qual può desiderarsi in istoria semplice e veritiera: eppure rimase ignoto al Villani suo contemporaneo e ai posteri fin quasi al Muratori: oggi s’affollano ragioni per dimostrarlo apocrifo. Giovan Villani, mercante e magistrato, si condusse a Roma pel giubileo del 1300, e «trovandosi in quello benedetto pellegrinaggio della santa città», la vista di tanti monumenti e la lettura di Sallustio, Livio, Valerio, Paolo Orosio, Virgilio, Lucano _ed altri maestri di storie_ l’ispirarono a narrare gli eventi della sua patria, «per dare memoria ed esempio a quelli che sono a venire, ed a reverenzia di Dio e del beato santo Joanni, e a commendazione della sua città di Firenze». Il che fece in dodici libri, senza pretese di dottrina o prevenzione di sistema, beendo alla grossa le favole antiche; anche lunghi tratti togliendo di peso dal Malespini senza pur indicarlo, non parendo allora plagio ma abilità il giovarsi di chiunque avea preceduto: giunto poi al tempo suo, con gran rettitudine di sentire e ragionare espone i fatti, e non soltanto della patria, coll’efficacia di chi può dire — Io scrittore ho veduto, io sono stato». Pende a parte guelfa senza dissimularlo[235], ma schietto esprime gli schietti sentimenti, incalorendosi nel ragionare della sua patria, raccontando con evidenza affettuosa e talora pittoresca, e distendendosi nelle particolarità, senza dubitare riesca indifferente o nojoso ad altri quel che a lui fu d’interesse. Da mercante che era, si bada sulle cose positive che i contemporanei stranieri negligono; e mentre questi non ci danno che le personali loro impressioni, il Villani procede esatto e intelligente, esamina, paragona, giudica, e alla gravità degli antichi, che non di solo nome conosceva, accoppia la sperienza personale. Tanto positivo nol distoglie dal credere a miracoli e astrologie, debolezza che facilmente gli si perdona. Scarco d’apparato letterario, incondito di grammatica[236], nella legatura delle voci è naturale e analitico; nulla di soverchio, nulla di studiato riempitivo, di forzata trasposizione, di reggimento artifiziato, ma sempre una famigliarità semplice e gioconda. Vero modo, pel quale l’Italia avrebbe potuto elevarsi alla storia originale, se non avesse anche in ciò voluto crogiolarsi nell’imitazione. Morto dalla terribile peste del 1348, lo continuò il fratello Matteo, in undici libri abbracciando appena sedici anni: evidente ritrattista de’ costumi e degli avvenimenti, pratico del cuore umano e dei viluppi della politica, s’indispettisce al vizio, s’infervora alla libertà, la riverenza religiosa nol rattiene dal rivelare anzi esagerare i traviamenti dei papi, talchè si concilia confidenza e amore. La nuova peste del 1362 lo rapì, e Filippo suo figliuolo filò il racconto di lui sino al 65: uom di studj e chiamato a leggere Dante in cattedra, ha più adornezza e meno ingenuità del padre e dello zio, e nelle _Vite d’illustri fiorentini_ lascia desiderare quel colorito e quel particolareggiare, che formano l’anima delle biografie. Anche Marchione da Coppo Stefani, pensando «quant’è a grado agli uomini trovare cosa che riduca a memoria le cose antiche, e specialmente i principj delle città e schiatte, si pose in cuore di durar fatica e mettere tempo e sollecitudine in trovar libri ed ogni scrittura, per ricordare a chi n’avesse vaghezza» la storia patria. Fattosi dalla creazione, tirò il racconto dei Villani sino al 1385, narrando le discordie dei Ricci e degli Albizzi che Matteo avea dissimulate. Piero Minerbetti fece una coda troppo inferiore ai Villani che voleva imitare; nè hanno valore i Morelli. I _Commentarj_ di Neri di Gino Capponi fino alla pace di Lodi col vigore e l’evidenza attestano il limpido ingegno di quel destro politico e buon militare, a cui la repubblica affidava da stendere i dispacci più importanti. Giovan Cambi fino al 1480 copiò «da uno libro antico e da darvi buona fede» e riscontrandolo con altri: poi di là segue il suo _Memoriale_ «semplice e puramente senza adornezza di parole», come un mercante che nota dì per dì quel che vede e ode, da tutto traendo riflessioni morali sulla giustizia di Dio, sulla depravazione de’ costumi, sul nulla delle grandezze umane, e, come tutti i Fiorentini, rimpiangendo il buono stato repubblicano, che vedeva andare a rotta. Filippo di Cino Rinuccini dettò _Ricordi storici_ dal 1282 al 1460, donde fino al 1506 li continuarono i figli Alamanno e Neri. E fu abituale fra quegli Ateniesi d’Italia il tenere certi libri che chiamavano _Prioristi_ perchè vi notavano i priori di ciascun anno, e insieme gli avvenimenti principali del loro paese e de’ forestieri, domestica tradizione; carissimi sempre, perchè non lo scrittore, ma l’uomo vi appare; e confortanti quanto il conversare con un vecchio dabbene e ricordevole. Gli altri innumerevoli cronisti di Toscana si esprimono colla nitidezza e precisione dei popolani, non guasti dalla scuola e dalla pretensione[237]. Le _Storie pistolesi_, d’ispirazione soverchiamente municipale, danno rilievo alla larga prospettiva de’ Villani. Perugia nel 1366 ordinava si scrivesse «in un libro giallo tutti i fatti della città». Il boccheggiare di Pisa sotto i colpi di Firenze è disegnato da Palmerio; da Guarniero Berni la ruina d’Agobbio; da Manetto le inesauribili fazioni di Pistoja. Di Siena non ci restano storici nel tempo ch’essa teneasi in bilico con Firenze e Pisa; e solo Andrea Dei ne espose i fatti cominciando dal 1186, trasvolando ai tempi antichi e giungendo fino al 1348; di là prosegue Angelo Tura: dal 1352 all’81 servono gli _Annali_ di Neri di Donato. Degli storici di Lucca il più antico è Tolomeo Fiadoni, che narra alla fuggiasca le sorti anche di tutta Toscana dal 1063 al 1303, valendosi del _Registro_ e degli _Atti lucensi_ ora perduti. Succede Giovanni Sercambi, che sentenzioso e compassato tirò una cronaca dall’origine della repubblica fino alla tirannia di Paolo Guinigi, e un’altra sul costui principato, ma con molti errori sul tempo passato, e slealtà sul suo[238]. La storia di Lucca, conservatasi repubblica perchè soccombette la sua gran nemica Pisa, è piuttosto a raccogliersi ne’ suoi archivj, i più preziosi d’Italia dopo quelli di Roma. Nelle cronache l’autore nè scevera il falso dal vero, nè studia ad esposizione colta e ordinata, ma nota con inconsciente ingenuità quanto vede o sente, riferisce tritamente le vicende delle stagioni, il prezzo delle derrate, le dicerie di piazza; talora l’ingenuità arriva a tal punto che il cronista racconta la propria morte[239]: l’aneddoto la vince sulla storia, si va da frammento a frammento; notizie individue, frivole talvolta, sconnesse sempre. Pure, a tacer che talvolta l’unicità li fa rappresentanti d’un paese o d’un’età, cattivano gli animi come rivelazione dei tempi, e come schietta espressione de’ sentimenti popoleschi e delle passioni accentuate: al loro cessare si esaurisce una fonte di pruriginoso sapore. E cessar doveano, perchè essi vedono dappertutto l’immediato governo della Provvidenza, castighi e premj in ogni evento, predizioni ed augurj; mentre da poi estendendosi la coltura e complicandosi la politica, i fatti terminavano d’essere istintivi e impetuosi, preparavansi a disegno, si consideravano la concatenazione dei fatti, le remote origini e conseguenze, il che costituisce la storia, la quale è ricordo, avviamento, esame. Ma il sentimento vigoroso che si richiede per riprodurre i fatti, la critica per abburattarli, la ragione austera per giudicarli, l’estesa comprensione per coordinarli, mal si combinano nè coll’entusiasmo de’ cronisti, nè coll’erudizione di quei che vi sottentrano. I quali presero a compilare storie in latino, da contemporanei ancora, ma già mirando all’effetto, e spesso guasti da reminiscenze classiche, per le quali rimangono talora svisati i fatti, più spesso i sentimenti. Il letterato sottentra dunque all’uomo, la penna al battito del cuore, aspettando che arrivi la vergognosa êra delle gazzette: han luoghi comuni e frasi stereotipe, per cui ogni mediocre riesce a raccontare _bene_, ma a raccontar nulla, con chiacchericcio insulso, colla polemica, colla inintelligenza (anche i più arguti) del gran fatto che arresta il sublime lancio italiano, perchè tutto vedono traverso al prisma romano. Poggio Bracciolini di Firenze cerca soltanto le vicende guerresche, non dandosi per inteso de’ cambiamenti civili, nè facendoci conversare coi grandi contemporanei, ma riconosce il posto che compete alla bella città, che rigenerata dal magnifico Lorenzo, non vacilla dietro a partiti interni, ma osserva la generale politica, e cerca soluzioni generali alle particolari evenienze. Anche Bartolomeo della Scala tessè una storia di quella città fino alla calata di Carlo VIII. Leonardo Bruno d’Arezzo, stando a Roma segretario apostolico, vide e tratteggiò i miseri subugli di questa metropoli; eletto cancelliere di Firenze, ne distese la storia fino al 1404: scrittore accurato della frase e del periodo, richiesto da principi, visitato da forestieri, lasciò pure versioni dal greco, e vite e lettere, da cui noi razzoleremo la storia letteraria del suo tempo. Con maggior arte è stilato l’episodio della congiura de’ Pazzi, con cui Agnolo Poliziano ripagava i Medici della concedutagli protezione. Giovanni Cavalcanti narrò le cose toscane dal 1420 al 52, guelfo di persuasione, idolatro di Cosmo de’ Medici; il Machiavelli se ne prevalse senza indicarlo. Pedante benchè toscano, non possiede nè l’ingenuità del Trecento, nè la meditata purezza del Cinquecento; guasta la cara favella materna con crudi latinismi, manierati aggettivi, frasi attorcigliate, concioni retoriche; e di mezzo a ciò modi plebei più rilevati dal tono cattedratico. Dirà _latino_ per italiano, _queriti_ i cittadini; e descrivendo gli orrori della presa di Brescia, si trastulla sulle parole. Vespasiano de’ Bisticci, erudito librajo, lasciò vite di suoi contemporanei, neglette per lo stile, buone per le cose, talvolta care per naturalezza, sempre di virtuosi sentimenti. Oltre il _Libro dei detti e fatti di re Alfonso_ per Antonio Bocadelli detto il Panormita, di quel re ci diede la storia Bartolomeo Fazio della Spezia, più sollecito della elegante latinità che di cercare il vero, benchè fosse testimonio dei fatti. Lucio Marineo siculo, per incarico di Fernando il Cattolico, scrisse in latino le imprese di questo e di suo padre adulando. Pandolfo Colenuccio da Pesaro compendiò la storia napoletana fino a’ suoi giorni: Pier Paolo Vergerio dettò quella dei Carraresi con eleganza; Daniele Chinazzo da Treviso in italiano la guerra di Venezia con Genova: il Plátina la storia di Mantova e dei papi, fondandosi sopra documenti; e se la passione troppo spesso il traviò, ben era raro al suo tempo questo dubitare delle asserzioni antiche. Giorgio Stella racconta la Genova dei dogi, desiderando che, pel bene dell’umanità, i nomi de’ Guelfi e Ghibellini fosser dispersi dalle memorie: quasi non fossero il necessario nodo della storia d’allora. La prima cattedra di storia che si ricordi, fu eretta a Milano per Giulio Emilio Ferrario novarese; poi Andrea Biglia agostiniano raccontò fedele e non inelegante i fasti di quella città dal 1402 al 31. Pier Candido Decembrio, vissuto alla corte di Filippo Maria Visconti, poi caldo della Repubblica ambrosiana, al cadere di questa passò a Roma e altrove in servizio di segretario; ripatriato, scrisse le vite di esso Filippo Maria, dello Sforza, di Nicolò Piccinino, e una cronaca de’ Visconti, piena d’ingenue particolarità al modo di Svetonio, ma senza la costui purezza. Giovanni, fratello del famoso segretario Cicco Simonetta, celebrò Francesco Sforza, al quale era stato sempre a fianco, adulando ma non smaccato, sempre chiaro, spesso elegante, ma senza la vivacità che impreziosisce i contemporanei. Tristano Calco seguì la storia dei Visconti di Giorgio Merula; poi vistola fracida di favole dello scrigno di Annio da Viterbo, la rimpastò traendola sino al 1323, con critica delle fonti e buono stile. Contemporaneo suo Bernardino Corio, cameriere di Lodovico il Moro, compiva la più divulgata storia milanese, in un vulgare barcollante; parabolano nelle cose vecchie, particolareggiato e ricco nelle contemporanee, sebbene poco intelligente, e copiando, quasi traducendo il Simonetta. Questi autori ci conducono fin valico il medioevo, e fin a quelli che meritano il titolo di storici. A chiarire e interpretare essi autori, massime pei secoli più muti di luce, a supplirne le mancanze, ad accertarne i tempi, soccorrono le lapidi e le monete, come per la storia antica; ma vi si aggiunge una dovizia di documenti. Sono la più parte scritture pagensi, cioè d’affari privati: per entro le quali lo statista aguzza l’occhio a scovare le traccie del popolo e il carattere delle società nella natura de’ possessi e de’ contratti; il cronologo se n’ajuta a disporre i successi per anni, primo passo a connetterli e intenderli; la storia ne ricava le tinte onde incarnare gli aridi contorni de’ cronisti. Di che scabrezza sia un tale lavoro, non può valutarlo se non chi v’abbia steso le mani; onde si trova più facile, e perciò è più consueto il deriderlo come erudita pedanteria. E di beffardi, sturbatori della scienza e martirio degli operosi, non fu penuria in verun tempo; ma neppure di rassegnati, che rinvergarono con pazienza, interpellarono con sincerità questi testimonj del passato, pur ignorando che cosa deporrebbero. Già nel Cinquecento (secolo che per farnetico dell’antichità classica recavasi a schifo come barbarie e ignoranza tutto ciò che avesse attacco al medioevo) v’ebbe cronisti e storici che nei loro racconti intarsiarono documenti. Su questi elaborò la sua _Storia del regno italico_ dal 281 al 1200 Carlo Sigonio, il primo che penetrasse in quell’inesplorata boscaglia. Sfiorò esso gli archivj tutti d’Italia e singolarmente della Lombardia, per sè o per mezzo d’amici esaminò i _Monumenti_; e il catalogo di questi, pubblicato il 1576, desta meraviglia, per quanto le cresciute cognizioni l’abbiano convinto di molti errori e di ben più mancanze[240]. Dei documenti si valsero il Sabellico e il Giustiniani per la storia di Venezia, il Borghini ne’ _Discorsi storici sopra Firenze_, il Corio ora detto, il San Giorgio di Biandrate nella cronaca del Monferrato sino al 1490, Gioffredo della Chiesa in quella di Saluzzo fin al 1419, primo che de’ paesi subalpini scrivesse in italiano; Benedetto Giovio nella _Storia di Como_; e più tardi il Tatti negli Annali ecclesiastici della stessa città, quando anche il Campi nella storia di Cremona, il Martorelli in quella di Osimo, il Pellini in quella di Perugia[241], l’Ughelli nell’_Italia sacra_, il Cinonio nelle _Vite dei pontefici_, il Puccinelli nell’_Ugo il Grande_, il Gallarati nei _Monumenti novaresi_, il Guichenon nella _Casa di Savoja_, il Compagnoni nella _Reggia picena_. Uno de’ migliori il Ghirardacci nella _Storia di Bologna_ (di cui non s’ha alla stampa che fino al 1425) mancò dell’arte di disporre, e narrò quasi sempre incolto; ma offre tal suppellettile di notizie e documenti, che pur beati se tutte le città ne apprestassero tanti. Conosciutane l’utilità, si fecero raccolte sia de’ cronisti, sia de’ documenti, e prima da forestieri, giacchè ci vennero da Francoforte gli _Scriptores Rerum Sicularum_ e i _Rerum Italicarum Scriptores varii_; da Parigi Ugo Falcando, e le _Cronache Cassinensi_ di Leone d’Ostia e di Pietro Diacono; da Rouen Guglielmo Apulo; da Spagna la _Cronaca di Gaufrido Malaterra_; da Augusta il _Ligurino_ del Guntero sulle imprese del Barbarossa; da Lione il _Codice Longobardo_, e gli _Annali Toscani_ di Tolomeo Fiadoni; da Magonza _Anastasio Bibliotecario_. Gilberto Cognato nella _Sylva variarum narrationum_ ci dava l’_Origine de’ Guelfi e Ghibellini_ di Benvenuto da San Giorgio; il Menkenio nelle _Cose germaniche_ stampava la cronaca di prete Andrea da Bergamo; Eckardt nel _Corpus historicum medii ævi_ quella del Jamsilla dal 1210 al 1258; Bongarsio ad Annover il _Liber secretorum fidelium crucis_ di Marin Sanuto; i Bollandisti molti atti dei nostri santi; altre novità la _Bibliotheca Patrum_, e il Baluzio nelle _Vite dei papi avignonesi_ e nella _Miscellanea di vecchi monumenti_; e Rymer negli _Atti_ editi a cura del Governo inglese; e Grevio e Burmann nel _Tesoro delle antichità d’Italia_ a Leida. Altre apparvero ne’ _Glossarj_ del Ducange, del Carpentier, dell’Adelung, nelle _Centurie_ di Magdeburgo, nella _Biblioteca_ del Fabrizio, nelle _Raccolte diplomatiche_ di Dumont, Martène, Durand, nel _Tesoro novissimo_ di Pertz, negli _Scrittori di cose brunsvicesi_ del Leibniz, nel _Diarium italicum_ del Montfaucon, nelle _Raccolte_ del Goldast, del Mabillon, del Wadding, del Tillemont, e principalmente nel _Codice diplomatico d’Italia_ del Lünig. Fra noi erano già comparse le raccolte del _Bullario Romano_ per ordine di Sisto V[242], il _Bullario Cassinese_ del Margarini, e il _Tesoro Politico_ contenente relazioni d’ambasciadori veneti; poi nel secolo passato crebbe tale sollecitudine. Una Società Palatina di nobili milanesi stampava opere di patria erudizione, e principalmente i _Rerum Italicarum Scriptores_ del Muratori, disposti con ordine e con savie note e prefazioni[243]. Vi servono di complemento gli _Italicæ Historiæ Scriptores_ dell’Assemani, i _Rerum Italicarum Scriptores ex florentinæ bibliothecæ codicibus_ del Tartini, la _Collectio anecdotorum medii ævi ex archivis pistorensibus_ del Zaccaria, la rarissima del Mittarelli _Ad Scriptores Rerum Italicarum accessiones historiæ faventinæ_, la raccolta delle più rinomate storie e delle cronache di Napoli. Alla cognizione del medioevo recavano sussidj nuovi Giorgio Giulini con dodici volumi di _Memorie spettanti al Governo e alla descrizione della città e campagna di Milano ne’ secoli bassi_, paziente alle ricerche se inetto alle induzioni; l’abate Fumagalli e i suoi Cistercesi colle _Antichità Longobardiche Milanesi_, col _Codice Diplomatico Santambrosiano_, ricco di ben centrentacinque documenti dal 721 all’897, e colle _Istituzioni Diplomatiche_. L’Argelati, scarso di critica e discernimento, ragionava delle monete italiche, e catalogava gli scrittori milanesi; l’Allegranza, il Sassi, l’Oltrocchi, il Bona illustravano i riti e le antichità ecclesiastiche: Gian Rinaldo Carli, oltre le _Antichità Italiche_, discorreva delle monete e zecche d’Italia, disaminate pure da Vincenzo Bellini e da Guid’Antonio Zanetti[244]. Il canonico Lupo, raccolse nel _Codice Diplomatico Bergomense_ preziosi documenti dal 740 al 1190, nel prodromo molti punti della nostra costituzione politica ravvisava con un acume che verun contemporaneo uguagliò. Centinaja di diplomi erano dati dal Corner nei diciotto volumi de’ _Monumenti della Chiesa veneta_, dal Rossi in quelli della Chiesa d’Aquileja, dal Brunacci e dal Gennari in quelli di Padova, dal Vairani in quelli di Cremona, dal Moriondi in quelli d’Acqui, da Jacopo Durandi nelle _Notizie dell’antico Piemonte_, delle cui leggi e della pratica legale trattavano il Galli e il Duboin; dal Fiorentini e dal Mansi nelle _Memorie della gran contessa Matilde_, dal Pellegrini nella _Storia dei principi longobardi_, dal Carlini nella _Pace di Costanza_, da Placido Troilo nella _Istoria generale del regno di Napoli_, da Giovanni de Vita nel _Thesaurus Antiquitatum Beneventanarum medii ævi_. Il gesuita Zaccaria, negli _Excursus Litterarii per Italiam ab anno_ 1742 _ad_ 1752, molti monumenti produsse di civile ed ecclesiastica erudizione. Giambattista Verci si mostrò infaticabile a cercar documenti, generosissimo a pubblicarli, buon cristiano a esaminarli, e arguto a trarne cognizioni nuove o emenda di vecchie nel _Codice Ecceliniano_ e nella _Storia della Marca Trivigiana_ in venti volumi, di ciascun de’ quali due terzi sono documenti. Intanto dal maronita Assemani era data fuori a Roma la _Bibliotheca Orientalis Clementina Vaticana_; dal Cenni il _Codex Carolinus_, che chiarì la donazione di Carlo Magno ai papi; dal Mansi la collezione più compiuta de’ concilj, oltre migliorare le opere del Baronio e del Pagi. Marco Fantuzzi ne’ _Monumenti Ravennati_ stampava ottocensessantacinque fra documenti ed estratti, dal VII secolo ove finisce la preziosa raccolta dei papiri del Marini, fino al XVI. Scipione Maffei nella _Storia Diplomatica_ chiariva e combatteva il Mabillon, e nella _Verona Illustrata_ mostravasi modello non solo dell’attento raccogliere, ma del savio argomentare. Di monsignor Giusto Fontanini, il quale, più ricco di vanità che d’ingegno, erudizione e buona fede, pedantescamente miope e sofistico senz’acume, trattò molti punti, massime ecclesiastici, e diè la storia dell’Eloquenza italiana, i moltissimi errori e le infinite omissioni riparò Apostolo Zeno, dal quale son pure a domandare i giudizj intorno agli _storici italiani che hanno scritto latinamente_. Aggiungiamo le _Delizie degli eruditi toscani_, pedantesca compilazione del padre Idelfonso, del Mansi, del Lami, senza scelta nè confronto di codici, nè fedeltà di lezione, sicchè non si può valersene a fidanza. Dal Lami furono aggiunti i monumenti della Chiesa di Firenze; i duchi e marchesi di Toscana dal Della Rena e dal Camici; i _Sigilli Antichi_ dal Manni; i _Scelti diplomi pisani_ e le dissertazioni sulla storia di Pisa dai Dal Borgo, su quella Chiesa dal Mattei, su quegli statuti dal Valsecchi; gli _Aneddoti pistojesi_ dal Zaccaria: oltre i documenti, comunque disordinati e per tutt’altro intento, che accumularono esso Lami nell’_Odeporico_, e il Targioni Tozzetti ne’ _Viaggi_, opportunamente adoprati e cresciuti dal Repetti nel _Dizionario geografico_. Molte storie municipali furono appoggiate ai documenti. Tale la comasca di Giuseppe Rovelli, che ne’ discorsi preliminari poneva savie riflessioni sullo stato d’Italia alle varie epoche, supplendo col buon senso e colla dottrina legale alla scarsezza d’erudizione. Pel Friuli avemmo le notizie del Liruti, e la dissertazione sui servi del medio evo, oltre la _Patria del Friuli descritta_ da Franco Berretta; per la Valtellina le dissertazioni del Quadrio sulla _Rezia di qua dall’Alpi_, guaste da un falso amor di patria; per la marca Trevisana monsignor dell’Orologio; per Ferrara il Frizzi; per Reggio la storia fin al 1264 dall’Affaroso, per Parma e Guastalla dall’Affò, per Brescia dal Biemmi, per Monza dal Frisi, per Rimini da Battaglini e Zanetti, per l’Agro Piceno dal Colucci, per Bologna dal Savioli, per Pistoja dal Fioravanti, per la Garfagnana dal Pacchi, per Mantova dal Visi, per Perugia dal Mariotti. Le chiese veronesi ricevevano illustrazione dal Biancolini, il diritto e le costituzioni di Milano da Gabriele Verri[245], e la sua Chiesa dal Puricelli, dall’Allegranza, dal Sassi[246], dall’Oltrocchi[247]: i senatori di Roma da Vitale e Vendettini, da Galletti il primicerio, le sue arti dal Minutoli, dal Coronelli, dal Ficoroni, dal Bosio, dall’Aringhi. Il Tiraboschi, oltre il Codice diplomatico di Modena, porgeva la storia della badia di Nonantola, e i monumenti degli Umiliati; quelli de’ Cistercensi il Tromby, de’ Camaldolesi il Costadoni e il Mittarelli, de’ frati Gaudenti il Federici, poi de’ Domenicani il Razzi ed ora il Marchese. Le genealogie d’alcune case porsero occasione a rivendicare in luce nuovi rogiti e diplomi, come la famiglia Carafa e diverse altre nobili per Biagio Aldimari, la Sforza e i duchi d’Urbino per Rinaldo Reposati, i conti Guido pel padre Idelfonso[248] e per Scipione Ammirato, la famiglia Conti per Andrea Salici, de’ Monaldeschi pel Ceccarelli, le bolognesi pel Leandro Alberti, le vicentine pel Castellini e, a tacer altri, le estensi pel Muratori, modello di ampia erudizione e di savia se non disinteressata critica[249]. Aggiungi molte biografie, come l’_Ambrogio camaldolese_ del Mehus, il _Marsilio Ficino_ del Brandini, il Trivulzio e il _Filelfo_ del Rosmini, la _contessa Matilde_ del Fiorentini. Nelle contese di supremazia della curia romana coll’Impero e con altri Stati bisognò appoggiarsi a carte[250], e principalmente nella famosa disputa della chinea, tributata a Roma nel regno delle Due Sicilie. Al qual paese fu apprestata larghissima messe nella _Biblioteca Napoletana_ del Toppi colle _Copiose addizioni_ del Nicodemo, nel _Delectus scriptorum rerum neapolitanarum_ del Giordani, nel _Corpus scriptorum_ e dei cronisti e scrittori sincroni della dominazione normanna (1845) di Del Re, nella _Bibliotheca Sicula_ e nelle _Bullæ et instrumenta panormitanæ ecclesiæ_ del Mongitore, negli atti di Federico II del Carcani, _Codex diplomaticus_ del De Giovanni, nella _Biblioteca_ degli scrittori siculi sotto gli Aragonesi di Rosario De Gregorio, da cui pure la _Collezione delle cose arabe spettanti alla storia siciliana_, ove la famosa _Chronica saracenica sicula_ avuta d’Inghilterra dal Gobbart; dalle quali raccolte esso De Gregorio trasse eccellenti _considerazioni_. Si aggiungano il _Codice Diplomatico arabo-siculo_ dell’Airoldi; le _Memorie_ e la _Biblioteca_ storica del Caruso con monumenti dal VII secolo fino al 1282; la incompiuta della badia di Montecassino del Gattola; la storia ecclesiastica di Nola del Remondini, di Monreale del Grassi, che diè pure i monumenti per la Sicilia; la storia de’ principi longobardi del canonico Pratillo; quella delle leggi e magistrati del Regno del Grimaldi; la _Sicilia sacra_ del Pirro. Sul commercio e le finanze portarono lume il Filiasi, il Marini, il Fanucci, il Marsigli, il Pagnini[251]. Il Mansi trattava degli spettacoli e del lusso: Pier Luigi Galetti pubblicava iscrizioni, disposte secondo i paesi, cioè Venezia, Bologna, Roma, marca d’Ancona, Piemonte. Nelle _Barbarorum leges antiquæ_ il Canciani per ordine e critica rimase troppo inferiore alle raccolte fattesi dappoi. Contende egli che il diritto romano persistette nel medio evo[252]; tesi già sostenuta da Donato Antonio d’Asti napoletano[253], e che pure come nuova di zecca hanno ammirata i nostri quando ce la presentò il tedesco Savigny, allora appunto che più severi eruditi mostravano con quante riserve la si dovesse accettare. In gran conto erano allora tenute le immunità, fossero le ecclesiastiche, o de’ Comuni, o de’ corpi civici, salvaguardie potenti d’una libertà, che i principi ammodernatori conculcarono, e gli statisti ammodernatori tentano invano supplire: laonde si raccoglieva solertemente che che vi si connettesse, dibattevasi a lungo se sul tal possedimento avesse l’alto imperio un re o un abate o il papa, se il tal parlamento o senato potesse negar l’imposta o interinare un decreto; quistioni antiquate dacchè il libero nostro secolo derise le franchigie particolari, e affastellate le offerse in olocausto ad un potere unico, centrale, non rattenuto dalle tradizionali consuetudini, ma al più da qualche carta improvvisata o ricalcata e senza garanzia di stabilità. Ma non basta adunare ricca suppellettile di notizie, perocchè, come ogni altra scienza, la storia non è una raccolta ma un’interpretazione di fatti; sicchè alla ricerca deve farsi seguire la discussione, saper interrogarli con quell’acume che trasforma in verità ciò che altri riferisce senza pure intenderlo, distribuirli con accorgimento, esporre con candidezza, darvi significato, carattere, alito di vita. In questo campo non mietè abbastanza l’Italia. Chi potrebbe oggi più leggere nell’Aretino la guerra Gotica, nel Fino e in Tommaso d’Aquileja la guerra d’Attila, quella di Federico Barbarossa in Cosimo Bartoli, la vita di Carlo Magno nell’Acciajuoli o nell’Ubaldini, il regno d’Italia sotto i Barbari nel Tesauro o in Ericio Puteano, le storie longobarde nel Rota, la italiana in Girolamo Briano o in frà Umberto Locato[254] e in altrettali, meri esercizj di penna o inette compilazioni? L’elegantissimo descrittore Carlo Botta nel ricco suo frasario non trovava epiteti abbastanza ingiuriosi pel medioevo; egli declamatore perenne, e compilatore di libri già pubblicati, nè paziente a cercar la verità, nè severo ad esporla. Seco s’aduna la caterva de’ servili alla moderna accentrazione, e de’ ligi alla scuola enciclopedista, che tutti futile dispregio o cieca idolatria, non descrissero il medioevo se non per astrazioni e luoghi comuni, cioè tenebre condensate, universale ignoranza, regresso d’ogni civiltà, conculcamento d’ogni dignità umana, trapotenza di preti, ghiotta infingardaggine di frati, concatenata usurpazione di pontefici, eccidj fraterni, repubblichette. L’età il cui grido era _Dio lo vuole_, poteva essere intesa da quella che ripeteva solo _Il re lo vuole_? E noi ribattiamo questo chiodo perchè crediamo che la peggiore qualità d’un tempo o d’un uomo sia la debolezza, e tanto più quando si vanti di forza. In altra sfera vanno collocati il Machiavello e il Vico, precursori di quella che poi dagli stranieri comprammo col nome di filosofia della storia. Il primo, nel quadro del medioevo che antepose alle sue _Storie fiorentine_, sotto la minutezza dei fatti investiga le idee generali: ma quel caos inaspa il suo sguardo, la ancora scarsa erudizione non bastava ad avviarlo, e di raccorre tutti i frutti gl’impediva la preoccupazione politica, la quale era tanta, che di lettere e d’arti non fa quasi cenno, egli vissuto nella città più colta de’ mezzi tempi. Affatto pagano poi di sentire, la società civile non misura che sul modello antico, separata dalla giustizia e svolgentesi nella libertà; e sempre iroso a que’ pontefici, che pur erano a capo dell’incivilimento[255]. Giambattista Vico considerò il genere umano come un uomo solo che procede sotto la mano di Dio, ma rinchiuso entro un circolo fatale, dove avanzato che sia, dee retrocedere per corsi e ricorsi inevitabili. Il medioevo non parvegli dunque che una ristampa dell’evo eroico: che se ciò lo rimoveva dal vilipendere questa evoluzione provvidenziale dell’umanità, gli toglieva di valutare il compimento e l’attuazione del cristianesimo in esso avvenuti, e che devono impedire per sempre il ritorno della barbarie. Solo un’indagine improba eppure amorevole, una meditazione estesa eppur profonda, una critica severa eppure non dispettosa potevano condurre a intendere tempi, in cui dell’antica società tanti sfasciumi ancor sussistevano, mentre la nuova non era per anco costruita; tempi coordinati in maniera, che la storia loro era storia della Chiesa, e di questa formava parte primaria la storia d’Italia, in grazia dei papi. Perciò torrenti di luce vi addusse il cardinale Baronio, che nello stendere gli _Annali della Chiesa_ profittò dell’archivio più ricco, qual è il vaticano, pubblicando un profluvio di documenti, e principalmente di lettere, fonte opportunissima[256], vagliandoli con dottrina multiforme, e traendone la verità con metodo, chiarezza, precisione, e con una lealtà, nè tampoco contrastatagli dagli avversarj più risoluti[257]. Fra tanta farragine, era impossibile non inciampasse in falso, e ne lo corressero il Pagi e il Mansi, per nominar solo i nostri. Dal 1198 fino al 1565, tempi di più copiosi materiali, lo continuò Oderico Rainaldi critico non altrettanto assennato: ma questi due rimarranno sempre il repertorio più dovizioso e la storia più pregevole de’ mezzi tempi[258]. Lodovico Muratori, immenso dotto che non lasciò intentata veruna parte del campo dell’erudizione, e per giudicare del quale bisognerebbe sapere quanto egli seppe, in sei grossi volumi latini pubblicò le _Antichità Italiche del medioevo_, sotto distinti titoli riunendo quel che dalla sua raccolta degli Scrittori di cose italiane gli risultava intorno al regno d’Italia, ai consoli, alle monete, al vestire, a mangiari, giuochi, riti, investiture, feudi, sigilli, arimanni, repubbliche, tiranni, lingua, guerra, e così via. Siffatta segregazione di parti distrae da quell’unità di veduta, dalla quale soltanto deriva un giusto concetto del medio evo. Pure egli seppe ricorrere a fonti variatissime che ad altro occhio sfuggirebbero, e ne dedusse varietà e punti d’aspetto, che se oggi compajono o scarsi o comuni, erano maravigliosi per allora; un’infinità di quistioni snodò, altre ne propose chiaramente, il che è già un avviamento a risolverle; molte baje rimosse, molte dubbiezze ripianò, molte verità pose in sodo; col buon senso supplì più volte a ciò che non dava l’erudizione, sicchè di rado riesce fallace se anche spesso è riconosciuto incompleto. Peccato ch’egli siasi dispensato dall’esaminare e paragonare le istituzioni germaniche, delle quali tanto ritraevano le italiche! Poi, con una celerità che somiglia a portento, compilò gli _Annali d’Italia_, ove per anni dispose gli avvenimenti della nostra patria dall’êra volgare fino all’età sua. Le date controverse si trovano in lui discusse, e il più spesso noi lo seguiamo: ove non colse, scegliemmo quella che ci risultò migliore da indagini, delle quali risparmiamo la noja al lettore. La forma prescelta il costringeva a separare i fatti dalle cause loro e dalle conseguenze, e quindi gli toglieva ogni spaziosa prospettiva; espose poi con una vulgarità che disabbellisce fino il vero[259]: pure gli durerà perenne il titolo di padre della storia italiana, e da lui è forza pigliar le mosse non solo per trattare dell’Italia, ma dell’età media in generale. Per gli Estensi, al cui soldo viveva, più volte egli ebbe a combattere le pretensioni della Corte romana; e, debolezza della nostra natura, l’uomo nelle quistioni suole incalorirsi in modo da perdere il senso del vero, se anche sulle prima l’avea. Il Muratori serbò sempre rispetto verso i papi; non ne dissimula le taccie, ma non le esagera, critico sì ma riverente. Udito che a Roma i falsi zelanti, che sogliono peggiorar le cause anche migliori, armeggiavano per far proibire l’opera di lui, ne scrisse al pontefice; e Benedetto XIV gli rispose, aver bensì trovato nelle opere di lui qualche passo riprensibile intorno alla dominazione temporale, non essere però mai venuto nell’intenzione di sottoporle a censure, persuaso che un uom d’onore non devasi conturbare per materie non concernenti il dogma nè la disciplina. Tutt’al contrario, Pietro Giannone, nella _Storia civile del regno di Napoli_, a modo di avvocato affastellò quanto venisse opportuno alla sua tesi, copiando a man salva altri autori, senza accennarli nè curare tampoco di unificarli, purchè garrissero le usurpazioni della Corte romana, tanto ardita da voler vincolare la onnipotenza dei re siciliani, contro della quale più tardi non restarono che le diátribe e le insurrezioni: confondendo tempi e costumanze, restringendo la vista al suo territorio, invece di paragonare cogli altri paesi, dà aria di prepotenza e d’intrigo a ciò ch’era piana conseguenza di dogmi generalmente accettati. Il _Risorgimento d’Italia_ di Saverio Bettinelli per un certo calore, che, se non porge, lascia intravvedere la verità, si discerne tra le futili produzioni del secolo passato. Le _Rivoluzioni d’Italia_ di Carlo Denina, di sufficiente imparzialità e di viste non profonde ma estese, possono ancora raccomandarsi come libro elementare. Il difendere le istituzioni ecclesiastiche come egli fece, trovasi comune a tutti gli storici leali[260]; eppure la lealtà era merito raro, quando la storia si facea facilmente mediante le sentenze, la dissertazione e la declamazione, e veniva riducendosi in una gran congiura contro la verità. Della quale era campione Voltaire, che anche troppo si occupò delle cose italiche, principalmente nel _Saggio_; e pedissequo di lui con maggiori studj l’inglese Gibbon, la cui _Storia della decadenza e caduta dell’impero romano_ abbraccia tutto il medioevo italiano. Di amplissima erudizione, ma freddo schernitore, non conosce entusiasmo, non crede ad eroismo o a sagrifizj, sieno a vantaggio della Chiesa, della patria o della scienza; travolge le intenzioni dove non osa i fatti, e con una celia o con qualche lubricità sverta le fame più intemerate. Idoli entrambi dell’età passata, si trovò chi ardì affrontare gli scherni e i soprannomi per combattere i loro pregiudizj, e strappare il manto porporino che ne copriva l’inumano egoismo. Meglio di qualunque nostro i materiali adunati compaginò un ginevrino, che gloriavasi d’origine italiana, e che fra noi lungamente dimorò, e le cose nostre affezionò sempre, Sismondo de’ Sismondi. Quell’esposizione sua famigliare; l’attenzione allargata ai fatti contemporanei di tutta Europa; l’evitare i trabalzi, cercando la connessione degli avvenimenti parziali col punto di azione comune d’un dato tempo; la felice scelta di quelle particolarità, le quali presentano l’allettativo d’una storia municipale, mentre egli sa intarsiare ciascuna colle vicine, e indicarne le cause e lo spirito; la costanza nelle vedute che al suo tempo pareano liberali, e che prima di morire egli si udì rinfacciare come aristocratiche; un invariabile rispetto per la dignità dell’uomo, un interesse continuo per la classe più numerosa, una predilezione decisa per la forma di governo che nel medioevo prevaleva in Italia, senza quella cieca deferenza pei re che da un secolo era l’alito degli storici, fanno che non v’abbia colta persona che non voglia averlo letto, e a lui attinge le cognizioni e i sentimenti la gioventù. Ma prima di tutto egli difetta d’ordine. — L’Italia ne’ tempi di mezzo offre tale un labirinto di Stati uguali e indipendenti, che a ragione si teme smarrirvi il filo. Noi non ci dissimuliamo quest’essenziale difetto dell’argomento assuntoci; ma quand’anche i nostri sforzi fallissero, il lettore vorrà saperci grado di quel che femmo per raggiungere l’intento». Queste parole della sua prefazione adduciamo più a nostra scusa che a sua incriminazione, troppo noi sapendo quanto lo sminuzzamento dell’Italia tolga che o la rarità de’ fatti renda spedito il racconto, o la loro importanza gli rechi interesse: ma in quel labirinto egli non cercò orientarsi col filo delle idee; ravvicina e aggruppa gli eventi e li drammatizza, ma nulla più; e alla giusta intelligenza di secoli eminentemente cattolici gli metteva ostacolo non tanto l’arida negazione calvinica, quanto la filosofistica disistima per le istituzioni vitali di quel tempo. In conseguenza muove da convenzionali assiomi per giudicare le specialità d’un tempo; nelle controversie tra i principi e i preti parteggia sempre coi primi, egli che pur sentenzia sempre pei popoli contro i principi; trova ridicole quelle quistioni, sotto la cui forma si producevano i capitali problemi economici e governativi; non vede che una trica da sacristia in quella guerra de’ preti a Milano, che diede occasione all’emancipazione comunale; pretenderebbe che Gregorio VII, Innocenzo III, Tommaso d’Aquino, non solo avessero le idee, ma usassero il linguaggio di De l’Olme o di Rousseau. D’altra parte egli, intitolando _Storia delle repubbliche_ la sua, saltò di piè pari la fasi più problematica del nostro medioevo, vale a dire l’invasione dei Barbari, lo stato di conquista, la feudalità. Soltanto dallo studio di questi può raccogliersi la trasformazione del mondo romano nel nuovo; laonde egli il cardinale problema della formazione de’ Comuni non isnoda, ma recide, facendone una concessione, da re Ottone prodigata onde umiliare i contumaci vassalli; di maniera che ad un re straniero dovrebbe attribuirsi il merito d’un ordine di cose, al cui svolgimento i re stranieri furono sempre l’ostacolo maggiore. Poi in Italia fino al Mille s’era chiamato _regno_ la metà superiore; dappoi questo nome passò a indicare il paese meridionale; estese porzioni della penisola durarono costantemente a dominio di dinasti: ond’egli, prefiggendosi di descrivere le repubbliche, avrebbe dovuto decomporre la storia nostra, se fortunatamente non avesse rotto le barriere che improvvidamente si era poste, e non si fosse affezionato agli ultimi Svevi e avversato agli Angioini, quanto già per amore dei Milanesi e de’ Veneziani riprovava il Barbarossa e Massimiliano[261]. Parte vitale nella storia d’Italia sono le arti e le lettere. Saverio Quadrio e Mario Crescimbeni aveano già diretto pazienti ricerche sulla letteratura, ma soffogando fatti vitali sotto insignificanti particolarità: e di ciò ha peccato pure Girolamo Tiraboschi. Con solerzia disseppellì nomi, accertò date e titoli di libri in modo da ben poco lasciar da correggere e supplire; ma nulla più; non seppe esaminare l’intento degli autori, non assimilarsi ai tempi, non connettere l’andamento letterario colle grandi quistioni, sotto la cui varietà ad ogni suo passo l’umanità riproduce i problemi sociali; non presentare insomma la letteratura come espressione della civiltà. Invece di giudizj proprj, appoggia o riprova gli altrui, limitandosi a metterli a fronte, e pretendendo conciliarli anche dove è men possibile; pronto sempre a ridirsi quando altri, fosse pure il ciclico Andres, gli oppongano argomenti o anche soltanto asserzioni[262]. Del resto, non grazia di linguaggio, non scelta d’immagini, non cura di rendersi piacevole, non costante elevazione del pensiero; nè si accorse quanti fatti letterarj sfuggano inavvertiti, a segno che per iscriverne la storia bisogna, collo studiare l’immaginazione e la natural legge de’ suoi sviluppi, compiere i documenti che ci pervennero mutilati, e domandarne alla scienza dello spirito umano. Alle dispute cronologiche sostituite l’analisi de’ libri, siano pur inconcludenti da non meritarla, o così capitali da non bastarvi; moltiplicate que’ ravvicinamenti di altre letterature, di cui difetta il nostro; animate la vita degli autori cogli aneddoti, pei quali si dimentichi la fisionomia generale del tempo; il tutto spolverate coi frizzi irreligiosi e cogli epigrammi disumani della bottega di Voltaire, e avrete travestito il gesuita Tiraboschi nell’enciclopedistico Ginguené. La sciagurata inclinazione a raccogliere e tracannare tutto ciò che ne piove di Francia, od è pensato e scritto alla francese, fece raccomandato alla gioventù anche questo libro; per modo che la storia del paese che è centro del cattolicismo s’impara sopra un autore calvinista ed uno incredulo. Ma come osare di muoverne lamento se non sappiamo apprestar nulla di più piacevole a chi legge, di più ragionevole a chi pensa? Uno straniero venne in Italia, come usano gli oltramontani, per farvi una passeggiata, lodarne il sole e le donne, dare un’occhiata, e oracolare sentenze, tutte sapienza di sensi: ma albergatosi a Roma, prese vaghezza delle arti, e cominciò a studiarle; e sempre colla valigia disposta al ripartire, vi rimase trent’anni. Dei suoi studj fu frutto la _Storia delle arti_, dove esso D’Agincourt, sebbene non guarito dallo sprezzo filosofico, raccolse o indicò tanti lavori del medioevo, che neppure dall’aspetto del bello fu più lecito chiamarlo barbaro. Viemeno poi dacchè l’attenzione si diresse sulla maestà delle cattedrali, e smettendo d’idolatrare le sole forme, si riconobbe la ispirazione sublime nell’esecuzione, per quanto scorretta, delle miniature, dei sepolcri, delle vetriate. Sicuramente a migliorarci contribuirono non poco gli stranieri, sia pel modo nuovo con cui osservarono la storia del proprio paese, sia per quel che dissero intorno al nostro, scarchi d’ire e d’amore per vicende che non li concernono, e di quella boria che noi scambiamo per amor di patria, e che si fa più viva quando una nazione sentesi più conculcata e impotente a un risorgimento, di cui vorrebbe mostrarsi meritevole. Però ci sia permesso credere che troppo facilmente si condiscenda a sistemi venutici d’oltremonte, sino a contorcere i fatti acciocchè capiscano in quelle cornici. Ad alcuni Tedeschi principalmente dobbiamo senza fine chiamarci obbligati dell’avere esaminato dal proprio punto d’aspetto i casi nostri in un’età nella quale le istituzioni tenevano tanto del germanico; e se anche, per esaltare le proprie, han talora depresso le cose nostre, a loro dobbiamo, non foss’altro, una più retta conoscenza di quella civiltà germanica, che si combinò colla romana per formare la moderna, e che valse a restituire all’individuo l’importanza che prima era riservata al cittadino e allo Stato. Ma sminuiremo per questo il sommo pregio delle reliquie romane e reputeremo che a poco valesse una civiltà indigena, che pur tanto operò là dove non era che importata? Questo annichilamento del popolo italiano, questa trasfusione del sangue nordico, necessaria perchè il latin seme disbarbarisse[263], come crederle, se, a tacer Roma, vediamo Venezia, incontaminata da conquiste, rifarsi tanto magnifica coi soli corrotti elementi dell’Impero declinante, ma colla libertà? Ricerche più sagaci, esami più complessi; più meditati giudizj, opinioni meno pregiudicate chi può negare alla nostra età? Arrivammo a questa traverso una rivoluzione, di lunga mano preparata nel campo delle idee, prima che fosse violentemente attuata nel campo dei fatti; e cui carattere principale fu demolire il passato per riformare radicalmente la società civile, scatenarsi sopratutto contro il medioevo, perchè è il meno intelligibile a chi rifiuti le evoluzioni storiche, e giudichi non dal complesso ma da frammenti. Settant’anni[264] passarono da quella prima scossa, eppure non è tempo ancora di giudicarla, perchè durano tuttavia, non che gli effetti, i movimenti; essa divertì le menti dalle placide ricerche, dissipò quelle società monastiche dove la fatica era alleggerita e completata dall’affratellamento; e quasi si volesse far guerra al passato non solo nelle sue conseguenze ma fin nelle sue memorie, parte si sperdeva, parte si spostava de’ documenti. Pure tra il frastuono susseguito non mancò fra noi chi continuasse le indagini erudite: Brunetti cominciava in qualche modo il _Codice Diplomatico toscano_[265]; Meo gli Annali critico-diplomatici del Regno di Napoli; la principessa Elisa Baciocchi faceva compilare le _Memorie e documenti per servire all’istoria del principato lucchese_, opera che, con più elevata intelligenza proseguita sinora, è una delle più copiose fonti alla storia civile italiana. Quando poi lo strepito della guerra si tacque, cessate le paure d’un passato irremeabile e la rabbia del distruggere, la scienza potè le accumulate ruine contemplare senza beffa e senz’odio. Il crollo delle istituzioni denigrate lasciò un tal vuoto, da convincere quanto bene poteano aver fatto in altri tempi: si conobbe che la civiltà e la verità non entrano nel mondo di sbalzo, non per decreti di re, non per insurrezioni di plebe, ma progressive, e pigliando le mosse dalle istituzioni anteriori, sicchè rannodata la catena de’ fatti e dei concetti, e considerata l’umanità come un uomo solo che progredisce sempre e non muore mai, nulla dovea considerarsi con disprezzo, perchè tutto era acconcio coi tempi, e perchè scala al ben presente, il quale pure non è che un avviamento a progressi futuri. Sarebbe ragionevole chi uscisse colle maschere ne’ giorni di Passione? o chi l’albero maledicesse di primavera perchè mostra soltanto i fiori e non ancora le poma? Allora anche fra noi si tornò a studiare il passato senza iracondia nè vilipendio, con intendimenti più acuti e meno declamazioni; e a tacere per ora gli storici, abbondarono i raccoglitori, preziosi anche quando manchino d’intelligenza, come il Daverio, il Ronchetti, il Marsand e qualche vivente[266]. Cognizioni non ordinarie cumulò il Cicogna nella _Raccolta delle iscrizioni venete_: altre sono sparpagliate ne’ giornali e in opuscoli di circostanza. Ma a due pubblicazioni vuolsi retribuire lode speciale. L’_Archivio Storico_ del Vieusseux, con una erudizione scevra di pedanteria e conscia dei più recenti problemi storici, che sono anche problemi sociali, se più abbonda in memorie moderne, non poche ne apprestò intorno al medio evo. Di queste poi fu generosissima la Deputazione di storia patria, istituita a Torino, e che coi nove volumi finora pubblicati[267], di materie in gran parte inedite o almeno rimigliorate, ajuta i cercatori delle patrie storie, tanto più che de’ collaboratori alcuni sono insigni essi medesimi in questi studj. Di potente sussidio ci vennero anche pubblicazioni forestiere, fra cui principalmente i monumenti storici della Germania dal 476 al 1500, dal Pertz ideati sul modello del Muratori; i _Regesta_ degl’imperatori di Böhmer, di Döniges, d’altri; quelli dei pontefici di Jaffe[268]; le vite di Gregorio VII, d’Innocenzo III, d’altri papi, concepite in senso diverso dal vulgare. Ed ora che la storia è divenuta l’arsenale donde assumono armi la teologia, la politica, la statistica, la morale, quella d’Italia fu un tema di moda, e non solo tra i confini delle Alpi: ma se degli illustri contemporanei io devo farmi scolaro anzichè erigermi giudice, da chi è competente odo asserire che i nostri non parvero avanzarsi a paro coi passi del secolo; che ci mostriamo piuttosto dilettanti che studiosi; che l’opera più estesa in tal fatto, la _Storia d’Italia_ del Bossi, è compilazione indigesta, scompleta, avventata e cosparsa delle stizze d’un levita apostato; nel che le somigliano quella del Levati in continuazione alla _Storia Universale_ del Ségur, e d’alcuni altri che si permisero di esser frivoli in materia sì grave, di pensare come Voltaire quando Voltaire più non avrebbe pensato così, di avere pel proprio soggetto un dispregio ancor più di pigrizia che di riflessione, o d’isterilirsi nel pedantesco sussiego, nelle frasi generiche, ne’ sentimenti convenzionali e preconcetti. Nuovo guasto le recò l’epidemia politica, travisandola perchè rappresentasse, o almeno alludesse al presente, e ad umbratili dispute sovraponendo l’incubo dell’onor nazionale; e gli strapazzi e le denunzie contro chi dipingeva al vero Teodorico, Carlo Magno, Federico II, Innocenzo III, non erano ispirati da zelo del vero o da intolleranza coscienziosa, bensì da avversioni e da amori per fatti e persone odierne. L’antipatia al dominio temporale dei papi, antica quanto esso, ed incalorita oggidì dall’opposizione a chiunque governa, quand’anche non governasse male, alterò sempre i giudizj su tempi ove i pontefici supremavano; e come alcuni tessevano impavide apologie degli atti meno scusabili, così altri divisarono un’ambizione tradizionale, una cospirazione a danno del pensiero e della libertà, continuata per quindici secoli fra ingegni e volontà così disparate; e mentre un imperatore cancellava dai calendarj il nome di Gregorio VII, i sofisti divinizzavano Crescenzio e Arnaldo da Brescia. Che dirò dei sentimentali, che dappertutto mettono qualche frase di carità, di fratellanza e, quel che più fu abusato a’ nostri giorni, di nazionalità e d’odio agli stranieri? idee sconosciute al tempo che descrivono, quanto quelle di barche a vapore o di telegrafi elettrici. Di questi luoghi comuni si stomacarono alcuni; ma proponendosi d’evitarli, fransero nel paradosso, inneggiando sol perchè vilipeso, conculcando sol perchè venerato; solite eccedenze delle riazioni. Non mancarono però scrutatori pazienti ed assennati estimatori, che esercitando la critica su fatti d’erudizione e sentendo l’importanza di opporre la realità al vago e all’incompleto, trovarono da cambiare intere serie di fatti, convenzionalmente ricevuti per istorici, e più spesso il modo di valutare qualche avvenimento che, messo in relazione coi precessi e coi successivi, acquistava un color nuovo, dava un nuovo significato ad un uomo o ad un’età. Sebbene qui, all’opposto dei troppo imitati Francesi, si deprima, non foss’altro col silenzio, ogni opera compaesana, adorando l’Italia e conculcando ciascun Italiano, e, come Sansone, si adoperi la mascella del giumento morto per uccidere i vivi, pure corrono al labbro di ciascuno i nomi di que’ nostri che operarono a raddrizzare i concetti scolastici sia intorno al medioevo in complesso, sia specialmente intorno alla storia italiana, e massime all’età longobarda, alla condizione delle plebi, all’origine dei Comuni: e forse non manca se non una robusta sintesi che tutti quegli sforzi particolari assuma in una potente unità, che ne sia insieme il frutto e la riprova, seguendo quella catena di cognizioni, di sentimenti, di atti, di libertà che, non mai interrotta, collega noi moderni con tutti gli antepassati nella grand’opera del propagare la dottrina, e così elevare le classi inferiori, estendere la libertà, proteggere la dignità, consacrare l’eguaglianza sotto la disciplina della coscienza, anzichè sotto la violenza ufficiale. CAPITOLO CV. Calata di Enrico VII. Da Federico II in poi nessun re di Germania erasi coronato in Italia; gli eletti assumevano il titolo di _re de’ Romani_, professavano sempre di volere venirvi, come di volersi crociare, nè all’una adempivano nè all’altra promessa: sicchè per sessantaquattro anni Italia non vide principi tedeschi. Il cavalleresco Adolfo di Nassau della supremazia imperiale diè segno col mandare qualche vicario, ma ben presto rimase vinto ed ucciso da Alberto d’Austria. Questo erasi ciuffato la corona (1298) col profondere privilegi agli elettori, e al papa promettere di francheggiarne i diritti contro qualsifosse aggressore, nè far pace o tregua coi nemici di esso; ma al par di Rodolfo suo padre non volle pericolarsi nelle vicende d’Italia, attento piuttosto a consolidare sua casa, meglio che non fossero riusciti gl’imperatori sassoni e gli svevi. Se non che colle sue tirannie disgustò i popoli, che gli si rivoltarono a Vienna, in Stiria, e con migliore fortuna nella Svizzera, allora redentasi in libertà: coll’avarizia esacerbò il nipote Giovanni di Svevia, che lo uccise. Filippo il Bello re di Francia chiese allora (1308) al suo papa un’altra grazia, che cingesse a Carlo di Valois la corona germanica; e già aveva compro alquanti elettori, sicchè la Germania fu ad un punto di subire uno straniero: ma il papa sollecitò perchè i voti si concordassero sopra Enrico VII, ch’egli promise incoronare imperatore. Costui, signore di poco più che della piccola contea di Luxemburg, ma imparentato con molti principi, e fra altri con Amedeo V conte di Savoja, allettando gli animi col valore e la cortesia, presto riuscì a quel ch’era omai il primo intento degl’imperatori, aggrandire la propria famiglia, collocando sul trono di Boemia suo figlio Giovanni (1310). Francesco da Garbagnate, nobile ghibellino, sturbato da Milano al cadere dei Visconti, e come eretico condannato a portar sempre una croce, viveva a Padova di fare il maestro, quando udita l’elezione del nuovo cesare, vende i libri per comprare armi, e va a lui, e lo inanima a calare in Italia per ristaurarvi la parzialità imperiale; troverebbe ajuti non solo da questa, ma anche dai Guelfi, mal soddisfatti del papa esulante e di chi facea per esso. All’umore cavalleresco di Enrico talentava codesto sfoggiare in Italia un’autorità, della quale aveva concetto meraviglioso; e senz’armi e senza ricchezze calava in paese che un secolo e mezzo avea resistito a’ suoi predecessori potenti. Ma nella lunga assenza degli imperatori erasi rintuzzato il geloso sentimento repubblicano, alle ispirazioni franche della libertà municipale sottentravano le reminiscenze romane, nè sopra Enrico pesava l’odio giurato alla casa Sveva, nè a lui correva l’obbligo di vendette ereditarie. Capo dei Ghibellini come imperatore, realmente professava la grande imparzialità; a un Ghibellino che gli offriva averi e vita purchè desse vantaggio alla sua parte, rispose: «Io venni per il tutto, non per le parti»; anche il papa, desideroso di opporre qualcuno alla prevalenza della Francia, mandò i suoi legati ad accompagnarlo, farlo il ben arrivato nelle città guelfe, e imporgli la corona d’oro[269]. Ma la grande rappresentanza pontifizia, schiaffeggiata nella persona di Bonifazio VIII, avea tagliato i proprj nervi col trasferirsi in Avignone; senza ritegno sparlavasi contro la Babilonia d’Occidente, la prostituta dell’Apocalissi; anche spiriti serj e pii guardavano la supremazia del papa come distinta dalla causa della Chiesa; indignati contro di quello, bramavano un’autorità che lo deprimesse, e al solito ponevano grandi speranze in Enrico, «uom savio, di nobile sangue, giusto e famoso, di gran lealtà, pro d’armi, di grande ingegno e di grande temperanza, e che parte guelfa e ghibellina non voleva udire ricordare» (COMPAGNI). In fatto Enrico, estranio a tali dissidj, ammetteva e questa e quella, i tiranni e i magistrati municipali; i Pisani, che gli spedivano sessantamila fiorini perchè avacciasse a passare in Toscana; e i signorotti che promettevano condurlo traverso all’Italia col falco in pugno, senza mestier di soldati. Per la Savoja e val di Susa giunto a Torino (1310), surrogò vicarj suoi a quelli del re di Napoli; ad Asti ebbe un incontro de’ signori lombardi, cui promise non voler far divario tra imperiali e papalini, ma venire a rimetter pace, a cancellare di bando i fuorusciti, e tornar le città dalle private signorie sotto l’immediato suo dominio. Di fatto riconciliò in Vercelli i Tizzoni cogli Avogadri, in Novara i Brusati coi Tornielli, in Pavia i Beccaria coi Langosco; restituì i Ghibellini a Como e a Mantova, i Guelfi a Brescia e a Piacenza; ma non potè indurre gli Scaligeri a ricever in Verona i conti di Sanbonifazio, esulanti da sessant’anni. In Lombardia primeggiava sempre Milano, non dimentica dei tempi del suo glorioso riscatto, ma dai Torriani già abituata al dominio d’un solo, quando l’arcivescovo Ottone Visconti la acquistò (1277), e l’invigorì coll’unire alla civile la podestà ecclesiastica (pag. 28). Fortunato di non aver bisogno di supplizj per assodarsi, e fatto potente dalle città ghibelline che gli si congiunsero, studiò tramandare la potestà al nipote Matteo. Il quale fu eletto capitano dal popolo milanese, poi da quello di Novara e Vercelli; indi vicario imperiale di Lombardia (1295), a nome di Adolfo di Nassau; finalmente, alla morte di Ottone, signore di Milano. Altre molte città imitarono l’esempio. A Bergamo lottavano Colleoni e Suardi contro Bongi e Rivoli, e i primi mandarono a chiedere Matteo, che corse in loro ajuto, e ne fu gridato signore. In Pavia Manfredi de’ Beccaria, dopo sanguinose baruffe, soccombette a Filippone Langosco, e Matteo carezzò costui e ne chiese la parentela; ma egli, sospettatolo d’ambire quella città, ruppe gli accordi. Intanto il Visconti s’imparentava colle due famiglie principali della parte ghibellina e della guelfa, dando una figlia ad Alboino degli Scaligeri di Verona (1293), e al suo primogenito Beatrice, sorella di Azzo d’Este, vedova di Nino de’ Visconti di Pisa, signore d’un quarto della Sardegna. Le feste di quell’occasione furono delle più splendide che si vedessero, ripetute con gara di sontuosità a Modena, a Parma, a Milano. Ma costei era già stata promessa ad Alberto Scotto signore di Piacenza, il quale legossi al dito l’ingiuria. Vinta, non estirpata, la fazione de’ Torriani rinforzavasi pei rancori e per le gelosie, consueti contro un dominio nuovo. Vi soffiò lo Scotto, e strinse lega coi tiranni Filippone Langosco predetto, Antonio Fisiraga di Lodi, Corrado Rusca di Como, Venturino Benzone di Crema, i Cavalcabò di Cremona, i Brusati di Novara, gli Avogadri di Vercelli, Giovanni II di Monferrato; Guido, Mosca ed altri Torriani accorsero dal Friuli, dove s’erano rifuggiti presso il patriarca loro zio; molti signori milanesi e fin di casa Visconti tenner mano coi congiurati; e ben presto Milano a rumore espelleva i Visconti (1302), il Rusca ribellava Como, benchè cognato di Matteo, onde questi cesse alla fortuna: e un decreto dichiarò decaduti i Visconti, un altro nominò capitano della città Guido della Torre. Mutazioni effimere, e Matteo, che facea sua vita in quiete nella villa di Nogarola, chiesto da alcuno come gli parea di stare, rispose: — Bene, perchè so adattarmi al tempo»; e quando pensasse rientrare in Milano: — Quando i peccati de’ Torriani soverchieranno quelli ch’io aveva allorchè fui cacciato». Per le città lombarde allora tornarono a galla quei ch’erano sommersi; e Alberto Scotto, principale macchina di quelle vicende, ottenne signoria su varj paesi, autorità su tutti. Ma ben presto egli s’ebbe inimicato signori e popoli; e avendo mosso l’esercito contro i Pavesi, trovossi di fronte Cremaschi, Lodigiani, Vercellini, Novaresi, Milanesi, Comaschi e il marchese di Monferrato, che posero anche a ruba il Piacentino. Per lo Scotto campeggiarono i Correggio, i Visconti, gli Alessandrini, i Tortonesi, gli Astigiani; e i nomi di Guelfi e Ghibellini riviveano dappertutto con mutata significazione, il primo indicando i fautori de’ Torriani, l’altro quei de’ Visconti, cui lo Scotto offrì di rimetterli nella città d’onde poc’anzi gli avea snidati. Sebbene non ne seguisse battaglia, i Piacentini erano sazj di tanti guasti, e ordirono una congiura che non valse se non a portare alcuni al patibolo: ma poi insorti popolarmente, cacciarono lo Scotto, cacciarono Giberto Correggio che volea farsi signore, e al grido di _Popolo_ richiamarono i Landi, i Pelavicini, gli Anguissola fuorusciti, dai quali fu chiesto capitano della città Guido Torriano. Costui era dunque sul montare; ma ben presto egli pure eccitò scontento nei popoli, dissensioni nella propria famiglia, fino a dover imprigionare l’arcivescovo Cassone suo cugino co’ fratelli, imputati di attentare alla sua vita. A Guido non dovea dar per lo genio il proposito di Enrico VII di trarre a immediato suo dominio le città lombarde, contro i patti della pace di Costanza; ma non avendo potuto opporgli una lega guelfa, si piegò al volere del popolo, ed uscì inerme ad incontrare Enrico (1310 — 3 xbre), che con lungo codazzo di signori entrò in Milano da dominante, e prese la corona di ferro, presenti i deputati di tutte le città di Lombardia e della Marca. Guido solo non aveva abbassato l’insegna quando fu ad incontrarlo; ma i Tedeschi gliela abbatterono, ed Enrico gl’intimò: — Riconosci il tuo re; duro è ricalcitrare contro lo stimolo»; pur risoluto a tenersi imparziale, lo riconciliò coi Visconti. Dappertutto intanto sostituiva vicarj imperiali ai podestà eletti dai cittadini, rimpatriava gli esuli, e godeva sentirsi acclamato ristoratore della pace, della giustizia, della libertà. Sul principio era in fatto universalmente il ben venuto, ma non tardò a scontentare i Milanesi col voler introdurre in città uomini armati, e coll’esigere un donativo. Di questo trattossi nel consiglio, e Guglielmo Pusterla propose cinquantamila zecchini; Matteo Visconti, liberale colla roba altrui, soggiunse: — Vorrete almeno assegnarne diecimila altri per la regina». Al che Guido Torriano indispettito: — E perchè non fare addirittura il numero tondo, centomila?» e il notajo regio protocollò centomila, e non ci fu modo di dibatterne uno. Per questo valsente Enrico concedette un amplissimo privilegio ai Milanesi (1311 — 20 marzo); per cinquemila ne diede un altro ai Monzaschi[270], comminando a chi li violasse gravissime pene, pagabili non già ad essi Comuni, ma alla sua camera. In procinto poi di calare verso la bassa Italia, pensò tôrre degli ostaggi, e in apparenza di onore domandò al Comune cinquanta cavalieri, fra’ quali Matteo Visconti, Galeazzo suo figlio, Guido Torriano e Francesco suo figlio. S’accorsero a che parava; peggiorati gli umori, tornavasi ad esclamare contro i Barbari vecchi e nuovi; e i figli dei due capiparte, affiatatisi, cominciarono quel grido di _Morte ai Tedeschi_, che tante volte e prima e poi fu sinonimo di _Viva la libertà_. Il popolo prese le armi, e faceva Dio sa quale scena se tutto davvero i Visconti fossero stati d’accordo coi Torriani; ma questi furono assaliti ed espulsi di città abbattendone le case; Matteo, che giocava a due mani, col mostrarsi tranquillo ottenne dall’imperatore il comando, e titolo di vicario per cinquantamila fiorini, oltre venticinquemila annui. I Torriani però aveano dato il segno ai Guelfi di Lodi, Crema, Cremona, Brescia, che cacciarono i vicarj imperiali e corsero all’arme; ed Enrico, dissipato quel benevolo sogno di stare amico a tutti, dovè colla forza risoggettarle; Cremona ebbe atterrate le mura, arrestati ducento principali, imposti centomila fiorini, e i soliti arbitrj d’un’occupazione militare. Tebaldo Brusato, che, per interposto di Enrico, era stato ricevuto in Brescia dal ghibellino Matteo Maggi, avea côlto il destro per vendicarsi e imprigionar questo e gli altri capi, e farsi signore coll’ajuto de’ fuorusciti guelfi; onde Enrico assediò quella città, che, atterrita dall’esempio di Cremona, si difese mezz’anno: il Brusato, anche caduto prigione, continuò ad esortare i suoi alla difesa, sicchè Enrico il fece barbaramente uccidere. Fieramente lo vendicarono i Bresciani, che ferirono anche il fratello del re, sinchè, consumati tra malattie e ferro tre quarti dell’esercito, Enrico li ricevette a capitolazione, traendone denaro e maledizioni, paga de’ conquistatori. Enrico dunque, venuto a portar la pace, dietro lasciava nimicizie ribollenti, sicchè quell’anno dappertutto furono abbattute, ricacciate le varie fazioni, i vicarj imperiali, i signorotti; battaglie in ogni città e campagna; e per aggiunta la peste, sviluppatasi in quell’assedio, andò sempre compagna all’esercito imperiale. Il tempo che intorno a Brescia egli consumò, avea lasciato intiepidire gli amici suoi, rinforzarsi i nemici, principali de’ quali erano Roberto nuovo re di Napoli, i Bolognesi e i Fiorentini. Fatto denaro col nominare vicarj di Mantova i Bonacolsa, di Treviso i da Camino, di Verona gli Scaligeri, Enrico si volse a Genova, la quale, stanca del parteggiare fra gli Spinola e i Doria, la prima volta accettò dominio forestiero (9bre), sottoponendosi per venti anni a lui, che vi costituì vicario Uguccione della Faggiuola. E ben fu sua ventura che Genova e Pisa il fornissero nella sua povertà quando tutti lo abbandonavano, sicchè colle navi loro approdò in Toscana. Firenze, Atene d’Italia, passionata delle lettere e delle arti belle, feste ed allegrie frapponeva alla serietà degli affari; gelosa della sua democrazia, la portava sino all’esclusione, cioè alla tirannide. Il vederla in tanto fiore mentre era governata da magistrati mutabili ogni due mesi, nè rieleggibili che dopo tre anni, mostra quanti possedesse cittadini capaci di reggere la cosa pubblica; e perciò erano richiesti anche fuori ad ambasciate e a governi[271]. Come negozianti non amavano le armi, fidando meglio nei maneggi politici; e non avendo codice e fissa costituzione, si sosteneano per clientele e parenti. Fedele alla causa italiana, quale almeno s’intendeva allora, Firenze non ismaniava di divulgare la libertà ove il pregio non ne fosse sentito; ma persuasa che Italia dovesse la civiltà sua a quel contrastare indipendente, guardava che tirannide straniera o natìa non vi si consolidasse, e perciò teneva la bilancia; guelfa di solito, ma non repugnante all’accostarsi ai Ghibellini quand’uopo le paresse. Dentro cozzavansi ancora Bianchi e Neri; e Benedetto XI (1304), più leale amator della pace che Bonifazio VIII, mandò fra Nicola da Prato cardinale d’Ostia perchè vi rimpatriasse i Bianchi fuorusciti. Il popolo ne esultò; ma i grandi della parte Nera, per tôrgli credito, sparsero ch’egli avesse incitato i Bolognesi contro Firenze, sicchè ad urli fu cacciato da quei che un istante prima lo aveano accolto a plausi, ed egli pose all’interdetto la città. Subito furono in armi le parti, e tra la baruffa s’attaccò un incendio, alcun disse per opera di ser Neri Abbati (10 giugno); e niun provvedendo a spegnerlo, distrusse da mille settecento case con incalcolabile perdita di masserizie e mercanzie, spezialmente ne’ magazzini de’ Cavalcanti e de’ Gherardini, che ne rimasero rovinati. I Bianchi, ricoverati in Pistoja, invigorivano pe’ sussidj de’ Pisani, Aretini, Bolognesi; sicchè i Fiorentini chiesero per capitano Roberto figlio di Carlo il Zoppo, che con Aragonesi e Catalani gli ajutò a stringere d’assedio Pistoja. Invano il papa spedì frati e cardinali, lusinghe e interdetti; essi durarono finchè ebbero la città, e ne fecero strazio (1306), la smurarono, ne spartirono il territorio fra sè ed i Lucchesi. A’ Guelfi rimase dunque il sopravento, comunque scomunicati: Pisa e Arezzo, sole città ghibelline, aveano dovuto implorar pace; ma anche la taglia trionfante divideasi, colla consueta vicenda in moderati ed esagerati. Principale autore della cacciata de’ Bianchi, a capo de’ Guelfi Neri rimase Corso Donati «cavaliere della somiglianza di Catilina romano, gentile di sangue, adorno di belli costumi, sottile d’ingegno; per sua superbia fu chiamato il barone, e quando passava per la terra molti gridavano, Viva il barone, e parea sua la terra; la vanagloria il guidava; molti servigi facea. Fu di corpo bellissimo fino alla sua vecchiezza; a gran cose sempre attendea; pratico e dimestico di gran signori e di nobili uomini, e famoso per tutta Italia; nimico dei popoli e dei popolani, amato da’ masnadieri[272], pieno di maliziosi pensieri, reo e astuto». Trionfava egli dei Cerchi, antichi emuli suoi; ma i nobili, recatoselo in sospetto, lo contrariavano per mezzo delle magistrature. Se non che egli s’appoggiò a’ Bordoni e ai Medici, famiglia popolana che cominciava a venir su, e al suocero suo Uguccione della Faggiuola, caporione de’ Ghibellini in Romagna e Toscana; ed a forza prosciolti i prigionieri di stato, cacciò la Signoria (1308) tacciandola di venale e corrotta. Ma questa sparse che egli affettasse la tirannide, e diè nelle campane; il popolo accorse armato in piazza, i priori delle arti citarono Corso, e fra due ore lo condannarono come ribelle e traditore del suo Comune. «Incontanente mosse dalla casa de’ priori il gonfalone della giustizia col podestà e capitano ed esecutore, con loro famiglie e coi gonfaloni delle compagnie, col popolo armato e colle masnade a cavallo, a grido di popolo, per venire alle case dove abitava messer Corso» (VILLANI). Egli si asserragliò, sperando sopragiungesse il domandato Uguccione: ma aggravato di gotta mal si potea difendere, e arrestato nella fuga, mentre veniva ricondotto, si precipitò da cavallo e morì. Alquanti anni dopo, i suoi consorti uccisero Betto Brunelleschi (13 7bre), cittadino di gran nome che credeano autore della morte di Corso; e dissotterrato questo, gli resero esequie splendidissime, tra mezzo alle armi d’amici e nemici. Non andò guari che Pazzino de’ Pazzi, assassino di Betto, fu trucidato dai Brunelleschi e Cavalcanti; onde si diceva che lo spirito di Corso andasse ancora in volta, prèndendo vendetta di chi l’aveva contrariato. I Fiorentini furono i soli che mandassero ambasciatori ad Enrico VII; e quand’egli ne diresse uno a loro, risposero «che mai per niuno signore i Fiorentini inchinarono le corna». Spedì novamente annunziando il suo arrivo e chiedendo gli alloggi; e i Fiorentini gli replicarono, non aver essi mai creduto degno d’approvazione un imperatore che conduce esercito di Barbari in Italia, mentre dovere di lui sarebbe affrancare da’ Barbari (1310) questa nobilissima provincia[273], e si diedero piuttosto a Roberto re di Napoli. Ma i conti Guido ed altra nobiltà castellana stettero coll’imperatore, a questo si presentarono i fuorusciti in Genova, e fra essi probabilmente Dante, il quale, avversissimo ai signori stranieri quando trattavasi di Carlo di Valois, allora dettò il trattato _Della monarchia_, e a nome proprio e de’ concittadini fuorusciti scrisse «al gloriosissimo e felicissimo trionfatore e singolare signore messer Arrigo, per la divina Provvidenza re de’ Romani e sempre augusto, mandando baci alla terra dinanzi a’ suoi piedi»; e con ragioni e testi ed esempj rincorava ad assalire al più presto Firenze, «radichevole cagione delle discordie italiane; vipera, volta nel ventre della madre; pecora inferma, la quale col suo appressamento contamina la greggia del suo signore: Mirra scellerata ed empia, la quale s’infiamma nel fuoco degli abbracciamenti del padre»: venga dunque Cesare e colpisca i Filistei, sicchè restituita a’ fuorusciti la loro eredità, «cittadini e respiranti, in pace ed in allegrezza le miserie della confusione rivolgeranno». Parole; ma poi «il tenne tanto la riverenza della pátria, che venendo l’imperatore contro a Firenze, e ponendosi a campo contro la porta, non vi volle essere, contuttochè confortatore fosse stato di sua venuta»[274]. I Pisani, che calavano a misura del crescere di Firenze, si lusingarono che Enrico, il quale, scarso di possedimenti in Germania, meditava piantarsi in Italia, vorrebbe far sede e metropoli dell’Impero la loro patria. Coi costoro denari dunque e coi soccorsi di quanti covavano nimicizia pei Fiorentini, Enrico move sopra di questi; ma essi tre tanti di forze gli opposero _a onore di santa Chiesa e a morte del re di Lamagna_ (1312). Il quale, preso tra le armi, la fame e la peste, dovette andarsene, mettendoli al bando dell’Impero per «la sfrenata mentecattaggine e la non domata superbia contro alla real maestà»; e si affrettò a far una pomposa mostra nella sua coronazione a Roma. Abbiam veduto i papi credersi di avere assicurato l’indipendenza d’Italia coll’ottenere da Rodolfo d’Habsburg la rinunzia alle pretensioni che gl’imperatori ostentavano su varie terre nostre: ma con Nicola III rientrarono in una politica barcollante, che non vedea di là dalle necessità istantanee. Nella schiavitù poi d’Avignone, in mano al re di Francia, perdeano quella sicura libertà che la Chiesa invoca con quotidiana preghiera. Intanto Roma rimaneva strazio delle fazioni, combattute tra Orsini e Colonna, ingranditi dal favore dei due papi Nicola III e IV. I primi accolsero Enrico, ma i Colonnesi e il fratello di re Roberto armati guardavano la città; per modo ch’egli dovette prendere a forza Ponte Milvio, il Campidoglio, il Coliseo, il Laterano, dove serragliate le vie, si fece coronare (29 giugno) dai legati, non senza che la festa e il banchetto fossero insultati dai nemici. Consunto allora il tempo del servizio feudale, i baroni tedeschi abbandonano Enrico; i Ghibellini di Lombardia sono richiamati dalla guerra che rompono loro i Guelfi; le malattie si aggravano; onde l’imperatore, rimasto con pochi uomini e men denaro, senza sottomettere Roma torna verso Firenze a bandiera spiegata, e accampa dirimpetto a San Salvi. «Firenze non era murata, ma tutta fu all’armi: il vescovo con tutto il chericato ne venne alla porta Sant’Ambrogio, poi il capitano e il podestà e alcun gonfaloniere, e tutti vi s’accamparono e posero trabacche, e tolsono lettiere e tavole da mangiare e finestre, e in meno di mezza notte infino a Pinti fu tutto steccato, e innanzi dì molte bertesche fatte, e corritoj sopra gli steccati» (STEFANI). V’accorse poi gente d’arme dalle città vicine, ma non vollero attaccar l’imperatore, il quale non potendo avere Firenze, si partì da oste sfogando il suo dispetto contro il territorio. Firenze divenne allora caporale del partito guelfo; e stretto lega con Bologna, Lucca, Siena e con chiunque mostrava i denti all’imperatore, dava il cenno a tutta Italia; perseverò a difendersi, ma non assalì l’imperatore, sia che conoscesse troppo inferiori le milizie cittadine a guerrieri esercitati, sia che prevedesse il necessario sfasciarsi dell’esercito imperiale. Enrico cercò che il papa scomunicasse i Guelfi e Roberto di Napoli; e forse il papa v’inchinava, quando ecco Filippo il Bello gli manda quegli stessi ribaldi che aveano sfregiato Bonifazio VIII, i quali, entrati nella cancelleria, tolgono quante bolle vi trovano, al pontefice rinfacciano di operare contro un parente di quella casa di Francia che tanto di lui benemeritò; si ricordasse di Bonifazio[275]. Enrico dunque solo ed assottigliato di uomini e di vettovaglie, sarebbesi tolto dall’impresa se avesse avuto di che pagare i debiti; e non appena Federico di Sicilia gli spedì denaro a ciò, tornossene a Pisa[276], assai male di sè e di sua gente. Volendo almeno far qualche scena imperatoria, v’alzò tribunale, spiegando pretensioni superbissime. Già si conosceva una sua costituzione per «reprimere le colpe di molti, che, sfrenatisi dalle fedeltà, e ostili al romano impero, nella cui tranquillità consiste l’ordinamento del mondo, violano gli umani e i divini precetti, dai quali è imposto che ogni anima sia sottoposta al principe»[277]. Allora poi emanò una costituzione, ove dichiaransi ribelli e sleali all’Impero tutti quei che palesemente o in occulto facesser opera avversa all’onore e alla fedeltà sua, o agli uffiziali suoi. Contro di essi doveva procedersi per accusa, inquisizione o denunzia, sommariamente e semplicemente, senza strepito o figura di giudizio. Le città ribelli non avendo obbedito alla citazione, egli spogliò Firenze (1313) del mero e misto imperio, d’ogni giurisdizione e di tutte le immunità, i feudi, gli statuti, i privilegi, confiscandone i beni e i castelli, facendo infami i magistrati suoi: a que’ cittadini nessun dia ricovero o soccorso, ma possano essere pigliati da ciascuno come ribelli e banditi: concedeva agli Spinola e al marchese di Monferrato di contraffare i fiorini al conio di san Giovanni; insieme dichiarava scaduto dal trono e condannato alla decollazione re Roberto, e dispensati i sudditi suoi dal giuramento. Sentendo quanto sieno ridicole le minaccie di sole parole, sollecitava dalla dieta germanica e dai Ghibellini d’Italia un buon polso di gente, ma poco avanzava: Clemente V ricordossi della franchezza de’ suoi antecessori, e credendo invasi i suoi diritti col deporre Roberto suo ligio, minacciò scomunicar l’imperatore se mettesse piede sul Napoletano, e per contraccolpo alla costituzione di lui proclamò la santa Sede essere superiore all’Impero. Solo per gelosie particolari Pisa e Genova provvidero di settanta galee Enrico VII, il quale, mentre Federico di Sicilia l’assecondava invadendo Calabria, entrò in via per Napoli con duemilacinquecento cavalieri oltramontani, millecinquecento italiani e proporzionato numero di pedoni. Casa d’Angiò stava dunque in gran frangente, e «preso che Arrigo avesse il regno, assai gli era leggero di vincere tutta l’Italia e dell’altre provincie assai» (VILLANI); quando a Buonconvento presso Siena (24 agosto) morì improvviso[278], e lasciò l’Italia più tempestata che prima non fosse, e l’autorità degli imperatori spoglia dell’antico prestigio, troppo apparendo l’estrema sproporzione fra i diritti che pretendeano e le forze con cui volevano attuarli. CAPITOLO CVI. Roberto di Napoli. — Uguccione. — Castruccio. — Lodovico il Bavaro. — Giovanni di Luxemburg. La morte d’Enrico VII tolse il cuore ai Ghibellini. Pisa, perduti i due milioni spesi per lui, e trovandosi esposta alla vendetta de’ Guelfi, credette risanguar l’erario coll’imporre un accatto su tutte le merci che entrassero nel suo porto; ma i Fiorentini si drizzarono a quel di Telamone, ove trasferendosi gli altri negozianti che con essi aveano a fare, ne derivò l’ultimo crollo al commercio di Pisa. Esausta e minacciata, ricorse al solito infelice compenso di buttarsi in braccia altrui, eleggendo a signore Uguccione della Faggiuola, figlio di Rinier da Corneto, famigerato masnadiero in val del Savio. Il popolo parlava di Uguccione come suole di cotesti avventurieri, con fole esagerate: che mangiasse straordinariamente per sostentare lo straordinario corpo, a coprire il quale voleansi armi straordinarie; ch’egli bastasse a sostenere l’impeto d’un esercito o ristaurare una battaglia; nient’altro che collo sguardo volgesse in fuga i nemici; eppure fosse gajo, ingegnoso, di arguti ripicchi, di generosa cortesia. In realtà, confinando i suoi feudi coi Ghibellini di Toscana e di Romagna, e sentendosi ambizione pari al coraggio, avea tentato signoria in molte parti; in Arezzo dominò dal 1292 al 96, nimicando tra loro i Ghibellini, sinchè ne fu respinto per chiamare Federico di Montefeltro; allora capitanò Cesena, Forlì, Imola, Faenza, sinchè nel cacciò Matteo d’Aquasparta. Nel 1300 sedendo podestà di Gubbio escluse i Guelfi di colà, ma essi rientrarono con alterni guasti: tornato podestà in Arezzo, ne fu snidato coi Verdi. Era podestà di Genova quando i Pisani lo chiamarono signore; ed egli, assoldate le bande tedesche rimaste sciopere alla morte d’Enrico, subito recò devastazioni al Lucchese, e minaccie al resto di Toscana. In questa i nobili aveano perduto la voglia di dare soccorso alla repubblica, la quale in ogni provvedimento li sfavoriva; i popolani aveano pei traffici disusato le armi; di guisa che Firenze, Lucca, Prato, Pistoja credettero anch’esse opportuno cercare salvezza col darsi un padrone. Tant’era venuto di moda questo sottomettersi a un principe! ma i soli durevoli furono quelli dell’Italia meridionale. Dopo la pace di Calatabellota continuarono a regnare in Sicilia Federico I col titolo di re di Trinacria, a Napoli Carlo II col sopranome di Giusto. Ebb’egli per moglie Maria sorella di Ladislao IV re d’Ungheria; e morto questo in verde età senza successione (1290), Carlo fece attribuire il titolo di quel regno al figlio Carlo Martello. Rodolfo imperatore, sempre in occhi onde aggrandire casa d’Austria, l’aveva prevenuto col conferire quella corona al proprio figlio Alberto; quand’ecco fra i due alzarsi un altro pretendente. Andrea II d’Ungheria nel 1235 avea sposato Beatrice del marchese d’Aldrovandino d’Este. Rimasta in breve vedova e gravida, Bela, nato da altra moglie di quel re, la cacciò in prigione e ad ogni peggior trattamento: essendo però capitati in Ungheria ambasciadori di Federico II, essa trovò modo di fuggire con loro, e rientrare alla casa paterna. Quivi diede in luce un bambino, che fu detto Stefano, e che sposò l’ereditiera della nobile famiglia Traversari di Ravenna, poi in seconde nozze Tommasina Morosini veneziana, da cui generò un figlio. Questo, di nome Andrea, di soprannome il Veneto, chetò gli Austriaci collo sposarne una figlia, e regnò in Ungheria; ma morto improle (1301), gli sottentrò Carl’Uberto o Caroberto figlio di Carlo Martello predefunto, pel quale alle sorti di Napoli si mescolarono funestamente anche quelle dell’Ungheria, mentre una figliuola di re Carlo di Valois recava in dote incerti diritti sull’Impero Orientale all’altro figliuolo Filippo. Morto Carlo II, si disputò se dovesse succedergli il nipote Caroberto di Ungheria (1309); ma Roberto secondogenito, affrettatosi ad Avignone, ottenne che il papa desse a lui l’investitura del Regno, e confermasse al nipote quella d’Ungheria; anzi il papa gli perdonò trecentomila zecchini d’oro e cinquantamila marchi d’argento, di cui suo padre era debitore alla Chiesa. Qui comincia il lungo regno di Roberto, detto il Buono, dai letterati acclamato un Salomone, perchè li favoriva, assisteva alle lezioni dell’Università, e non preteriva occasione di far pompa di un’eloquenza pedantesca. Spertissimo degli affari, e poco incline alla guerra, industriavasi di metter pace nelle città; senza l’inflessibilità che spezza gli ostacoli, avea la perseveranza che li logora; rendea personalmente la giustizia, il che è un modo di lederla spesso, ma che piace ai popoli; e molti in fatto si diedero spontanei in sua balìa. Quanto visse fu considerato capo della taglia guelfa, e parve in procinto di diventar signore di tutt’Italia; eppure nè d’un palmo di terreno accrebbe il regno avito. Non interruppe mai guerra a Federico di Sicilia, sostenuto dai Ghibellini e dagli imperatori; e col mandare ogn’anno una flotta a guastarla, sperava che quell’isola per istracca gli si butterebbe nelle braccia. Papa Clemente V, non che annullare la sentenza di Enrico VII contro di lui «in forza dell’indubitata autorità sua sull’Impero e pel diritto di succedere allo imperatore nella vacanza»[279], nominò Roberto (1313) vicario imperiale di tutta Italia; il quale fu anche chiamato senatore dai Romani, e signore da Ferrara, Parma, Pavia, Bergamo, Alessandria, Firenze; al che aggiungendo molti feudi in Piemonte e la contea di Provenza, veniva ad essere fra i maggiori potenti. A fronte a lui stava Uguccione, il quale fece trionfare Pisa, e la indusse ad escludere dalle magistrature chi non provasse d’essere sempre stato ghibellino egli e i suoi antenati. Perchè guelfa osteggiò Lucca, ricca e potente quasi a par di Firenze, e fiancheggiata da una nobiltà avvezza a lanciarsi da’ suoi castelli per far preda in terra o sul mare; e avutala a tradimento, con soldati tedeschi manomise i tesori dai cittadini accumulati principalmente coll’usura, e quelli che il papa v’avea fatti venire da Roma per trasferirli in Francia; e la tenne a dominio. Firenze, sgomentata del crescere di costui, da re Roberto cercava generali capaci di reprimere i Ghibellini; ma alla giornata di Montecatino (1315 — 14 giugno) questi prevalsero con grave strage dei Guelfi, dove perirono anche i figliuoli dei due capitani nemici, Carlo de’ reali di Napoli e Francesco d’Uguccione, che furono sepolti in una stessa tomba nella badia di Buggiano[280]. Roberto si diè tanto attorno, che indusse Pisa e Lucca a pace con Firenze, Siena e Pistoja. Uguccione intanto reggeva le due città alla militare, fiero contro ogni sospetto; talchè esse tramarono con Castruccio Castracani degli Interminelli. Costui esigliato dalla patria, per dieci anni corse il mondo a venture, acquistando grido di valore col servire in Francia, in Inghilterra, in Lombardia; avea prestato mano ad Uguccione nell’occupare Lucca, poi cogli scontenti s’intese per abbatterlo. N’ebbe fumo Uguccione (1316), e lo pose in carcere; ma mentre vi aspettava il patibolo, ecco il popolo sollevato ne lo trae, e lo solleva al dominio di Lucca, la quale si riordinò a popolo. Uguccione accorse colla cavalleria da Pisa, ma allora anche questa si rivoltò, ed egli sbaldanzito ritirossi alla corte di Can Grande, ove s’imbattè con Dante, che a lui indirizzò la prima sua cantica, e che forse alluse a lui nel _veltro_ che prometteva liberatore di _quest’umile Italia_[281]. Castruccio per riconoscenza ottenne il titolo di capitano e difensore del popolo di Lucca per dieci anni, poi a vita; vi munì una cittadella, superbamente intitolata Augusta e abbellita come una reggia; e accettata la pace offerta da re Roberto (1320), fu tolto capitano de’ Ghibellini di Toscana. In tante guerre e viaggi aveva imparato non meno la tattica che l’amministrazione; valoroso, perfido, ingrato quanto si richiede per salir sublime; a torture e supplizj mandò chiunque l’avesse contrariato o beneficato; scoperto una trama, fe propaginare venti persone, cioè sepellirle vive col capo in giù, e cento esigliarne; con buona economia raddoppiò le entrate, chiamossi attorno i castellani della Versilia e dell’Appennino, e col premiare il valore si creò un poderoso esercito. Lucca, per quanto ricca e commerciale, era troppo angusta alle aspirazioni di lui; e sempre fingendo operare pel suo Comune, egli invase la Garfagnana e la Lunigiana: ma Spinetta Malaspina, che vi possedeva sessantaquattro castelli, gli recise la marcia, sostenuto dai Fiorentini. Addosso a questi s’avventò Castruccio, guastando le valli di Nievole e dell’Arno inferiore, assalse Prato, sorprese Pistoja togliendola a Ermanno de’ Tedìci abate di Pacchiano, che vi si era fatto tiranno; e coll’esibire maggiori somme, trasse a sè le bande di ventura che i Fiorentini aveano soldate. Tocca d’onta, Firenze chiama a stormo i cittadini ed anche i fuorusciti, e aduna il più grosso esercito che mai coscrivesse, e che costava tremila fiorini d’oro il giorno, oltre mille Fiorentini che servivano a cavallo a proprie spese; e l’affida a Raimondo Cardona, avventuriere catalano. Ma costui pensando men tosto a vincere che a incassar denaro col dispensare dalla milizia i ricchi mercanti, li condusse per le insalubri maremme di Biéntina, dove uggiati o febbricitanti, pagavano per ottenere congedo. Castruccio guata e aspetta, poi ad Altopascio li sconfigge (1325 — 13 7bre), prende Cardona e il carroccio, e col mandare il territorio a sacco si rifà delle spese di guerra. Mentre avea destra l’aria, tenta sorprendere Firenze, saccheggia le ville del piano di Peretola, ricche d’addobbi e di capi d’arte quali non sarebbonsi trovati altrove, e fin sotto le mura fa correre beffardamente il palio da cavalieri, da fantini e da bagasce. Nè certo i Fiorentini sfuggivano alla servitù, se una Frescobaldi non avesse distolto suo figlio Guido Tarlati vescovo d’Arezzo dal congiungere le sue forze a quelle dell’ardito venturiero. «Addì 10 novembre Castruccio si trovò in Lucca per fare la festa di san Martino con grande trionfo e gloria, vegnendogli incontro con grande processione tutti quelli della città, uomini e donne, siccome a un re; e per più dispregio de’ Fiorentini, si fece andare innanzi il carro con la campana, che i Fiorentini avieno nell’oste, coperti i buoi d’ulivo e dell’arma di Firenze, e l’insegne del Comune a ritroso, facendo sonare la campana, e dietro al carro i migliori prigioni di Firenze, e monsignor Raimondo di Cardona, con torchetti accesi in mano a offerire a san Martino. E poi a tutti diede desinare, che furono da cinquanta dei migliori di Firenze, gravandoli d’incomparabili taglie.... E di certo Castruccio trasse di nostri prigioni e de’ Franceschi e di forestieri presso a fiorini cento migliaja d’oro, onde fornì la guerra» (VILLANI). Giacomo d’Euse caorsino fu maestro (1316) poi cancelliere d’Università; indi con brighe e col denaro di re Roberto succeduto papa col nome di Giovanni XXII, si era stabilmente collocato in Avignone, dominio d’esso re, il quale perciò lo regolava a sua voglia, e preparavasi ad annichilare i Ghibellini in Italia; e sembra veramente che il papa e il re, prevalendosi della discordia de’ due imperatori eletti in Germania, pensassero sottrarre a questi tutta davvero la penisola, e assodarvi la sovranità di Roberto. Forte ostacolo vi mettevano Castruccio nella media Italia, nella superiore Matteo Visconti, contro del quale Roberto mosse coi tesori e colle maledizioni papali; ma quegli colle armi e più colle negoziazioni ne disperse le minaccie. Gran rumore levò a que’ giorni l’impresa di Genova, la quale, prospera pel commercio di Levante, ignorava la quiete interna, nè mai si comportava così male come quando pace godesse. I suoi ricchi non sedevano nei fondachi aspettando i compratori, ma scorreano il mare quai capitani di vascello, avvezzando i marinaj a rispettarli e ubbidirli; e poichè talvolta ogni figlio di famiglia comandava un bastimento, migliaja di persone si trovavano al soldo d’una casa sola, obbedienti per abitudine, per bisogno, per riconoscenza. Grosse e sanguinose faceansi dunque le battaglie fra’ Doria e Spinola ghibellini, Grimaldi e Fieschi guelfi; convertiti i palagi in fortezze, vi si assalivano e respingeano, e uom a uomo nemici, ciascuno esercitava una funesta attività; a vicenda popolani e nobili vedeansi trionfanti o cacciati; le piraterie pareano rese legali dalle nimicizie. I Ghibellini, prevalsi al venire di Enrico VII (1318), poi sbanditi dai Guelfi, invocarono i loro consorti d’ogni paese, e alla patria posero assedio per mare, mentre dalle valli del Bisagno e della Polcevera la stringeva Marco Visconti, prode figliuolo di Matteo. Tutta Italia prese parte al fatto; e Pisa, Castruccio, Can della Scala, il marchese di Monferrato, il re di Sicilia, fin l’imperatore di Costantinopoli fiancheggiarono gli assedianti, mentre Fiorentini e Bolognesi coll’armi, il papa co’ monitorj davano mano a Roberto che la difendeva. Questi, benchè solesse lasciar le imprese ai generali, venne in persona colla flotta, entrò nel porto, e ottenne insieme col papa la sovranità di Genova, ch’egli meditava far centro delle operazioni de’ Guelfi nell’alta Italia; i Ghibellini, durati dieci mesi gli attacchi, dovettero andarsene, e i Genovesi ne disfecero i palazzi e le ville, saccheggiarono i magazzini, e portarono in processione le reliquie del Battista in ringraziamento della vittoria. Quali danni una sì lunga guerra recasse a città tutta commercio, ognuno può figurarlo. Il popolo minuto, vedendosi oppresso malgrado l’abate che il rappresentava, aveva istituito una _Motta del popolo_, dieci capitani aggregando all’abate per costringere il vicario a far giustizia; e quando ricusasse, toccavano a martello. Roberto sconnettè questa lega, e tenne il dominio dodici anni, dopo i quali si crearono due capitani del popolo, con un podestà, oltre l’abate. Intanto i Ghibellini s’erano attestati a Soncino sul Cremonese, e fermata una lega sotto la capitananza di Can della Scala, rinnovarono le ostilità in varie contrade. Giovanni XXII fece processar d’eresia lo Scaligero, Matteo Visconti, Passerino Bonacolsi, gli Estensi ed altri; e comunque protestassero di loro fede, proclamare contro di loro la crociata. La guidò il cardinale legato Del Poggetto, nipote del papa, cattivo soldato e cattivo prete; ed ebbe lo svantaggio, malgrado il valore del suo capitano Cardona predetto. Il papa, ormai implicato a sostenere le scomuniche colle armi, mandò allora contro di noi il guelfo Filippo di Valois, cugino del re di Francia, con sette conti, centoventi cavalieri banderesi, e seicento uomini d’armi: giunto pien di baldanza a Mortara, le forze maggiori e più i donativi del Visconti lo fecero capitolare (1320). Deserto dai Francesi, Giovanni voltasi agli Austriaci, e da Federico il Bello ottiene una spedizione comandata da suo fratello Enrico d’Austria (1321); ma questo pure cedette all’armi stesse. Matteo Visconti, sorretto da quattro prodi figliuoli, Galeazzo, Marco, Luchino, Stefano, e da tutti i Ghibellini, avea tratte a sua obbedienza Bergamo, Pavia, Piacenza, Tortona, Alessandria, Vercelli, Cremona, Como; riscattò per ventiseimila fiorini il tesoro della basilica di Monza, che i Torriani aveano dato in pegno, e di propria mano ve lo depose sull’altare; conobbe il cuore umano e i proprj tempi, e ne profittò; dalle traversie non lasciossi fiaccare; e benchè in dominio nuovo, risparmiò il sangue, e più che coll’eroismo preferì arrivare a’ suoi fini colla prudenza e la simulazione. Banditagli addosso la croce come dicemmo, imputandolo d’eresia, necromanzia ed altri delitti, fra cui quello di aver messo impacci alle condanne della santa Inquisizione, il cardinale Del Poggetto dannò lui, i figli, i fautori alla confisca de’ beni e alla schiavitù della persona come fossero Saracini; e Pagano della Torre patriarca d’Aquileja menò l’esercito contro gli antichi emuli di casa sua. Atterrito della scomunica, e vedendo i popoli poco disposti a soffrirla per le ambizioni d’una famiglia, dinanzi alla gente raccolta in duomo fa solenne professione di fede cattolica, manda a trattare col legato, e poichè gli parvero esorbitanti le condizioni, esorta i figli a rientrare nel grembo della Chiesa, poi si riduce nella canonica di Crescenzago presso a Milano, ove muore (1322), lasciando nome di abile capitano e destro politico. Grave colpo alla causa. Galeazzo suo primogenito, malgrado le minaccie papali e le trame degli scontenti, avea conseguito il titolo di capitan generale; ma avendo tentato la moglie di Versuzio Lando gentiluomo di Piacenza, questa città gli fu ribellata, e dietro le altre e fin Milano, come a nemico della Chiesa. Principali attizzatori erano il cugino Lodrisio Visconti e quel Francesco da Garbagnate ch’era stato primario nel rimettere in dominio Matteo, e n’avea avuto grandi compensi. Coll’esercito della lega, scorto dal legato pontifizio e dal Cardona, essi batterono Marco Visconti, l’Ettore de’ Ghibellini, e penetrarono fin sotto Milano, che tennero assediata due mesi (1323). Marco guadagnò a denari molte bande tedesche che militavano coi pontifizj, altre ne chiese all’imperatore Lodovico Bavaro, e così allargò Milano; uccise di proprio pugno il Garbagnate cadutogli in mano alla battaglia di Vaprio, fe prigioniero il Cardona. I nemici tennero saldo alquanto in Monza, ma poi Galeazzo la ebbe, e vi fabbricò un forte castello con ispaventevoli prigioni, chiamate _i forni_, di pavimento convesso e di volta tanto bassa che il rinchiuso non potea nè reggersi in piede nè coricarsi se non abbiosciato. — Fortezze e carceri, necessarj corredi d’ogni tirannia. Le turbolenze d’Italia erano aggravate dal non avervi più nè il papa, assiso oltremonti, nè l’imperatore. Alla morte d’Enrico VII, competerono la corona di Germania Federico il Bello duca d’Austria, e suo cugino Lodovico di Baviera: divisi i voti, l’uno si pretendea legittimo perchè coronato dall’arcivescovo di Colonia, cui sempre era competuta questa solennità, l’altro perchè coronato a Francoforte come i precedenti: e non avendo altre norme a chiarire il loro diritto, ricorsero al giudizio di Dio, cioè alle battaglie, con otto anni di guerra civile insanguinando le rive del Reno e del Danubio. Federico, sostenuto dai nobili, mentre l’altro era dalle città libere, a Mühldorf sull’Inn (1322 — 28 7bre) combattendo restò prigioniero: allora Lodovico, bandita la pubblica pace in Germania, pensò venire a ripristinare in Italia i diritti imperiali. Papa Giovanni non aveva accettato veruno de’ due contendenti, ma quando la vittoria diè ragione al Bavaro, si mostrò disposto a riconoscerlo; se non che i consiglieri insinuarono a questo: — Qual bisogno ha della sanzione papale un imperatore vittorioso?» Gli ascoltò; e dell’autorità sua volle far assaggio mandando intimare al legato pontifizio che non molestasse Milano: ma di quest’atto si adontò il papa, il quale pretendeva toccasse a sè solo decidere fra i due competitori; onde dichiarò sottratta l’Italia dall’imperiale giurisdizione, in modo che non potesse essere incorporata o infeudata all’Impero[282]; alla chiesa d’Avignone fece affiggere un _processo_ (1324), ove il Bavaro veniva accusato di tutti gli atti che avea compiti nell’ingiusta qualità di re de’ Romani, e intimandogli di deporre questo titolo. A vicenda il Bavaro appellò ad un concilio, chiamando il pontefice con termini indegnissimi, turbator della quiete, scandaloso, profanatore de’ sacramenti, eretico; sicchè questo lo denunziò scomunicato e deposto, interdetti i paesi che seco avessero a fare; e cercò portare all’impero il re di Francia. Ecco scissa di ricapo la cristianità; le Università di Bologna e di Parigi disapprovano il papa; giuristi e teologi, difendendo l’imperatore, avventano dicerie scatenate contro la corte pontifizia; le dottrine antipapali si diffondono, e le coscienze e la quiete sono turbate in Germania e in Italia. A questa s’avviò Lodovico, ed arrivato con pochi uomini a Trento (1327), s’affiatò coi principali Ghibellini, Marco Visconti, Passerino Bonacolsi, Obizzo d’Este, Guido Tarlati, Can della Scala, e cogli ambasciadori di Sicilia, di Castruccio, de’ Pisani; dai quali avuta promessa di cencinquantamila fiorini d’oro per le spese, proseguì il viaggio per Brescia e Como, portando agli avversi minaccie e crucci, ai fautori suoi l’interdetto papale. In Milano (30 maggio) fecesi porre la corona di ferro da Guido Tarlati e Federico Maggi vescovi interdetti d’Arezzo e di Brescia: benchè sospettasse Galeazzo Visconti d’intelligenze col papa, gli mostrò volto d’amico, e lo confermò vicario; poi di botto lo fece arrestare coi fratelli Luchino e Giovanni (quest’era prete; Stefano morì il giorno stesso) e col figlio maggiore Azzone, e gittare nei forni di Monza. Le viltà sono più stomachevoli nel forte: il mondo credette false le corrispondenze che diceva sorprese a Galeazzo, e colle quali tentò giustificare questo primo tradimento, a cui molti n’accompagnò, tenendo egli l’Italia come un paese da manomettere e ingannare. Se n’avvidero i nostri, e lo guardarono con diffidenza anche quando il favorirono per ispirito di parte. Posti a Milano un podestà tedesco (agosto), e un governo di ventiquattro cittadini preseduti da un tedesco, i quali gli decretarono cinquantamila fiorini pel viaggio, seguitava innanzi cavando denaro dai Ghibellini, e fiancheggiato da Marco Visconti nimicato ai fratelli, e da Castruccio, a’ cui consigli s’abbandonava con una confidenza che non fa onore al suo discernimento, perchè Castruccio non volea che crescere la propria autorità col traversar l’Italia a fianco dell’imperatore. Pisa, sazia di favorire la parte ghibellina, che le attirava ingenti spese, scomuniche dal papa, e infedeltà dagl’imperatori, offrì sessantamila fiorini a Lodovico se non v’entrasse: ma Castruccio, che si struggeva di possederla, persuase Lodovico ad assalirla, dopo tenutone per ostaggi gli ambasciadori. Durato un mese l’assedio, le urla del popolaccio costrinsero la città ad arrendersi, pagando cencinquantamila fiorini; e l’imperatore ne conferì la sovranità a sua moglie, ed eresse in ducato (1328) Lucca, Pistoja, Volterra e la Lunigiana a favore di Castruccio. I Fiorentini sentendosi minacciati, chiesero a signore Carlo di Calabria unico figlio di re Roberto, il quale vi venne con bell’esercito di Provenzali e Catalani, e col fiore de’ signori del Reame e ducento cavalieri armati. Parendo quindi malagevole per allora l’aggredir Firenze e sfidare il duca di Calabria, Lodovico per la maremma grossetana[283] battè la marciata sopra Roma (gennajo). La trovò tutto sossopra; malgrado la supremazia di Roberto che n’era stato fatto senatore perpetuo, tutto guastavano gli oligarchi, i Colonna, i Porcello, gli Orsini, i Savelli, i Frangipani; e gli animi erano sempre peggio inaspriti contro il papa, che lasciava vedova la sposa. Sciarra Colonna, che all’annunzio della calata di Lodovico aveva espulsi i nobili e i Guelfi, ed erasi fatto eleggere capitano del popolo con cinquantadue delegati de’ cittadini e degli agricoltori, avendo di nuovo sollecitato invano il pontefice al ritorno, presentò al Bavaro un’accusa contro di Giovanni; e il Bavaro, sempre ispirato da una turba di eretici e di frati contumaci che a lui era accorsa, il fe citare dai sindaci di Roma, accusare d’eresia e di molteplici delitti, e in contumacia dichiarare decaduto, sostituendogli antipapa frà Pietro Rainalduccio da Corvara col nome di Nicola V; e da questo si fece incoronare (12 maggio). «L’imperatore e la moglie, con tutta sua gente armata, si partirono la mattina di Santa Maria Maggiore vegnendo a Santo Pietro, armeggiandoli innanzi quattro Romani per rione, con bandiere, coverti di zendado i loro cavalli, e molta altra gente forestiera, essendo le vie tutte spazzate, e piene di mortella e d’alloro, e di sopra ciascuna casa tese e parate le più belle gioje e drappi e ornamenti ch’avessono in casa. Chi ’l coronò furono Sciarra della Colonna ch’era stato capitano di popolo, Buccio di Porcello e Orsino degli Orsini stati senatori, e Pietro da Montenero cavaliere di Roma, tutti vestiti a drappi a oro: e coi detti a coronarlo furono cinquantadue del popolo e il prefetto di Roma sempre andandogli innanzi, come dice il titolo suo; ed era addestrato dai sopradetti quattro capitani senatori e cavalieri, e da Jacopo Savelli e Tibaldo di Sant’Eustazio e molti altri baroni di Roma; e tutt’ora si faceva andare innanzi uno giudice di legge, il quale avea per istratto l’ordine dello imperio, e col detto ordine si guidò infino alla coronazione; e non trovando niuno difetto fuori la benedizione e confirmazione del papa che non v’era, e del conte di palazzo di Laterano il quale s’era cessato di Roma, che secondo l’ordine dell’imperio il doveva tenere quando prende la cresima all’altare maggiore di Santo Pietro, e ricevere la corona quando la si trae, si provvide innanzi di fare conte del detto Castruccio duca di Lucca. E prima con grandissima sollecitudine il fece cavaliere, cingendogli la spada con le sue mani e dandogli la collana; e molti altri ne fece poi cavalieri pur toccandoli con la bacchetta dell’oro; e Castruccio ne fece in sua compagnia sette. Ciò fatto, si fece consecrare il detto Bavaro come imperadore da scismatici; e per simile modo fu coronata la sua donna come imperadrice. E come fu coronato, fece leggere tre decreti imperiali, primo della cattolica fede, secondo d’onorare e riverire i cherici, terzo di conservare la ragion delle vedove e de’ pupilli: la quale ipocrita dissimulazione piacque molto a’ Romani. E ciò fatto, fece dire la messa; e compiuta la solennitade si partirono da San Pietro, e vennero nella piazza di Santa Maria Araceli, dove era apparecchiato il mangiare; e per la molto lunga solennità, fu sera innanzi che si mangiasse, e la notte rimasono a dormire in Campidoglio»[284]. Lodovico sentenziò che i pontefici non potessero rimanere due giorni fuori di Roma senza l’assenso del popolo romano: e il popolo applaudiva a decreti che non aveano nè senso nè forza. Allora meditava cavalcare sopra Napoli a punire quel re, e sostenere Federico di Sicilia: ma i Ghibellini, o stanchi di tanti pesi e dell’interdetto, o per naturale mobilità, gli venivano meno. Galeazzo Visconti, per le istanze di Marco, il quale l’aveva tradito per dividerne il potere, non per vedere umiliata la propria casa, avea colla spesa di venticinquemila fiorini recuperata la libertà, e passando a chiusi occhi le offese, veniva nel seguito di Lodovico, sinchè morì a Pescia, scomunicato e a servizio altrui. Castruccio, udito che i Fiorentini, mentr’egli pompeggiava a Roma, invadevano i suoi dominj, volò a salvarli, ripigliò con orribile saccheggio Pistoja e Pisa che tenne senza badare ai diritti imperiali, sicchè «trovossi in sul colmo d’essere temuto e ridottato, e bene avventuroso di sue imprese più che fosse stato nullo signore o tiranno italiano; signore di esse città e di Lunigiana, e di gran parte della riviera di Levante, e di più di trecento castella murate» (VILLANI). Quand’ecco nel meglio del fare morì (1328), e Firenze e Toscana rimbaldirono d’allegrezza, come cansate dal maggior pericolo che avessero mai corso. Privo di questa sua mandritta e di denaro, privo per morte di Marsiglio da Padova teologo, suo ispiratore nella sciagurata controversia col papa, Lodovico, che non avea saputo se non farsi ridicolo e vituperevole colle pompe e coi processi, e con que’ fastosi improperj ai pontefici che alternava con abjette sommissioni, invece della promessa flotta di Federico di Sicilia sentendo arrivar le truppe di re Roberto, levossi di Roma più che di passo, inseguito a sassate dal popolo cui aveva imposto trentamila fiorini, e che adesso gridava — Viva santa Chiesa, giù Pier di Corvara, morte ai Tedeschi», dei quali dissotterrò perfino i morti in quel frattempo, e buttolli nel Tevere come scomunicati. Egli tornato a Pisa, e fattevi nuove scene di congressi e deposizioni, vi si trovò fin nelle mura insultato dai Fiorentini: le perfidie e le violenze con cui smungea denaro fin da’ suoi più devoti finirono di diffamarlo. Immemore de’ servigi ricevuti da Castruccio, dopo aver fatto pagare a’ costui figli la conferma del dominio, vendette Lucca a Francesco Castracani, parente e nemico di quelli, che così trovaronsi ridotti al mestiero di condottieri. Molti Sassoni suoi soldati non ricevendo le paghe, ruppero l’obbedienza, e tentato invano sorprender Lucca, s’aggomitolarono sulla montagna del Ceruglio che divide il paludoso pian di Fucecchio dal lago di Bientina, donde signoreggiando il val di Nievole e il val d’Arno, interrompeano le comunicazioni tra Lucca e Pisa, e viveano di rapine. Speditovi Marco Visconti per chetarli, essi il tolsero a capo, ed occupata Lucca, la esibirono al miglior offerente per risarcirsi delle paghe. Quando Azzone Visconti succedette al padre, tant’era bassa la sua famiglia che dovette a denaro comprar dal governatore la facoltà d’entrare in Milano; ma quivi s’affrettò a recuperare l’autorità, dall’imperatore comprò il vicariato per dodicimila fiorini alla mano e mille al mese finchè restasse in Italia, poi presto ne cacciò il governatore; e conoscendo Lodovico sullo sdrucciolo, e volendo fraudargli il resto del pagamento, si buttò colla Chiesa, chiamandosi vicario pontifizio. Anche i signori d’Este s’erano rappattumati col papa; Brescia, datasi a re Roberto, snidava i Ghibellini a cui segno era governata. L’imperatore, i cui soldati disertavano a chi più li pagasse, a Lodi si vide chiuse le porte in faccia: accampò sotto Milano, ma chetato a denaro, se n’andò oltr’Alpi, maledetto dagli Italiani che, in grazia sua, lungo tempo erano dovuti stare senza sacramenti, e lasciando svilita l’autorità imperiale, che egli avea venduta a ritaglio, e pregiudicati gli amici più che i nemici suoi. Il suo antipapa fuggì tra le maremme, ma scoperto nel suo nascondiglio, abjurò al cospetto di tutta Pisa: spedito ad Avignone, vi fu assolto, e finì la vita sotto custodia nel palazzo papale. E tutte le città s’affrettarono a domandar la ribenedizione del pontefice: Lodovico stesso propose più volte di venire all’obbedienza, purchè gli fosse conservata la dignità imperiale; ma Giovanni negò sempre, guardandolo come scaduto, e volendo una nuova elezione. Sormontano allora in Lombardia la parte guelfa e Roberto; in Romagna le città, profittando dell’assenza de’ pontefici, agitano una burrascosa indipendenza; i Polenta assodano il loro dominio a Ravenna, a Rimini i Malatesta, a Urbino i Montefeltro, i Varano a Camerino; da venti altre signorie s’erano costituite fra l’Appennino, l’Adriatico e il principato di Benevento, appena frenate d’ora in ora da qualche legato pontifizio, che colle alleanze, colle armi, cogl’interdetti cercava rintegrare l’autorità papale. Bologna, posta nel cuor d’Italia, popolosa, trafficante, altera della sua Università, disputava con Firenze la capitananza dei Guelfi, e conservavasi libera, benchè in gran setta fosse e divisione. I signori ghibellini, vincitori de’ Guelfi toscani ad Altopascio, diedero ai Bolognesi una memorabile sconfitta a Monteveglio (1328), uccidendo il podestà Malatestino da Rimini e il fiore de’ cittadini: sicchè la città sgomentata si diede al cardinale Del Poggetto, che quivi piantatosi in aspetto di proteggere gl’interessi papali, mirava a formare per sè un principato: e già erasi ridotte a devozione Parma, Reggio, Modena, altre città di Romagna. Intanto Carlo di Calabria, senza riguardo a’ patti con cui Firenze avea garantita la propria libertà, ne smungeva quattrocencinquantamila fiorini d’oro annui invece dei ducentomila stabiliti; volle diritto di guerra e pace, sorretto dai nobili cui il principato talentava meglio che la democrazia; indulgeva ogni licenza a suoi parziali; e coll’abolire le leggi che reprimevano il lusso delle donne, aggiunse ai pubblici guaj le querele domestiche. La morte che avea salvato Firenze da Enrico VII e da Castruccio, la campò anche da Carlo. Libera allora di sè (1329), si diede a riformare di nuovi ordini la riavuta libertà, tali che il popolo non governasse direttamente e universalmente, pure nessuno ne fosse escluso con legge generale. Gli eleggibili erano sinceramente riconosciuti da cinque magistrature, che rappresentavano interessi diversi: i priori quei del Governo, i gonfalonieri quei della milizia, i capitani di parte quelli dei Guelfi, i giudici di commercio quelli de’ mercanti, i consoli delle arti que’ degli artieri. I quattro consigli furono ristretti a due, uno di trecento guelfi e popolani sotto il capitano del popolo, l’altro di cenventi plebei e cenventi nobili sotto al podestà, rinnovabili ogni quattro mesi. Allora prese nuovo fiore e preminenza. Pistoja, redenta dai Tedìci e dai Castracani, si unì ad essa in perpetua amicizia, saldata con reciproche cortesie, e così i castelli del ridente val di Nievole già confederati tra loro. Marco Visconti le esibì Lucca, ed essa improvvidamente la ricusò, nè lasciò l’accettasse una compagnia di mercanti; onde la comprò Gherardino Spinola genovese. Esso Marco, privo di quella fermezza per la quale soltanto il valore può riuscire ad alcun fine, falliva alla causa ghibellina col trattare coi Fiorentini; e forse al legato pontifizio offrì di tradirgli Milano; poi tornato a questa città, cominciò a maggioreggiare, tanto che i suoi parenti, tra per vendetta delle offese avutene, tra per sospetto di nuove, lo invitano a un banchetto, e la mattina è trovato con una soga al collo nella fossa. Morti erano i caporioni tutti de’ Ghibellini, Castruccio, Gian Galeazzo, Can Grande di malattia, Marco Visconti e Passerino d’assassinio; Azzone Visconti, riconciliato col pontefice, otteneva per lo zio Giovanni, fatto cardinale dall’antipapa, l’assoluzione e il vescovado di Novara; insomma la bandiera ghibellina era dappertutto in travaglio. Ma neppur la pontifizia stava in onore: i nomi di Guelfi e Ghibellini non significavano più affezione all’uno e all’altro dei due luminari del mondo, ma odio all’avverso; e sotto di quelli continuavano a mutarsi le effimere signorie: unica aspirazione omai, al perdersi della libertà. Trovavasi di quel tempo nel Tirolo Giovanni di Luxemburg re di Boemia, figlio d’Enrico VII, cavalleresco quanto il padre, e che male acconciandosi ai costumi slavi, andava randagio, guatando ove fossero litigi da accomodare o nozze da concludere; riconciliò il Bavaro con casa d’Austria, cercò rappattumarlo anche col papa, ma questo ricusò ogn’altra condizione se non che Lodovico scendesse dal trono. A questo re della pace i Bresciani mandarono offrire la loro città (1331), purchè li soccorresse contro i fuorusciti ghibellini, che Mastin della Scala voleva rimettere in città. «Povero di moneta e cupido di signoria», egli vi accorse, quietò le fazioni, indusse Mastino a desistere; e la fama di sue romanzesche imprese, il nobile aspetto, l’eloquenza, la generosità, il fare aperto e amichevole affascinarono gli animi, meno sospettosi perchè egli non armava diritti, ma dovea tutto alla libera elezione. Per quel solito farnetico d’imitazione, i Bergamaschi l’invitarono a signore; e così Crema, Cremona, Pavia, Vercelli, Novara, Parma, Reggio, Modena; anche Lucca, senza rincrescimento abbandonata dallo Spinola che mai non avea potuto godervi pace; perfin Milano, ove Azzone si rassegnò ad intitolarsi vicario di lui, aspettando senza gelosia il tramonto d’un regno che prevedeva effimero. Dappertutto egli ripatriava gli sbanditi, toglieva via le guarnigioni lasciate dal Bavaro, le quali non poteano vivere che di saccheggio. Ma lavorava egli pel papa o per l’imperatore? nessuno lo sapeva, giacchè facendo bel viso a Guelfi e a Ghibellini, tutti del pari sommetteva, pur professando non accettare le signorie che per rimettere l’ordine e la concordia. Pel quale desiderio di tener buoni tutti, pontifizj o imperiali, Giovanni s’abboccò col legato. Bastò sì poco perchè gl’Italiani lo prendessero in sospetto d’intendersi con costui onde spartirsi l’Italia e tutti ridurre in servitù. Prima Firenze, che, più calcolatrice e men passionata delle altre città, avea resistito alla moda, si restrinse col re di Napoli; il papa indispettì del vederlo trattare da padrone col suo legato, e gli avversò i Guelfi; i Ghibellini ne insusurrarono il Bavaro, il quale si alleò coi duchi d’Austria e con altri signori suoi avversarj per invadere gli Stati di quel che gli si era mostrato intrinseco amico: sicchè il re della pace, divenuto causa di guerra universale (1332), fu costretto tornare in Germania, lasciando i dominj d’Italia a Carlo suo figlio, raccomandato ai duchi di Savoja. Ma questi ben presto l’ebbero abbandonato; Ghibellini lombardi e Guelfi toscani s’accordarono per ritorgli le città, e ad Orzinovi fu tessuta una lega fra’ signori ghibellini, la repubblica di Firenze e re Roberto, assicurandosi a vicenda i possedimenti. Carlo non oppose gran resistenza, bastandogli cavar denaro, ed aver campo ad altre imprese. Giovanni in Germania avea dissipato i sospetti, salvato i proprj dominj, disperso Austriaci e Ungheresi; poi tornò per rimettere in accordo il papa coll’imperatore, e se il suo fare fu indarno, almeno riportò onore di molti tornei, e combinò nozze; e ottenuti da Filippo IV di Francia centomila fiorini, soldò milleseicento cavalieri (1333), e con questi ricomparve in Italia, ove tutti pareano intenti a cancellare ogni ricordo della dominazione di lui, o a farne lor profitto. Il papa, che voleva umiliare i Fiorentini avversi al cardinale legato, lo favorì: ma scarso di denaro ed avvedendosi di eccitar gelosie d’ogni parte, quanto a principio aveva ispirato confidenza, provvide a far denaro; vendette Parma e Lucca ai Rossi per trentacinquemila fiorini, Reggio ai Fogliano, Modena ai Pio, Cremona a Ponzino Ponzone, la riviera di Garda ai Castelbarco, e se n’andò in Francia a ferir torneamenti, conciliare parentele e paci; finchè nella battaglia di Crécy (1346), vecchio e cieco, combattendo gl’Inglesi che invaso aveano quel regno, obbligò molti cavalieri a legare i loro cavalli col suo e spingersi avanti a corpo perduto, menando a caso, finchè cadde nel fitto della mischia. Poveri re e imperatori, che senza soldati nè denaro comparivano un tratto fra questi signori e questi repubblicani ben forniti degli uni e dell’altro; e non mostrando altro intento che di riguarnire alquanto la borsa, mietevano odio e vilipendio. Che se conseguivano lode in Germania, essi che nè tampoco sapeano leggere[285], fra la civiltà e la finezza italiana pareano barbari, fra le costituzioni nostre tiranni. Lodovico il Bavaro vendette ogni cosa e perfidiò; Giovanni di Luxemburg fu più leale, ma altrettanto vendereccio; Carlo di Boemia vendeva e impegnava: onde io non so che si volesse Dante quando invocava la vendetta di Dio sopra Rodolfo d’Habsburg e Alberto suo figlio perchè lasciavano deserto questo giardin dell’Impero, e non venivano a ricomporre il freno di questa fiera indomita; o il Petrarca allorchè ad esso Carlo dirigeva retorici inviti. Qual bene aveano mai gl’Italiani a sperare dagli imperatori? quali mai dai papi? eppure di loro lontananza continuavano a piagnucolare; e intanto si valevano del nome degli uni e degli altri per parteggiare, ammantar le proprie ambizioni, e tempestare in una libertà che nè sapeano stabilire nè voleano rinunziare, e che soccombeva or alla tirannia delle moltitudini, or alla tirannia d’un solo. CAPITOLO CVII. I tiranni. I figli di Matteo Visconti. Gli Scaligeri. Casa di Savoja. Tutte ormai le antiche collegate lombarde sono ridotte a signoria di principe. Il primo esempio fu dato da Ferrara, quando nel 1208, al soccombere de’ Ghibellini e di Salinguerra Torello, conferì pieno arbitrio ai marchesi d’Este (t. VI, p. 310): ma questi andarono in dechino, ed Azzo VIII, effeminato e crudele, ribellatesegli Modena e Reggio, fu ridotto a nulla più che Ferrara e il proprio patrimonio. Morendo, invece del fratello chiamò erede il figlio d’un suo sterpone; di che sorse guerra intestina, e i vicini ne profittarono per cincischiar quella casa. I Veneziani, ausiliarj del bastardo, occuparono Ferrara: Clemente V, sostenendo il fratello di Azzo, spedì il cardinale Pellagrua suo nipote con un esercito, che predicò la crociata come contro i Turchi, e fulminò contro de’ Veneziani la bolla più smoderata, escludendoli sin alla quarta generazione da ogni dignità ecclesiastica e secolare, confiscati i loro beni in qualunque parte del mondo, libero il ridurli schiavi senza divario tra innocenti e rei; e vi fu chi ne profittò. I Veneziani venuti a guerra coi Pontifizj ed appoggiati specialmente da Bolognesi e Fiorentini, toccarono una terribile rotta sul Po (1309), fin seimila uomini perdendo tra di ferro e annegati: il Pellagrua fece impiccare quanti Ferraresi gli aveano favoriti, e destinò vicario della città re Roberto, senza alcun riguardo agli Estensi: i Veneziani dovettero comprare con centomila fiorini l’assoluzione. I Provenzali di Roberto fecero pessimo governo di Ferrara, che ribramando un signor proprio, si levò a rumore, espulse gli stranieri, e rimise gli Estensi (1317), che all’uopo s’erano collegati coi Ghibellini. Qui armi e scomuniche e processi d’eresia, malgrado de’ quali gli Estensi tennero il dominio. Agli Ezelini in Treviso, Feltre e Belluno era sottentrato Gherardo da Camino, per bontà e beneficenza soprannomato _il semplice Lombardo_, e come nobilissimo lodato da Dante. Riccardo suo successore fu nel 1312 scannato nelle proprie stanze da un villano. Dopo finiti i Traversara capi de’ Guelfi, Ravenna era venuta a Guido Novello, signore del castello di Polenta presso Brettinoro: cacciato dai Bagnocavallo, vi rientrò e ne fu fatto signore il 1275; ospitò Dante, e trasmise il reggimento ai figli Bernardino e Ostasio. Il primo generò Guido e Rinaldo arcivescovo di Ravenna: l’altro signoreggiava Cervia, della quale non contento, trucidò l’arcivescovo e s’impadronì anche di Ravenna (1322). Rimini con buona parte della marca Anconitana era tiranneggiata dai Malatesta da Verucchio. A Pandolfo succedette il nipote Ferrantino; ma Ramberto cugino suo l’invitò con altri parenti a cena, e li fece prigioni, invano Polentesa madre di Ferrantino correndo la città colla spada sguainata per levarla a rumore: se non che un altro figlio di Pandolfo tra pochi giorni recuperò Rimini (1326), liberò i presi e cacciò Ramberto. Questi procurò ogni via d’ottenere perdono; a una caccia solenne buttossi a’ piedi di Ferrantino supplicandolo di misericordia, e Ferrantino lo scannò. De’ Montefeltro, i quali ebbero Sinigaglia e Forlì, Guido salì in maggior fama; ed essendo mandato (1382) un esercito francese da papa Martino IV ad assediare Forlì, consigliò i cittadini a riceverli entro, distribuirsegli nelle case e avvinazzarli; la notte esso li sorprese, e ne fe macello. Come capitano di ventura s’illustrò Federico, che possedette Urbino e altre città ghibelline: ma avendole gravate per sostenere la guerra contro i Guelfi, Urbino gli si rivoltò, lo fece a pezzi con un figliuolo, e si diede al pontefice. Mantova erasi fatta libera alla morte della contessa Matilde, coi soliti rettori o consoli, e col podestà, al quale poi nel 1272 la generale assemblea dei Quattrocentonovanta surrogò due vicarj cittadini, che furono Pinamonte de’ Bonacolsi e Federico conte di Marcarìa. Pinamonte affettava il dominio, e prese via dal mandar voce fra il popolo che il marchese di Ferrara volesse adunghiare anche Mantova; onde il popolo, sempre credulo a chi disapprova e accusa, bestemmiando il marchese ed esaltando il Bonacolsi, diede a costui pieno arbitrio di sbandire chi credeva, cioè chiunque gli potesse fare ostacolo, e massime i conti di Casaloldi. Allora chiaritosi ghibellino, s’alleò con quel marchese di cui avea finto paura, fece assassinare Ottonello da Zenecalli che l’assemblea gli avea posto accanto, e gridarsi capitano perpetuo (1276) colla solita ciurmeria del voto universale. I Casaloldi, gli Arlotti, gli Agnelli, i Grossolani ed altri fuorusciti congiurarono per recuperare la città, e vi s’introdussero armati; ma un traditore n’avea dato avviso a Pinamonte, che li disperse. Gli successe suo figlio Bardellone (1291), brutto d’ogni vizio; Taino fratello di lui cercò l’appoggio degli Estensi per isbalzarlo: intanto però Bottesella loro nipote, avute truppe da Alberto della Scala, cacciò l’uno e l’altro a morire in esiglio (1299), e si fece signore coi fratelli Butirone e Rinaldo Passerino. Quest’ultimo, rimasto solo al comando, sparnazzò il denaro pubblico a favorire la parte imperiale, tanto che ebbe in piedi dodicimila uomini, e da Enrico VII comprò il titolo di vicario imperiale. Ottenne anche Modena, promettendo lasciare in pace i signori della Mirandola che prima vi dominavano, poi li fece prendere e morir di fame: così avuta a patti la Mirandola, la mandò a sacco e fuoco. Tre scomuniche e venti anni di guerra gli facevano avverso il paese; soffiava negli odj Luigi Gonzaga suo cognato, inuzzolito di quella signoria, e anche di vendicare Filippino suo figlio, alla cui moglie avea giurato far onta il figlio di Rinaldo per vendetta d’una rapitagli amante. E poichè que’ tirannetti erano sempre disposti a nuocersi a vicenda, il Gonzaga ebbe soccorsi dallo Scaligero, intelligenze in città, e la mattina 16 agosto 1328 la invase e corse, uccise Rinaldo, strappò dall’altare suo figlio Giovanni abate di Sant’Andrea, e lo lasciò perir di fame nella torre dov’era morto il signore della Mirandola: all’altro figlio Francesco furono strappati i genitali e postigli in bocca. Il saccheggio fu orrendo, e la sola parte toccata a Cane si fa ammontare a centomila fiorini. A proposta di Claudio Agnello, uom ricco e creduto, il popolo elesse capitan generale il Gonzaga. L’imperatore, che dianzi aveva approvato Rinaldo, allora approvò lui come vicario; il Comune con ventimila fiorini ottenne che il papa l’assolvesse dell’assassinio, e con annua festa solennizzò il cominciamento di questi nuovi signori, che poi furono marchesi, poi duchi, poi nulla. Sole rimanevano governate a repubblica Bologna e Padova, le città degli studenti. Questi a Bologna portavano vita e ricchezze, ma insieme irrequietudine, a leggi nè a tribunali negando sommettere i loro privilegi. Nel 1315 i rettori dell’Università, chiamandosi offesi dal pretore, si ritirarono all’Argenta; e gli scolari davano vista essi pure d’andarsene, se persone autorevoli non si fossero interposte, facendo confermare le antiche franchigie dell’Università, esentarla dal bargello, capo della polizia incaricato di tener quieta ed onesta la città: all’Università e ai rettori non si tenesse porta in palazzo; essi rettori con un compagno e quattro donzelli di loro scelta potessero portare qualunque arma offensiva o difensiva; cancellato ogni decreto o bando contro le persone che aveano dato occasione al disgusto; cacciati quelli che avean fatto ingiuria ai rettori; niuno scolaro potess’essere richiesto davanti al pretore od a’ suoi giudici. Poco stante, Giacomo di Valenza studente rapisce la nipote del celebre leggista Giovanni d’Andrea; e il podestà a viva forza lo prende e condanna a morte. I condiscepoli fremono, romoreggiano, e nol potendo salvare, migrano a Siena, giurando non tornare se non ricevano soddisfazione. Bologna rimase squallida, finchè Romeo de’ Pepoli indusse a mandare agli studenti le scuse volute, e rinunziare ogni giurisdizione sopra di essi. Questo Romeo, negoziante, dell’ingente rendita di cenventimila fiorini si valea per primeggiare, e spesso per corrompere o eludere le leggi. Crebbe allora di riputazione; onde i Gozzadini, i Beccadelli ed altri gentiluomini credettero o dissero aspirasse a tirannia, e formato il partito de’ Maltraversi, contro gli Scacchesi, così nominati dallo stemma dei Pepoli, accusarono Romeo (1321), l’assalsero nella propria casa, donde a pena ebbe tempo di fuggire col buttare alla folla sacchi di denaro. La famiglia fu esigliata, abbattuti i palazzi, confiscati i beni, relegati i partigiani: gran tempo durarono le paure e le trame, ma Romeo, esule ad Avignone, non potè più recuperare la patria. Anche Cremona, sobbissata da Enrico VII, come vedemmo, fu assalita da Can della Scala e da Passerino Bonacolsi signore di Mantova e di Modena; e per quanto Ponzino Ponzoni scaldasse a sostenere il governo popolare, vi fu gridato signore Jacopo Cavalcabò (1315). Ma dopo sei mesi i Ghibellini condotti dal Ponzoni l’assalsero, e costrinsero a rinunziarla a Giberto di Correggio, altro capitano di ventura che condusse le armi guelfe contro molte città, mentre le ghibelline erano guidate da Federico di Montefeltro. Poco tardarono i Visconti di Milano a sottoporre Cremona (1322). Sarebbe difficile e nojoso il seguire le vicende di ciascuna repubblica; ma il sin qui detto basta a mostrare come colla tirannide non venisse pace. Non essendo quella fondata sopra una legge o un pattuito statuto, non consolidata dall’opinione nè dal tempo, non trasmessa per successione regolare, apriva campo alle ambizioni di qualunque pretendente potesse addurre i titoli medesimi, cioè l’avere osato; la medesima sanzione, cioè l’essere riuscito. Un signor nuovo sbalzava l’antico; e questo, ricoverato a città amiche, al papa, all’imperatore, tramava alla macchia, collegavasi con altri di sua fazione, comprava bande, fomentava dissidj civili, che non poteano decidersi per ragioni, ma solo colla forza, unica misura del diritto: ma di prevalere una famiglia sola impediva il bilanciarsi delle parzialità. Queste, pur conservando gli antichi nomi, aveano cangiato scopo; o piuttosto scopo reale non s’avea che il proprio trionfo momentaneo e la depressione degli avversarj. In generale però i nobili erano ghibellini, il che volea già dire tedeschi, perchè o aveano militato al soldo degli imperatori, o avutone titoli, stipendj, possessi, ragioni d’acque, di pedaggi, di porti, cavalleria, capitananze, e la gloria di portar nello stemma l’aquila imperiale, e l’esenzione dai tribunali comuni. Di dentro, ogni vincitore trovavasi inadeguato ai desiderj che aveano concepito i suoi fazionieri, alle promesse ch’egli medesimo avea prodigate, allo sbrigliamento che ciascuno erasi ripromesso. Il popolo, che pel minor male avea confidato pieni poteri al tiranno, vedendolo abusarne, ne moveva querele. I tiranni, benchè eletti popolarmente, snervavano le libere consuetudini coll’avvilire i corpi che rappresentavano il paese, invece di farsene una difesa e un appoggio. Ed oltrechè con nessun buono statuto erasi provvisto a moderare il loro potere, troppi mezzi possedeano essi di comprare, illudere, atterrire la moltitudine; tenevansi armati fra gente pacifica; col pretesto delle congiure uccidevano, spogliavano, esigliavano chi resistesse[286]. I migliori cittadini, trovandosi inetti a frenare la prepotenza, s’astenevano dalle assemblee per non legittimarla, e si ritiravano in violenta pace. Perfino qualche chiesa, che dapprima avea pregato Dio a camparci dai tiranni, allora offriva supplicazione per essi, connivendo a colpe che gli antichi pontefici fulminavano senza riguardo[287]. Ogni apparenza di elezione popolare scompariva poi, allorchè i tiranni ottenessero il titolo di vicarj, che compravano dagli imperatori, ben contenti di vendere a denaro un’autorità ch’essi non potevano esercitare. Allora il tiranno gittava a spalle ogni rispetto ai privilegi e consuetudini, nè alle comunità lasciava che di nominare alcuni inferiori magistrati, curar le strade e le rendite proprie, quali ad un bel circa sono oggi ridotte. Come alla licenza non si era trovato altro rimedio che la servitù, così alla tirannide non restava riparo che la cospirazione, e quei signorotti duravano brevissimo; alzati da una rivoluzione violenta, da una violenta abbattuti; ogni anno ne portava una nuova, sempre fatta colla forza, cioè al despotismo surrogando il despotismo[288]; gridavasi _Popolo popolo_, e si finiva col dare la libertà in mano d’un signore assoluto. Guelfi e Ghibellini, nati dal cozzo dell’Impero col papato, nonchè guarire con quello, incancrenirono, più non disegnando due partiti ben distinti, la forza e le idee, l’indipendenza e l’unità, la democrazia e l’aristocrazia, bensì un’eredità di antichi odj, dei quali erano mancate le ragioni: tanto che i pontefici, quando dimenticarono d’esser padre di tutti, stettero alcuna volta coi Ghibellini, e contro di questi gl’imperatori; e mutando parte, a vicenda invocavano d’essere dipendenti o dissoggetti all’Impero per convenienze ed ambizioni particolari e giornaliere. I tirannelli inclinavano al segno ghibellino, ma sciagurato l’imperatore che sul loro appoggio contasse! Veniva di Germania? essi gli prodigavano accoglienze, la cui pompa mortificava l’obbligata parsimonia di lui; porgevangli le chiavi delle città, gli pagavano certe regalie, ma non gli lasciavano potere di sorta, nè consentivano tampoco che troppo s’indugiasse nel loro paese; partito appena, cessavano ogni dipendenza, e ordivano leghe contro di esso. Tali cambiamenti erano qualche volta prodotti dal rivalere d’una parzialità sull’altra, poichè quella che trionfasse in una città faceva propendere in suo senso le decisioni; spesso ancora venivano da un intento più largo, qual era il cozzo fra le superstiti repubbliche e gl’invadenti principati; intento che costringeva a parteggiare or con questo or con quello, non più a norma di nomi o a simpatia di genti, ma secondo che l’opportunità facea credere che meglio conducessero a libertà i papi o i re, Francia o l’Impero, i Guelfi o i Ghibellini. Di qui il sistema d’equilibrio, contro del quale si è tanto declamato, e che pure recò all’Italia due secoli d’indipendenza e di civile progresso, quali non ebbe più mai: minacciata d’immediata servitù da questo o quel signorotto, riuscì sempre a reprimerlo. È vero che così si trovò poi inferma a repulsare la servitù straniera; ma, senza discutere se l’unità ne l’avrebbe salvata, chi dirà che fosse possibile prevederla nelle condizioni dell’Europa d’allora? Francia, allora assai più piccola, sudava per tutelare la propria nazionalità contro gl’Inglesi: Spagna riscattava pezzi a pezzi la patria dalla schiavitù araba: l’Impero greco disfacevasi di tabe senile; i Turchi poteano spingere qualche correria sulle nostre coste, ma lo sforzo principale drizzavano contro Bisanzio. Gl’imperatori aveano forze tanto sproporzionate alle pretensioni, che di qua dall’Alpi non poteano avventurarsi senza l’ajuto de’ Ghibellini nostri; così era venuto, così partito Lodovico Bavaro, senza che pel suo venire prosperassero i Ghibellini, o del partir suo vantaggiassero i Guelfi. Capo nominale di questi come legato pontifizio, il cardinale Del Poggetto, creato conte della Romagna e marchese d’Ancona, continuava la sua tirannia, che spegnava gli spiriti repubblicani; e fingendo allestire a Bologna un palazzo pel papa, il quale andava ripetendo volesse restituirsi in Italia e stanziare in quella città, fece una fortezza, e collocativi i suoi Guasconi, ed altri nelle cariche e fin nell’arcivescovado, sbraveggiava quella repubblica. Tentò pure, coi modi allora in uso, imprigionare i primarj cittadini: ma il popolo tumultuante l’obbligò a rilasciarli. Voleva anche sottrarre Ferrara al marchese d’Este, ma una segnalata vittoria scompigliò i papalini e diè prigioni i principali signori di Romagna che con essi militavano. Il marchese li rilasciò, ma dopo esserseli guadagnati, onde presto cominciò tutta Romagna a rialzare la testa. I Bolognesi, spinti da Brandaligi Gozzadini e Collazio Beccadelli, uccidono parecchi soldati (1333), assediano il legato stesso, che, salvo solo per l’interposizione de’ Fiorentini, dovette ritornarsene in Avignone, dopo avere in Italia sprecato tanti milioni e tanto sangue, nulla acquistando, molto sperdendo, e facendo aborrite le sante chiavi e men gelosa la libertà. Di fatto i Bolognesi non tardarono a ridursi a signoria di Taddeo Pepoli figlio di Romeo (1337), il quale promise annuo tributo alla Chiesa purchè assolvesse la città dall’interdetto ove era incorsa col cacciare il legato, e si assodò colle solite persecuzioni e coll’appoggio solito delle bande mercenarie. Papa Giovanni XXII avea continuato a perseguitare Lodovico Bavaro. Il quale vedea Polacchi e Lituani rompergli guerra, la Germania irrequieta del trovarsi priva degli uffizj divini, sollevato come anticesare Carlo di Boemia, figlio di Giovanni di Luxemburg: sicchè, temendo Dio e gli uomini, offriva disfare quanto avea fatto contro della Chiesa e degli alleati di essa, implorare l’assoluzione, e per isconto andare crociato. Ma il re di Francia mandò ad Avignone, minacciando confiscare i beni de’ cardinali e guaj al nuovo papa Benedetto XII, il quale ai vescovi che lo supplicavano di pace rispose con lagrime agli occhi, esserne impedito da re Filippo. Tali erano i papi in terra altrui. Lodovico, a cui per prima condizione poneasi che abdicasse, vi si disponeva; ma gli elettori e gli Stati non gliel soffersero, cassarono la condanna papale, tolsero l’interdetto, e proclamarono che l’autorità imperiale emana immediatamente da Dio, nè all’eletto fa mestieri di conferma papale; vacante l’impero, n’è vicario l’elettor palatino; basta essere coronato re dei Romani per valere quanto l’imperatore coronato a Roma; e se il papa ricusi, può qualsivoglia vescovo adempiere la cerimonia della coronazione. Benedetto, cui la decisione fu notificata, dovette obbedire al re di Francia, e una scomunica riboccante[289] d’imprecazioni avventare a Lodovico, che del resto, ispirato da frati apostati, tornava dalla sommessione all’arroganza: ma infine non faceva se non difendere l’indipendenza del regno affidatogli. Cacciando all’orso presso Monaco, Lodovico cascò d’apoplessia (1347), e imperatore incontrastato rimase Carlo di Boemia. Papa Benedetto, lontano dall’ostinarsi all’abbassamento de’ Ghibellini in Italia, che tanti tesori era costato al suo predecessore, nel primo concistoro dichiarò non dovere nè la romana, nè altra Chiesa sostenere i proprj diritti colle armi[290], e mandò Bertrando di Deux arcivescovo d’Embrun perchè mettesse pace, come in molti luoghi riuscì. Ma la pace è buona quando fondata su forti basi, e qui vedemmo come invece servisse a consolidare tante piccole tirannie. Più non bastando l’invecchiato re Roberto a mantenere la primazia ai Guelfi, rivaleva la parte opposta. Principali n’erano i Visconti; e i Milanesi, grati dell’averli salvi dallo straniero, elessero Azzone signor perpetuo (1328) a voti unanimi, presto imitati da Bergamo, Pavia, Piacenza, Cremona, Brescia, Pizzighettone, Borgo San Donnino, donde egli snidava le guarnigioni forestiere; gli si diedero Crema, Lecco, Treviglio, Vigevano, Caravaggio, Cantù; Como gli fu offerta da Franchino Rusca, che si riservò il contado di Bellinzona; tolse Lodi ad un Tremacoldo mugnajo, che l’aveva usurpata ai Vestarini. Suo zio Giovanni, vescovo di Novara, fintosi malato, ricevette in palazzo le visite de’ cittadini di primo conto, e di Caccino Tornielli signore della città; ed ivi coltolo e imprigionato, introdusse in Novara il nipote. Cessati i nemici esterni, i Visconti si molestavano tra di loro. Marco, zio di Azzone, valoroso ma turbolento, dicemmo come fu tolto di mezzo assassinandolo. Lodrisio suo cugino, al quale era toccato il contado del Seprio, e che già due volte avea cospirato contro i parenti, col denaro datogli da Mastin della Scala che volea sbrattare Vicenza dai Tedeschi rimasti alla partenza del Bavaro, sotto un Raimondo di Giver, detto il capitano Malerba, soldò costoro, gli aggomitolò in una compagnia detta di San Giorgio (1339) e menolli sulla campagna lombarda a rapire e taglieggiare; e fattosi forte nel suo contado, minacciava Milano. I cittadini, vedendosi sovrastare il saccheggio e gli altri guai d’una invasione, presero a stormo le armi, e condotti da Azzone e da Luchino suo zio, affrontarono quei ribaldi a Parabiago (21 febb.). Quivi, in sulla neve, si fece la battaglia più sanguinosa che si combattesse prima di Carlo VIII; e già Luchino era stato preso e l’esercito scarmigliato, quando una riserva di Savojardi si buttò sopra i Tedeschi che si sbandavano a saccheggiare, li ruppe affatto, ed assicurò la vittoria. Tanto terrore aveva incusso quella masnada, che la battaglia di Parabiago restò nelle tradizioni popolari più viva che non quelle di Legnano e d’Alessandria: e consacrandola col meraviglioso, si disse che Sant’Ambrogio era stato veduto in aria a cavallo, staffilando gli stranieri: laonde d’allora in poi egli fu dipinto in quell’atto, così dissonante dalla sua mansueta fermezza[291]. Que’ masnadieri si sparpagliarono per la campagna guastando, finchè furono distrutti con orribili supplizj. «Ed io (dice un contemporaneo) ne ho visti venire a Roma da dugencinquanta, a piedi, quai cogli sproni attaccati alla coreggia, quai con una targhetta, e chi portando un cimiero, chi cavalcando un ronzino secondo sua condizione». Il Malerba prese servizio nel Canavese con trecento barbute, combattendo pei signori di Valperga contro quelli di San Martino. Di tale vittoria assai ringrandì Azzone: il quale, ricco di tutte le virtù che possono stare coll’ambizione, comprese che il primo dovere, come il primo accorgimento dopo le rivoluzioni, è il perdonare; il secondo, indorar le catene. Tutto pace, alla città circondò buone mura con cento e più torri e porte marmoree: le vie pulì e ammattonò; eresse un palazzo e chiamò a dipingerlo Giotto ed altri minori, e vi sfoggiò una sontuosità principesca; primo di sua famiglia pose il proprio nome e la biscia sulle monete. Morto (1339) di soli trentasette anni[292], il maggior consiglio pregò gli zii Giovanni e Luchino a succedergli. Il primo continuò a far da prete; Luchino, come il predecessore, ebbe briga cogli Estensi, cogli Scaligeri, i Gonzaga, i Pepoli, dominanti nelle vicine città di Modena, Verona, Mantova, Bologna. Dai Gonzaga comprò Parma: acquistò Asti, distruggendovi la famiglia dei Solari guelfa, signora di ventiquattro castelli; ebbe pure Bobbio, Tortona, Alessandria; a re Roberto tolse Alba, Cherasco ed altre terre in Piemonte; ottenne fin l’alto dominio sulla Lunigiana; e colla forza e l’astuzia crebbe la signoria, e l’assodò a scapito delle giurisdizioni comunali e de’ privilegi delle città. Fu severissimo contro i turbatori della pace; i masnadieri, solito postumo delle guerre, con supplizj atroci sterminò; gli amici di Azzone aborrì, i nepoti tenne relegati, non amò altri che i proprj bastardi, e sì poco fidava degli uomini, che avea sempre a fianco due mastini, pronti ad avventarsi a chi egli accennasse. Tuffò nel sangue le congiure vere o supposte, e se ne valse per fiaccare la nobiltà, della quale incamerando i larghissimi possessi, ingrossava l’erario pubblico e il proprio. È singolarmente ricordato lo eccidio della casa Pusterla, di derivazione longobarda, una delle più antiche e poderose di Milano, e della quale egli mandò al supplizio Franciscolo con due o tre bambini e colla moglie Margherita Visconti, odiata da lui perchè repugnante dagli osceni suoi omaggi[293]. Delle sue scostumatezze fu ripagato. Sua moglie Isabella de’ Fieschi, fingendo andare per voto a Venezia alle famose feste dell’Ascensione, si fece accompagnare giù per il Po da fastoso corteo di dame e cavalieri, di deputati di tutte le città suddite a Luchino, e da interminabile caterva di camerieri e palafrenieri, quasi a far prova e pompa della grandezza di casa Visconti, passando di città in città, ricevuta con emulazione di tripudj. In realtà essa v’andava per isbandarsi a’ suoi amori; nel che imitata dalle compagne, scandolezzò fin quell’età poco scrupolosa. Luchino, informato del proprio scorno dopo tutti gli altri, come è il solito, lasciossi intendere lo laverebbe nel sangue; ma vuolsi che Isabella pigliasse il tratto innanzi, e un giorno, di ritorno dalla caccia, lo ristorasse con una bevanda della quale morì (1349). Riprovevole come uomo, fu principe operosissimo; favorì ai poveri dispensandoli dal servizio militare, e nella terribile carestia del 1340 ne manteneva quarantamila; non punì i Guelfi benchè ghibellino; vietò di atterrar le case de’ ribelli; istituì un podestà unicamente per nettare le vie dai ladri; dava facile udienza a tutti; dalla peste nera salvò lo Stato con rigorosissimi provvedimenti. Fabbricò suntuosamente, verseggiò, e ottenne lodi dal facile Petrarca, che stette lungamente in quella corte e nella suburbana campagna di Linterno. Giovanni suo fratello, ch’era divenuto arcivescovo di Milano, allora unì al pastorale la spada. Piacevole, liberale a dotti ed artisti, destinò sei professori che commentassero la _Divina Commedia_; insieme destro e oprante, arrivò a dominare diciotto città, fra cui Genova. In questa irrequietissima repubblica re Roberto era riuscito a rimpatriare Guelfi e Ghibellini, e fare che gli uffizj si distribuissero in proporzioni eguali; ma ben tosto i Ghibellini rivalsero, e cacciarono i Fieschi e il capitano postovi dal re di Napoli. Allora fu ripristinato l’antico governo con due capitani del popolo e un podestà di parte ghibellina, oltre l’antico abate: ma i Guelfi, fatto nodo in Monaco, poco tardarono a ritornare. I nobili, quasi soli capitani e piloti, vessavano la ciurma, usando prepotenze sulle navi come in terra. Nella flotta mandata a servigio di Filippo VI di Francia (1338) contro l’Inghilterra sotto Antonio Doria, i marinaj, maltrattati perchè lagnavansi dei soldi fraudati, giunti a terra chiedono vendetta, e colla gente di Voltri, Polcevera, Bisagno si attestano a Savona, declamando contro l’oligarchia; gli artigiani fan causa con loro, e nominano due consoli; i popolani di Genova levansi anch’essi per ricuperare la libera elezione dell’abate. Si delibera, e non venendosi a un fine, un battiloro grida: — Sapete che? eleggiamo abate Simon Boccanegra» (1339). Tutti ricordano i servigi di sua casa, e — Sì, sì, andiamo dal Boccanegra». Questo, forse non a caso, si trovava là in mezzo alla folla; onde i vicini lo alzano sulle braccia fra i viva e riviva. Egli, ottenuto silenzio, rammenta: — Io son nobile ed i miei hanno sostenuto dignità più elevate; onde, diventando abate, verrei a degradarmi». E il popolo: — Ebbene, sii signor nostro». Ma egli: — Nol posso, perchè avete de’ capitani. — Sii dunque doge», e in trionfo lo portarono a San Siro esclamando: — Viva il popolo, viva i mercanti, viva il doge», e tra quel brio si sveleniscono contro le case dei Doria e dei Salvagi[294]. Da questa tumultuaria risoluzione, che volemmo addurre per esempio delle altre, restò ferita di grave colpo la nobiltà, poichè il popolo avea nominato, non più magistrati subalterni, ma il sommo. Era esso però capace di soffrire un governo? I più dei nobili si ritirarono ne’ loro castelli, ma non sempre vi furono sicuri. Avendo il marchese Del Carretto guasti i piani d’Albenga, il doge spedì gente contro di lui, e specialmente nove vascelli che tornavano dalla guerra di Spagna, non lasciando smontarne alcuno. Il marchese mandò scusarsi, ma il doge rispose voleva vederlo in Genova. Ed egli, assicurato della vita, vi venne; ma il popolo cominciò a gridargli _Mora, mora_, e il doge lo fece buttare in prigione, donde rinunziò Varigotti, il Finale, il Cervo e l’altre sue terre e feudi. Per quanto il Boccanegra, attivo e sperimentato, in cinque anni d’amministrazione rinvigorisse la giustizia, ed assoggettasse ai magistrati il circostante territorio, non potè assodar la pace, onde depose il comando (1345), che fu dato a Giovanni da Murta. Alle scosse interne si mescolavano guerre esteriori, e il mare d’Azof e la Propontide erano bagnate di sangue genovese; poi davanti Alghero di Sardegna la loro flotta fu sbarattata dai Veneziani uniti co’ Catalani, lasciando tremilacinquecento prigioni. Al tempo stesso Giovanni Visconti affamava la città, proibendo di recarvi grani; del che scoraggiati i Genovesi, presero il miserabile spediente di sagrificare la libertà (1353) e si esibirono ad esso Visconti. Gli ambasciadori dicevano al Petrarca: — Non paura de’ nemici, non diffidenza delle forze nostre ci costringe, ma ribrezzo dell’intestina sconcordia, perchè i principali nobili vogliono profittare dell’occasione onde ridurre la patria al servaggio; sicchè il popolo, perseguitato dai vincitori e da cittadini peggiori de’ nemici, ci invia ad implorare la protezione d’un principe giusto e potente». Introdotti nel consiglio, dissero al Visconti: — Veniamo per ordine del popolo genovese offrirvi la città di Genova e i suoi abitanti, il mare, la terra, gli averi, le speranze loro, le cose divine e le umane, quanto insomma è da Corvo a Monaco, coi patti convenuti». Il Visconti rispose, accettava non per estendere i suoi confini, ma per compassione a un popolo oppresso; si obbligava proteggerli, rendere giustizia, soccorrere la repubblica contro chi che fosse, e pregava per ciò Iddio e tutti i santi, dei quali recitò una litania[295]. E subito mandò vettovaglie, fece aprir comunicazioni fra il suo paese e questo, rappattumò le fazioni, diede quanto bastasse per raddobbare la flotta, colla quale, avendo invano intromesso la mediazione del Petrarca, entrati nell’Adriatico sotto il comando di Paganino Doria (1353), i Genovesi sconfissero e presero l’ammiraglio veneto Niccolò Pisani con cinquemila ottocensettanta uomini, e obbligarono i Veneziani a chieder pace, pagare ducentomila fiorini d’oro, e rinunziare per tre anni al commercio sul mar Nero, eccetto Caffa. Adunque i Visconti possedevano tutta Lombardia, la Liguria, parte del Piemonte e della Romagna, e minacciavano la Toscana. Tanta potenza era bilanciata dai signori della Scala di Verona, i primi che, senza possedere antichi feudi ereditarj, aspirassero ad estesa signoria. Succeduti in una parte de’ dominj di Ezelino, stettero capitani de’ Ghibellini contro Roberto re e Giovanni XXII, e favoriti dagl’imperatori (1312). Cane, che da’ suoi partigiani ottenne il nome di Grande, seppe sostenerlo nella non lunga vita; abbellì Verona; letterati ed artisti accoglieva; savio in consigli, e, cosa rara fra que’ signorotti, fedele alle promesse; prode e fortunato in armi, sicchè, oltre Verona sua sede, recossi in mano Feltre, Belluno, Treviso. Ma non teneva assodata la propria grandezza finchè non acquistasse anche Padova. Questa città, rifattasi dalla tirannia di Ezelino al favore della libertà, avea sottomesso Vicenza e Bassano, e fioriva di studj per la sua Università; ma trasmodando nella democrazia, escludeva dal governo tutti i nobili: eppure affidava larghi poteri alla famiglia de’ Carrara, sopravissuta alle altre della Marca. Come guelfa, era incorsa nell’ira di Enrico VII, che incitò Vicenza a sottrarsele, e che diede questa a governare a Can della Scala, suo braccio destro. Cane vi introdusse soldati mercenarj, soprusò militarmente e aprì guerra ai Padovani. Il territorio n’andò guasto; file di contadini vedeva lo storico Ferreto condotti tratto tratto in Vicenza colle mani legate alle reni, e trattati alla peggio finchè si riscattassero; nè maggiore umanità mostravano i mercenarj di Padova. Frequenti tornavano a battaglie, ciascuno coi proprj alleati; e Padova riuscì a mettere in piedi quarantamila fanti e diecimila cavalli[296]; tant’era in fiore sinchè non la guastò una terribile epidemia. Dentro v’erano perseguitati i Ghibellini; e i Carrara, blandendo alle invidie del vulgo e gridando — Viva il popolo, morte ai traditori», assalsero chi ostava alle loro ambizioni (1314), e massime Pietro Alticlinio, ricco e creduto avvocato, nella cui casa, allora data al saccheggio, si pretese trovar le prove dei più atroci delitti[297]. Esso e i parenti e gli amici furono mandati a strazio; lo storico Albertino Mussato, reo d’aver proposta una tassa e di starne formando il catasto, a fatica si salvò. Intanto continuava la guerra collo Scaligero, sebbene più di oltraggi e latrocinj che d’uccisioni; e nell’assalto di Vicenza, Giacomo Carrara, caduto prigioniero di Cane, s’intese con esso per darsi di spalla nelle mutue ambizioni. Di fatto, valendosi della stanchezza prodotta dalle lunghe ostilità, Rolando di Piazzola giureconsulto[298] con una brava arringa persuase i Padovani a scegliersi un principe, e Giacomo Carrara fu proclamato. Marsiglio suo nipote non tardò a guastarsi con Cane, e a’ danni di lui invitò il duca di Carintia e Ottone d’Austria. Con Tedeschi e Ungheresi, che i cronisti fanno ascendere a quindicimila cavalli, vennero quelli saccheggiando il Friuli come Dio vel dica; e il Padovano e tutta Lombardia spedivano soldati per arrestare quel flagello: ma Cane riuscì meglio col denaro, facendoli dar volta senza che avessero danneggiato altro che gli amici. Poi si vendicò dei Padovani guastando se alcun che vi era rimasto non guasto; e seguitò le nimicizie tanto, che indusse Marsiglio a cedergli Padova (1328), e così si trovò contentato del lungo desiderio. Mastino II, succeduto a lui con coraggio eguale e ambizione maggiore, ebbe Parma a patti, occupò Brescia cacciandone il vicario di Giovanni di Luxenburg, e abbandonando i Ghibellini alla vendetta de’ Guelfi. Tenea corte splendidissima; lo storico Cortusio lo trovò circondato da ventitre principi, spossessati dalle catastrofi consuete; durante il pranzo, musici, buffoni, giocolieri; le sale erano coperte di quadri rappresentanti le vicende della fortuna; appartamenti aveva allestiti con simboli e insegne convenienti alla varia condizione di chi gli cercava ricovero, il trionfo pe’ guerrieri, la speranza per gli esuli, le muse pei poeti, Mercurio per gli artisti, il paradiso pei predicatori[299]. Lucca era stata da re Giovanni venduta ai Rossi, e Firenze diè commissione a Mastino (1335) di trattarne per essa la compra: egli strinse la pratica, poi per le spese e l’incomodo pretese trentaseimila zecchini. Sperava sgomentarli coll’enorme domanda, ma i Fiorentini senza dibattere un soldo accettarono: se non che egli allora soggiunse non aver bisogno di siffatte miserie, e tenne per sè la lieta città. Così sopra nove ebbe balìa, le quali gli rendeano l’anno settecentomila fiorini, quanti neppur la Francia al suo re. E meditava nulla meno che farsi signore di tutta Italia; intanto Lucca gli sarebbe scala a sommettere la Toscana, mediante l’alleanza co’ signorotti degli Appennini. Firenze legossi al dito l’affronto ricevuto da Mastino, e gli ruppe guerra; dove, se sottostava di valor militare e d’alleanze, avea denaro e volontà di spenderlo per l’onor nazionale. Avrebbe dovuto sostenerla la lega guelfa; ma re Roberto era invecchiato; Bologna non pareva aver recuperato la libertà che per tempestare sanguinosamente fra Scacchesi e Maltraversi; Siena e Perugia erano minacciate da Pier Saccone de’ Tarlati signore di Pietramala, che, avendo spossessato la famiglia d’Uguccione della Faggiuola, gli Ubertini, i conti di Montefeltro e Montedoglio, dominava su tutte le montagne della Toscana e della Romagnola, oltre Arezzo possedeva Castello e Borgo Sansepolcro, ed essendosi alleato con Mastino, di molto pregiudizio poteva essere ai Fiorentini. Essi dunque cercarono un amico lontano. I Veneziani, che fin allora non s’erano mescolati alle vicende del continente italiano se non come stranieri, e che nessun’ombra prendeano dalla vicinanza de’ vescovi di Padova, di Vicenza, d’Aquileja, vennero sospettosi dell’incremento degli Scaligeri. In fatti Mastino pensò sottrarre i suoi paesi alla privativa che i Veneziani s’arrogavano di somministrare il sale; onde eresse fortezze sul Po per esigere gabelle da chi lo navigasse, e proteggere le saline colà stabilite. Ne venne rottura, e Venezia pigliò concerto con Firenze, la quale pagando metà delle spese, si obbligava a lasciarle tutti gli acquisti. Capitanò la loro lega Pietro de’ Rossi, famiglia già signora di Lucca e Parma, la qual ultima pure era stata obbligata a cedere a Mastino dopo che si vide tolti anche i castelli aviti attorno a Pontremoli. Pietro, che aveva rinomanza del cavaliere più perfetto d’Italia, appoggiato a molte bande tedesche, condusse prosperamente i collegati contro lo Scaligero. Intanto i Fiorentini indussero il Saccone a vender loro la signoria d’Arezzo, dove costituirono una magistratura propria. In Lombardia poi sollecitavano quanti erano nemici allo Scaligero; e Azzone Visconti, i Gonzaga, i Carrara, gli altri da lui spodestati collegaronsi _ad desolationem et ruinam, dominorum Alberti et Mastini fratrum de la Scala_, spartendosene in fantasia i possessi e ribellandogli le città. Padova fu presa (1338), arrestandovi Alberto: ma l’essere morto in battaglia Pietro de’ Rossi troncò il corso alle vittorie. Mastino, ridotto alle strette, maneggiò la pace, cedendo molti acquisti; Padova tornava ai guelfi Carraresi, Brescia al Visconti; i Veneziani occupavano Treviso, Castelfranco e Céneda, primi loro possessi di Terraferma, e otteneano libera la navigazione del Po. Mastino, amareggiato dai disinganni, infellonì; sospettando del vescovo Bartolomeo della Scala, per istrada lo ammazzò, donde fu scomunicato dal papa; poi, fatta onorevole ammenda, ricevè il titolo di vicario pontifizio. Anche Parma gli fu tolta (1341) dai Correggio suoi zii a cui l’avea fidata; sicchè, interrottagli la comunicazione con Lucca, esibì questa a Firenze, che con ciò avrebbe potuto rifarsi dei seicentomila fiorini che le era costata la guerra di Lombardia. Ma mentre essa stitica sul prezzo, i Pisani, che se ne sentivano minacciati, la prevengono e la occupano coll’ajuto dei Visconti e d’altri Ghibellini e massime di fuorusciti, lieti di sottrarsi dalla incomoda vicinanza. I Fiorentini, tardi riconsigliati, vollero ricuperarla facendo sforzi ingenti; ma alfine le bande da essi assoldate furono sconfitte alla Ghiaja. Gli Scaligeri più non fecero che decadere (1387) e disonorarsi, finchè ai tempi di Gian Galeazzo perdettero le restanti giurisdizioni, e cessarono d’essere dominanti. Verona ne attesta ancora co’ monumenti la grandezza, e le loro tombe sono chiari testimonj delle arti risorte e non ancora svigorite colla servile imitazione[300]. Al contrario, gli Estensi (1317), gridati nuovamente signori di Ferrara, come dicemmo, vi aggiunsero Modena per cessione di casa Pio, e da Carlo IV ottennero la conferma de’ feudi imperiali di Rovigo, Adria, Aviano, Lendinara, Argenta, Sant’Alberto, Comacchio importante per le saline. Barcheggiando fra i papi, Venezia e Milano, Obizzo III s’acconciò col papa, retribuendo un annuo canone per Ferrara (1344). Comprò Parma da Azzone Correggio per settantamila fiorini; ma mentre andava a prenderne possesso, Filippino Gonzaga di Mantova, ajutato da Luchino Visconti, l’appostò, molti della sua scorta uccise, settecentoventidue condusse prigioni. I più liberò a prezzo; ma Giberto da Fogliano e suo figlio Lodovico tenne in una gabbia di ferro, ove morto questo dalle ferite, il padre dovette rimanere col suo cadavere. Filippino mosse guerra ad Obizzo e a Mastin della Scala, e dopo gran viluppo di leghe e di guerre, Parma fu comprata da Luchino (1340). Oltre questi tiranni creati dal popolo, altri provenivano dall’antica feudalità, e principale tra questi fu la casa di Savoja. Da un cumulo di favole inventate o raccolte da frà Jacopo d’Acqui (1003?), par di dedurre che capostipite di quella fosse un Umberto Biancamano, forse discendente da Vitichindo emulo di Carlo Magno, o da un sassone Beroldo nipote di Ottone III, che fu vicerè d’Arles e conte di Moriana e del Ciablese. Quest’origine argomentò il Guichenon per ordine di Cristina di Francia vedova di Vittorio Amedeo I, quando ella, aspirando a far salire quella casa al trono di Germania, trovava opportuno il mostrarla oriunda da una germanica. L’altro concetto di Enrico IV d’unire sotto ai principi savojardi tutta l’alta Italia, fece trarli da famiglia italiana, cioè dai conti d’Ivrea: asserto portato dal giudizioso Lodovico Della Chiesa, ed appoggiato nel secolo scorso dal Napione, quando il perire di tutte le dinastie italiche concentrava gli sguardi su quest’unica superstite; poi nel secolo nostro colle nuove speranze di fare di quel principato il piedistallo della futura Italia. Supposero dunque che il Beroldo o Geroldo, favoleggiato padre di Umberto, sia Ottone Guglielmo duca di Borgogna[301], figlio di re Adalberto e nipote di Berengario II, re che furono d’Italia; pronipote di Gisla, figlia di Berengario I imperatore; abnepote d’Anscario marchese d’Ivrea, figlio di Guido di Spoleto, fratello di Guido re d’Italia. Il Cibrario, che con viaggi e documenti appoggiò quest’assunto, conchiude che «s’aspettano documenti che forniscano la prova diretta di ciò»: e di fatto, come in tutte coteste genealogie, non manca se non l’anello che congiunga il ramo discendente coll’ascendente. Del resto, che la famiglia regnante in Piemonte indagasse avi incerti per ricordarsi e ricordare ch’è d’origine italiana, è la più perdonabile delle vanità. Che che sia de’ primi, ornati col titolo di conti di Moriana, i successivi vi aggiunsero nuovi dominj anche di qua dall’Alpi e nominalmente Aosta. La posizione fra queste rendeva importante il marchesato di Susa, il quale per le nozze della contessa Adelaide, celebre nelle lotte de’ concubinarj e dell’imperatore Enrico IV, fu unito al contado di Moriana (1045) nel figlio di lei Amedeo II; pel quale innesto la casa di Savoja metteva un piede in Italia. Quando Enrico IV veniva a invocar l’assoluzione da Gregorio VII, Amedeo per concedergli libero passo ne pretese cinque vescovadi in Italia e un’ubertosa provincia della Borgogna, che forse fu il Bugey. Molti sorsero pretendenti all’eredità di Adelaide, donde si formarono parecchi contadi rurali e principati, e segnatamente quelli di Monferrato e Saluzzo; e varj paesi si stabilirono a Comune, fra cui Asti, riconosciuta libera (1098) da Umberto II il Rinforzato[302], il quale, a detta di sant’Anselmo di Aosta, «usava del principato a mantenere la pace e la giustizia», e fu forse il primo che s’intitolasse conte di Moriana e marchese d’Italia. Amedeo III, figlio di questo (1103), diede carta di Comune a Susa, e ad onore di san Bernardo fondò in riva al lago del Borghetto l’abbazia di Altacomba, celebre pei sepolcri de’ principi di Savoja, sperperata al fine del secolo scorso, restaurata ai dì nostri; come il padre, fu alla crociata, e morì a Cipro. Umberto III, detto il Santo pel tenore di sua vita (1148), vedendo il Barbarossa voler attenuare le giurisdizioni di lui colle ampie concessioni fatte al vescovo di Torino, avversò quell’imperatore, poi mediò la pace fra esso e i Lombardi. Tommaso I ampliò le franchigie a Susa, le diede ad Aosta (1188), acquistò Testona, Pinerolo, Carignano, e fu vicario di Federico II in Italia, valendosi di tali dignità per reprimere i prelati e i baroni. Ad Amedeo IV esso Federico conferì il titolo di duca del Ciablese e conte d’Aosta, e una costui figlia sposò al suo Manfredi che fu re di Sicilia (1233): legati così agli Svevi, que’ duchi ebbero a patire dalla venuta di Carlo d’Angiò, talchè si restrinsero di nuovo fra le Alpi. Pietro, già ministro d’Enrico III d’Inghilterra, tornò alla propria devozione i paesi di qua dell’Alpi (1263) fino a Torino; conoscendo la necessità d’essere forte, munì il paese, condusse truppe, regolò le finanze e la giustizia, e fu detto il Piccolo Carlo Magno. Salda alla monarchia, quella casa compresse i germi di libertà comunale, che l’esempio delle lombarde confinanti sviluppava nelle città subalpine; e nè guelfa nè ghibellina, dalle altrui gare traea profitto per consolidarsi di governo, di possessi, di forze. Nè poeti, nè storici ne tramandarono i fasti, ma incerte tradizioni e contraddicentisi, e soprannomi capricciosi. Lungo sarebbe a seguire il dividersi e ricomporsi di essa. Nel ramo di Piemonte Tommaso II era detto anche conte di Fiandra e di Hainault perchè sposo a Giovanna erede di que’ paesi e figlia di Baldovino IX imperatore di Costantinopoli. In sette anni ch’egli regnò colà, estese molto i Comuni (_keure_) al modo d’Italia: perduta poi la moglie, tornò in patria, ed ampliò i possessi (1244), e non solo ebbe dal fratello Amedeo IV il Piemonte proprio, cioè il paese fra l’Alpi, il Sangone e il Po, di cui era principal terra Pinerolo, ma Federico II imperatore se l’amicò concedendogli Torino col ponte e col castelletto, Cavoretto, Castelvecchio, Moncalieri, stato sostituito a Testona distrutta da Astigiani e Chieresi; onde con questa linea sulla destra del Po dominava le strade commerciali di Asti e di Genova con oltremonte (1248): aggiunse il Canavese, Ivrea ed altre terre, e fu nominato vicario imperiale dal Lambro in su. Caduto Federico, egli corteggia il papa Innocenzo IV, che dall’imperatore Guglielmo d’Olanda gli ottiene concessioni nuove, e feudi, e diritto di moneta, di mettere pedaggi, d’aprire mercati. Molto ebbe a cozzare con Asti, e seppe interessare nel litigio Luigi IX di Francia, il quale fece arrestare quanti Astigiani trovavansi colà. A vendetta questi occuparono fin Moncalieri, a Montebruno sconfissero Tommaso (1257), contro del quale essendosi rivoltati i Torinesi, lo presero e consegnarono agli Astigiani. Di Francia, d’Inghilterra, di Fiandra, dal papa vennero preghiere a favor di lui; ma non fu voluto rilasciare finchè non ebbe rinunziato a tutti i diritti sopra Torino ed altri luoghi, dando statichi agli Astigiani i proprj figliuoli. Due nobili sposi tedeschi pellegrinavano a Roma, quando, giunti nel Monferrato, la donna partorisce un bambino, e quivi il lascia a nutrire. Essi muojono in viaggio, e il fanciullo Aleramo acquista nome di valore; e ito a soccorrere l’imperatore Ottone il Grande contro Brescia, invaghisce di sè Adelaide figlia d’esso imperatore, e con lei fugge tra i carbonaj de’ liguri monti; finchè Ottone gli perdona, e gli assegna le terre fra l’Orba, il Po e il mare, facendone i sette marchesati di Monferrato, Garessio, Ponzone, Ceva, Savona, Finale, Bosco. A un nuovo assedio di Brescia, Aleramo uccide senza conoscerlo il proprio figlio Ottone; dagli altri fratelli Bonifazio e Teodorico derivano le famiglie di Bosco, Ponzone, Occimiano, Carretto, Saluzzo, Lanza, Clavesana, Ceva, Incisa, e da Guglielmo i marchesi di Monferrato. Questi furono cantati spesso dai poeti, dei quali è fantasia una tale origine, viemeno probabile perchè nessuna figlia d’Ottone il Grande ebbe uno sposo di quel nome. Qualunque però si fosse e di qualunque tempo questo Aleramo, la sua discendenza dominò il pendìo dell’Appennino ligure dalla riva destra del Po fino a Savona; e ne vennero le famiglie che dominarono il Monferrato, Saluzzo verso le sorgenti del Po, e le città occidentali di Torino, Chieri, Asti, Vercelli, Novara, disputandole ai Visconti e alla libertà comunale. I marchesi di Monferrato vedemmo mescolarsi alle vicende dell’Italia superiore e nelle crociate, tanto che vennero i più illustri di quei dintorni, cercata l’alleanza loro, temuta la nimicizia. Ma ristretti fra le ambizioni de’ duchi di Savoja e de’ signori di Milano, non poterono ampliarsi; intanto che una nobiltà potente, la quale si vantava d’origine pari ai dominanti, li contrastava dentro, non lasciando che il paese prendesse ordinamento nè monarchico nè a popolo. Bonifazio IV, essendogli tolto dai Musulmani (1222) il suo principato di Tessalonica, per ricuperarlo cercò novemila marchi a Federico II, dandogli in pegno i proprj Stati; col che non solo dimezzò la propria potenza, ma pose a repentaglio l’indipendenza del Piemonte, se la casa Sveva non fosse perita. Anche a signori e Comuni cedette le ragioni sopra molte città. Guglielmo VI, detto il gran marchese, figlio a Margherita di Savoja (1254), sposo ad Isabella di Glocester, poi a Beatrice di Castiglia, maritò la figlia Jolanda al greco imperatore Andronico II Paleologo, dandole in dote l’infruttuoso regno di Tessalonica, e ricevendone grosse somme e la promessa di cinquecento cavalieri, mantenuti a suo servizio in Lombardia. Con questi egli facea pendere la bilancia a favore de’ Guelfi o de’ Ghibellini, secondo che vi si accostava. Per tradimento entrato in Torino, molti uccise, molti imprigionò, fra cui il vescovo Melchiorre, che sempre avea contrariato i disegni del marchese sulla sua patria, e che, non volendo far rilasciare i suoi castelli al vincitore, fu ucciso. Mentre egli andava in Spagna a trovare il suocero, Tommaso III di Savoja lo arrestò a tradimento, e costrinse rinunziare i diritti sopra Torino. Tornati con alquanti uomini e denari, prometteva conquistar tutta Italia, ma vide ribellarsegli le città, e fu preso dagli Alessandrini (1292), che quanto visse lo tennero in una gabbia di ferro; morto, vollero accertarsene col fargli sgocciolare sul corpo del lardo bollente e del piombo fuso. Allora le città di sua dipendenza consolidarono le loro franchigie; molto paese fu occupato da Matteo Visconti, che si vendicava del suo nemico, e che fu dai popoli dichiarato capitano del Monferrato; sicchè il figlio Giovanni II, succedutogli a quindici anni, si trovò ristretto nel primitivo dominio. Questi fu l’ultimo di quella linea; e morto improle (1305), doveva ereditarne la sorella Jolanda. Se non che Manfredi di Saluzzo, del sangue stesso, aspirava a quel dominio, e l’occupò armatamano; e perchè prese anche molte delle terre ch’erano state di Carlo d’Angiò, chetò i reali di Napoli coll’accettare da loro come feudo il Monferrato, sebbene non v’avessero titolo di sorta. L’imperatore greco spedì Teodoro suo secondogenito, che sposata una figlia d’Obizzino Spinola genovese per averne appoggio, coll’armi recuperò l’eredità, e per combattere a vantaggio i Visconti, dai vassalli esigette uomini e denaro di là dal convenuto. La casa di Savoja, che distesasi oltr’Alpi verso l’Elvezia e la Francia, voltava le sue ambizioni all’Italia, presto si trovò in gara coi marchesi di Monferrato; e il possesso d’Ivrea fu seme di guerra, in cui arrivarono ad acquistare sovranità sopra i conti di Piemonte e i marchesi di Saluzzo. Nel 1285, morto Tommaso III, che dai marchesi di Monferrato avea ricuperato il Piemonte, dovea succedergli il nipote Filippo; ma Amedeo V di Savoja suo zio governò il paese come suo, mentre a Filippo non restò che il titolo di principe d’Acaja, col quale i suoi successori s’ingegnarono di dominare qualche parte del Piemonte. Esso Amedeo (1287), che assistette a trentacinque assedj, e battagliò continuo col Delfino, col conte di Ginevra, col sire di Faucigny e con altri, fu creato principe dell’impero da Enrico VII suo cognato, che gli assegnò pure la contea d’Asti, gloriosa repubblica scaduta dalla sua grandezza: ma questa fu tenuta da Roberto di Napoli finchè il marchese di Monferrato gliela tolse per sorpresa, e se ne chiamò signore. Amedeo stabilì l’indivisibilità della monarchia di Savoja e l’esclusione delle femmine, e cominciò a pigliare il titolo di principe: ebbe da Enrico anche Ivrea e il Canavese, e Fossano dal marchese di Saluzzo. Allora detta monarchia comprendeva otto baliaggi; Savoja, con cui la Moriana, la Tarantasia e diciotto castellanie; la Novalesa con nove castellanie; il Viennese con altrettante; la Bressa con dieci; il Bugey con sette; il Ciablese con sedici; val d’Aosta con cinque; val di Susa con tre. Amedeo VI, detto il Conte Verde (1343) dal colore onde comparve divisato egli e il cavallo in un torneo a Chambéry, tolse alla contessa di Provenza Chieri, Cherasco, Mondovì, Savigliano, Cuneo; bene amministrando le finanze per l’abilità del ministro Guglielmo De la Beaume, potè ottenere il Faucigny, comprare la baronia di Vaud, e le signorie di Bugey e Valromey. Vedendo agli antichi Delfini surrogata la Francia, potenza più robusta, non sperò ingrandire ulteriormente da quel lato, e si volse più specialmente all’Italia. Passando l’imperatore Carlo IV dalla Savoja, Amedeo l’accolse con sommi onori, gli mosse incontro con sei cavalieri banderesi riccamente in addobbo, lo convitò suntuosamente, egli stesso e i suoi a cavallo servendolo di vivande quasi tutte dorate, mentre due fontane giorno e notte sprizzavano vin bianco e chiaretto, che ognuno poteva prendere a piacere[303]. In ricompensa fu costituito vicario imperiale, e fe pace con Giovanni Paleologo di Monferrato, spartendosene il possesso. Ito a Costantinopoli (1366) a soccorrere questo suo cugino, conquistò Gallipoli, Mesembria, Lemona sopra i Turchi, assediò Varna, e costrinse i Bulgari a far pace con esso imperatore. Il papa abilitò i vescovi ad assolvere da usure e mali acquisti chi contribuisse per essa impresa, concesse al conte le decime ecclesiastiche, mentre ciascun feudo dava armi ed oro. Il conte se ne valse per continuare anche poi le esazioni; col papa entrò in lega a danno de’ Visconti qual capitano generale; e neppure alla pace volle restituire alcuni castelli ad essi occupati, avido sempre di gloria e denaro; ma per ottenere la prima rovinò le finanze, ed oltre impegnare a lombardi ed ebrei le gemme e gli argenti, vendette gli uffizj. Aspirava a formare uno Stato solo, riunendo a Savoja il Piemonte tolto ai principi d’Acaja, e mozzando le giurisdizioni feudali: ma in quanto acquistava verso l’Italia introduceva forme d’amministrazione alla francese, restringeva in senso principesco i liberi statuti; moltiplicò le imposizioni, fallì alla fede quando gli giovò, servì agli stranieri nel conquisto di Napoli (1383), dove morì miseramente (Cap. CXIV). Dell’ordine dell’Annunziata, da esso istituito, abbiamo già parlato[304]. Amedeo VII, soprannomato il Conte Rosso, più valente in armi che in consigli, si tenne all’amicizia di Francia come il padre. Ai tempi di Carlo Magno, la Provenza già era divisa in contadi, due dei quali formavano quel che ora dicesi di Nizza. I popolani di questa, mentre Raimbaldo loro conte stava oltremare crociato, si vendicarono in libertà; e quegli, reduce, si accontentò d’esservi console. Non era spenta però la soggezione, e Nizza nel XII secolo obbediva ai conti di Arles, il restante paese a quelli di Tolosa, di Forcalchieri, d’Orange, del Balzo, finchè i conti di Barcellona si fecero marchesi di Provenza. I Nizzardi spesso tentarono, alfine riuscirono a sottrarsene nel 1215 giurando la _compagnia_ di Genova, e i marchesi di Provenza giuravano rispettare i loro statuti. Con Beatrice, figlia di Raimondo Berengario, passò quel dominio a Carlo d’Angiò, che ne fece fondamento alla futura sua grandezza in Italia. Frattanto le fazioni non risparmiavano Nizza, e la città era divisa fra nobili che abitavano la villa di sopra, e cittadini della villa di sotto. I mali cui andò soggetta la stirpe di re Roberto di Napoli, furono risentiti dai Nizzardi, finchè regnando il fanciullo Ladislao, essi per opera dei Grimaldi chiesero ad Amedeo VII di venire aggregati al suo dominio. Amedeo vi riunì i contadi di Ventimiglia e Villafranca (1388) e la valle di Barcellonetta, allegando o crediti verso le due case d’Angiò, o dedizione de’ baroni, o il titolo di vicario imperiale. Amedeo da un ciarlatano lasciossi dare un beveraggio che rifiorisse la sua debolezza, e gliene costò la vita (1391). Bona di Berry sua vedova e sospetta autrice della morte di lui, fatta reggente, tempestò in contese di potere colla suocera e coi grandi, in guerre coi conti di Ginevra, coi vescovi di Sion, con Berna, con Friburgo, coi parenti; e menò pace. Amedeo VIII, loro figlio, detto il Pacifico perchè all’armi preferì la politica, con questa vantaggiò assai, attento a tor via i feudi, trarre a sè il Monferrato e Saluzzo, rodere il Milanese. Ebbe in fatti omaggio dagli Avogadri di Quinto, di Quaregna, di Valdengo, di Casanova, di Collobiano, di Pezzana, dagli Alciati, dagli Arborj, dai Dionisj, dai Pettinati, da molti monasteri e Comuni, tra cui val d’Ossola, e infine anche da Vercelli. Questa città, che vedemmo (vol. VI, p. 201) una delle prime ad acquistar le franchigie municipali, e delle più gloriose nel sostenerle, straziò le proprie viscere nelle fazioni degli Avogadri coi Tizzoni, della società nobile di Sant’Eusebio colla popolana di Santo Stefano, e infine cadde in signoria de’ Visconti di Milano. Amedeo VIII, il cui avo già aveva acquistato Santhià, San Germano e Biella, e che riceveva omaggio dai tanti Avogadri di quel paese, soggettava or per forza or a persuasione alcuni Comuni, profittando delle discordie scoppiate nel Milanese alla morte di Gianmaria Visconti; poi dal costui successore ottenne Vercelli, col patto di spiccarsi dalla lega con Venezia e Firenze. Acquistò inoltre il Genevese (1414), disputato fra molti dopo finita la stirpe dei prischi conti; e il Piemonte quando si estinsero i principi d’Acaja. A questo titolo erasi dovuto accontentare Filippo di Savoja (1294); ma sebbene del Piemonte giurasse vassallaggio alla Savoja, lo tenne come indipendente, e così suo figlio Jacopo; onde i signori di Savoja miravano sempre a tarparli, intanto che il paese era mal condotto dal dover obbedire a due padroni, e soddisfarne i bisogni o l’avidità. Lodovico, il quale di buoni ordini confortò il Piemonte e di studj Torino, fu l’ultimo principe d’Acaja (1418); Amedeo VIII occupò il paese di lui, e da quell’ora principe di Piemonte fu il titolo del primogenito di Savoja. I signori d’Acaja e quelli di Savoja aveano sempre avuto l’occhio a sottomettere i marchesi di Saluzzo e di Monferrato. I primi, dopo lunghe persecuzioni, prestarono omaggio al conte di Savoja, ricevendo il paese come feudo (1413). Nel Canavese fra le due Dore dominavano i conti di Biandrate, di cui già parlammo, e i marchesi del Canavese, forse discendenti da Arduino re d’Italia, divisi ne’ due rami di Valperga e di San Martino, suddivisi in moltissimi altri col titolo di conti, quali erano i Valperga di Masino, di Cuorgnè, di Salassa, di Rivara, di Mazzè, e i San Martino d’Agliè, di Brosso, di Strambino, di Sparone, di Castellamonte. Le due famiglie divennero nemiche, e colla bandiera ghibellina i Valperga, colla guelfa gli altri si recarono guerre micidiali, cui presero parte i vicini. Anche i popolani del Canavese, stanchi di queste baruffe, insorsero col nome di Tuchini, e trascorrendo agli eccessi consueti della plebe attizzata, uccisero, violarono, rubarono, arsero castelli, posero al tormento feudatarj, sinchè furono domati colle armi dal duca di Savoja, che raccomandò ai signori di trattar meglio i villani, e meglio stabilì i doveri de’ vassalli. Eguali moti popolari erano scoppiati nella Tarantasia, nel Vercellese, nella Moriana. Di tali scompigli volle fare suo pro Giovanni marchese di Monferrato, e appoggiandosi a bande mercenarie, acquistò Alba, Asti, il Vercellese, il Novarese, e fin Pavia e Valenza, chiavi della Lombardia; ma gli accordi suoi co’ signori di Savoja tornarono a danno di lui e dei suoi successori. Fra questi vogliam nominare il marchese Secondotto, che abbandonavasi agli eccessi comuni ai principotti d’allora, emulando il tristo Gian Galeazzo Visconti. Il quale invitato da lui ad ajutarlo nel domare la città di Asti ribellatagli, si fece da questa riconoscer signore. Poco poi Secondotto, che a volte piacevasi di far da boja, volle strozzare di propria mano un ragazzo del suo seguito; ma un costui compagno trafisse a morte il marchese. Accorre allora da Napoli Ottone di Brunswick, ch’era stato tutore di lui, e che assume la tutela di Giovanni suo successore; e per impedire il ritorno di somiglianti tirannie si raccoglie il parlamento generale in Moncalvo, dove, a tacere gli affari particolari su cui si deliberò, venne presa risoluzione che al giovane marchese si giurasse fedeltà sol fino ai venticinque anni, quando si potrebbe già prevederne la riuscita; inoltre che, se mai il marchese uccidesse o ferisse alcun suddito, o gli facesse violenza nella roba o nella persona o nelle donne, subito cessasse ogni obbligo di fedeltà; essendo ben giusto che, se i sudditi rendono fedeltà, n’abbiano in compenso protezione, custodia, difesa delle persone, delle cose, dei diritti loro. Aveano dunque rappresentanza e privilegi que’ paesi. I signori di Savoja, che di questi conosceano l’importanza, or s’allearono a danno loro coi Visconti, or li vollero in protezione per difenderli da essi Visconti; intanto ne cincischiavano i dominj e li riducevano a vassalli. Allora unito l’intero Piemonte, Amedeo VIII dominava dal lago di Ginevra al Mediterraneo, e da Sigismondo imperatore (1416) acquistò il titolo di duca di Savoja mediante il dono di vasi d’argento pesanti ducento marchi; quattromila scudi d’oro, e sei cani mastini, e nella solennità sventolavano dieci stendardi, cinquecento pennoni, millecinquecento bandiere collo stemma di Savoja in argento; ma Sigismondo stesso salvò dall’avidità di lui Ginevra, dichiarandola membro dell’Impero. Dopo esercitato personaggio importante nelle vicende italiche, pubblicato lo Statuto generale, assodata l’autorità sovrana sopra l’anarchia feudale e lo sminuzzamento comunale, e istituito l’ordine di San Maurizio (1434), si pose a Ripaglia, delizioso paesetto sul lago di Ginevra presso Thonon, in devoto e voluttuoso ritiro. Quando i venturieri diventavano signori, egli ambì diventare pontefice, e lo vedremo sostenere l’infelice parte d’antipapa; deposta la quale, morì (1451) decano dei cardinali[305]. Egli avrebbe voluto l’unità monarchica rappresentata con unica capitale, scegliendo Ginevra, collocata fra la Savoja, la Bressa, il paese di Vaud, il basso Vallese, ma non potè ottenere che il vescovo di quella cedesse i diritti sovrani che vi aveva. Creato papa, conferì quel vescovado a uno di sua casa, il che continuò a praticarsi fino al tempo della Riforma. Neppur qui la dominazione d’un principe spegneva i privilegi de’ Comuni, i quali continuavano ad avere vita propria, in alcuni degna di storia, in altri d’imitazione[306]. Ai Comuni era riservato il diritto di votare le imposte, e in casi straordinarj bisognava domandarle come grazia speciale. Ma i signori d’Acaja o di Savoja, come si sentirono forti, gli obbligavano a queste prestanze volontarie; e Amedeo, fratello dell’ultimo Lodovico, il marzo 1396 scriveva al vicario di Torino: — Col piacer di Dio, saremo domattina a Torino; e ti comandiamo di far che quelli della città deliberino nel loro consiglio, e deputino due o più persone con facoltà di concederci sussidio e alloggio pe’ nostri soldati e guerra, come gli altri delle città nostre han fatto e faranno a ragione di tre grossi per fuoco. Sappiate che quelli di questa città ce l’hanno concesso»[307]. Chieri, potente per commercio non meno che per armi, ebbe sottoposti fin quaranta castelli. I Balbo, fondatori o principali di quella repubblica, rincorarono a difendersi contro i marchesi di Monferrato e il Barbarossa, cooperarono alle vittorie de’ Lombardi su questo, e vi piantarono un governo conforme alle altre repubbliche. Esservi podestà non poteano i Balbo, carica da forestiere, ma per compenso sceglievano nella propria famiglia il capo del consiglio. Tale superiorità fu invidiata dalle sei case o _alberghi_ primarj della città, i quali si collegarono (1220) a danno di essa, unendosi anche nobili minori, onde venne a formarsi la società di San Giorgio, che lungo tempo regolò gli affari di quella repubblica (vol. VI, p. 204). I Balbo si restrinsero in un albergo, convenendo di fabbricare un palazzo e una torre per ricovero comune, e con facoltà a ciascuno di essi di farvi portare il letto in tempo di turbolenze. Altri alberghi vi opposero il Gribaldenghi, gli Albuzzani, i Merli, i De Castello, i Mercadilli ed altri, unendosi contro la plebe, e insieme contro chi volesse sormontare; onde ne vennero guerre intestine, e sol dopo cinquant’anni di conflitto si conchiuse la pace (1271), nella quale appajono centotto Balbo, divisi in trenta rami. Mezzo secolo più tardi ripigliarono le ostilità, e poichè allora l’andazzo era a tirannia, pensarono porre un termine a’ guai col sottoporsi a casa di Savoja (1347). Con questa stipularono che Chieri conserverebbe le proprie consuetudini, diritto di batter moneta e dare l’investitura dei feudi; al rappresentante del principe nell’esercizio di sua autorità si unirebbero quattro savj di guerra, eletti nelle case d’albergo, e il primo sarebbe sempre un Balbo, scelto con voti della sola sua famiglia; verun atto legale avrebbe forza se non improntato con cinque suggelli, del principe, del popolo, dei Balbo, delle sei case d’albergo unite, della città. Parve ancora soverchia l’autorità di casa Balbo, e si pretese torle il diritto di apporre il suggello. Il principe d’Acaja venne in persona per metter pace, e confermò ai Balbi tal privilegio che ab immemorabili possedeano, con che però riconoscessero averlo ricevuto dal Comune di Chieri. Siffatto lodo segnò la decadenza di quella casa, che veniva a considerarsi non più come indipendente, ma come autorizzata dal Comune. Quando, sessant’anni dopo, Valentina figlia, ed Aimonetta nipote di Galeazzo Visconti, sposarono una Luigi d’Orléans fratello del re di Francia, l’altra Luigi di Bertone capo del secondo ramo dei Balbo, le gelosie de’ costoro nemici rincalorirono, e vie più per l’alleanza di quelli con Venezia; i duchi di Savoja n’ebbero sospetto; si tornò a contender loro il diritto di suggello, e sebbene Luigi nel 1455 li parificasse agli altri nobili d’albergo, perdettero quel segno di primazia. Uscente il XII secolo, Tommaso di Savoja con atto pubblico _consegnava alla libertà_ la città d’Aosta e i sobborghi, promettendo nè egli nè i successori levarne taglie _non consentite_; e ci sono testimonj del diritto antico le franchigie che quella valle conservò anche sotto il dominio della casa di Savoja. Negli stati, o come oggi diremmo, nel parlamento, presiedeva alla nobiltà uno delle famiglie di Vallesa e di Challant, prendendo il seggio quel che primo arrivasse: il secondo avea diritto di sedersegli sulle ginocchia. Vi si tenevano assise per risolvere le liti di maggior momento e promulgare le ordinanze per esecuzione della legge, assistendovi il sovrano, il cancelliere savojardo, i pari, gl’impari, i consuetudinarj. Pari dicevansi i nobili di case primarie: impari i vassalli banderesi o semplici gentiluomini e dottori in diritto; gli altri erano castellani, causidici, pratici di legge. Il duca dovea convocarli ogni sette anni, ed egli entrava nella valle pel piccolo Sanbernardo, e toccato il confine, spediva due baroni ordinando ai vassalli di consegnare tutte le rôcche, le quali rimanevano occupate da gente di lui per tutto il mese che duravano le assise. Entrato in città dalla porta San Genesio, sull’altare della cattedrale giurava proteggere la chiesa, il clero, gli orfani, i privilegi e le consuetudini del ducato. L’udienza tenevasi nel vescovado, in una sala dov’erano undici sedili di legno, tutti senza ornamenti, anche quello del duca; in man di questo rinnovavano l’omaggio vassalli e feudatarj, si confermavano gli statuti, poi si procedeva a rendere giustizia. Rompendosi guerra, la valle soleva stipulare neutralità, massime colla Francia, per mediazione dei Vallesani e degli Svizzeri, ai quali giovava tener da sè lontana l’invasione; onde fino al 1691 nessuno straniero violò quella valle, che era detta perciò _la pulzella_[308]. Il 13 aprile 1360 ad Amedeo VI di Savoja si presentarono alcuni nobili, a nome degli altri tutti del Piemonte, chiedendo rinnovasse le concessioni ch’essi già teneano dai principi precedenti. Assentì egli, e giurò osservar loro privilegi siffatti: potessero dare asilo nelle loro terre ai banditi dal territorio del conte, salvo se fossero felloni o ladri; sostenersi l’un l’altro contro ai proprj nemici, e collegarsi all’usanza de’ nobili savojardi, purchè non fosse a danno del conte o di casa sua; esercizio amplissimo d’ogni maniera di giurisdizione civile e criminale, quale l’aveano nelle lor terre, proibendo agli ufficiali del conte di penetrarvi, fuori del caso di negata giustizia; dei castelli e delle fortezze di loro dominio non potessero venire spogliati se non nel caso di confisca, nel quale, non altrimenti che in ogni altra inquisizione criminale, si doveva procedere a termini di ragione; qual si fosse lite civile o criminale insorta fra nobili, oppure fra nobili ed altri sudditi del conte, fosse giudicata da tribunali costituiti in terra del conte al di qua dell’Alpi; se occorresse la confisca per misfatto dell’investito, il conte rilascerebbe il feudo ai consorti, mediante un equo correspettivo, per verun titolo potendo ritenerlo se non con assenso dei consorti, senza il quale non poteva egli comprar feudi; il conte dovesse conoscere in via sommaria sopra i vassalli ingiustamente spogliati dei feudi; tolto ed abolito in perpetuo il malaugurato dazio di transito, origine di recente guerra; il conte non riceverebbe tra i borghesi delle sue terre gli uomini de’ feudi nobili se non trascorso un anno e un giorno dacchè n’erano usciti, e il vassallo non avesseli richiamati; i nobili sariano obbligati a far oste col signore soltanto in occorrenza di guerra, secondo le vecchie consuetudini, ricevendone soldo e risarcimento dei danni. Da queste limitazioni ai governanti, da questo sentimento d’una libertà necessaria e connaturale al popolo, il savio editore dedusse novelle prove di quell’asserto, che ogni giorno vien confermando, cioè che negli ordini politici d’Europa la libertà si può chiamare antica, mentre il despotismo non è che de’ governi ammodernati, siano assoluti o costituzionali. CAPITOLO CVIII. Le Compagnie di ventura. L’assiduo avvicendarsi de’ signorotti in Italia trova spiegazione nelle mutate guise dell’arte militare. Nessuna n’aveano i Barbari; poco atti agli assedj, poco alla tattica navale, la forza personale facea tutto, e l’intento riducevasi a recare il peggior danno al nemico. Ai soli conquistatori il privilegio di portare le armi, tenendo gli altri nell’oppressione inerme. Stabilita la feudalità, ogni vassallo era obbligato dare al signore un numero di combattenti[309]; egli stesso ne teneva per proprio servizio e difesa: talchè gli eserciti restavano sminuzzati in piccoli corpi, diversi secondo l’importanza del feudo, e differentemente vestiti, armati, esercitati. Vi era possibilità di accordare gli sforzi ad uno scopo comune? Prevaleva la cavalleria; e solo in quella addestrandosi i nobili, la fanteria non componeasi che di villani. Studio principale metteva il cavaliero nel coprirsi in guisa, che armi ordinarie nol ferissero; onde s’inventarono armadure a tutta botta, e che pure non impedissero i movimenti del corpo. Pesavano tanto che non le avrebbe rette un uomo a piedi: per ismontare e salire a cavallo con esse, s’inventarono le staffe; e per reggere alle lunghe marcie e difendere le reni, s’introdussero gli arcioni; due essenziali progressi. Sotto questa scaglia ferrata i cavalieri sfidavano i tiri degli arcadori e le picche della fanteria, la quale rimaneva senza riparo esposta alle mazze ferrate o agli spadoni dei cavalieri nemici, o serviva di siepe agli amici, qualora stanchi si ricoverassero in mezzo di essa. Occorreva un assalto? o di dover guerreggiare, cioè saccheggiar le terre del vicino? chiamavansi all’armi i vassalli, ma bastava sapessero ferire e reggersi al posto; se il nemico prevalente li scompigliava, non poteasi temere diserzione, giacchè, legati com’erano alla gleba, forza era che tornassero alle capanne, dove il feudatario li rinveniva ad ogni nuovo occorrente. Questo metodo, eccellente alla difesa, non valeva all’attacco, e le crociate e le spedizioni degl’imperatori in Italia ne chiarirono l’imperfezione. I feudatarj poi, scostati che fossero dalle loro terre, più non aveano modo di surrogare uomini a quei che perissero; presto avevano consumato i loro mezzi nel vestirli e nutrirli, qualora non vi supplisse il bottino; e non potendo il signore ritenerli di là dal tempo prefisso, li vedeva partire spesso nel maggior suo bisogno. Si dovette dunque provvedere a mutamenti, che il despotismo, a cui vantaggio riuscirono, intitolò miglioramenti. Già nelle crociate ciascun uomo acquistava importanza, sì perchè guerriero di Dio, sì perchè bisognava introdurre accordo nel numero, disciplina nell’entusiasmo; e quantunque lo sforzo maggiore si facesse ancora col sagrificare la pedonaglia, pure fu duopo disporla meglio ed esercitarla, fornire magazzini, assegnar paghe e quartieri comuni e divise. Gli Ordini militari religiosi dovettero avere tra loro un accordo di comandi, d’esercizj, di movimenti, la cui mercè prevalevano alle altre truppe. Ivi anche troviamo negli assedj rinnovati gli artifizj degli antichi, e l’unirsi in numerose masse, e le battaglie grosse; pure gli eroi di quelle imprese mai non ci vengono lodati per abili condottieri, se non sia nel classico poema del Tasso. La prevalenza dell’individuo sopra la moltitudine, distintivo della feudalità, fu dai Comuni combattuta coll’opporre la moltitudine alla forza individuale; sicchè i pedoni riagirono contro ai cavalieri, contro alle masnade del castellano la milizia municipale. Ma conveniva sistemarla; e l’invenzione del carroccio, tentativo d’imporre qualche ordine ai nuovi liberi e agl’inesercitati artieri, convince come nessun migliore ne esistesse: tuttavia i Comuni, e massime quelli di Lombardia, valsero a resistere all’esperienza disciplinata de’ cavalieri franconi, sassoni, svevi. Dagli statuti municipali appajono gli ordinamenti per la milizia. Una nazionale se n’era procurato Genova sin dal 1163; e rinomati n’erano i balestrieri, sottomessi a consoli particolari; ben diecimila di essi combattevano alla sanguinosa giornata di Crecy fra Inglesi e Francesi, e perirono perchè la pioggia avea guaste le cocche. Ogn’anno il doge e il suo consiglio eleggeva due, valenti al tiro, i quali doveano cercare giovani balestrieri ed esercitarli quattro volte l’anno, dando in premio ogni volta una tazza d’argento da venticinque genovine[310]. I quartieri o sestieri, in cui era divisa ciascuna città, formavano le divisioni anche dell’esercito, e ciascuna provvedevasi di carri, munizioni, armi, guastatori. Per lo più non uscivano che alcuni quartieri, e nelle imprese diurne si alternavano. A Bologna ciascuna parrocchia, secondo l’importanza, eleggeva due, quattro o sei uomini da’ quarant’anni in su, e un notaro non minore de’ venticinque, i quali giuravano di formare una venticinquina caduno nella sua parrocchia d’uomini fra i diciotto e i settanta. Più tardi tutta la città era partita in venti compagnie di sedicimila settecensettantasette uomini e milleseicentrentotto balestrieri. Pel contado erano disposti dei fortini con guardie che davano i segnali mediante bandiere diversamente colorate, e con lucerne la notte. Al tocco della campana, tutti che avessero cavalli doveano comparire sotto i loro vessilli in piazza. I cavalieri portavano panziera, guanti di ferro, corazzina, schinieri e cosciali, cappellina di ferro o bacinetto con nasale. Sopra la guerra si eleggevano due savj per tribù[311]. Pisa era compartita in compagnie vecchie e nuove, comandate da gonfalonieri eletti nel proprio gremio. Al suon dello stormo, ciascuno raccoglievasi alla bottega del proprio gonfaloniere; e lo statuto fissava qual dovesse dirigersi al palazzo, quale alla tal porta; e così dalla campagna quali postarsi a un crocicchio, quali a un ponte. A Como dodici cittadini per turno custodivano il castel Baradello. La cavalleria, più importante quanto più piccole sono le schiere, richiede più lunghi esercizj, sicchè quell’arma era affidata di solito ai meglio stanti, o a gente stipendiata; Milano fin dal 1227 vi assegnava soldo; Firenze v’aggiungeva premj e medaglie, e ne formava una o due compagnie: seguivano due corpi di balestrieri e di fanteria pesante, con lancia, palvese e cervelliera: gli altri cittadini, ripartiti in compagnie con spada e lancia, doveano trovarsi in arme al posto assegnato quando toccasse la squilla; la quale, dopo sonato continuo per un mese, era posta sopra un carro, e serviva a guidare la marcia. Il supremo comando spettava ai consoli; sotto di loro i capitani di quartiere, il gonfaloniere, il capitano di ciascuna compagnia. Con tali armi uscivasi o alla _gualdana_, correria per guastare le terre; o alla _cavalcata_, corta impresa di cavalli e arcieri; carroccio e gonfalone andavano solo a _oste_, ch’era un esercito compiuto. Ci rimangono in latino i _preparativi per la guerra_ de’ Fiorentini nel 1285, che dicono presso a poco: — Quest’è il modo di far esercito pel Comune di Firenze contro i Pisani, trovato dai mercanti di Firenze per lo migliore stato della città e delle arti. E prima, far chiudere tutte le botteghe e i fondaci sinchè l’esercito si muova: suoni ogni giorno la campana del Comune, e si bandisca per la città che ognuno si prepari di quanto occorre all’esercito: si eleggano quattro persone in ogni canonica, e due in ogni cappella, e facciano cinquantine d’uomini dai quindici ai settant’anni, e li mettano in iscritto: da ciascuna cinquantina si scelga quali devono rimanere in città per custodia, e quali andare nell’esercito: a quei che rimangono s’imponga quantità di denaro conveniente, e così agli assenti: i trascelti vadano e restino nell’esercito a loro spese proprie: nel contado poi restino alcuni a custodia delle pievi e delle ville e de’ popoli, e gli altri tutti vadano e stiano nell’esercito a spese di quei che rimangono»[312]. Ordini consimili troverebbe, chi li cercasse, nelle varie città; e al sommar de’ conti unico comando era il combattere, unica regola non iscostarsi dalla bandiera o dal carroccio, unico scopo il vincere. Ma già fin dai primi tempi de’ Comuni v’era chi specialmente si ammaestrava e sistemava per la guerra, e tali erano que’ Gagliardi, che nel 1235 a Milano giurarono difendere il carroccio; tali i Coronati, che cinque anni dappoi, gridando _A morte, a morte_, traevano tutta Milano a combattere; tali i Cavalieri delle bande, che Firenze istituì quando temeva d’Enrico VII, e che poi si volsero a spassi e sollazzi[313]; tali altre compagnie in diversi Comuni, le quali facilmente acquistavano importanza politica, e privilegi, e ingerenza nel pubblico maneggio. L’uomo ama la libertà perchè gli rechi la pace; e i nostri cittadini, bramando applicarsi alle arti, desideravano esimersi dalla milizia. Si cominciò dunque a non chiamar più alle armi l’intero popolo, ma solo chi avesse un dato censo, o chi si esibisse, o chi l’accettasse per ingaggio. Da ciò venne che si potessero meglio esercitare e disciplinare; laonde come superfluo si lasciò da banda il carroccio, e primo Ottone Visconti vi surrogò lo stendardo bianco con sant’Ambrogio, poi tutti i Comuni spiegarono la propria insegna. Ma già prima essi Comuni aveano introdotto di prendere al soldo uomini meglio addestrati nell’arme che non i borghesi; e nel capitale problema statistico di fare che la guerra non isfrutti i vantaggi della pace, si figurarono tornasse a pro l’avere una forza stipendiata e forestiera, la quale dispensasse i cittadini dal togliersi alle arti e alle campagne; e che, condotta in occasione di guerre, fosse congedata durante la pace senza logorar le finanze; riducesse insomma la guerra ad una quistione di denaro. Gl’imperatori svevi, menando a spedizioni più lontane e più prolungate che nol portasse il servizio feudale, dovettero ricorrere a truppe mercenarie, e con esse si fecero forti Federico II, e più Manfredi e Corradino, e per contrasto a loro Carlo d’Angiò. Le accantonavano essi qua e là per Italia, all’uopo di favorire l’uno i Ghibellini, l’altro i Guelfi; sicchè passando da terra a terra, da bandiera a bandiera, costoro s’avvezzarono alle imprese di ventura. Con siffatti trionfarono Ezelino, Salinguerra, Buoso da Dovara, Oberto Pelavicino; ad essi furono dovute le vittorie di Tagliacozzo e di Benevento, poi gli alterni successi dell’interminabile guerra di Sicilia. In quest’ultima, singolar rinomanza di valore e fierezza acquistarono i Catalani e gli Aragonesi; e quando, sospeso il combattere, Federico re di Trinacria volle rimandarli in patria, risposero essere liberi di sè, manomisero l’isola per proprio conto, e presero a capo Ruggero di Flor, generato da un gentiluomo tedesco del seguito di Corradino in una nobile di Brindisi, lo perchè dai nostri è appellato Ruggero di Brindisi. Perduto il padre alla battaglia di Tagliacozzo, colla madre cresceva negli stenti, finchè, menato via da un Templare, presto meritò divenir egli pure friere. Alla presa di Tolemaide (1291) salvò molte persone e le ricchezze del suo Ordine: ma accusato d’essersene appropriato qualche porzione, fuggì in Sicilia. Creato viceammiraglio, fatto esercito di avveniticci italiani, tedeschi e principalmente catalani, e da re Federico, desideroso di sbrattarne l’isola, avute in dono dieci galee, che egli crebbe fino a trentasei, passò in Grecia, ove l’imperatore Andronico II (1304) l’accolse con tanto onore, da sposargli fino una nipote. Contro i Turchi prestò eccellente servigio: ma i liberatori nocevano non meno che i nemici; non risparmiavano onore, robe, vite; e per lunghi anni, col nome di _esercito de’ Franchi regnante in Tracia e Macedonia_, fecero ogni loro arbitrio su quel confine dell’Asia e dell’Europa, e gravi jatture recarono alle colonie genovesi. Piacque tale esempio al genio andarino e venturiero d’allora, quando, non essendo accentrata ne’ governi ogni attività, ciascuno disponeva ad arbitrio della propria, siccome abbastanza ci fu veduto nelle spedizioni de’ Normanni, nelle crociate, nelle conquiste di Genovesi e Veneziani in Levante. Non era questa la forma, con cui i Germani erano sbucati addosso all’antico impero romano? non erano tali gli Ordini cavallereschi? Nell’indipendenza degli individui, e nella niuna protezione che poteano ripromettersi dai governi, ognuno doveva provvedere alla sicurezza propria, e chi non si volesse rassegnare all’oscurità, dovea procacciarsela coll’armi. Spesso, come dice il cronista di Cola Rienzi, «non c’era altra salvezza se non che ciascheduno si difendeva con parenti e con amici»; e queste associazioni di famiglie e di clienti facilmente dalla difesa passavano all’attacco. A migliaja, lo vedemmo, le persone erano bandite da alcune città; le quali, sviate dai mestieri e cupide di vendetta, si applicavano alle armi, e restando unite dalla comunanza di sventure e di speranze, si offrivano a chiunque preparasse impresa contro la loro patria[314], o stanziavansi in altre città, come fecero i Guelfi fiorentini dopo la battaglia di Monteaperti, i quali poi raccozzatisi in un’armatetta, coadjuvarono alla spedizione di Carlo d’Angiò. D’altra parte la nobiltà castellana teneva studio unico le armi, e vi esercitava i suoi villani onde averli pronti al bando feudale o nelle private baruffe. Accomandati a più d’un Comune, bilanciavansi tra i varj in modo di non obbedire a nessuno, e ingrandirsi a danno dei confinanti. I podestà, che andavano ad esercitare nelle città il potere esecutivo, doveano condurvi un pugno d’armati, e ne davano per lo più la cura ad alcuno di questi castellani; od un castellano veniva podestà o capitano del popolo colla propria masnada. La feudalità avea risolto in modo insigne il problema supremo di fissare al suolo le genti da tanto tempo vagabonde, e di allestire alla difesa senza possibilità di conquiste. Ma ormai i feudi si venivano fondendo; quelle molecole politiche, per così esprimermi, si cristallizzavano attorno ad alcuni nuclei; alle guerre private succedeano quelle di Stato a Stato, più grosse e regolari; del sistema monarchico consolidatesi nella restante Europa, si risentiva pure l’Italia; e i re e gli imperatori che s’accingevano a lunghe e lontane imprese, non potendo pretendere i servigi de’ loro vassalli, doveano ricorrere a un valor mercenario. Dopo che la libertà comunale era riuscita a ridurre cittadini i guerrieri, i guerrieri ed i principi dovendo comprimere i sudditi, ricorrevano a quel che n’è mezzo supremo, una forza regolare e stabile, non più disposta a tutelare i borghesi che in pace trafficassero o lavorassero, ma a tenere in soggezione i sudditi, nè lasciare che sentissero la propria gagliardia. Generale divenne dunque l’uso delle truppe mercenarie, e persone e paesi si applicarono specialmente a quest’arte. Nella bassa Germania e in quella che poi formò la Svizzera, sminuzzata tra innumerevoli signorotti, e con più popolazione che mezzi di sostentarla, presto divenne un mestiere il servire coll’armi; e come capobande era comparso in Italia quel Rodolfo d’Habsburg, la cui discendenza dovea darle tanti regnanti[315]. Allorchè Enrico VII morì a Buonconvento, i Tedeschi che con lui aveano passato le Alpi rimasero improvvisamente senza soldo e senza padrone, e vissero di saccheggiare, finchè si allogarono con chi li pagasse: altrettanto fecero i seguaci di Lodovico Bavaro, e quei che erano venuti col duca di Carintia, col re di Boemia, al ritorno ne’ loro paesi preferendo il rimanere nel nostro: con loro si univano i nostri maneschi, e gente necessitata a misfare per fuggire castighi. I tirannetti preferivano sempre i Tedeschi, perchè stranieri ai partiti nazionali, e perchè più ostinati, come quelli che non poteano disertare, e che aveano mestieri della guerra per vivere. Questi venderecci, non combattendo nè per sentimento nè per obbedienza ma per guadagneria, riuscivano terribili ad amici e nemici. In Italia i cittadini eransi mostrati eroi nell’acquistare contro il primo e difendere contro il secondo Federico la loro indipendenza; ma quando le guerre si prolungarono, e divennero schermaglie di partiti, o da un signore decretate per proprio interesse e capriccio, essi prendeano le armi di tanto minor voglia, quanto più venivansi avvezzando alle dolcezze della quiete e all’applicazione delle arti. Ai signori nulla poteva tornare più desiderevole che questo svogliarsi dalle armi, le quali in man de’ cittadini sono terribile ritegno alle prepotenze: onde di lieto animo li sgravarono di tal peso, cambiandolo con un tributo, del quale si valeano per condurre truppe a stipendio. Si trovò dunque chi speculasse su questo nuovo lucro, e uomini disposti a «versar l’alma a prezzo», e _condottieri_ che li comprarono, rizzando una bandiera di ventura per far guerra dove avessero maggior derrata. Costoro, trovandovi guadagno e fama, esercitarono meglio le bande, che applicate per elezione alle armi, dovettero possederne l’abilità, se non il vero coraggio che nasce dal sentimento del dovere. La milizia cessava dunque d’essere, come deve, una istituzione dello Stato, e diveniva mestiere d’individui: da gente poi senza patria, senza causa, senz’altro movente che l’oro, poteasi più aspettare nè cortesia cavalleresca, nè lealtà, nè l’altre doti che sceverano il masnadiero dal campione? Questa genìa nuova, principal parte sostenne nelle guerre non solo, ma nelle vicende politiche del periodo sul quale ora ci esercitiamo, e che forma una nuova fasi della vita signorile. Perocchè da prima vedemmo i castellani imperare sul suolo sbocconcellato. Dappoi che furono la più parte costretti a divenire cittadini, cercarono primeggiare nei Comuni colle magistrature o col capitanare le fazioni; e Giano della Bella, Vieri de’ Cerchi, Corso Donati, non meno che i Torriani, i Carrara, i Da Camino, andarono podestà o capitani del popolo in varie città o nella natìa col mescere partiti. Or ecco nuovo campo aprirsi ai gentiluomini, il condurre soldati a servizio di questo o di quel belligerante, col nome in prima di capitani, poi di condottieri: e già per tal via vedemmo ingrandire Uguccione, poi Castruccio: e fu col costoro ajuto che le città, divezzate dalle armi, si sottoposero a principi. I Comuni dovettero anch’essi adottare questo sistema, e appunto colle bande Firenze resistette a Castruccio, poi ai Visconti e al papa. Nel 1322 alcuni, partiti dal soldo de’ Fiorentini, si unirono a Deo Tolomei fuoruscito di Siena, che, raccoltine oltre cinquecento a cavallo e moltissimi a piedi, corse infestando il Senese[316], finchè il verno e la fame li sbrancò. Narrammo le vicende e la baldanza di quei che dal Ceruglio pericolarono Lucca e Pisa. Guarnieri duca di Urslingen, con molti altri tedeschi a cavallo condotto a provvigione dai Pisani contro Firenze nella guerra di Lucca, congedato assunse imprese per proprio conto, e spinto (1343) o anche pagato dai Pisani e dai signori lombardi per danneggiare i principotti di Romagna, unì a sè le bande di Ettore Panigo e di Mazarello da Cusano bolognesi, e intitolandosi _signore della Gran Compagnia, nemico di Dio, di pietà, di misericordia_, taglieggiava tutt’Italia, dando mano a ribelli e vendicativi. Tremila barbute lo seguivano con infinita ciurma, ogni dì cresciuta dalla schiuma de’ paesi traversati; correvano a man salva sopra chiunque differisse a dare quanto pretendevano; e incendj, devastazioni, e quantità di villani appiccati agli alberi segnavano il loro passaggio. Alfine Guarnieri pel Friuli se n’andò ben arricchito: ma quando i pochi resti della sua banda ebbero al giuoco, ai bagordi, a postriboli sguazzato le prede, egli tornò con Luigi d’Ungheria venuto a conquistare il regno di Napoli, e che blandiva questo masnadiero al punto di volere da esso ricevere l’ordine cavalleresco. Accordatosi col vaivoda di Transilvania e con altri capibanda, fino a raccorre diecimila armati, Guarnieri taglieggia la Capitanata e la Terra di Lavoro (1348), e ogni luogo dove trapiantasse gli alloggiamenti; e il bottino che i suoi spartirono alla fine si valutò mezzo milione di fiorini, non contando l’armi, i cavalli, i panni e le cose d’uso o trafugate; e dopo strazj infandi traendosi dietro prigionieri e donne rapite, attraversarono la spaventata Italia. Fra queste bande e nelle guerre del Napoletano (1351) si era segnalato Monreale d’Albano frate spedaliere, che, affidatisi alcuni masnadieri ed esibendosi a un signore o all’altro, era venuto in fiducia che nulla fosse impossibile alla forza; onde mandò inviti e promesse a quanti erano mercenarj per Italia, e arrolati millecinquecento cavalli e duemila fanti, mise a sacco la Romagna. Avvezzò egli i suoi a rubare e assassinare con ordine: teneva tesoriere, segretarj, consiglieri con cui discutere; giudici che mantenessero fra i soldati una giustizia a modo suo, e reprimessero i saccardi: il bottino doveva essere compartito equamente tra uffiziali e soldati, poi venduto a certi mercanti privilegiati: una repubblica insomma di masnadieri disciplinati. E per tutto se ne parlava; i venturieri non vedeano l’ora d’aver finito la propria condotta per mettersi ne’ ruoli di frà Moriale, e fin principi e baroni di Germania. Così aggomitolò da settemila cavalli e millecinquecento fanti scelti, ma l’ondata seguace saliva sin a ventimila; e ognun pensi come i paesi doveano rimanere in isgomento, e se pagavano di grosso acciocchè non venissero a far di loro Dio sa che. Le città toscane si serrarono in lega per difendersi, ma egli bravando di volerne far quel peggio che mai, seppe sconnetterle, ciascuna tagliando di pingui riscatti: Siena di sedicimila fiorini, d’altrettanti Pisa, di venticinquemila Firenze per rimanerne lontano due anni, oltre i regali ai capi. E corsa per sua la campagna, andò a servire la lega formata contro i Visconti, patteggiando cencinquantamila fiorini per quattro mesi di servizio. Finito il quale (1354), traversò Italia onde andare ad accaparrarsi imprese per la nuova stagione; ma Cola Rienzi il colse, come vedremo. Tal modo di guerra aggeniava agli Stati piccoli e trafficanti, che col denaro sapeano di avere in pronto truppe ad ogni occorrenza, e ripristinavano in certo qual modo l’equilibrio, rotto dal crescere d’alcune potenze. Ai tiranni conveniva onde perfidiare la pace, giacchè, se volessero nel cuor di questa rovinare un loro nemico, congedavano una banda con segreto concerto che la si gettasse sulle terre di quello. Il condottiere tornava opportunissimo alla diffidenza di Stati non eretti saldamente sopra le istituzioni: e l’aristocrazia, temente la popolarità d’un guerriero vittorioso; la democrazia, gelosa di non affidare il comando a un cittadino; i principi, che repugnavano dall’armare nè i nobili nè la plebe, trovavano al caso loro questo nomade eroe, che combatteva perchè pagato, che se ne andava al cessar degli stipendj, che alla peggio potevasi reprimere collo stipendiare un suo emulo. Venezia, che, per gelosia, ai proprj nobili non avea mai consentito i comandi, menò soldati a mercede in tutte le campagne di terraferma; Firenze si piacque di un sistema, che i cittadini lasciava attendere alla mercatura e alle industrie di mano e d’ingegno; se ne piacque Roma pretesca: e così si estese questo vil modo, che della guerra faceva una speculazione, togliendole quel decoro che la rende men trista. E fu un nuovo e gravissimo flagello della patria nostra. Que’ venturieri, terribili per barba, per cimieri strani, per nomi strepitanti, unendosi improvvisi e guerreggiando senza ragione, nessun più lasciavano sicuro della pace. Combattendo senza sentimento nè onore, ispiravano diffidenza anche ai proprj compratori, disposti com’erano ad abbandonarli appena ne trovassero uno più generoso. Ad ogni impresa ben riuscita, pretendeano _paga doppia e mese compiuto_; se finita la loro _ferma_ non fossero ricondotti, o la pace li mettesse _in aspetto_, i capitani assumevano imprese per conto proprio: riuscivano? ecco terre da saccheggiare, prigionieri da taglieggiare, conquiste da rivendere: fallivano? aveano scemato le bocche da mantenere. Dietro a loro traeva sempre una ribaldaglia di spie, saccomanni, guastatori, che sperperavano il paese, non peritandosi fra pace e guerra, fra amici e nemici. Aveano l’accortezza di non badarsi in un paese tanto da eccitare i natii a difesa disperata, e gl’inducevano a soffrire colla lusinga che presto ripartirebbero. Nerbo degli eserciti restava sempre la cavalleria pesante, poco reputandosi la fanteria, cernita fra vulgari, e che supponevasi incapace a sostenere l’urto de’ corazzieri. Ma la grave armadura, disposta alla difesa anzichè all’offesa, rendeva i militi più formidabili per massa che per agilità; e se dai molti arcieri e pochi balestrieri che erano allora negli eserciti non poteva essere trapassata, disserviva però ne’ paesi caldi; e caduto che uno fosse, più non poteva rialzarsi, e rimanea prigione o ucciso o soffocato. Qualunque ostacolo poi frangeva quelle massicce ordinanze, nulla poteano fra le montagne, poco al varco de’ fiumi; in conseguenza evitavano le battaglie in campagna rasa, o bisognava che i due generali nemici si mettessero d’accordo per scegliervi luogo opportuno, come si farebbe in duello o in un torneo. Rare perciò le giornate campali, limitandosi a _cavalcate_ sul terreno nemico per bottinare, distruggere, coglier prigioni; e consumavasi talvolta la guerra senza neppure una battaglia. Pertanto i paesani ritiravansi entro terre castellate, quali allora faceansi tutte, e che, per la natura delle armi d’allora, erano a gran vantaggio superiori nella difesa, e anche i villani poteano sostenervi raffrontata sinchè o si fosse patteggiato coi condottieri, o questi stancati non volgessero sopra un altro castello. Imperocchè una tela continua ne trovavano sui loro passi, e vicino un breve spazio alla piccola terra di Sanminiato contavansene ventotto, ventitrè nel contorno di Montecatino, ventiquattro ne possedeva attorno ad Asti la famiglia Solari; e la Toscana, che oggi non ha tampoco una piazza, non sariasi potuta conquistare che dopo tre o quattrocento assedj. La difficoltà d’essere espugnati rendeva animosi a resistere, come oggi la certezza del dover soccombere predispone a capitolare. Intanto, a differenza di ciò che si fa o si cerca oggi, il danno cadeva non sugli eserciti, ma sul popolo, lasciando costoro dappertutto luridi segni di gola e di lussuria, e per lo meno mercatando degli alloggi risparmiati, del cammino cansato. Dopo la vittoria di Meleto (1349) il vaivoda di Transilvania, i conti Landò e Guarnieri doveano alle bande doppia paga, montante a cencinquantamila fiorini; e non trovandoseli, abbandonarono ad esse i gentiluomini prigionieri, che distesi su travi per terra, vennero a furore flagellati finchè non s’obbligassero a quel tributo. La Compagnia Bianca, capitanata dall’inglese Giovanni Acuto (Hawkwood), allorchè prese Faenza (1376), pose in catene trecento signori, undicimila cittadini cacciò, e sulle robe e sulle donne avventossi furiosa: due connestabili si contendeano una monaca rapita, quando l’Acuto sopravenne, e — Abbiatela metà per uno», disse, e la tagliò in due. Un’altra banda mandavasi avanti un villano, di cui aveva arrostito un fianco sopra la graticola, perchè i costui strilli ne annunziassero l’avvicinarsi. Racconta Franco Sacchetti, che, essendo iti due frati Minori ad esso Acuto, lo salutarono al loro modo dicendo, — Monsignore, Dio vi dia pace»; e quegli subito rispose: — Dio vi tolga la vostra elemosina»; e meravigliandosi essi dello scortese ricambio, — Non sapete (soggiunse) ch’io vivo di guerre, come voi di elemosine, e la pace mi disfarebbe?» Dove l’autore, meno frivolo del solito, riflette: «Guaj a quelli uomini e popoli che troppo credono a’ suoi pari, perocchè popoli e Comuni e tutte le città vivono e accrescono della pace; ed eglino vivono e accrescono della guerra, la quale è disfacimento delle città, e struggonsi e vengon meno. In loro non è nè amore nè fede; peggio fanno spesse volte a chi dà loro i soldi, che non fanno ai soldati dell’altra parte; perocchè, benchè mostrino di voler pugnare e combattere l’uno contro all’altro, maggior bene si vogliono insieme, che non vogliono a quelli che gli hanno condotti alli loro soldi; e par che dicano, _Ruba di costà, ch’io ruberò ben di qua_. Non se n’avveggono le pecorelle, che tuttodì con malizia da questi tali sono indotte a far guerra, la quale è quella cosa che ne’ popoli non può gittare altro che pessima ragione. E per qual ragione sono sottomesse tante città in Italia a signore, le quali erano libere? per qual cagione è la Puglia nello stato ch’ella è? e la Sicilia? e la guerra di Padova e di Verona ove le condusse, e molte altre città, le quali oggi sono triste ville?»[317]. Una milizia che si proponea per fine il saccheggio e lo stupro, di rado conduceva a risultamenti decisivi; principi e repubbliche rimanendo a loro arbitrio, supplicavano, in vece di comandare; donavano titoli, stemmi, parentele ai capitani, e per reprimerli non sapeano che ricorrere a inganni e veleni; e il rigore che era necessario per isgomentar le bande, introduceva nuova ferocia negli statuti criminali. Armeggiando per mestiere, i venturieri non dimenticavano che domani forse servirebbero a quello che oggi combattevano; onde s’accordavano di nuocersi il men possibile, far prigionieri più che uccidere, sovrattutto risparmiare i cavalli, meno facili a rifarsi che gli uomini; e quando facessero de’ prigionieri, se li scambiavano. Essendo una volta Francesco Piccinino trascorso incautamente fra’ nemici, «subito che questi lo conobbero, gittarono le armi, e coi capi scoperti riverentemente lo salutarono; e qualunque poteva, con ogni riverenza gli toccava la mano, perchè lo imputavano padre della milizia e ornamento di quella» (CORIO). Dopo il fatto di Montorio, Roberto Sanseverino rimandò i fatti prigioni, ma con lettera in cui si doleva che i soldati avversi «con poco rispetto l’avessero sonato, e datogli molte punte di spada»[318]. Con tali cortesie la guerra si trovò ridotta ad una scherma da scacchiere, a una manovra di marcie e contromarcie; le battaglie a un accalcarsi piuttosto che azzuffarsi; nè versavasi sangue che per inavvertenza, e un’abbaruffata in città costava di più che una giornata campale; ingegno e astuzia sottentrarono al coraggio, e molti invecchiarono nell’armi senza trovarsi mai esposti a pericolo. Nel capitano però richiedevasi abilità personale; atteso che le truppe, massime di fanteria, non erano tenute alla bandiera da punto d’onore, non da vergogna de’ commilitoni coi quali trovavansi accozzati per un solo momento, onde si sbandavano appena perduta la speranza della vittoria o del bottino. Alcuni capitani di ventura fondarono chiese e cappelle, massime a san Giorgio, del qual titolo è un ospedale a Firenze, posto il 1347 dagli stipendiati della Compagnia di quel nome; una cappella a Pisa del 1346, fondata da due degli Scolari; Bonifazio Lupo istituì a Firenze l’ospedale che conserva il suo nome; Pippo Span il tempio degli Angeli; Percival Doria l’Annunziata a Genova; Bartolomeo Coleoni ricchissima cappella e pie istituzioni a Bergamo e a Venezia. Anna Elena, dopo la tragica fine di Balduccio d’Anghiari suo marito, in Borgo San Gattolino a Firenze fonda un ospizio di vedove e povere, da lei denominato convento d’Annalena. E (ciò ch’è inonesto più che raro) in guerre di speculazione ottennero gloria; all’Acuto Firenze poneva il ritratto e un mausoleo nella propria cattedrale; esequie splendidissime rendeva a Niccolò da Tolentino, con venti bandiere e più di tremila libbre di cera, poi il ritratto in essa chiesa; statue equestri al Gattamelata Padova, al Coleoni Venezia, anche dopo che il sepolcro avea tolto che paressero formidabili. Talora invece erano condotti a trista fine: si sa come Venezia si disfece del Carmagnola; i Fiorentini fecero dipingere impiccato per un piede il conte Francesco di Pontadera, capo di bande avversarie; Giovan Tomacelli fratello del papa, marchese delle Marche, fatto chiamare il famoso Boldrino da Panicale, lo fe trucidare, di che le costui bande vollero vendetta su quanti uomini della Chiesa colsero. Trionfi e supplizj, vicende d’ogni condizione avventuriera. Le popolazioni non restavano assolte da ogni peso guerresco, anzi doveano far la guardia delle città e dei contorni, custodire e difendere le fortezze, dare i carri e i servigiali, preparar le strade. Ciò pesava piuttosto sulla gente del contado; quei di città contribuivano invece tasse o gabelle, con cui pagare le masnade. Così il grosso della nazione italiana disusavasi del valore in mezzo alle battaglie; arbitro delle nimicizie e delle paci restava un gentame vendereccio; e le guerre non terminavano mai, perchè non toglievano le forze ai vinti, i quali al domani d’una solenne sconfitta poteano riaffacciarsi con esercito più poderoso, purchè avessero onde comprarlo. Ai condottieri medesimi stava a cuore di non lasciar soccombere i piccoli Stati ed i rivali, perchè non venisser meno le occasioni di guadagni. Quando i Fiorentini volevano obbligare re Ladislao di Napoli a restituir le terre tolte alla santa Sede, egli domandò: — Che truppe avete ad oppormi?» ed essi: — Le tue medesime». CAPITOLO CIX. Incrementi di Firenze. Il duca d’Atene. La Morte nera. Petrarca e Boccaccio. Da costoro furono agitate le guerricciuole di Toscana. Dalla campagna devastata accorreasi per sussidj a Firenze: eppure l’industria dentro e i banchi di fuori le recavano tal floridezza, che, aggrandita di possessioni, di castelli, di moneta, potè rappresentare parte principale nelle vicende di tutta Italia. Per la guerra contro Mastin della Scala, Firenze spediva a Venezia venticinquemila fiorini d’oro il mese, oltre tenere al soldo mille cavalieri, e guarnigioni nelle terre e castelli, de’ quali ben diciannove sorgeano nel solo contado di Lucca, uno ad Arezzo, a Pistoja, a Colle. Ma i soldi della cavalleria cessavano al cessar della guerra, e ai magistrati invece di stipendj bastava l’onore di servire alla patria. Quarantasei terre murate ne dipendevano, oltre quelle di cittadini e le aperte: non grossa l’entrata diretta, ma le gabelle fruttarono fin trecentomila fiorini annui, che oggi si valuterebbero il quadruplo, e che sorpassavano l’entrata dei re di Sicilia, di Napoli, d’Aragona. La zecca coniava da trecencinquanta in quattrocentomila fiorini d’oro l’anno, e ventimila lire di moneta erosa: le spese non arrivavano a quarantamila fiorini d’oro, tra le quali, oltre le uffiziali, figurano le limosine a monaci e spedali, le feste al popolo e ad illustri avveniticci, e il mantenimento de’ leoni, animali pregiati colà non meno che a Venezia. In città v’avea centodieci chiese, di cui cinquantasei parrocchiali, cinque badie, due priorati con ottanta regolari, ventiquattro monasteri con cinquecento religiose, settecento monaci d’ordini differenti, ducencinquanta e più cappellani, trenta spedali con mille letti. Lievissimo il tributo; bisognando denaro, se ne cavava dal vendere spazio da fabbricar case; e s’ampliava la cerchia della mura comprendendovi Borgognissanti e il Prato. Fra il 1284 e il 1300 si ergevano la loggia dei Lanzi, Santa Maria del Fiore, Santa Croce, futuro panteon de’ grandi Italiani. Venticinquemila persone da quindici in settant’anni erano capaci dell’armi, fra cui millecinquecento nobili, sottoposti alle rigide cautele delle ordinanze di giustizia; non più di settantacinque cavalieri di corredo, atteso gli ordinamenti democratici; millecinquecento forestieri, ottantamila abitanti in contado. Ottanta in cento persone componevano il Consiglio de’ giudici, seicento quello de’ notaj: sessanta fra medici e chirurghi, cento droghieri, cenquarantasei mastri di muro e di legname, cinquecento calzolaj, e senza numero merciajuoli ambulanti. Da otto a diecimila fanciulli frequentavano le scuole di leggere, da mille a milleducento quelle d’aritmetica, un seicento quelle di grammatica e logica. Volgendo a morale perfino l’astrologia, i Fiorentini diceano la loro città esser nata sotto la costellazione dell’ariete, e perciò predestinata al commercio, e che già Carlo Magno l’avesse divisa in arti; volendo l’industria favolose genealogie, come l’aristocrazia. V’erano dunque ducento e più esercizj d’arte della lana, e venti fondachi di panni forestieri occupavano più di trentamila operaj: ventiquattro case trafficavano di banca. I contorni erano popolati di ville, deliziose per posto, e arricchite di capi d’arte; e «uno forestiere non usato (conchiude Giovan Villani questo lusinghiero ritratto della sua patria) venendo di fuori, i più credeano per li ricchi e belli palagi ch’erano a tre miglia a Firenze, tutti fossero della stessa città, al modo di Roma; senza dire delle case, torri, cortili e giardini murati più da lungi, talchè si stimava che intorno a sei miglia vi aveva tanti ricchi e nobili abituri, che due Firenze non n’avrebbono tanto». Da così bel crescere la tracollarono gravissime sventure. Nel novembre 1333 piogge interminate flagellarono molti paesi, e peggio Firenze, ove l’Arno traripando guastò mura, ponti, casamenti, e molte vite e ricchezze inestimabili; e seguì devastando il Casentino, il val d’Arno superiore e l’inferiore, e per tutto ove tenne sua corrente fin al mare. Incalcolabile il danno de’ privati; quel che ricadde sul pubblico passò i ducencinquantamila zecchini: ma la città si affretta al riparo, spendendo cencinquantamila zecchini ne’ soli ristauri, sebbene contemporaneamente menasse la sciagurata guerra per l’acquisto di Lucca e quella contro Mastin della Scala. Pure, non avendo mai il granchio alla borsa ne’ pubblici comodi, eleva anche il magnifico palazzo sopra le logge d’Or San Michele, e getta le fondamenta del meraviglioso campanile. Ma ecco la squassano grossi fallimenti. I Bardi banchieri nel 1345 doveano avere novecentomila fiorini d’oro dalla corona d’Inghilterra, e centomila da quella di Sicilia; i Peruzzi seicentomila dalla prima, centomila dall’altra; e avendo il re inglese lasciato scadere le cambiali, le due case furono ridotte a fallire, e i Bardi diedero ai creditori il settantotto per cento, assai meno i Peruzzi. Anche gli Scali fallirono di quattrocentomila fiorini, e dietro a loro i minori mercanti, «e fu (dice il Villani) a’ Fiorentini maggiore sconfitta, senza danno di persone, che quella d’Altopascio». Di quel tempo Firenze fece un primo assaggio di tirannia. Già quando la guerra con Mastino metteva a repentaglio lo Stato, e invaleva la paura che i Ghibellini di dentro gli desser mano, si provvide ad un’autorità dittatoria, invece dei sette bargelli istituendo un capitano della guardia o conservatore del popolo, con cento uomini a cavallo e il doppio pedoni, e la provvisione di diecimila fiorini annui; la cui giurisdizione non solo si estendeva illimitatamente sopra i fuorusciti, ma era disobbligata dagli ordini della giustizia, e dal render conto ad altri che ai priori delle arti. Il primo fu Jacopo Gabrielli da Gubbio, che severo e tirannico, a contemplazione della plebe oppresse i nobili, tendendo a privarli delle castella venti miglia attorno alla città, cercando al castigo alcuni de’ Bardi e Frescobaldi che studiavano a novità; e n’acquistò tale odio, che, quando scadde, fu stanziato che nessun da Gubbio si eleggesse più a pubblica funzione. Avrebbero dovuto accertarsi che mal si ripara la libertà all’ombra del dispotismo: eppure, scontenti della lentezza de’ magistrati e della perdita di Lucca, conferirono la signoria a Gualtiero di Brienne (1342). Proveniva costui da quel Brienne che campeggiò in Italia, suocero poi nemico di Federico II: re titolare di Gerusalemme, per donne avea conseguito il ducato d’Atene, donde cacciato dalle bande catalane, si era posto al mestiero più lucroso, la guerra di ventura, e con cenventi uomini e gran fama di valore stava al soldo de’ Fiorentini, quand’essi il domandarono capitano e conservatore del popolo, per quella funesta propensione che i vulghi hanno verso i capi militari. «Non senno, non virtù, non lunga amicizia, non servigi a meritare, non vendicate loro onte, ma la loro grande discordia»[319] riduceva i Fiorentini a dominio di questo forestiero, il quale, avaro quanto ambizioso, perfido, ostinato, senza pietà nè confidenza, pensò vantaggiarsi delle passioni di tutte le sêtte, e tutte ingannarle. Bardi, Frescobaldi, Cavalcanti, Buondelmonti, Adimari, Donati, Gianfigliazzi ed altri nobili antichi, esclusi di governo dalla mercantile oligarchia, e continuamente rimorsi per un potere che più non aveano, aizzavanlo contro i popolani grassi, dominatori superbi, ed esosi anche alla plebe; ed egli in fatto ne processò alcuni, come Altoviti, Medici, Rucellaj, Ricci, rivedendo antiche ragioni; e trovando aveano trassinato il denaro del Comune, li mandò al supplizio. Ne sbigottì quella fazione: nobili e plebe s’allegrarono che Dio avesse finalmente mandato un uomo (1342), il quale non mirava in viso a nessuno, nè si lasciava metter la mano sotto da tirannetti. Incontrandolo dunque, gli gridavano _Viva il signore_, ne magnificavano la integrità, ne dipingevano l’arma su tutti i canti; ond’egli carezzando chi lo favoriva, salvando i falliti dalla prigione, s’acquistò tanti fautori, da poter fidarsi a interrogare il voto universale. Radunato il parlamento, fattasi la proposta di dargli la signoria per un anno, «il popolo cominciò a rugghiare, com’era deliberato per li traditori; e gridarono, _A vita a vita, viva il signor duca, in tutto sia signore_; e così pesolone preso e portato alla porta del palagio» (STEFANI), ottenne il potere (8 7bre) senza verun termine o salvo, bruciandosi i libri degli ordinamenti della giustizia e i gonfaloni delle compagnie, tra feste incredibili: Arezzo, Pistoja, Colle, San Geminiano, Volterra secondarono l’esempio. Egli (primo fondamento d’ogni tirannia) soldò ottocento cavalieri francesi, eppure fe pace con Pisa mentre i Fiorentini speravano la ricuperasse; si legò cogli Estensi, coi Pepoli, cogli Scaligeri, garantendosi reciprocamente i dominj, mentre nelle cariche ai gentiluomini preferiva i ciompi, cioè la gente bassa: con ciò e coi mangiari e colle giostre otteneva la vulgare reputazione di democratico, e con questa esercitò tirannia. Allora seguirono i soliti corredi; prestiti forzati, divieto delle armi, nuove inventie di gabelle ed imposte, giudizj ingiusti, prepotenze, e tentar donne oneste, e cingersi di Francesi assetati di preda e di femmine; fraudò i creditori del pubblico per ammassare denaro che asportava: e puniva senza pietà chiunque appuntasse il suo dominio, «sicchè (conchiude il Rinuccini), carissimi miei cittadini, guardatevi di venire a tiranno». Non tardò a prorompere la pubblica indignazione; e mentre i piccoli artieri e il vulgo lo fiancheggiavano (1343), i grandi, i popolani grassi e gli artefici, stanchi di vedersi sempre innanzi agli occhi la mannaja e l’oltraggio, formarono tre congiure, una ignorando dell’altra: poi unitisi nell’intento comune, e levando popolo al grido di _Libertà_, in un batter d’occhio (luglio) misero fuori tutte le bandiere, abbarrarono le strade, assalsero in palazzo il duca e per le vie i suoi scherani: Guglielmo d’Assisi, Cerrettieri de’ Visdomini ed altri di quegli abjetti che mai non mancano per assistere e invelenire i tiranni contro la propria patria, furono uccisi con rabbia sì furibonda, da mordere e mangiar persino delle loro carni, «che, secondo che si legge, in inferno non si fa peggio di un’anima» (STEFANI). Il duca, per intromessa dell’arcivescovo, potè ritirarsi, rinunziando a qualsifosse diritto: si prese che il giorno di sant’Anna fosse festivo come Pasqua; ed oggi ancora si commemora sventolando in Or San Michele i ventuni gonfaloni delle arti. A denaro i Fiorentini recuperarono molte rôcche, dal duca concesse ad altri: ma quasi la libertà acquistata da Firenze invitasse le costei suddite a ricuperarla esse pure, Arezzo, Colle, San Geminiano si fecero di propria balìa; Volterra tornò a Ottaviano de’ Belforti; Pistoja, in nome alleata, in fatto serva, cacciò il capitano e la guarnigione fiorentina per darsi a Pisa, che ridiveniva capo della Toscana; mentre Siena durava indipendente e metteva freno a’ nobili campagnuoli. In quei disastri, ciascuno trovandosi obbligato a riparare colle forze proprie, le conosce e vuole esercitarle, sicchè la democrazia prevale. E già ne’ passati tempi per mozzare la potenza dei nobili si agevolavano ai servi le guise di venir liberi, od accogliendoli ne’ Comuni, o sorreggendoli nelle querele contro i padroni. Ora a quattordici persone coll’arcivescovo fu data balìa di riformare d’uffizj Firenze; e giacchè tutti aveano cooperato a spezzare la tirannide, accomunarono a’ magnati un terzo delle cariche. Ma questi, appena uscirono dallo anteriore svilimento, trascesero la civile modestia, non soffrendo eguali ne’ privati o superiori ne’ magistrati; sicchè da un lato crescendo le insolenze, dall’altro i dispetti, il popolo, inizzato da Giovan della Tosa, insorse contro le famiglie, abbattendone i palazzi, segnatamente que’ de’ Bardi e Frescobaldi, e riordinò a signoria di plebe la città, divisa in quartieri, invece dei sesti. I nobili restavano esclusi dalle magistrature; finchè, lentato il rigore, si accettarono molti casati fra’ popolani. «E nota e ricogli, lettore (avverte qui il Villani), che in poco più d’un anno la nostra città ha avuto tante rivolture, e mutati quattro stati di reggimento: prima signoreggiò il popolo grasso, e guidandosi male, per loro difetto venne alla tirannica signoria del duca; cacciato il duca, ressono i grandi e popolani insieme, tutto fosse piccolo tempo e con uscita di gran fortuna; ora siamo al reggimento quasi degli artefici e minuto popolo. Piaccia a Dio che sia esaltamento e salute della nostra repubblica; ma mi fa temere per li nostri peccati e difetti, e perchè i cittadini sono vuoti d’ogni amore e carità tra loro, ed è rimasa questa maledetta arte in quelli che sono rettori, di promettere bene e fare il contrario». Qui nuovo flagello percosse non la Toscana sola ma tutto il mondo. Per la nessuna precauzione nel comunicare coi paesi di Levante, facilmente ricorreva la peste, che il 1340 rapì dodicimila persone alla sola Firenze, moltissime e delle meglio stanti a Siena, talchè fu vietato di sonar le campane, o radunarsi a mortorio, o mandare attorno, come si soleva, banditori ad annunziare i defunti. Poco poi una nevata straordinaria corruppe i seminati, donde seguì gravissima strettezza di vettovaglie. Firenze non badò a spese, e consumati cinquantamila fiorini d’oro a tirare grano, lo distribuiva in tal quantità, che novantaquattromila persone riceveano pane dal pubblico, non negandolo a verun forestiero nè pellegrino o villano; furono sciolti di carcere gl’indebitati verso il Comune, concesso di redimersi col quindici per cento dalle vecchie multe. Pure la fame affralì i corpi, e li predispose ai guasti di quella che chiamarono la morte nera. La precedettero stranissime meteore, disastrosi tremuoti, vascelli sobbissati, voragini aperte, che per più giorni arsero infiniti spazj; poi il nembo spinse innumerevoli cavallette in mare, i cui cadaveri rigettati sulla riva, finirono d’appuzzare e corromper l’aria; e un nebbione coprì lungamente la Grecia. Il morbo scoppiò nella Cina (1348), poi nell’India, nella Persia, nell’Armenia, nell’Egitto e nella Siria con tal furore, che al Cairo perivano da dieci a quindicimila persone al giorno; ventiduemila ne perdette Gaza in sei settimane, e quasi tutti gli animali. A Cipro fu recato dal vivissimo commercio; così nelle altre isole dell’Arcipelago e alla foce del Don. I mercanti italiani, numerosi per tutti quei porti, cercarono salvezza fuggendo; ma otto galee genovesi, salpate dal mar Nero, approdando in Sicilia, aveano già perduto tanto equipaggio, che quattro furono abbandonate; gli altri sbarcando comunicarono il male, che presto ammorbò quell’isola, la Corsica, la Sardegna, le coste del Mediterraneo, la Toscana. I sintomi variavano secondo i paesi, anzi dal cominciamento al dechino della malattia. Da noi per lo più manifestavasi con febbre violenta, poi delirio, stupore, insensibilità; la lingua e il palato illividivano; fetidissimi il fiato, il sudore, le dejezioni; insaziabile sete; a molti sopragiungeva violenta peripneumonia con emorragie di pronto esito; e macchie nere e sozzi gavoccioli rivelavano la cancrena. Alcuni cadeano come di colpo; i più perivano il primo giorno; fortunato cui succedevano ascessi esterni: ma rimedj umani non menomavano il male, e il minimo contatto bastava a comunicarlo. Invano si fecero processioni di reliquie, si portò il tabernacolo devotissimo dell’Impruneta attorno per Firenze gridando misericordia, e davanti a quella facendo gran paci di quistioni e di ferite. Fuggivasi alla campagna, ma la morte veniva a disabbellirla. I medici che sopravivessero, voleano smisurato prezzo in mano, a appena col viso addietro stendere le dita a tastar il polso, e da lungi veder le orine con essenze odorifere al naso. Quei medesimi che a principio per arte, per carità, per prezzo studiavano gl’infetti, gli abbandonavano poi a morire nell’isolamento, fossero anche i padri, i figli, i mariti; se l’infermo si trovasse confortato, facevasi alla finestra, e stava buon tempo innanzichè passasse persona; e quando fosse udito, o non gli era risposto, o non soccorso; molti morivano così senza sacramenti, e stavano sul letto finchè la puzza annunziasse che là entro erano cadaveri, e i vicini per borsa mandavano a raccoglierli e sepellire senza pietà d’esequie. I becchini esigevano tal ricompensa, che molti vi arricchirono, come arricchirono speziali, pollajuoli, trecche di malva, d’ortiche e d’altre erbe d’impiastri: smisuratamente valevano i confetti, e lo zucchero fin tre in otto fiorini la libbra, e bazza chi ne trovasse: non aveasi più cera, non bare e stamigne, delle quali usavasi ai morti: lanajuoli e ritagliatori che si trovarono panni bruni, li vendettero a peso d’oro[320]. A tal modo Firenze perdette centomila abitatori, altrettanti Venezia, Pisa sette ogni dieci, Siena ottantamila in quattro mesi se si credesse a un cronista, il quale soggiunge che «morivano uomini e donne quasi di subito; ed io Angelo di Tura sotterrai i miei figliuoli in una fossa con le mie mani, ed il simile fecero molti altri»[321]. Quarantamila ne pianse Genova, Roma censessantamila, e così Napoli, e fra tutto il Regno cinquecentotrentamila; in molti luoghi non rimase che un decimo degli abitanti, a Trapani nessuno: cinquecentomila perirono in Sicilia, quasi tutti quelli di Cipro. Trovaronsi vascelli erranti a grado dell’onde, essendo perito tutto l’equipaggio; la messe e la vendemmia infradiciarono non côlte; a Bologna Taddeo Pepoli faticò a tirar grano e tenerlo a basso prezzo, ma entrato il morbo, moltissime famiglie terminarono, delle quali dà la lista il Ghirardacci. Luchino Visconti orlò i confini del Milanese di forche, dove appendere chiunque li varcasse, col che tenne immune il paese, come fu pure di Parma e del Piemonte[322]. Passò poi la morte nera in Savoja, nella Spagna, nelle Baleari, in Francia, ove la sola Parigi dava cinquecento vittime al giorno, Vienna d’Austria milleseicento; ad Avignone durò sei mesi, uccidendo sette cardinali e duemila persone: in Inghilterra per nove anni mietè cinquantamila vite l’anno; l’Irlanda ne rimase deserta: insomma dicesi che se ne portasse un terzo d’Europa; ove rimase spaventevolmente ricordata. «Non fia creduto ai posteri che siavi stata un’età in cui il mondo rimase quasi totalmente spopolato, e le case di famiglia vuote, e di cittadini le città, e le campagne senza lavoratori. Come lo crederanno gli avvenire, se noi medesimi a fatica prestiamo fede ai nostri occhi? Usciti di casa, scorriamo le vie, e le troviamo piene di morti e di morenti: tornati fra le domestiche pareti, più nessuno troviamo di vivo, essendo tutti morti nella breve nostra assenza. Fortunati i posteri, a cui tali calamità sembreranno finzioni e sogni»[323]. Le analogie de’ sintomi con quelli dell’avvelenamento fecero supporre che una malizia, smisurata quanto il male, propagasse ad arte la morte: principalmente imputavansi gli Ebrei di avvelenare le fonti, e per Germania e Spagna fu fatto strazio di questi infelici, dei quali papa Clemente VI attestò l’innocenza e diede loro ricovero in Avignone. Alcuni vedevano in quel flagello la punizione divina perchè si violavano la domenica e il digiuno, e si commettevano adulterj, usure, bestemmie; e si bucinò che in Gerusalemme fosse arrivata una lettera dal cielo, ove diceasi che Cristo non concederebbe misericordia se ognuno non si flagellasse e andasse ramingo per trentaquattro giorni. Pertanto moltissimi buttavansi alle penitenze, alle macerazioni, e si rinnovarono le scene de’ Flagellanti, che a centinaja passavano di terra in terra, con litanie e miserere, ed anche con superstizioni di miracoli e liberazione d’ossessi, e dogmi nuovi e strani. Fu profuso a cause pie quel che ritenere non si potea, e di venticinquemila fiorini l’ospedale di Santa Maria Nuova, di trecencinquantamila la Compagnia d’Or San Michele restarono eredi in Firenze: la Compagnia della misericordia, istituita un secolo prima dai facchini che servivano all’arte della lana, prestò intrepidamente soccorsi, e ne fu compensata con lasciti dell’ammontare di trentacinquemila fiorini. Altri, all’opposto, si persuasero che rimedio fosse lo svagarsi e il darsi buon tempo; e ne seguì un enorme rilassamento di costumi, volendo ciascuno godere una vita che fuggiva, o allietarla d’ogni piacere, se l’avea campata; i popolani vestivano delle robe lasciate dai ricchi; eredità improvvise mutando fortune, davano spirito ad abusarne, come appiglio a complicatissime liti; i latrocinj al par che gli amori furono agevolati dal pericolo e dagli abbandoni. E quel misto di devozione e d’allegria può dirsi rappresentato nei _Balli dei morti_, stravaganti pitture ove si effigiano scheletri che menano danze o s’atteggiano bizzarramente con persone vive, papi, re, belle, mercanti, letterati, fanciulli, vegliardi, per intimare a tutti la necessità del morire. La Svizzera e la Germania ne abbondano, non ne manca l’Italia[324]. Questa peste fu anche deplorabile pel numero di valentuomini che l’Italia perdette, fra i quali mentoveremo Giovan Villani e Giovanni Andrea canonista peritissimo; ma «tiranni e grandi signori non morì nessuno»[325]. Fu poi descritta nel primo lavoro di prosa italiana elaborata, il _Decameron_ di Giovanni Boccaccio. Finge egli che sette gentildonne, durante la peste, scontratesi in chiesa con tre loro amanti, prendano accordo di uscire alla campagna[326], e tuffare i timori e la compassione nella vita sollazzevole e nel raccontar novelle: le quali, distribuite in dieci giornate, finite ognuna con una canzone, formano appunto quel libro. Precede la descrizione della peste, ma come d’uomo che non la vide, adoprando le riflessioni e le particolarità di Tucidide e di Lucrezio, e su queste diffondendosi in modo, che sono in quantità assai meno e in parole assai più che nell’originale. E il concetto e le parti dell’opera risentono d’un colto egoismo; e laide avventure, e la facilità delle donne e la spensierataggine degli uomini insinuano di goder la vita e non darsi altro pensiero. La pittura stessa della peste finisce con un’idea scherzevole e affatto pagana[327]. Piacque alla società gaudente; ma gli spiriti serj ne restarono scandolezzati, e il certosino Gioachino Cino si presentò al Boccaccio dicendogli come il suo compagno Pier Petroni da Siena morendo gli avesse lasciato l’incarico di venire a richiamarlo a coscienza. Ne rimase tocco Boccaccio, e dato migliore indirizzo all’ingegno, fece libri di pietà, e a Mainardo Cavalcanti scriveva: — Lascia le mie novelle ai petulanti seguaci delle passioni, che sono bramosi di essere creduti dall’universale contaminatori frequenti della pudicizia delle matrone. E se tu non vuoi perdonare al decoro delle tue donne, perdona all’onor mio, se tanto mi ami da sparger lagrime pe’ miei patimenti. Leggendole, mi reputeranno turpe mezzano, incestuoso vecchio, uomo impuro e maledico, ed avido raccontatore delle altrui scelleraggini. Non v’ha dappertutto chi sorga e dica per iscusarmi: _Scrisse da giovane, e vi fu astretto da autorevole comando_». Ebbe amicissimo Francesco Petrarca, che nato (1304) in Arezzo da un Petracco sbandito di Firenze coll’Alighieri, visse poveramente colla madre all’Incisa in val d’Arno, poi si avviò nelle scienze a Pisa sotto Convenevole, a Bologna sotto Giovanni d’Andrea, a Montpellier sotto il celebre giurista Bartolomeo d’Osio bergamasco: ma dagli studj del diritto impostigli da suo padre divagavasi per la lettura di Cicerone e la compagnia di Cino da Pistoja e Cecco d’Ascoli, dai quali prese vaghezza della poesia italiana. Rimasto orfano e scarso di patrimonio, si acconciò allo stato ecclesiastico, e stabilì mutarsi ad Avignone a cercarvi fortuna come faceano tutti (1326). Il trattar cortese e il limpido ingegno lo fecero il ben arrivato alla Corte pontificia, dove ai principali prelati lo introdusse l’amico suo Jacopo Colonna, vescovo che fu poi di Lombez. Il papa, a cui diresse un’elegante prosopopeja di Roma che lo richiamava, gli assegnò un canonicato a Padova, e l’aspettativa della prima prebenda che vacasse. Comprossi anche un poderetto presso la fontana di Valchiusa, e vi si ritirò co’ suoi libri. A questi applicò allora tutto l’animo, e venuto idolatro dell’antica civiltà, fantasticava sempre i vetusti eroi e la città di Romolo e d’Augusto in quella che i pontefici abbandonavano alle masnade dei Colonna e degli Orsini; ed applaudiva a chi tentasse restaurarvi il buono stato. Era capace di apprezzare le bellezze dei classici, e non ostante presunse poterle raggiungere, e scrisse l’_Africa_, poema sul soggetto stesso di Silio Italico. È un racconto senza macchina, nè episodj nuovi, nè sospensione curiosa: ma versi di così buona lega non si erano più uditi da Claudiano in poi, tanto avea convertito in sostanza propria quella de’ classici meditati. Riesce più poetico nelle _Egloghe_, ove sotto nomi pastorali allude a fatti d’allora, non rifuggendo dall’adulazione. Da questi versi latini promettevasi egli l’immortalità, che invece gli venne da un usuale incidente. Bell’uomo, accuratissimo nel vestire, frequente ai convegni, in una chiesa d’Avignone (1327) s’invaghì di Laura, figlia d’Odiberto di Noves e moglie ad Ugo di Sade[328]; amore ben poco romanzesco, giacchè ella seguitò a vivere in pace col marito, cui partorì undici figliuoli, ed egli, pur assediandone la virtù cogl’istinti d’un temperamento riottoso, non si distolse da studj nè da amori più positivi, dal maneggiarsi alla corte, e dal vagheggiare la gloria, prima e preponderante sua passione. Se non che per Laura tratto tratto componeva o imitava dal provenzale qualche sonetto o canzone, che il nome dell’autore e l’intrinseca loro soavità facea cercare e ripetere, e gli guadagnava anche presso al bel mondo quella fama, per cui era insigne fra i dotti. Da questa pubblicità gli venne una specie d’obbligo a perseverare ne’ sentimenti stessi verso Laura, la quale pare si guardasse dall’impedirli soddisfacendoli; poi quando, dopo venti anni, ella soccombette alla morte nera, il Petrarca si fece onore della costanza al cenere di lei, «di sua memoria e di dolor pascendosi». Nella bella Avignonese piacevangli le vaghezze corporee, i bei crini d’oro, le mani bianche sottili, e le gentili braccia, e il bel giovanil petto, e le altre leggiadrie per le quali essa diveniva superba[329] e stancava gli specchi a vagheggiarsi; e lei vedeva nelle _chiare, fresche e dolci acque_; e lei sopra l’erba verde, e in bianca nube; e colla mente ne disegnava nel sasso il viso leggiadro. Tanto basterebbe a smentire coloro che supposero ente simbolico questa Laura; che anzi quel sempre mostrarcela come persona vera, lo salvò dallo sfumare in astrazioni come i suoi seguaci. Amò, bramò[330], e nel dialogo con sant’Agostino confessa le irrequietudini, i trasporti, le veglie, le noje di quella sua passione, e implora soccorso per disvincolarsene. Ben è vero che a Cicerone, a Virgilio, a Varrone, a Seneca, a Livio egli dirizzava lettere spiranti un ardore forse più verace, certo più vivamente espresso che non per Laura: poi nelle prose in tutt’altro tenore favella delle donne; doversi il matrimonio schifare chi a studj intende, al più accettar la concubina; pazzo chi deplora la defunta moglie, quando ne dovrebbe menare tripudio[331]. Da quell’affetto suo uscì un canzoniere, tutto d’amore se togli dodici sonetti e tre canzoni oltre le due a bisticci. Nella forma si piacque delle difficoltà, sia colle sestine, disposizione provenzale ove da nessun’armonia è redenta la fatica del replicare le medesime desinenze; sia col sonetto, ordito per lo più sopra quattro sole rime; sia colle canzoni, legate a norme impreteribili. Soggiunse i _Trionfi_, sogni allegorici ed erotici, ove in terzine divisa i trionfi dell’Amore sopra il poeta, della castità di Laura sopra Amore, della Morte sopra Laura, di Laura sopra la Morte, della Fama sopra il cuore del poeta ch’essa divide coll’Amore; in ultimo il Tempo annichila i trofei dell’Amore, e l’Eternità quelli del Tempo. Sono concetti e forme secondo l’età; ma per quanto si provi che da altri, massime da Provenzali e Spagnuoli e nostri anteriori, togliesse molti pensieri suoi, altri si appuntino d’esagerati, di lambiccati, di falsi, resta al Petrarca la lode d’una lingua candidissima, fresca ancora dopo cinque secoli, d’uno stile vivo e corretto, d’una inesauribile varietà nell’esprimere quei miti dolori, quelle placide repulse, quelle pitture monotone eppur varianti, passionate insieme e sottili; della soave melanconia e della casta delicatezza con cui trattò la più sdrucciolevole delle passioni. Studiò egli moltissimo ciascun sonetto; eppure sembrano messi fuori d’un fiato, e colla squisitezza che nell’espressione riproduce le gradazioni del sentimento, con quella grazia d’elocuzione che allo spirito presenta l’attrattiva della novità insieme col merito della limpidezza. Più altre opere condusse il Petrarca: nella raccolta di _Memorabili_ imita Valerio Massimo: nella _Vera sapienza_ mette un di cotesti saccenti a fronte d’un idioto di buon senso, onde svergognare la dialettica d’allora, frivola, nè giovevole al cuore nè all’ingegno. Certi garzonetti veneziani, trinciatori delle reputazioni più sode come tanti se n’incontra, avendolo sentenziato uom dabbene ma di piccola levatura, egli rispose col libro _Dell’ignoranza propria e dell’altrui_, ove qualche sentenza buona può pescarsi in un mare di sottigliezze e d’erudizione facile e presuntuosa, e dove conchiude che «la letteratura a molti è stromento di follia, di superbia a quasi tutti, se non cada in anima buona e costumata». Ribattendo un Avignonese, vitupera tutti i medici, come incettatori di scienza vana e ambiziosi nell’andare in volta con un vestone di porpora e anella smaglianti, e sproni dorati quasi aspirino al trionfo, benchè pochi abbiano ucciso i cinquemila che la legge romana richiedeva. Il libro _Degli uffizj e delle virtù d’un capitano_ chiama alle labbra il riso d’Annibale; quello _Del governare uno Stato_ barcola su luoghi comuni, che nè rischiarano i savj, nè correggono i ribaldi. A conforto di Azzo Correggio spodestato espose i _Rimedj d’ambe le fortune_, dialoghi prolissi e scolorati fra enti di ragione, ove sfoggia argomenti ed erudizione per mostrare che i beni di quaggiù sono fallaci, e che le sventure si possono colla ragione disacerbare e convertire a bene. Due libri _Della vita solitaria_ diresse a Filippo di Cabassole vescovo di Cavaillon, i tedj del cittadino comparando alle dolcezze del solitario: antitesi non troppo sociale, dover nostro essendo l’operare anche in mezzo a questa ciurma che c’impaccia, frantende e calunnia. Coll’amore e colla filosofia, terza sua ispiratrice fu la devozione. Anche nei tempi del suo _primo giovanile errore_ pregava Dio a _ridurre a miglior vita i pensier vaghi_; delle bellezze di Laura si fa scala al suo Fattore; e dopo morte spera vedere il Signor suo e la sua donna, per la quale, dice un contemporaneo, «ha facto tante limosine et facto dir tante messe et orationi con tanta devotione, che s’ella fosse stata la più cattiva femina del mondo, l’avrebbe tratta dalle mani del diavolo; benchè se rexona che morì pura et santa». Questo sentimento gli dettò il _Disprezzo del mondo_, specie di confessione, scevra dalla sguajataggine ostentata da certuni, e dove, a imitazione della _Vita nuova_ di Dante, commenta i proprj carmi, ed analizza i sentimenti profondi e i dilicati. Di maggior conto è la raccolta di sue epistole _famigliari, senili, varie, e senza titolo_, carteggio coi migliori dell’età sua. Prolisso sempre e ammanierato, perchè sapeva che quelle circolavano, e spesso erano state lette da cento prima che giungessero al loro indirizzo; tocca però gli avvenimenti, i costumi, le missioni sue, massime i disordini della Corte avignonese, e certi difetti del suo tempo che sono pure del nostro. Or riprova i _moderni filosofi_, cui non pare essere a nulla approdati se non abbajano contro Cristo e sua dottrina: «soltanto da timore di temporali castighi rattenuti dall’impugnare la fede, in disparte se ne ridono, adorano Aristotele senza intenderlo, e disputando professano di prescindere dalla fede»; or move querela di coloro «che s’appellano dotti delle scienze, nei qual degno di riso è tutto, e soprattutto quel primo ed eterno patrimonio degl’ignoranti, la boria sfolgorata»; or quelli rimorde che «mentre si dicono italiani e sono in Italia nati, fanno ogni opera per sembrar barbari: e se non basta a questi sciagurati l’aver perduto per ignavia propria la virtù, la gloria, le arti della pace e della guerra che fecero divini i padri nostri, disonestano ancora la nostra favella e fino le vestimenta»[332]. Con quelle lettere è curioso seguirlo ne’ viaggi che fece alle _città de’ Barbari_, le cui costumanze delineò pelle pelle. Parigi trovò veramente gran cosa, ma inferiore all’aspettazione, più sucida e puzzolenta di qual altra città sia, eccetto Avignone, e che tutto deve alle ciancie de’ suoi[333]. Passò buon tempo a discernere il vero dal falso su quell’Università, «simigliante a paniere, ove si raccolgono le più rare frutte d’ogni paese..... Oserà comparar la Francia all’Italia chi abbia la minima nozione di storia? Discuter sulle doti intellettuali de’ due paesi sarebbe ridicolo, quando s’ha il testimonio de’ libri. Se qualche straniero produsse alcuna cosa sopra l’arti liberali, la morale, la filosofia, l’ha scritta o studiata in Italia; ambo i diritti furono stabiliti e spiegati da Italiani; fuor di qui non si cerchino oratori, non poeti; qua nacquero, qua si formarono letteratura, politica, tutto insomma qui si perfezionò. A tanti lavori, a studj così serj e variati cosa possono opporre i Francesi? Le scuole nella via degli strami (_rue du Fouarre_, dov’era l’Università). Son gente lepida, sempre soddisfatti di se stessi, bravi sonatori, allegri cantanti, intrepidi bevitori, buoni convitati, lo concedo. Beata nazione, che pensa sempre male degli altri e bene di sè: chi non le invidierebbe coteste illusioni?»[334] Vaglia a mostrare in che i tempi sono cangiati, e come allora non men che adesso rendesse ingiusti il patriotismo. Eppure in quella Francia che gli pare così barbara, il Delfino, di precoce maturità, amava metterlo a disputa coi dotti e cogl’ingegnosi del suo paese, accettò l’omaggio dei _Rimedj d’ambo le fortune_, e li fece tradurre dal suo precettore. Chiestogli da Guido Gonzaga qualche libro francese, Petrarca gli mandò il _Romanzo della rosa_ di Giovanni de Meun, della natura della Divina Commedia, cioè che abbraccia tutto lo scibile, con sottigliezze scolastiche, misticismo, personificazioni, allegorie abusate, digressioni scientifiche, e che era commentato, lodato, biasimato in Francia, quanto Dante da noi. — La superiorità della letteratura nostra (gli scrisse) è provata da questo libro, che la Francia leva a cielo, e pretende comparare ai capolavori. L’autore vi racconta i suoi sogni, la possa dell’amore, le fiamme giovanili, le senili astuzie, le pene di chi serve a Venere, le frequenti lacrime sopra gioje passeggere. Qual vasto e fecondo campo al talento del poeta! eppure narrando i suoi sogni e’ sonnecchia. Quanto meglio non espressero la passione que’ divini cantori dell’amore, Virgilio, Catullo, Properzio, Ovidio e tant’altri, che l’antico o il moderno tempo vide sulle nostre rive italiane? Tu però riceverai con giubilo questo libro; poichè, se ne desideravi uno straniero e in lingua vulgare, non potevo offrirtene un migliore, se pur Francia tutta non s’inganna sul merito di esso»[335]. Nelle Fiandre e nel Brabante, Petrarca vide il popolo occupato dietro a tappezzerie e lavori di lana: a Liegi penò ad avere inchiostro onde trascrivere due orazioni di Cicerone: a Colonia stupì di scorgere urbanità tanta in città barbara, e onesto contegno negli uomini, studiata lindura nelle donne; e non di Virgilio, ma vi trovò copie d’Ovidio. Gli amici il trassero ad ammirare il tramonto del sole in riva al Reno, ed essendo la vigilia di san Giovanni, un’infinità di donne ne empivano la spiaggia, senza tumulto, coronate di fiori, colle maniche rimboccate fin al gomito, per lavare le mani e le braccia nella corrente, recitando versi in loro favella, e dandosi a credere che quella lustrazione le assicurasse da calamità nel corso dell’anno. Traversare la _fámosa Ardenna_ non si ardiva allora senza buona scorta, tra pei ladroni, tra per le nimicizie del conte di Fiandra col duca di Barbante. Lieto fu dunque allorchè, uscendo da que’ monti, rivide _il bel paese e ’l dilettoso fiume_ del Rodano ed Avignone. Quivi fremeva nell’udire alcuni cardinali aborrire dal tornare in Italia, perchè non vi gusterebbero il vin di Francia[336]. Nulla però incontrava che lo facesse scontento d’essere nato italiano. La Francia ottenne da Roma i doni di Bacco e di Minerva, ma non vi si coltivano che pochi ulivi e nessun arancio; i montoni non danno buona lana; non miniere od acque termali la terra. In Fiandra non bevesi che idromele, in Inghilterra birra e sidro. Che dire dei climi gelati cui bagnano il Danubio, il Bog, il Tanai? ebbero matrigna la natura; quali senza legna, sicchè vi si riscaldano solo con torba; quali tristi da fetide esalazioni de’ paduli, senz’acqua a bere; quali di erica e sterile sabbione; quali di serpi e tigri e lioni e leopardi (?). Italia sola fu prediletta dal cielo, che le largheggiò il supremo impero, gl’ingegni, le arti, e principalmente la cetra, per cui i Latini sorpassarono i Greci; nè cosa le mancherebbe se Marte non nocesse. A Roma trova che a dritto quelle donne si preferiscono a tutt’altre per pudore, modestia femminile e virile costanza; gli uomini son buona pasta, affabili a chi li tratta con dolcezza; ma v’è un punto sopra cui non intendono celia, la virtù delle mogli; e non che in ciò sieno conniventi come gli Avignonesi, han sempre in bocca il motto d’un loro antico: — Batteteci, ma la pudicizia sia salva». Stupì di trovarvi sì pochi mercanti ed usurieri, forse perchè il commercio n’era sviato coll’andarsene della Corte. Firenze mandò Giovan Boccaccio ad annunziargli come avesse determinato di elevare la propria repubblica, secondo avea fatto Roma antica, di sopra delle altre città d’Italia anche mediante l’istruzione. E «per tuo mezzo soltanto può essa raggiungere il suo desiderio, e perciò ti prega a scegliere qualunque libro ti piaccia interpretare, qualunque scienza tu trovi confacente alla tua fama e alla tua quiete. Altri senni elevati forse dal tuo esempio prenderan coraggio a pubblicarvi i loro versi. Intanto lascia che ti confortiamo a terminare l’immortale tuo poema dell’_Africa_, sicchè le Muse, da secoli neglette, ripiglino stanza fra noi. Abbastanza viaggiasti, hai veduto abbastanza costumi e caratteri di nazioni; or ascolta a’ tuoi magistrati, a’ concittadini tuoi nobili e popolo, e torna all’antica casa, al patrimonio avito che ti restituiranno». Anche oggi è impossibile leggere il Petrarca e non amarlo: quanto più allora! e massimamente che egli non s’abbandonava a quella superbia, che spesso è dignità necessaria, ma che aliena le simpatie, e stuzzica le invidie. Dappertutto era una gara a chi meglio l’onorasse, «e principi d’Italia (dic’egli) con forza e con preghiere cercarono ritenermi, si dolsero della mia partita, e impazienti attendono il mio ritorno». Francesco Carrara il vecchio lo volle amico, mosse ad incontrarlo fin alle porte di Padova, e spesso il visitava ad Arquà, onde Petrarca gl’intitolò il libro _Del governare uno Stato_, esordendo con un elogio di lui pomposissimo, e per cenno di esso intraprese le vite degli uomini illustri. Alla morte di Ugo d’Este rammentava che gli era stato signore umanissimo per dignità, per amore ossequiosissimo figlio, e quanti favori ne avesse ritratto. Luchino Visconti gli chiese versi, e frutte ed erbe del suo giardino; e n’ottenne lodi le meno meritate[337]. Giovanni Visconti lo ricevette baciandolo, e tanto fece che lo trattenne a Milano, e lo deputò a conchiudere pace col doge Andrea Dandolo. Galeazzo II se l’ebbe a fianco nel solenne ingresso del cardinale Albornoz, e vedendolo in pericolo di essere rovesciato da cavallo, smontò per camparlo; gli affidò un’ambasciata a Carlo IV imperatore; nelle nozze di sua figlia con Lionello figlio del re d’Inghilterra il volle a mensa con loro. Luigi Gonzaga di Mantova deputò ad Avignone chi l’invitasse e offrissegli denaro; e quando venne alla sua corte, il ricevette con ogni migliore onoranza. Azzo Correggio gli mostrò tenerezza da fratello, dicendolo il solo che non avessegli recato noja o dispiacere con alcun detto o atto. Il guerresco Paolo Malatesti prima di conoscerlo inviò un pittore a cavarne l’effigie; scontratolo poi in Milano, mai non sapeva spiccarsi da’ suoi colloquj, nè avea bene che dello stare con lui; scoppiata la peste, gli offrì un ricovero; rottasi guerra fra i Carraresi e Veneziani, gl’inviò cavalli e uomini che lo scortassero fin a Pesaro. Il gran siniscalco Niccolò Acciajuoli non finiva di visitarlo a Milano, «come Pompeo visitava Posidonio col capo scoperto e chinandosi per rispetto», sicchè trasse le lacrime al poeta. Fu dunque indovino un astrologo, il quale al Petrarca ancor fanciullo avea presagito la famigliarità e l’insigne benevolenza di tutti i principi e illustri personaggi dell’età sua. Quest’entusiasmo propagavasi ai minori. Un vecchio cieco, maestro di grammatica in Pontremoli, viaggiò fino a Napoli per udirlo, e trovatolo partito, riprese sua via «disposto a cercarlo fin nelle Indie»; se non che lo imbattè a Parma, e con indicibile trasporto l’abbracciava, non cessando di baciar la testa che avea concepito, la mano che avea vergato sì soavi cose. Arrigo Capra, orafo Bergamasco, beato d’aver conosciuto il Petrarca a Milano, de’ ritratti di esso empì sua casa, ne comprò le opere, e dismessa l’arte, raccolse libri, nè più conversava che con dotti; poi tanto s’ingegnò, che indusse il poeta a venire da lui, e gli fu incontro con quanti v’aveva eruditi nel contorno; e sebbene il podestà e i maggiorenti gli destinassero alloggio nel palazzo pubblico, il Capra lo volle a sè, ed avea disposta sala a porpora, letto a oro, nel quale giurò nessun mai avea dormito o dormirebbe; poi tali furono le dipartite, che la gente temeva non colui impazzasse. Roberto, re pedante lodato dai dotti, avendo scritto l’epitafio di Clemenza regina di Francia, lo mandò per giudizio al Petrarca, il quale in una lunghissima epistola lo incensò smaccatamente, e — Non avrei mai creduto potessero dirsi cose tanto sublimi con tanta concisione, gravità, eleganza. Beata quella morte che ottiene un tal lodatore, e conseguisce due eternità, l’una dal celeste monarca, l’altra dal terrestre». Applausi non disinteressati, giacchè miravano a indurre Roberto a coronarlo poeta; di che non s’asconde in altra lettera a Dionigi da Sansepolcro, dove nuovi encomj prodiga a Roberto, dicendo che alla lettera di lui, scritta con regio stile, avea risposto in tono plebeo, sentendosi tanto inferiore di forza e di cetra. Quel desiderio, eccitatogli da ricordanze classiche, fu adempito allorchè a lui, che a trentasei anni era venerato dagli eruditi e dal vulgo, in Avignone giunsero contemporanee lettere di Roberto de’ Bardi fiorentino, cancelliere dell’Università di Parigi, e del senato di Roma che l’invitavano a ricevere la corona di poeta. Al Petrarca viepiù lusingava quest’onore perchè il serto di _lauro_ tenea somiglianza di nome colla donna sua ancor viva; e alla _città del fango_, dov’egli avrebbe pel primo avuto tale onoranza, preferì quella dove aveano trionfato Pompeo e il suo Scipione. Volle crescervi fasto e solennità col chiedere esaminatore e giudice del suo merito re Roberto. Venne dunque a lui, che in presenza de’ principi e cortigiani l’interrogò; e la prima quistione fu sull’utile della poesia, al quale poco credeva, neppure gran fatto stimando Virgilio. Il Petrarca dimostrò ne’ poeti stare depositato il senno dei tempi, e d’immagini sensibili vestir essi le filosofiche contemplazioni. Chi avrebbe osato non dirsene convinto? Il domani l’esame versò su tutto lo scibile, sui libri metafisici e naturali d’Aristotele, sui pregi de’ varj storici latini e greci, dove il Petrarca mostrò entusiasmo per Tito Livio, ed esortò Roberto a rintracciarne le deche perdute. E Roberto l’assicurò, ben più del regno essergli care le lettere, e quello torrebbe di perdere piuttosto che queste. Al terzo e più solenne e affollato convegno il Petrarca lasciossi pregare a leggere alcuni passi della sua _Africa_, e quantunque non ancora limati, tanto piacquero, che Roberto il chiese di dedicarla a lui. Così, al modo solito degli onori accademici, gli si facea merito d’un componimento di cui l’autore stesso arrossì più tardi, invece delle rime italiane per cui la sua fama non vedrà mai sera. La Pasqua del 1341, il Petrarca, in veste di porpora donatagli da esso re, corteggiato da paggi delle primarie famiglie romane[338], a suon di trombe e fra solenni acclamazioni salì al Campidoglio, che da dieci secoli più non vedea trionfi, e ginocchione dal senatore ricevette la laurea, mentre popolo infinito gridava: — Viva il poeta e il Campidoglio». Il serto gli fu accompagnato con questa patente: — Noi senatore conte di Anguillara, a nome nostro e del nostro collegio, dichiariamo grande poeta e storico Francesco Petrarca: e per ispeciale indizio della sua qualità, colle nostre mani poniam sulla sua fronte una corona d’alloro, concedendogli, col tenore delle presenti, e per autorità del re Roberto, del senato e del popolo di Roma, nell’arte della poesia e dell’istoria e in tutto ciò che a queste arti si appartiene, tanto nella santa città, quanto altrove, libera e intera permissione di leggere, analizzare, interpretare tutti i libri antichi, farne di nuovi, e comporre poemi, che, a Dio piacendo, vivranno pe’ secoli de’ secoli». Il Petrarca, andato nel maggior tempio, depose l’alloro sull’altare. [Sidenote: 1374] Così visse lungamente onorato e benvoluto, finchè ad Arquà, dov’egli erasi procacciata una villa per essere vicino al suo canonicato di Padova, fu trovato morto sopra un Virgilio. Avea per testamento chiamato erede Francesco da Brossano, marito d’una sua figlia naturale; legò cinquanta fiorini d’oro al Boccaccio onde si facesse un vestone da camera per le invernali sue veglie; al principe Carrarese una madonna di Giotto, «la cui bellezza non si comprende dagli ignoranti, ma empie di meraviglia i maestri dell’arte». Noi dovevamo fermarci a lungo su questo insigne, del cui nome è piena l’età che descriviamo. E già di qui ci trapela l’importanza che acquistavano le lettere; le quali, mentre tutt’altrove balbettavano appena, in Italia già erano state portate a tanta altezza da Dante, Petrarca, Boccaccio, insigne triumvirato, che alla nazionale letteratura impresse il carattere che tuttora conserva. Non è dunque soltanto un còmpito letterario, ma civil dovere dello storico il badarsi su loro, come chi alle fonti studii il fiume che irriga, impingua o devasta un paese. La poesia di Dante e del Petrarca fu modificata dall’indole dei tempi e dalla lor propria. Visse l’Alighieri cogli ultimi eroi del medio evo, robusti petti, tutti patria, tutti gelosia del franco stato, cresciuti fra puntaglie di parte, esigli, fughe, uccisioni; in repubbliche, dove le passioni personali non conosceano freno di legge o d’opinione, onde ciascuno sentiva la potenza propria, concitata alle grandi cose. Bastava dunque guardarsi attorno per trovare tipi poetici da atteggiare nel gran dramma di cui sono scena i tre mondi, i quali allora teneano da vicinissimo alla vita, ogni opera facendosi in vista di quelli. L’età del Petrarca erasi implicata ne’ viluppi della politica; non più a punta di spade, ma per lungagne d’ambascierie e per insidie e veleni si consumavano le vendette; a Federico II, a san Luigi, a Sordello, a Giotto, a Farinata, a Bonifazio VIII erano succeduti re Roberto, Stefano Colonna, Cola Rienzi, Clemente VI, Simon Memmi; alla imperturbata unità cattolica il miserabile esiglio avignonese; e preparavasi l’età della colta inerzia, dei fiacchi delitti, delle fiacche virtù, delle sciagure senza gloria nè compassione. Nelle traversie Dante s’indispettì, e sprezzando la fama e _ciò che quivi si pispiglia_, professava che _bell’onore s’acquista a far vendetta_ (_Convivio_); agli stessi amici ispirò piuttosto riverenza che amore, lo che è la gloria e la punizione de’ caratteri ferrei e degl’ingegni singolari. Il Petrarca benevolo, dava e ambiva lodi, avea supremo bisogno dell’opinione; e se nel generale mostra scontento degli uomini o di qualche classe, individualmente godeva di tutti e tutti lodava, appassionavasi per un mecenate, per un autore, per la famiglia rustica che lo serviva in Valchiusa. Non vede che armonie, getta l’iride poetico sulle tempeste di tutti i partiti, e sempre conciliatore, nasce in repubblica e canta gli uccisori delle repubbliche, esalta Cola Rienzi e i Colonna da lui fatti trucidare; i Visconti e frà Bussolari ch’essi mandano a morte, i Carrara e i Veneziani, re Roberto e Carlo IV; anzi trasforma in eroi sino i dappoco. Piegando all’aura che spirava, anche quando rimprovera egli s’affretta a dichiarare che il fa per amore della verità, _non per odio d’altrui nè per disprezzo_: Dante teme di perdere fama presso i tardi nepoti se sia timido amico del vero; che se il suo dire avesse da principio _savor di forte agrume_, poco gliene caleva, purchè da poi ne venisse _vital nutrimento_. Petrarca mille volte prometteasi fuggire i luoghi funesti alla sua pace, e sempre vi tornava: mentre Dante, mal accordandosi colla moglie Gemma, «partitosi da lei una volta, nè volle mai ov’ella fosse tornare, nè ch’ella andasse là dov’ei fosse» (BOCCACCIO), e di lei nè de’ suoi figli mai lasciò cadersi menzione. Il primo, se fastidisse l’età sua, raccoglievasi nella solitudine o nello studio degli antichi, ch’egli preferiva alle attualità, dalle quali affettavasi alieno[339]: l’altro spingeva lo sguardo su tutto il mondo per cogliere dappertutto quel che al suo proposito tornasse[340], nè notte nè sonno gli furava _passo che il secolo facesse in sua via_. Entrambi (elezione, o forza, o moda) trovaronsi avvicinati ai signorotti d’Italia: ma Petrarca si abbiosciò a chi il carezzava, e i suoi encomj direbbe vili chi non li perdonasse all’indole di lui e all’andazzo retorico; Dante conservò la sua alterezza anche a fronte de’ benefattori[341]: quel che più loda, è nella speranza che ricacci in inferno la lupa per cui Italia si duole. Ambidue rinfacciano agl’Italiani le ire fraterne: ma Dante sembra attizzarle, cerca togliere alla sua Firenze fin la gloria della lingua, e par si vergogni essere fiorentino d’altro che di nascita; nel Petrarca, Laura ha un solo rincrescimento, quello d’esser nata in troppo umil terreno, e non vicino al _fiorito nido_ di lui. Dante incitava Enrico VII a recidere Firenze, testa dell’idra; Petrarca chetava le liberali declamazioni di frà Bussolari, appoggiò gli Scaligeri quando spedirono in Avignone a chiedere la signoria di Parma, e andava _gridando pace, pace, pace_, senza ricordare che questa ben si muta anche coll’armi quando non sia dignitosa, e quando al decoro nazionale importi respingere il «bavarico inganno» e il «diluvio raccolto di deserti strani per inondare i nostri dolci campi». Usciti ambidue di gente guelfa, sparlarono della corte pontifizia; ma Dante pei mali che credea venirne all’Italia e alla Chiesa, Petrarca per le dissolutezze di quella: e sebbene per classiche reminiscenze lo vedremo applaudire a Cola Rienzi che rinnovava il tribunato, ed esortare Carlo di Boemia a fiaccar le corna della Babilonia, pure continuò a viver caro ai prelati, e morì in odore di santità; mentre l’Alighieri errò sospettato di empio, e poco fallì si turbassero le stanche sue ossa. Secondo quest’indole, Dante, malgrado la disapprovazione e la novità, osò in lingua italiana _descriver fondo a tutto l’universo_; Petrarca, benchè venuto dopo un tanto esempio, non la credette acconcia che alle _inezie_ vulgari, cui bramava dimenticate dagli altri e da se stesso[342]. Questi con dolcissima armonia cantò la più tenera delle passioni; Dante le robuste, «gittando a tergo eleganza e dignità», come il Tasso gli appone; e _rime aspre e chioccie_ trovò opportune a servir di velame alla dottrina che ascondeva _sotto versi strani_: se anche tratta d’amore, sì il fa per imparadisare la donna sua. Petrarca verseggia lindo e forbito come parlava e con gioconda abbondanza, sicchè la forma poetica v’è tanto superiore al pensiero; a differenza dell’Alighieri, che ruvido e sprezzante, non lasciasi inceppar dalla rima, per comodo di questa e del ritmo mutando senso alle parole e traendole d’altra favella e dai dialetti. Quello soffoga talvolta il sentimento sotto un lusso d’ornati e di circostanze minute; questo unifica gli elementi che l’altro decompone, coglie le bellezze segregate, traendole meno dai sensi che dal sentimento, nè mai indugiandosi intorno a particolarità[343]. La costui lingua tiene della rozza e libera risolutezza repubblicana: quella del Petrarca riflette l’affabilità lusinghiera e l’ingegnosa urbanità delle corti. Nel primo prevale la dottrina, nell’altro la leggiadria; nell’uno maggiore profondità di pensieri e potenza creatrice, nell’altro maggior lindura ed artifizio; quello genio, questo artista; uno finisce come l’Albano, l’altro tocca come Salvator Rosa; uno inonda di melanconia pacata[344] come le cavate di notturno liuto, l’altro colpisce come lo schianto della saetta. L’un e l’altro seppero quanto al loro secolo si poteva, anzi si volle trovarvi divinazioni o presentimenti di scoperte posteriori[345], e Dante in astronomia fece uno sfoggio che, quand’anche non erra, costringe a lunghissimo ragionamento per raggiungere il senso delle frasi con cui designa le ore e i giorni delle sue avventure. Ma egli conoscea appena di nome i classici greci, e poco meglio i latini[346]; l’altro era il maggior erudito de’ tempi suoi, e sceglieva pensieri e frasi da’ forestieri e da’ nostri[347], e massime da Dante, di cui pure affettò disprezzo; sicchè dove credi il linguaggio mover da passione, riconosci la traduzione forbita: benchè coll’arte raffinasse le gemme che scabre traeva dal terreno altrui; laonde que’ Provenzali e Spagnuoli perirono, egli vivrà quanto il nostro idioma. E fu veramente il primo letterato moderno che togliesse a considerare la vita non coll’austerità del medioevo, ma in modo largo e lieto, come i classici antichi. È naturale che le poesie del Petrarca fossero divulgatissime, per la limpida facilità[348] e perchè esprimenti il sentimento più universale: il poema dell’Alighieri non era cosa del popolo[349], ma appena morto si posero cattedre per ispiegarlo, spiegarlo in chiesa, come voce che predica la dottrina, scuote gl’intelletti, eccita i buoni coll’emulazione, i rei svergogna, ed insinua le idee d’ordine, tanto allora necessarie. Petrarca sapeva che il Po, il Tevere, l’Arno bramavano da lui _sospiri_ generosi, ma continuava ad esalarne di gracili; e poichè il fondo della vera bellezza, come della virtù vera e del genio è la forza, e senza di questa la grazia presto avvizzisce, e l’andar sentimentale inciampa facilmente in difetti di gusto, potè, perfino nella sua castigatezza, dare occasione ai traviamenti de’ Secentisti[350]. Egli ebbe a torme imitatori che palliarono l’imbecillità delle idee e il gelo del sentimento sotto la compassata forma del sonetto, e che, mentre la patria cercava conforti o almeno compianti, empirono gli orecchi con isdulcinate querele in vita e in morte[351]. Lo studiar Dante richiese gravi studj, di filologia per paragonare e ponderare frasi e parole; di storia per trovare le precedenze de’ fatti, di cui egli non porge che le catastrofi; di teologia per conoscere il suo sistema e raffrontarlo co’ santi padri, co’ mistici, cogli scolastici; di filosofia per librarne le argomentazioni, la precisione del concetto, gli elementi della scienza: onde aprì una palestra di critica elevata e educatrice; e Benvenuto da Imola e il Boccaccio allargano le ale quando hanno a viaggiare con esso. Primo genio delle età moderne, egli scoperse quanti pensieri profondi e quanta elevata poesia stessero latenti sotto la scabra scorza del medioevo, rivelò ai concetti popolari la loro grandezza, e costringe a continuamente pensare, persuadendo che la poesia è qualcosa meglio che forme vuote e combinazioni sonore[352]. Di qui la grande efficacia sull’arti belle, giacchè, pur ammirando l’antichità, credea fermamente ai dogmi cattolici, e tra quella e questi forma una mitologia in parte originale, che poetizzò le tradizioni fin allora conservate fra gli artisti; e il modo ond’egli aveva coordinato i regni invisibili, offrì oggetti nuovi ai pittori, che i santi medesimi improntarono di passioni più profonde, invece di quell’aria di beatitudine soddisfatta o di ascetica compostezza, da cui sin allora non sapeano spogliarsi. Dante è interprete del dogma e della legge morale, come Orfeo e Museo; Petrarca interprete dell’uomo e dell’intima sua natura, come Alceo, Simonide, Anacreonte: quello, come ogni vero epico, rappresenta una razza e un’epoca intera, e il complesso delle cose di cui consta la vita; l’altro dipinge il sentimento individuale. Perciò questo è inteso in ogni tempo; l’ammirazione dell’altro soffre intermittenze e crisi[353]; ma vi si torna ogniqualvolta si aspira a quella bellezza vera, che sulla forza diffonde l’eleganza e la delicatezza. La prosa italiana vedemmo come a Dante dovesse esempj e precetti; ma se molti la adoperarono, pochi la coltivarono. I vulgarizzamenti hanno sempre un’azione importantissima ne’ primordj delle lingue scritte; e l’abbondanza loro in Italia, ed anche di opere moderne, attesta come fosse secolarizzato il sapere, e come sentisse bisogno di rendersi popolare. Fra i molti che ce ne restano di quel tempo, citiamo a caso il primo dell’_Oratore_ di Cicerone per Brunetto Latini, le carissime _Vite_ dei santi Padri del deserto, il _Sallustio_ male attribuito a frà Bartolomeo da San Concordio, le _Pistole_ di Seneca, le _Avversità della fortuna_ di Arrigo da Settimello, il _Guerino detto Meschino_, la vita di Barlaam, la leggenda di Tobiolo, i _Fatti d’Enea_ per frà Guido da Pisa, tutti d’incomparabile ingenuità toscana. Albertano, giudice di Brescia, stando prigione di Federico II, dettò tre trattati morali in latino, la cui versione per Soffredi del Grazia notaro, anteriore al 1278, è vetustissimo monumento di nostra favella[354]. Negli Ammaestramenti degli antichi, raccolti e vulgarizzati da frà Bartolomeo da San Concordio, rimbalza continuo il toscano, benchè qua e là avviluppati in frasi latine. Pier Crescenzi, «uscito di Bologna per le discordie civili, si aggirò per lo spazio di trent’anni per diverse provincie, donando fedele e leal consiglio ai rettori, e le cittadi in loro quieto e pacifico stato a suo poter conservando; e molti libri d’antichi e dei novelli studiò, e diverse e varie operazioni de’ coltivatori delle terre vide e conobbe»; indi rimesso in patria, settagenario scrisse dell’_Utilità della villa_, dedicandolo a Carlo II di Napoli. Delira cogli aristotelici nel proporre teorie; ma buone pratiche suggerisce, come uomo sperimentato. Pare dettasse in latino, ma di corto fu tradotto da un Fiorentino, fortuna che lo fece vivere e studiare; e Linneo ad onoranza denominò dal Crescenzi una pianta americana. Jacopo Passavanti domenicano tradusse egli stesso il suo _Specchio della penitenza_, dove, insieme con ubbie vulgari, mostra intendere il cuore umano; i racconti sono d’altrui, e massime di Elinando e di Beda, onde hanno per teatro le Fiandre, Parigi, il deserto; ma non turba mai per affettazioni la cara limpidezza, che era consueta prima del Boccaccio. Frà Cavalca si ricorda sempre che predica al popolo; molti de’ suoi racconti non la cedono al Villani nè al Boccaccio; e i suoi _Atti apostolici_ son tale tesoro di schiettissime eleganze, ch’io vorrei dirlo il perfezionatore della prosa italiana[355]. Le prediche di frà Giordano da Rivalta bollono di zelo contro il pubblico disordine. Di santa Caterina da Siena abbiamo versi infelici e lettere care alle anime pie, non meno che profittevoli agli studiosi del bello e ricco scrivere[356]. Qual natìo candore di lingua e «semplicità colombina» nei _Fioretti di san Francesco_! Che se noi siam costretti a cercare la miglior lingua in autori di cui smettemmo le idee, questa non è la più piccola delle sciagure d’Italia. Lo studio de’ Trecentisti, racconcie solo e riformate poche parole, e tolte via quelle desinenze in _aggio_, in _anza_ derivate soverchiamente dal provenzale, sarà sempre opportunissimo a riparare al neologismo moderno e all’erudito arcaismo, e porgere la primitiva accettazione e il logico collocamento delle parole, il senso ingenuo e vero, la grazia ornata solo di se stessa, affine di dare al nostro idioma quella franca naturalezza che è la voce del genio. E tali scrivevano quei buoni, e tali principalmente gli storici, ignorando però l’arte degli incidenti, delle sospensioni, di ciò che alla frase reca forza e varietà. L’arte che le mancava, fu data alla prosa del Boccaccio, non già per meditazione sull’indole del parlar nostro, bensì per erudizione, della quale fu vago quanto il Petrarca. Nasceva egli (1313-75) a Parigi dall’amore d’un mercante di Certaldo, il quale seco l’avviò alla mercatura e al viaggiare, poi per le liete speranze di sua giovinezza l’applicò alle lettere sotto valente professore. La vista della tomba di Virgilio lo invaghì degli studj; del _sulmontino_ Ovidio si professa devoto[357]; profitto maggiore trasse dall’amicizia de’ migliori contemporanei e dalla lettura di Dante, «mio duce, face mia, e da cui tengo ogni ben, se nulla in me sen posa». Di greco fece stabilire una cattedra in Firenze per Leonzio Pilato, calabrese vissuto lungamente in Levante, e venire una copia d’Omero e d’altri autori non prima conosciuti sull’Arno. Pilato era di schifosa apparenza, «orrido e per lunga meditazione inselvatichito, ma un archivio ambulante inesausto delle storie e favole greche», e da’ costui colloquj il Boccaccio trasse notizie per esporre in latino la _Genealogia degli Dei,_ opera per la quale intimava ai posteri d’avergli pubblica benemerenza. Scrisse pure in latino casi d’illustri infelici, virtù e vizj di donne; e un’opera sui monti, le selve, i fonti, i laghi e i fiumi, che, qual essa sia, fu il primo dizionario geografico. In queste, come nelle sedici egloghe, sta ben di sotto al Petrarca in latina eleganza. Le molte liriche in vulgare composte da giovane, bruciò come vide le stupende di questo. Maturo, condusse la _Teseide_, epopea in dodici cantari e in ottave sugli amori d’Arcita e di Palemone per l’amazzone Emilia ai tempi di Teseo; il _Filostrato_ su quelli di Troilo con Briseide alla guerra di Troja, con istile stentato, rotto e non di vena. Nell’_Amorosa visione_ finge che nel tempio della felicità gli appaja il trionfo della Sapienza, della Gloria, della Ricchezza, dell’Amore e della Fortuna; cinquanta canti, cadauno di ventinove terzine, le iniziali di ciascuna delle quali vengono a formare un sonetto e una canzone. Il _Ninfale fiesolano_ versa sui lacrimevoli amori d’Africo e Mensola; ma neppur le lascivie seducono a rileggerlo. La gloria al Boccaccio dovea venire dalla prosa; e come Petrarca volle nel verso introdurre l’armonia di Virgilio, così egli nella prosa il periodo di Marco Tullio; e le descrizioni, che prima di lui non si conosceano. Nel _Filocopo_ narrò le avventure di Fiorio e Biancafiore, invenzione cavalleresca, sorretta da macchina mitologica, prolisso senza ingenuità, tutto enfasi ed assurda mescolanza di antico e moderno, o di cose moderne dette all’antica: eppure ebbe prestamente sedici edizioni, e fu tradotto in ispagnuolo e in francese; grande avviso a non giudicare i romanzi dalla subitanea divulgazione. Meno ampolle gittò nell’_Amorosa Fiammetta_, sotto il qual nome designava Maria figlia naturale di re Roberto, colla quale egli intendevasi d’amore. Burlato da una vedova, si svelenì contro le donne nel _Corbaccio o Labirinto d’Amore._ Pretta retorica è la consolatoria a Pino de’ Rossi, dalle miserie dell’esiglio confortandolo coll’esempio d’altre miserie. Nell’_Ameto_, sette ninfe dell’antica Etruria narrano i proprj amori, finendo con un’egloga ciascuna, mescolanza di prosa e versi, che poi in altri idillj fu adottata dal Bembo, dal Sannazaro, dal Menzini: come agli epici egli avea dato il primo esempio dell’ottava; come della prosa didattica fece la più antica prova nel commento a Dante. La vita che scrisse di questo, fra declamazioni e digressioni serbò preziosi aneddoti sul gran poeta. Nei commenti, che accompagnano solo i primi diciassette canti della Divina Commedia, spiega passo a passo il sentimento letterale, poi l’allegorico; e sebbene alcune chiose siano trivialissime, fino a indicare chi fossero i primi parenti, e chi Abele e Caino, palesa però buon intendimento della grammatica, della storia e delle dottrine. Ma se a Parigi Dante avea studiato i teologi e gli scolastici, Boccaccio vi cercava i _fabliaux_, udiva Rutebeuf, Gianni de Boves, Gaurin; leggeva i _Dolopathos_, romanzo indiano, di fresco tradotto da un monaco d’Altacomba in latino, e in francese dal trovero Herbers[358]; e da queste letture e dall’umor suo dedusse un’arte affatto pagana, volta ai gaudj della vita presente, non ai presentimenti della avvenire. Comincia la _Teseide_ dall’invocare le _sorelle Castalie che nel monte Elicona contente dimorano_; nella caccia di Diana, sotto questo nome divinizza Giovanna regina di Napoli, e sotto quel delle seguaci di lei la Cecca Bazzuta, la Marietta Melia ed altre di quella corte; fa che Pamfilo, vedendo a messa la Fiammetta, sia spinto da Giunone ad amarla; nel _Filocopo_, chiama il papa gran sacerdote di Giunone, e parla dell’incarnazione del figliuolo di Giove e dei pellegrinaggi in Galizia a visitare il Dio che vi si adora. Ad eguali sentimenti s’ispira il _Decamerone_, suo capolavoro, di cui abbiamo già fatto cenno. Le novelle che vi fa raccontare, sono le più d’invenzione altrui, lascive e inumane, talchè i contemporanei lo intitolarono il principe Galeotto. La donna, da Dante era stata scelta ispiratrice e guida nella _selva selvaggia_ della vita e nel viaggio alla verità; Petrarca l’avea velata di pudore e di melanconia, e posta esempio di pacata resistenza, che pur sentendo la passione non la lascia prevalere alla ragione, e provvede soavemente a salvar la vita dell’amante e il proprio onore; la sua Laura «inclina e adora come cosa santa», e trova che «non vi sente basso desire, ma d’onore e di virtù», e attesta che «ogni basso pensier dal cor gli avulse»[359]. Ed ecco il Boccaccio converte la donna in sollazzevole cortigiana, ebbra ne’ piaceri sensuali, insiememente credula e superstiziosa, che va a messa ma per far all’amore[360]; che quando si muor d’ogni parte, non conosce migliore spediente che novellare e godere. La fedeltà maritale e la castimonia monastica bersaglia esso continuamente: irreligioso nel ser Ciappelletto e nel frà Cipolla, deista nel Melchisedec giudeo, sempre lusinga l’egoismo: fa i personaggi cedere alla passione senza quel contrasto da cui viene nell’arte il drammatico, nella vita il sagrifizio, che è fonte dell’ordine. Chi lo scusa col supporre che il novellar di que’ tempi si nutrisse di lubricità, ha dimenticato il _Novellino_, che sono cento novelle antiche, di cui alcuna scritta poco dopo la morte d’Ezelino, dove in semplice dettatura è ritratta la vita d’allora, facendo «memoria d’alquanti fiori di parlare, di belle cortesie, e di belli risponsi, e di belle valentìe, di belli donari e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti». Neppure si può scagionarlo per giovane, trovandosi egli nella maturità dei quarant’anni, e forbì quel libro colla diligenza che ognun vi sente, tal fatica sostenendo per ordine d’una principessa. Alcuno volle purgare il Decamerone per uso dei giovani[361]: ma si prese, come spesso, immoralità per lascivia; e tolte frasi e racconti sconci, se ne lasciarono altri non meno pericolosi. S’è detto non bisognerebbe darlo a leggere se non a chi avesse fatto qualche bell’azione per la patria; vuol dire non sarebbe più letto. Vedemmo come se ne rimordesse; e fatto prete, visse esemplarissimo, e in testamento lasciava i suoi libri a un frate eremitano «sì veramente che sia tenuto e debba pregare Iddio per l’anima mia»; molte reliquie ai frati di Santa Maria di San Sepolcro fuor di Firenze «acciocchè quante volte reverentemente le vedranno, preghino Iddio per me»; un’immaginetta di Nostra Donna d’alabastro e molti arredi da chiesa a San Jacopo di Certaldo, coll’obbligo «di far pregar Iddio per me»; a madonna Sandra «una tavoletta, nella quale è dall’una parte dipinta Nostra Donna col Figliuolo in braccio, e dall’altra un teschio di un morto». Fu dunque egli il primo, non che scrivesse bene in prosa, ma che scrivesse bene di proposito, sapendo quel che faceva e conservando l’arte dal principio al fine, senza quelle mescolanze di rusticità che offendono in tutti gli altri. Nè verun prosatore fin allora avea posto industria allo stile, bastando esprimere i proprj sentimenti, non ornati che della loro semplicità, a guisa d’amici schiettamente parlanti; forma tanto più conveniente, in quanto i libri allora erano men cosa pel pubblico, che confidenze domestiche e cittadine. Il Boccaccio volle attribuire allo stile la magnificenza che prima non conosceva, configurarlo ai diversi soggetti, e spurgatolo di quanto tenea di vieto e sgraziato, maestare il periodo e darvi numero e movenza variata, e pastosità e contorno e leggiadria al possibile. Lodevole divisamento: se non che mal distinse la natura degli idiomi, e appigliatosi al latino, tondeggiò la frase con arte troppo apparente ed ambiziosa. Ricchezza, abbondanza gioconda, variata armonia, chi n’ebbe altrettanta? ma la nuova prosa, logica e perspicua, quale innamora nel Compagni, nel Villani, nel Passavanti, intralciò cogli incisi, con raggirate trasposizioni, coll’anelante periodare, repugnanti alle moderne favelle, che, sprovviste di desinenze, amano la sintassi diretta; e fece parer vile la sapiente parsimonia, la famigliarità franca e dignitosa, la nobile sprezzatura. Stile ricercato è sempre cattivo; e quel fare pompeggiante s’accomoda ancor meno alla leggerezza delle materie assunte dal Boccaccio, onde ti par dall’acconcia toga romana vedere sporgere il tôcco del trovadore o il battocchio del giullare. Ed anche quel suo intarsiare frasi e sin versi interi di Dante e d’altri, introdusse o scusò un vezzo malaugurato nella prosa nostra sia di mescolarvi locuzioni poetiche, sia di vestire i proprj pensieri colle forme altrui. Ammirano la varietà di caratteri; direi piuttosto di condizioni: ma fra tante frondi invano cercheremmo il ritratto della vita e dell’indole italiana, nè la curiosità v’è sostenuta. Ha stupenda novità di prologhi, canzoni, descrizioni del mattino, divertimenti varj ad ogni giornata; ha inesauribile dovizia di modi: ma gli manca fantasia pittrice, comunque nettissima sia la sua tavolozza, ed eccellenti i dettagli[362]; colla perifrasi nuoce all’evidenza che otterrebbe colla voce propria; quello scialacquo di parole, elettissime ma non necessarie, quell’inzeppamento di eleganze, quella sinonimia viziosa, impastoiano il racconto; quell’incessante splendore abbaglia più che non riscaldi, colorisce più che non delinei, titilla più che non iscuota. Chi mai versò una lacrima a que’ racconti, che pur sono talvolta mestissimi? Quando gli domandi l’affetto, t’avvedi ch’egli studia solo la parola, il periodo, la cadenza; vero caposcuola di coloro che s’ascoltano da sè. E perchè questi furono molti, massime nel Cinquecento, non v’ha encomio iperbolico che non siasegli profuso. I suoi imitatori rifuggirono dalla naturalezza de’ pensieri o dell’espressione; una delle cause per cui ci mancarono la commedia ed il romanzo, e per cui tanta fatica occorre ai moderni onde richiamare sul semplice. E fosse solo grammaticale il guasto! Eppure il Boccaccio sapeva gustare le dolcezze campestri, e a Pino de’ Rossi descrive come tornò a Certaldo, e «qui ho cominciato con troppo men difficoltà che non mi pensava a confortar la mia vita, e già principianmi li grossi panni a piacere e le contadine vivande; e il non veder le spiacevolezze, le finzioni, li fastidj de’ nostri cittadini mi è di tanta consolazione nell’animo, che se io potessi far senza udirne alcuna cosa, credo che il mio riposo crescerebbe d’assai. In iscambio de’ solleciti continui avvolgimenti de’ cittadini, veggio campi, colli, arbori di verdi fronde e di fiori varj vestiti, cose semplicemente da natura prodotte; dove ne’ cittadini son tutti atti fittizj: odo cantar usignuoli ed altri uccelli con non minor diletto, che fosse più la noja di udire gl’inganni e le difficultà de’ cittadini nostri. Co’ miei libricciuoli, quante volte mi piace, senza alcun impaccio posso liberamente ragionare: e in poche parole vi dico che mi crederei qui, mortale come sono, gustare e sentire della eterna felicità se Dio mi avesse dato un fratello». Già di sette lingue s’era a quell’ora impadronita la letteratura nuova; la castigliana, la portoghese, la valenziana o provenzale, la francese, la tedesca, l’inglese e l’italiana: le altre si abbandonavano all’istinto, anzichè studiassero l’arte; nessuna può offrire capolavori; le opere di quelle son rivangate solo per istudio filologico, le nostre rimasero classiche, non soltanto per noi, ma e per gli altri popoli. Ed è gran prova d’incivilimento questo apparire quasi contemporaneo di tre genj, così differenti l’uno dall’altro, e ciascuno inventore o tipo di generi, di cui doveano restare modelli insuperati. Ma Dante si proponeva una poesia nazionale e religiosa; come i veri ingegni, ha più franchezza che arte; tormentato da grandi pensieri, fatica ad esprimerli in una lingua già formatasi, ma non educata ad esporre poeticamente tanta dottrina; e col suo cantare eccita, anzi obbliga il lettore a pensare da sè. Petrarca forbì poi quella lingua, dandole una rigogliosa gioventù, che nulla perdè fin ad oggi della natìa freschezza. L’uno e l’altro fissarono il linguaggio poetico, bellissima veste, che bastò al lepore dell’Ariosto come alla gravità del Tasso, alle dolcezze di Metastasio come ai fremiti dell’Alfieri. Quanto alla prosa, forse è colpa di Boccaccio o de’ suoi idolatri se ancora non n’abbiamo una nazionale, colta insieme e popolare, corretta e sicura, ferma ed ingenua, più candida che azzimata, più viva che compassata, acconsentita dai dotti, e insieme affabile al popolo, il quale vi incontri le sue forme ma ingentilite, i suoi vocaboli ma artisticamente disposti; atta ad esprimere tanto la famigliare ingenuità, quanto i grandi bisogni e i grandi sentimenti. Da principio tutti corsero dietro a Dante; Petrarca gli porta invidia pur negandola, e lo imita; Boccaccio ne tessella la sua prosa, ne farcisce la sua poesia[363]. Cecco Stabili d’Ascoli nell’_Acerba_[364], poema filosofico nè bello di poesia nè dotto di scienza, denticchia l’Alighieri colla stizza dell’impotente, e fu poi per mago bruciato a Firenze. Fazio degli Uberti nel _Dittamondo_ espone un viaggio che fa dietro al geografo Solino, tela mal ordita e peggio tessuta. Federico Frezzi da Foligno nel _Quadriregio_ descrive in terza rima i quattro regni dell’amore, del demonio, dei vizj, delle virtù, dove Minerva viene a diverbio con Enoc ed Elia profeti. Francesco da Barberino leggista nei _Documenti d’amore_ tratta di filosofia morale, politica, civiltà, perfino tattica, in metro vario e stile nè facile nè elegante, non ajutando tampoco la cognizione de’ costumi quanto il titolo prometterebbe. Scrisse anche _Del reggimento e dei costumi delle donne_, ove in versi stiracchiati misti a prosa, se pur tutta prosa non sono, ammanisce precetti alle donne delle diverse condizioni ed età: prolisso, stucchevole, ma con buon intento e bella lingua[365]. Giusto de’ Conti canta la _bella mano_ della donna sua[366], sbiadito imitatore del Petrarca. Nè gloria nè compiacenza alla patria; sol ricordati perchè vecchi. Francesco Sacchetti fiorentino, uom di toga e di mercatanzia, pel leone coronato al pulpitino di Palazzo vecchio fece questa divisa: Corona porto per la patria degna Acciocchè libertà ciascun mantegna; ed era sì reputato, che essendosi esclusi dalle magistrature i padri, figli, fratelli di coloro ch’erano stati sbanditi, si eccettuò lui solo _per esser tenuto uomo buono_[367]. Mal calcate le orme del Petrarca, dietro a quelle del Boccaccio avviò ducentoquarantotto novelle, di stile dimentico e scorrevole, slegate fra loro, nè per intreccio, vivacità e pompa simili a quelle del Certaldese, ma piuttosto ad aneddoti senza idealità, burlevoli e pittoreschi. Lasciam via le sconcezze e le scempie riflessioni, ma fanno ritratto della vita d’allora que’ piacevoli motti scoppiati alla sprovvista; quegli uomini di corte, che coll’improntitudine subbiellano doni; que’ lepidi ostieri, che fanno cronache di chi non usa la parola propria; quelle burle e risa sopra magistrati ignoranti o tirchi; quelle braverie di soldati tedeschi con nomi bisbetici; quella meschinità degl’imperatori, che senza denaro scendevano in Italia; que’ leggisti smaniosi d’azzeccar liti, onde uno di Metz si meraviglia che Firenze non sia disfatta con tanti giudici, mentre un solo era bastato a rovinare la sua patria; insomma quella vita piena, pubblica, vivace, procacciante, di gente che non subì ancora i miasmi della pacifica oppressione. Purezza di lingua, proprietà di parole e vezzi di stile accostano al Boccaccio ser Giovanni fiorentino (-1375), il quale nel Pecorone finge che Auretto, innamorato di suor Saturnina, vada frate, e divenuto cappellano, s’accordi con lei di passare ogni giorno alcun tempo raccontandosi in parlatorio una novella a vicenda. Con sì misero appicco e senza varietà d’incidenti vanno alle cinquanta, storiche le più, esposte con istile semplice, e velando le sconcezze. E in generale ai narratori di quel secolo mancano la rapidità e la precisione, e lo spirito arguto che s’acquista col lungo frequentare gli uomini e la scelta società. Così la letteratura accampavasi sotto due bandiere, dietro quei campioni. Petrarca e Boccaccio dovettero l’immortalità a lavori fatti quasi per trastullo o distrazione, di mezzo a studj più gravi; questo obbediva ai comandi d’una principessa, quello non avrebbe mai _creduto che sì care fossero le voci dei sospir suoi in rima_. Dante applicò tutto sè al poema che _per molti anni lo fece magro_; e quando a lui esulante furono riportati i primi canti del divino poema, — Emmi (disse) restituito lavoro massimo con perpetuo onore»[368], e confidava mercè di quello poter coronarsi poeta sul battistero del suo San Giovanni. Boccaccio e Petrarca nell’età grave si doleano delle inezie e delle lubricità scritte, e quasi si vergognavano della gloria conseguita; Dante confida di aver fama appo coloro che il suo tempo chiameranno antico, e che vital nutrimento deriverà dall’agro de’ versi suoi. Egli aveva dischiuso i tempi nuovi, gli altri due respinsero verso gli antichi; egli inventivo, essi imitatori; egli biblico, essi classici; egli scotendo, essi addormentando la patria. Ed è non ultima colpa del Boccaccio l’avere o incitato o scusato i nostri a moltiplicare in un genere di letteratura affatto immorale come sono i novellieri. Ma egli fu addobbo di corte, corifeo di coloro che appigionano l’ingegno a chi paga, sia principe o plebe: Dante si considerava educatore delle nazioni, e i suoi seguaci credettero tale l’uffizio della letteratura. Anche i Petrarchisti empirono di belati questa povera Italia, la quale ogni qualvolta pensasse a scuotere il letargo, e sviarsi dai torbidi rivi, tornò ai vigorosi difetti e alle incomparabili bellezze dell’Alighieri. CAPITOLO CX. Roma senza papi. — Cola di Rienzo. Di quel papa Clemente V che spiegò fermezza contro Enrico VII forse per debolezza verso il re di Francia, e che scomunicò i Veneziani perchè aveano comprato Ferrara, dominio diretto della santa Sede, non v’è iniquità che non si scriva; colle simonie, o meglio coll’aggravare esorbitantemente le chiese accumulò tesori, che profondeva poi fosse ai parenti, fosse in un fasto insolito a’ suoi predecessori, e che credea forse necessario per rialzare il papato, errante fuor del teatro di sua grandezza. Appena morto (1314), il popolo ne saccheggiò il palazzo, e pel cadere d’una candela appiccatasi la fiamma al feretro, niun badò a spegnerlo, e appena un cencio rimase per ricoprirne il semiusto cadavere. Lungo e procelloso conclave seguì, qual poteasi aspettare da quell’esiglio e dalle modificazioni del concistoro, dove gli otto cardinali italiani voleano un papa che tornasse a Roma, guaschi e francesi il contrario. Una banda di mercenarj guasconi indisciplinati minacciò e saccheggiò i mercanti nostri in Carpentrasso, malmenò ed incendiò le case de’ prelati italiani, violentò il conclave, sicchè i cardinali fuggirono per una breccia, e si dispersero. Giacomo d’Euse, figlio d’un ciabattiere di Cahors, piccolo e deforme di corpo, ma di senno acuto, studioso, perseverante, era ito a Napoli per cercar fortuna, dove entrò maestro dei figli del re, ed ebbe la gloria di formare Roberto, che fu tenuto il re più sapiente de’ suoi giorni, e Luigi vescovo di Tolosa, da poi canonizzato. A grande istruzione nei due diritti Giacomo univa molta destrezza negli affari, e adoprato presso i papi e i re di Francia, salì vescovo di Fréjus, poi grancancelliere a Napoli e vescovo d’Avignone. La presenza della Corte pontifizia gli diè campo a mostrare i suoi talenti; fu di grande sussidio nel concilio di Vienna a Clemente V, che l’ornò della porpora; poi già vecchio, col favore di re Roberto e mediante largizioni e promesse, ottenne la tiara (1316), col nome di Giovanni XXII. Benchè abituato in Italia, e benchè vel chiamassero i larghi suoi divisamenti, si stabilì in Avignone, città appartenente ad esso suo protettore; talmente pareva una funesta necessità rimuovere la santa Sede da Roma, in preda a violenti fazionieri[369]. Già vedemmo come Giovanni fosse trascinato fra quelle contese, ed avesse con Lodovico Bavaro dissensioni agitate con armi e con violenti diatribe. Fra le quali come sapere quanto abbiano di vero le accuse appostegli di simonia, di scostumatezza e d’avidità? Fin d’eretico fu tacciato; e Germania e Italia reclamavano un concilio che pronunciasse, e che speravano deporrebbe quel papa, e tornerebbe la sede a Roma. Però storici serj dicono che Giovanni vivea ritiratissimo, fuor d’ogni pompa o spasso; studioso e intelligente di scienze sacre e profane, caldo nel diffondere le missioni fino all’estremità dell’Asia; se non istituì, diede ordinamenti al tribunale della Sacra Rota e alla cancelleria romana, donde un vicecancelliere, che è la maggior dignità di corte, spedisce le lettere apostoliche. Giovan Villani, contemporaneo e mercatante, che allega l’autorità de’ tesorieri adoprati a far l’inventario, dice lasciasse venticinque milioni di zecchini[370], somma sì sproporzionata al numerario allora in corso, che vuolsi metterla in conto delle dicerie popolari; pure possiam credere avesse riposto un tesoro quale non poteva a gran pezza averlo nessun altro potentato, e che esso Villani dice destinato «per fornire il santo passaggio d’oltremare». Ma a quali fonti attingeva sue ricchezze la Corte romana? La prima erano le offerte che i fedeli recavano sull’altare della confessione di San Pietro, al sacro palazzo, al papa stesso, in denaro, arredi sacri, biancheria, cera: Vittore II cedette al cardinale Umberto le offerte d’un giovedì e sabbato santo, che bastarono a montare una chiesa. Varj regni si erano messi sotto la protezione della santa Sede, alla quale tributavano, l’Aragona ducencinquanta oboli d’oro, il Portogallo due marchi, cento la Polonia, mille d’argento l’Inghilterra, oltre il denaro di san Pietro che fruttava ducentonovanta marchi, e forse altrettanti quello di Svezia, Norvegia e Danimarca. Feudi suoi erano Napoli, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica: e il primo pagava ottomila oncie; tremila la Sicilia, da cinque zecchini l’oncia; duemila l’Aragona, cui erano infeudate le altre due isole. La Camera apostolica traeva pure guadagno dall’infeudare qualche città per un tempo determinato. Molti possessi tenea negli Stati pontifizj: ma solo conosciamo che il ducato di Spoleto le rendeva milleottanta libbre, milletrentotto soldi, dieci bisanti, e alcuni valori in natura; il contado di Narni e d’Aurelia quarantanove libbre, cinquecentoquarantotto soldi, netti da spese di percezione; la Sabina cencinquantaquattro libbre, soldi dieci; il contado Venesino diecimila fiorini. Il _Liber censuum_, compilato nel 1192 dal cardinale Cencio tesoriere apostolico, enumera un’infinità di possessi e di rendite in tutto il mondo: ma l’incertezza del valore delle monete, e l’essere una gran parte in natura ci tolgono di raccorne un computo, neppure approssimativo; se non che siam fondati a credere superasse la rendita di qualunque altro Stato. Eppure la Corte romana trovavasi in gran distretta; e colpa l’ingordigia o anche l’infedeltà de’ collettori, la difficoltà e il ritardo delle trasmissioni, i sotterfugi per non pagare, ben poco ne giungeva sin alla cassa papale. Innocenzo II dovette impegnare le città d’Orvieto, Gubbio e Casale per ducento libbre pavesi; Adriano IV Città di Castello per cenventi marchi d’argento; nel 1265 Clemente IV scriveva d’avere, per la spedizione di Carlo d’Angiò, messe in pegno tutte le ricchezze delle chiese di Roma eccetto San Pietro e San Giovanni Laterano, ed essersi obbligato per un valore di centomila libbre di proventi, _si ea poterimus invenire_. Bisognò dunque ricorrere a spedienti, ignoti alle altre finanze. Innocenzo IV pose tasse sulle dispense e le esenzioni; ma dopo portata la sede oltremonti, maggiori spese occorsero: i beni d’Italia erano quasi perduti; i censi si stentavano dai re, per paura che ne vantaggiasse la Francia: onde Clemente V cominciò a riservarsi per tre anni tutti i benefizj dell’Inghilterra, e diede in commenda moltissime chiese, tanto che potette morendo lasciare un tesoro di un milione settantaquattromila ottocento zecchini. Giovanni XXII camminò più franco su questa via, e non inventò, ma sistemò le annate, cioè la riserva dei frutti d’un anno d’ogni benefizio vacante in tutta la cristianità _pro Ecclesiæ romanæ necessitatibus_; ed aumentò tale rendita col promovere sempre da un benefizio inferiore; di modo che ogni nomina portava una lunga serie di vacanze. Aggiungi le aspettative; lettere dapprima _monitorie_ poi _precettorie_, infine _esecutorie_, che davansi a un ecclesiastico perchè ottenesse un benefizio quando verrebbe vacante: erano vendute da cinquanta zecchini, e divennero una delle entrate più pingui della Camera, finchè il concilio di Trento le abolì. Inoltre il papa poteva imporre la decima su tutti i beni ecclesiastici; come, per esempio, nel 1336 fece su quelli di Francia per sostenere la guerra in Lombardia. Ma non sempre i fondi giungevano alla destinazione; una volta furono predati in Lucca; un’altra Paganino conte di Panico bolognese si accordò con diversi nobili, e mentre il guascone Raimondo d’Aspello marchese d’Ancona e nipote del papa attraversava il Modenese con settanta o novantamila fiorini a gran fatica raccolti, e benchè già gli avessero venduto il salvocondotto, lo assalirono e uccisero con quaranta uomini della scorta, e si spartirono i cavalli e le spoglie: il papa non potè che metter Modena all’interdetto. Venendo un altro legato da Avignone colle paghe pe’ soldati, convogliato da cencinquanta cavalieri, i Pavesi lo colsero in agguato, e almeno metà del tesoro ne pigliarono. Giacomo Fournier di Saverdun, quando fu acclamato papa col nome di Benedetto XII (1334), disse ai cardinali: — Eleggeste il più asino tra voi». Datosi a medicar tante piaghe, abolì le aspettative: e non avendo sciupato in guerre, l’erario non risentì la mancanza di questa pingue rendita; d’altra parte vi suppliva col vendere in Italia il titolo di vicario, pel quale riscoteva annualmente da Luchino Visconti diecimila fiorini, tremila dagli Scaligeri per Verona e altrettanti per Vicenza, diecimila dai Gonzaga di Mantova e dai Carrara di Padova, altrettanti per Ferrara da Obizzo d’Este. Nel primo concistoro dichiarò che nè la romana nè altra chiesa dovea sostenere i suoi diritti colle armi, rimandò alle loro parrocchie quanti curati erano in Corte, revocò le commende, voleva egli stesso esaminar quelli che chiedevano benefizj, e tanto in ciò procedeva severo, che lasciava questi scoperti piuttosto che darli a indegni. Essendosi presentato un tal Monozella, lodato musicante, a chiedere l’abbadia di San Paolo in Roma, esso gli domandò: — Sapete cantare? — Santità sì. — Sarei curioso d’udire qualche canzone. — E canzoni io so. — Sonate anche qualche istromento? — La ghitarra». Allora Benedetto cangiando tono: — Come! un saltimbanco pretenderebbe diventare il venerabile capo del monastero di San Paolo?» e lo cacciò. Voleva si ascoltasse chiunque a lui ricorrea, e faceva giustizia, e diceva che un papa deve somigliare a Melchisedech, il quale non conoscea nè padre nè madre nè genealogie. Pari alla virtù non avea la scienza degli uomini e degli affari; e credette a un pontefice bastasse la bontà senza la politica, mentre cotanta ne occorreva per barcheggiare fra gli andirivieni della mondana. Benedetto prefisse di tornare a Roma, ma i cardinali francesi nel dissuasero. Caduto in grave malattia, rinnovò il proposito, ma gl’Italiani dovettero perderne ogni speranza quando lo videro fabbricare quel grandioso palazzo fortificato, con architettura di Pietro Obreri e pitture di Simon Memmi; e subito i cardinali fecero altrettanto, e la meschina Avignone si convertì in bella città, dove anche i gran signori di Francia e i re aveano palazzi. Sì bene riuscivano le arti di Filippo di Valois, il quale, col sospendere le prebende ai cardinali e minacciar di trattare Benedetto come Bonifazio VIII, impedì che questo si riconciliasse con Lodovico Bavaro. Dopo la vacanza di soli tredici giorni fu eletto papa (1342) Pietro Roger limosino, che volle esser chiamato Clemente VI, e che, più condiscendente ai cardinali e oprante nelle cose temporali, spiegò pompa regia, diceva non doversi nessuno ritirare malcontento dal cospetto del papa, e invitò alla Corte i cherici sprovvisti di benefizio onde potessero coprire i tanti lasciati vacanti dal precessore. In pochi mesi vuotò l’erario impinguato dall’abilità di Giovanni XXII e dalla parsimonia di Benedetto XII; e a chi l’appuntava de’ mezzi con cui provvedeva a nuove liberalità, vogliono dicesse: — I miei predecessori non seppero esser papi». Comprò da Giovanna di Napoli per ottantamila zecchini la città d’Avignone; e quivi, per quanto strillassero i Romani, passavano le ricchezze e i proventi curiali. La corte assunse quel tono, e i cardinali sfoggiarono di lusso principesco: gl’intriganti, le donne potevano tutto, se pur la malignità de’ tanti suoi avversarj nol calunniò. Intanto Roma soffriva non si potrebbe dir quanto dalla lontananza di quei papi, ch’essa suole molestare vicini e rimpiangere perduti; a vicenda trambustata da una plebe turbolenta e da una nobiltà faziosa, conculcate la giustizia e l’amministrazione, le vie ingombre da rovine di rovine, le chiese sfasciantisi, denudati gli altari, i sacerdoti senza il necessario decoro de’ paramenti; signori romani faceano traffico di monumenti antichi, di cui abbellivano le città vicine e la _indolente_ Napoli[371]. Colonna e Orsini erano corifei di due fazioni, azzuffantisi ogni giorno in città e fuori; e per parteggiare con loro o per non restarne oppressi, anche gli altri signorotti aveano mutato in fortezze i palagi e il Coliseo e gli altri avanzi della magnificenza romana; e pretendendosi superiori ai vassalli dell’impero, esercitavano baldanzosamente la guerra privata, minacciavano e rapivano, deturpavano gli asili delle vergini sacre, traevano a disonore le zitelle, involavano le mogli dalla casa maritale; i braccianti, quando andavano fuori a opera, erano derubati fin sulle porte dalle masnade che infestavano la campagna: laonde il Boccaccio diceva che Roma, come già fu capo del mondo, così allora era coda[372]; e il Villani, che «i forestieri e i romei v’erano come le pecore tra lupi, ogni cosa in rapina e in preda». Il popolo aveva sistemato un governo municipale, divisa la città in tredici rioni, ciascuno con un banderale; quattro membri per rione componevano il consiglio del popolo, che aveva anche un altro collegio di venticinque membri, con un capitano delle forze, ma senza partecipazione agli interessi civili. A capo del popolo come politica comunità stava il prefetto di Roma[373]; mentre il senatore rappresentava la legge, superiore anche ai nobili, sempre scelto fra i maggiori di essi; fra quell’ordine cioè, contro del quale avrebbe dovuto esercitare la sua autorità, che invece sfogava in private nimicizie. L’autorità di re Roberto non avea forza; e il popolo, credendo soffrir meno sotto l’immediata amministrazione del papa, a Benedetto XII offrì la dignità di senatore, capitano, sindaco, difensore: ma bentosto una sommossa cacciò di Campidoglio i due suoi rappresentanti. Il vicario pontifizio sedente a Orvieto restringevasi nell’autorità spirituale: al papa mandavansi deputati quando fosse eletto[374], poi non vi si badava più. Questa decadenza ridestava più vive le memorie dell’antica grandezza, e ne fu tocco principalmente Nicola figlio di Lorenzo, uno de’ ciucciari che portavano l’acqua in città, prima che Sisto V vi conducesse la Felice, e che Roma diventasse la città delle fontane. Fu costui «di sua gioventute nutricato del latte di eloquenza, buono grammatico, migliore retorico, autorista bravo. Deh come e quanto era veloce lettore! Molto usava Tito Livio, Seneca e Tullio e Valerio Massimo; molto gli dilettava le magnificenzie di Julio Cesare raccontare; tutto lo dì si specolava negl’intagli de’ marmi li quali giacciono intorno a Roma. Non era altri che esso che sapesse leggere gli antichi pitafj, tutte scritture antiche vulgarizzare, queste figure di marmo giustamente interpretare». Da tali studj aveva attinto ammirazione per l’antica repubblica romana; ed accorandosi del vederla dai papi abbandonata in balìa di masnadieri, aspirò a quel ch’è il più grande e più difficile assunto, resuscitare un popolo già cadavere. Bella figura, portamento nobile, fisonomia espressiva, voce sonora, parola facile e passionata, sagacia nel vedere i mezzi opportuni, abilità a mostrarsi ispirato unicamente dal pubblico bene, cosa vi richiedeva di più per essere un rivoluzionario? I Tredici lo deputarono ad Avignone (1342) per supplicare Clemente VI del ritorno; e Cola Rienzi (così lo chiamavano) parlò francamente al papa, che prima lo sgradì, poi lo fece notaro della Camera apostolica, uffizio lucroso, nel quale esso non usava penne d’oca ma di argento, per significare la nobiltà di quest’uffizio. Ai degeneri nipoti di quelli che aveano udito Gracco e Cicerone, egli parlava delle glorie vetuste; ponea sott’occhio ai signori iscrizioni e simboli atti a stimolare la vanità nazionale[375] e scandagliarne la risolutezza; e fantasticava i diritti del popolo, sempre dietro alle reminiscenze antiche[376]. L’uccisione d’un suo fratello (1344) fatta dai Colonna e rimasta impune finì di rendergli esecrata quell’aristocrazia, non meno corrotta e più prepotente e compatta che l’antica; sicchè pensava ripristinare i tribuni della plebe, ed associando alle classiche le ricordanze di Crescenzio e di Arnaldo, reprimere i baroni non solo, ma anche i pontefici disertori dell’ovile. Sempre nobile è l’intento di rigenerare la patria; ma quanto è facile il credere che i nomi grandi suppliscano alle grandi cose, e lo scambiare le memorie per speranze! Il popolo romano poi, le cui idee sono, come l’orizzonte della sua città, circoscritte fra i sette colli, dà orecchio volenteroso a chi gli rammemora le grandezze di quelli che considera come suoi avi. I letterati, che allora tornavano leggere in Livio e Sallustio, dilettavansi di riudire gli antichi nomi; e Cola salì in credito come chiunque offre uno specifico in gravissima malattia: poi, côlta un’occasione che i baroni erano fuori, invitò il popolo ad un’adunanza (1347), ove parlerebbe loro del passato e del presente, de’ mali e de’ rimedj. Era uno spettacolo, e perciò fu graditissimo. Cola veglia la notte in chiesa orando; poi sentito tre messe, armato tutto fuorchè la testa, sale al Campidoglio, tra giovani infervorati e tra una pompa di bandiere, pennoni, emblemi, e tutto quel chiassoso tripudio che in niun luogo si sa fare quanto a Roma. Dalla gradinata donde vedeva i luoghi delle arringhe di Cicerone e dei trionfi degli Scipj e de’ Cesari, non ragiona come deve un riformatore, ma declama come sogliono i demagoghi; e preso alla solita illusione che l’idolo della plebe riuscirebbe a reprimerla e ordinarla, legge una riforma del _buono stato_, assicurando agli altri e forse egli stesso persuadendosi che il papa (il cui vicario stavagli a fianco) gli saprebbe grado di sottrar Roma sua dalla tirannide de’ baroni. I regolamenti di Cola consistevano in garantire i cittadini contro le trapotenze della nobiltà, ordinare milizie urbane in Roma e vascelli sulle coste, assicurare ponti e vie, abbattere le rôcche e gli steccati da cui i baroni minacciavano; giustizia pronta e vita per vita, granaj pel povero, pubblici soccorsi per le vedove e gli orfani, massime di quelli morti combattendo. Invitò ciascun Comune a spedire due sindaci a un generale parlamento; primo esempio d’un’assemblea rappresentativa: sicchè con questo e colla federazione italiana ch’e’ proponeva sotto al senato romano, «il quale non avea perduto se non per forza l’antica supremazia di fare e interpretar leggi», un’êra nuova potevasi aprire all’Italia, posta un’altra volta a capo dell’Europa. Queste ultime finezze non le intendeva il popolo, bensì la sicurezza, il buon mercato, i sussidj, il ritorno del papa; sicchè in concordia esultante diede a Cola l’incarico (maggio) di attuare quella costituzione col titolo di tribuno, e gli offerse braccia per ridurre ad effetto i consigli. Ed esso s’impadronisce delle porte, intima agli armati d’uscire, e fa impiccare alcuni masnadieri côlti in città. I Colonna ci si presentano con qualcosa della grandezza de’ patrizj di Roma antica. Vedemmo la persecuzione che contro di loro esercitò Bonifazio VIII, nella quale Stefano, côlto dai satelliti e sdegnando il simulare, rispose: — Sono cittadino romano»; della qual fermezza colpiti, essi il lasciarono libero. Perduta Palestrina e tutti gli altri castelli, a chi gli domandava qual fortezza ancor gli restasse, rispose — Questa» toccando il cuore. I papi succeduti restituirono possessi e dignità a quella casa, che parteggiò con Enrico VII, avversò Lodovico Bavaro, dopo la cui partenza Stefano prevalse agli emuli Orsini; la quale vittoria cantò il Petrarca, protetto da questa famiglia, che egli non rifiniva di lodare. Giovanni, cardinale munificentissimo, era l’anima della corte d’Avignone. Jacopo osò in Roma presentarsi con un pugno di risoluti, ed affiggere la scomunica contro il Bavaro mentre questo vi stava; poi rifuggito ad Avignone, fu fatto vescovo di Lombez. Agapito, e dopo lui Giordano, furono vescovi di Luni, Pietro canonico lateranense, Enrico famoso battagliero. Contro di questi or sorgeva Cola di Rienzo; e il vecchio Stefano, il quale non sapeva indursi a temere del lepido ciucciaro, dell’imbelle erudito, alle prime stracciò l’intimazione mandatagli d’andarsene di città; ma poi che Cola a suon di martello raccoglieva le compagnie del popolo, n’ebbe assai a potere trafugarsi con un unico servo nella sua Palestrina. Il barone primario di Roma! pensate quanto ne rimasero sgomenti gli altri, che se n’andarono, abbandonando i loro bravacci alla giustizia pronta, inesorabile. Gli Orsini, altra famiglia antichissima, che diede cinque papi, trenta cardinali, senza numero senatori e capitani, erano stati principalmente cresciuti da Nicola III, e si suddivisero in molti rami, illustri poi a Napoli, in Francia, in Germania. Giordano di Montegiordano e Nicola di Castel Sant’Angelo, per odio ai Colonna, fiancheggiavano il tribuno; lo avversavano Rinaldo e Giordano signori di Marino, Bertoldo signore di Vicovaro. Ridotta a quiete la città, Cola mandò uscieri alle insolite rôcche dei Colonna, degli Orsini, dei Savelli, citandoli a comparire e giurar la pace; e molti sul Vangelo promisero non molestar le vie, non nuocere al popolo o al tribuno, non ricettare malfattori, e ad ogni richiesta presentarsi colle armi al Campidoglio. Altrettanto dovettero giurare i gentiluomini, i giudici, i notaj, gli artigiani. Giovanni da Vico, signore di Viterbo e prefetto di Roma, fu pur costretto venire ad invocar la grazia di Cola; al quale di voglia o per forza si sottomisero le altre fortezze ond’era seminato il Patrimonio. Gongolava il buon popolo romano di vedere applicata a tutti la giustizia e il taglione, quantunque arbitrariamente; i corrieri che il tribuno spediva, riferivangli: — Abbiamo portato questa verga per città e foreste; migliaja d’uomini si posero a ginocchio e la baciarono con lacrime, riconoscenti della sicurezza restituita alle strade, e della dispersione degli assassini». I Cristiani, che d’ogni parte d’Europa accorrevano alle soglie degli Apostoli, meravigliavano dell’inusata sicurezza, e reduci in patria, magnificavano la robustezza del tribuno. La Corte d’Avignone erasi impaurita al vedere estendersi quel moto; ma Cola, «severo e clemente, di libertà, di pace, di giustizia tribuno, della romana repubblica liberatore illustre», le spacciò lettere dove prometteva fedeltà alla santa Sede. Altre ne spedì ai potentati di Francia, di Germania e per tutta Italia; e ai Fiorentini diceva: — Fu dono dello Spirito Santo l’avere avuto misericordia di questa città, sovvertita da malvagi e crudeli reggitori, anzi distruttori, sicchè ne era compressa la giustizia, espulsa la pace, prostrata la libertà, tolta la sicurezza, condannata la carità, oppressa la verità, profanate la misericordia e la devozione; onde non solo gli estranei, ma nè tampoco i cittadini e i provinciali poteano venirvi e starvi in sicurezza, ma dentro e fuori nimicizie, sedizioni, guerre, micidj, rube, incendj. Voi dunque rendete grazie al Salvatore e ai santi Apostoli, e unitevi con noi per esterminare la tirannia de’ ribelli e la peste dei tiranni, e riformare la libertà, la pace, la giustizia in tutta la sacra Italia. Vi preghiamo pure a mandare due sindaci e ambasciadori al parlamento che intendiamo celebrare per salute e pace di tutta Italia; e un giurisperito, che terremo con stipendio nel nostro concistoro». Del tentativo parve bene a quei molti che pasceansi di rimembranze più che d’opportunità: il Petrarca prese entusiasmo per Cola; ma mentre nella canzone direttagli è tanto sublime quanto sobrio[377], nella lettera al tribuno tesse una prolissa filatera, tutta fiori retorici (come quegli la lodava) e luoghi comuni ed esempj di antichi: — La magnifica tua soscrizione annunzia il ristabilimento della libertà; il che mi consola, mi ricrea, m’incanta..... Le tue lettere corrono per le mani di tutti i prelati, voglionsi leggere, copiare; par che discendano dal cielo o vengano dagli antipodi; appena arriva il corriere, il popolo fa ressa per leggerle, nè mai gli oracoli d’Apollo delfico ebbero tanto diverse interpretazioni. Quel tuo tentativo è sì mirabile, da porti in salvo da ogni rimprovero, e mostrare la grandezza del tuo coraggio e la maestà del popolo romano, senza offendere il rispetto debito al sommo pontefice. E da uomo savio ed eloquente come tu sei il conciliar cose in apparenza cozzanti..... Nulla che indichi basso timore o folle presunzione..... Non si sa se più ammirare le azioni tue o il tuo stile; e dicono che operi come Bruto, parli come Cicerone... Non lasciare la magnanima tua impresa..... Fondamenta eccellenti ponesti, la verità, la pace, la giustizia, la libertà... Com’io mi verso contro chiunque osa mettere dubbj sulla giustizia del tribunato e la sincerità delle tue intenzioni!... A te, unico vindice della libertà, penso la notte, a te il giorno, vegliando e dormendo». Ma fra tante parole non sa dargli altri consigli se non questi: «di ricevere l’eucaristia ogni mattina, prima di mettersi agli affari, lo che sa che egli pratica di già, e l’avrebbero certamente praticato Camillo e Bruto se ai loro tempi ne fosse stato l’uso; e di leggere tutte le volte che può, o farsi leggere, come praticava anche Augusto». Questa lettera e i versi fecero, sulla parola del Petrarca, ammirare Cola dal mondo letterato; molte città gli si sottoposero, altre il sostennero; Firenze, Siena, Perugia mandarongli forze, le città dell’Umbria deputati, Gaeta diecimila fiorini d’oro; Venezia e Luchino Visconti se gli chiarirono alleati, Giovanna di Napoli onorò i suoi messi, l’imperatore Lodovico non meno: pur non mancavano città che il trattassero da mentecatto, e i Pepoli, gli Estensi, gli Scaligeri, i Gonzaga, i Carrara, gli Ordelaffi, i Malatesta ne faceano canzoni; tanto più il re di Francia. Parve egli giustificare questi ultimi mostrando più vanità nella testa che vigore nel carattere, col fare seguire ambiziose scede a que’ cominciamenti così leali. Volle circondarsi di fasto, forse per abbagliare il popolo; vivea di costosissime splendidezze; «faceva stare dinanti a sè, mentre sedeva, li baroni tutti in piedi, ritti, colle braccia piegate, e colli cappucci tratti. Deh come stavano paurosi! Aveva moglie molto giovane e bella, la quale quando iva a San Pietro, iva accompagnata da giovani armati; delle patrizie la seguitavano; le fantesche colli soliti pannicelli nanti al viso le facevano vento, e industriosamente rostavano, chè sua faccia non fosse offesa da mosche. Aveva un suo zio, Janni avea nome, barbiere fu, e fatto fu grande signore, e iva a cavallo, forte accompagnato da cittadini romani. Tutti li suoi parenti ivano a paro». Pensò anche farsi ornare cavaliere con una solennità che mai la maggiore[378]; assunse la dalmatica, usata dagli antichi imperatori alla loro coronazione; e col bastone del comando e con sette corone in capo, simbolo delle sette virtù, brandendo la spada verso le quattro plaghe del cielo, intonava: — Io giudicherò la terra secondo la giustizia, e i popoli secondo l’equità». In virtù di questo dominio che pretendeva sul mondo, citò Luigi d’Ungheria e Giovanna di Napoli, Lodovico imperatore e Carlo anticesare perchè producessero al suo tribunale i titoli di loro elezione, «la quale, come sta scritto, non appartiene che al popolo romano»; intimò al papa di tornare alla sua sede; elevandosi all’idea dell’unità nazionale, dichiarò libere tutte le città d’Italia, alle quali, «volendo imitare la benignità e libertà de’ Romani antichi», concesse la cittadinanza e il diritto di eleggere gl’imperatori; e insisteva perchè gli Stati Italiani, il papa, l’imperatore mandassero legati a Roma onde convenire della pace e del bene di tutta Europa[379]. Come avviene a cotesti rifatti, cui l’altezza dà le vertigini, cercò parentele illustri; e non che allearsi con qualche barone, non curò disonorare sua madre pretendendo essere bastardo di Enrico VII[380]. Clemente VI, che da principio l’avea intitolato rettore pontifizio, s’irritò del vederlo trasmodare in poteri e pretensioni; il vicario pontifizio, che sin allora lo aveva secondato, protestò contro quell’intimata al papa e ai principi; l’opinione, che non vuol durevoli i suoi idoli, toglieva a rinnegarlo; ed esagerando nella contraddizione come già nell’applauso, gli si rinfacciavano le disordinate spese, di cui dicevansi conseguenza le tasse che ogni governo nuovo è obbligato rincarire. Ad un banchetto ch’e’ diede alla primaria nobiltà, si pose in disputa se meglio valga ad un popolo il governo di un avaro o d’un prodigo; e Stefano Colonna, rialzando il lembo dorato e gioiellato della vesta del tribuno, — Ben a te starebbero meglio i modesti abiti de’ pari tuoi, che non coteste magnificenze». Cola irritato ordinò fossero presi tutti i nobili convitati, e dando voce d’una congiura, li condannò al taglio della testa. A ciascuno fu mandato il frate per disporlo; ma convocato il popolo, il tribuno cominciò una diceria sul _Dimitte nobis debita nostra_, e invocò che esso popolo gli assolvesse. I detenuti si presentarono un dietro l’altro a capo chino implorando grazia (1347), e Cola li pose in prefetture e in altre cariche nella Campania e in Toscana. Irritare e non uccidere, mezza misura che perde i tiranni. I baroni, non anelando che vendetta, s’afforzano nelle rôcche, raggomitolano gli scontenti, e portano guerra ai contorni, e guasto alle raccolte vicine alla falce. Il buon letterato, il pacifico tribuno, indarno citatili a scagionarsi in giudizio, si vide costretto prendere le armi; accadde sanguinosa battaglia (20 9bre), ove il popolo prevalse ai guerrieri; combattendo perirono il vecchio Colonna col figlio Giovanni e alcuni nipoti ed altri signori; sul campo il tribuno armò cavaliere il proprio figlio, aspergendolo col sangue di que’ grandi; e invece di proseguire l’inaspettata vittoria, andò a trionfare in Campidoglio, e in Araceli asciugando la propria spada, le disse: — Hai mozzato orecchia di tal capo, che non la potè tagliare papa nè imperatore». Ma al popolo che giovavano più questi trionfi? Il tribuno trovavasi assottigliato del denaro e della rendita; i mezzi di procurarsene inasprivano; onde il cardinale legato Berferudo di Deux, ripreso ardire, sentenziò Cola traditore ed eretico, e s’accordò coi baroni per affamare Roma. Coi discorsi e colla campana a stormo tentò Cola ravvivare l’entusiasmo popolesco; ma non gli bastò coraggio da sostenere la pena maggiore, quella dell’abbandono; pregò, pianse, tremò, infine abdicò il potere (16 xbre), e si chiuse in Castel Sant’Angelo coi parenti e coi pochi fedeli, sinchè trovò via a fuggire. Rimbalditi i suoi avversarj e quei che tremavano dell’esserglisi mostrati amici, lo appiccarono in effigie, e distrussero in un fiato quanto in sette mesi aveva faticosamente compiuto. Il tribuno, errante ma non malvagio, vissuto alcuni anni fra gli eremiti francescani di Monte Majella negli Appennini, ove serpeggiavano gli errori dei Fraticelli, specie di Puritani che declamavano contro all’autorità e al fasto dei pontefici, nell’entusiasmo della solitudine si credette chiamato a cooperare ad una riforma universale del mondo, che Dio stava per compire: frà Angelo lo preconizzò come destinato a grandi cose, e ad effettuare quel regno dell’amore, di cui i Fraticelli aspettavano la venuta. Per avacciare l’opera si presentò all’imperatore Carlo IV, dicendo avergli a confidare gravi segreti, incoraggiarlo a liberare l’Italia, e fornirlo d’armi, senza cui la giustizia non vale; presto un papa povero fabbricherebbe a Roma il tempio dello Spirito Santo, fra quindici anni il mondo si troverebbe unito in uno stesso ovile sotto un sol pastore, e Carlo impererebbe sull’Occidente, Cola sull’Oriente. Carlo, che avea le pretensioni non la generosità di suo padre, vilmente il fece prendere, e tradurre ad Avignone (1352). Sarebbe stato condannato se alcuno non avesse suggerito ch’egli era poeta, e il poeta è cosa sacra, a detta di Cicerone, e perciò non si deve mandare a morte. — Io esulto (scrive Petrarca) che uomini ignari delle muse concedano ad esse il privilegio di salvare di morte un uomo, odiato dai suoi giudici. Che cosa avrebbero elle potuto ottenere di più sotto Augusto nel tempo in cui ad esse si tributavano sommi onori, ed i poeti accorrevano da ogni banda per vedere quel principe unico, signore dei re ed amico dei vati? Io mi congratulo colle muse e col Renzi: ma se tu mi domandi quel che penso, ti dirò che Renzi è buon dicitore, dolce, insinuante, che si trovano pochi pensieri ne’ suoi componimenti, ma molta amenità ed un assai vago colore: credo abbia letto tutti i poeti, ma di poeta non merita il nome, più che non merita il nome di ricamatore chi porta abito ricamato. Pure tu, come me, ti gonfierai di bile al sapere che un uomo è in pericolo per aver voluto salvare la repubblica, e sorriderai udendo che il nome di poeta salvò lui, che non ha giammai composto un verso»[381]. È ancora la solita retorica; ma intanto voi intendete che il Petrarca, dopo udito che Cola «non amava il popolo, ma la feccia del popolo obbediva e secondava», dopo vistolo perseguitare i suoi Colonna, si dolse che cadesse il proprio idolo, ma non fece come coloro che più fieramente conculcano chi più ciecamente elevarono, nè si vergognò di mostrarsi amico allo sventurato. — Amavo (dic’egli) il suo valore, approvavo i disegni suoi, ammiravo il suo coraggio; mi congratulavo coll’Italia che Roma ripigliasse l’impero d’altre volte, e ne prevedevo la pace del mondo. Nè d’averlo lodato mi pento. Così avess’egli proseguito come cominciato!... Quest’uomo, che faceva tremare i ribaldi per tutto l’universo, che di bellissime speranze rallegrava i dabbene, entrò in questa Corte umiliato e vilipeso; egli una volta cinto dal popolo romano e da cospicui signori, procedea fra due satelliti; e il popolaccio accorreva per rimirare costui di cui tanto avea inteso. È il re dei Romani che lo manda al pontefice di Roma; qual dono! qual baratto! Il pontefice affidò la causa di lui a tre insigni prelati, per deliberare qual supplizio meriti colui che volle libera la repubblica. O tempi! o costumi! Non sarebbe mai punito soverchiamente del non aver proseguito con fermezza; non annichilato in un colpo solo, come poteva, tutti i nemici della libertà; non afferrato un’occasione che la pari a nessun imperatore si era presentata. Strano accecamento! si faceva appellare severo e clemente quando la repubblica avea bisogno di severità, non di clemenza. O se voleva essere clemente verso que’ pubblici parricidi, non dovea privarli dei mezzi di nuocere, e cacciarli dalle fortezze da cui traggono tanto orgoglio? Sperai ch’egli risarcirebbe la libertà dell’Italia; dacchè entrò in un sì bel disegno, lo riverii ed ammirai s’altro mai: quanto più mi arrise la speranza, tanto più m’affligge il vedermi deluso; pure non cesserò di ammirare il cominciamento. Ma che un cittadino romano si affligga nel vedere la sua patria, da regina del mondo, divenuta schiava degli uomini più vili, è titolo di accusa?»[382]. E ai Romani scriveva: — Se in luogo sicuro, davanti equo giudice, si dibattesse l’affare, io spererei chiarire che l’impero romano, benchè conculcato ed oppresso lungamente dalla fortuna, ed invaso da stranieri, esiste ancora in Roma e non altrove; e quivi starà, quand’anche di tanta metropoli non rimanesse che il nudo sasso del Campidoglio, se è una verità che il possessore di mala fede non può acquistare il diritto di prescrizione. Dunque, o cittadini, non abbandonate il vostro compatrioto in estremo pericolo, mostrate che egli è vostro, ridomandandolo con solenne ambasciata: che se in qualche cosa peccò, peccò in Roma; e a voi soli appartiene il giudizio delle colpe commesse in Roma, se a voi fondatori e cultori delle leggi, che le dettaste a tutte le genti, non si negano i comuni diritti. Che se il vostro tribuno, come i buoni son d’avviso, è degno non di supplizio ma di premio, ove più acconciamente lo riceverà che nel luogo in cui lo meritò?... Recate l’ajuto che potete e che dovete al tribuno, o (se svanì questo nome) al vostro cittadino, benemerito della repubblica per avere risuscitata quella quistione grande, utile all’universo, sepolta molti secoli, che è l’unica che conduca alla riforma dello Stato ed a cominciare un secolo d’oro. Accorrete a salvezza di chi per la vostra incontrò mille pericoli e si fe segno d’immensa invidia: pensate al suo coraggio ed al suo intento, a che ne fossero le cose vostre, e come all’improvviso, per consiglio ed opera di un solo, sia stata eretta a grandi speranze, non che Roma, l’Italia tutta; quanto grande sonasse in un subito il nome italiano; quanto diversa la faccia del mondo e l’inclinazione degli animi. Io credo che appena dall’origine del mondo in poi siasi tentata impresa più grande; e se essa fosse andata a prospero riuscimento, piuttosto divina che umana sembrerebbe»[383]. L’intercessione del Petrarca valse perchè il tribuno, assolto dalla scomunica, fosse lasciato vivere in pace. Roma riprese freno di temperanza sotto al legato e a due senatori; e la peste sopravvenuta, buon ausiliario agli oppressori, depresse gli spiriti bollenti; vi attirò gente e denaro il giubileo (1350), che il papa avea voluto rinnovare dopo cinquant’anni, affinchè ciascuno nel corso d’una vita comune potesse goderne, promettendo indulgenze plenarie anche a quelli che fossero morti per via, e comandando agli angeli di portarli subito in paradiso[384]. Coloro che lo spettacolo di tanti morti della peste avea richiamati a coscienza, o che nel pericolo aveano fatto voti, accorreano alle soglie degli apostoli, nè il rigidissimo verno li trattenne. «Il dì di Natale (dice Matteo Villani, scrivendo quel che ne vide) cominciò la santa indulgenza a tutti coloro che andarono in pellegrinaggio a Roma, facendo le visitazioni ordinate per la santa Chiesa alla basilica di Santo Pietro, e di San Giovanni Laterano, e di Santo Paolo fuori di Roma; al quale perdono uomini e femmine d’ogni stato e dignità concorse di Cristiani, con maravigliosa e incredibile moltitudine, essendo di poco tempo innanzi stata la generale mortalità, e ancora essendo in diverse parti d’Europa tra’ fedeli Cristiani. Con tanta devozione e umiltà seguivano il romeaggio, che con molta pazienza portavano il disagio del tempo, ch’era uno smisurato freddo, e ghiacci e nevi e acquazzoni, e le vie per tutto disordinate e rotte; e i cammini pieni di dì e di notte; e gli alberghi e le case sopra i cammini non erano sufficienti a tenere i cavalli e gli uomini al coperto. Ma i Tedeschi e gli Ungheri, in gregge e a turme grandissime stavano la notte a campo, stretti insieme per lo freddo, atandosi con grandi fuochi. E per gli ostellani non si potea rispondere, non che a dare il pane, il vino, la biada, ma a prendere i denari. E molte volte avvenne che i romei, volendo seguire il loro cammino, lasciavano i denari del loro scotto sopra le mense, loro viaggio seguendo: e non era de’ viandanti chi li togliesse, infino che dello ostelliere venia chi li togliesse. Nel cammino non si facea riotte nè romori, ma comportava e ajutava l’un all’altro con pazienza e conforto. E cominciando alcuni ladroni in terra di Roma a rubare e a uccidere, dai romei medesimi erano morti e presi, ajutando a soccorrere l’uno l’altro. I paesani faceano guardare i cammini, e spaventavano i ladroni; sicchè secondo il fatto assai furono sicure le strade e cammini tutto quell’anno. La moltitudine de’ Cristiani ch’andavano a Roma era impossibile a numerare: ma si stima da coloro che erano residenti nella città, che il dì di Natale e ne’ dì solenni appresso, e nella quaresima fino alla Pasqua della santa resurrezione, al continovo fossono in Roma romei dalle mille migliaja alle dodici centinaja di migliaja, e poi per l’Ascensione e per la Pentecoste più di ottocento migliaja. Ma venendo la state, cominciò a mancare la gente per l’occupazione delle ricolte, e per lo disordinato caldo; ma non sì che, da quanto v’ebbe meno romei, non vi fossono continovamente ogni dì più di dugento migliaja d’uomini forestieri. Alla visitazione delle tre chiese, le vie erano sì piene al continovo, che convenia a catuno seguitare la turba a piedi e a cavallo, che poco si potea avanzare; e per tanto era più malagevole. I romei ogni dì della visitazione offerivano a catuna chiesa, chi poco, chi assai, come gli parea. Il santo sudario di Cristo si mostrava nella chiesa di San Pietro, per consolazione de’ romei, ogni domenica e ogni dì di festa solenne; sicchè la maggior parte de’ romei il poterono vedere. La pressa v’era al continovo grande e indiscreta: perchè più volte avvenne che quando due, quando quattro, quando sei, e talora fu che dodici vi si trovarono morti dalla stretta e dallo scalpitamento delle genti. I Romani tutti erano fatti albergatori, dando le sue case a’ romei a cavallo; togliendo per cavallo il dì un tornese grosso, e quando uno e mezzo, e talvolta due, secondo il tempo; avendosi a comprare per la sua vita e del cavallo ogni cosa il romeo, fuori che il cattivo letto. Sul fine dell’anno vi concorsono più signori e grandi dame e orrevoli uomini, e femmine d’oltre ai monti e lontani paesi, ed eziandio d’Italia; e nell’ultimo, acciocchè niuno che fosse a Roma e non avesse tempo a potere fornire le visitazioni, rimanesse senza la indulgenza de’ meriti della passione di Cristo, fu dispensato infino all’ultimo dì, che catuno avesse pienamente la detta indulgenza». Lo spossamento causato dalla peste, e la ricchezza prodotta dal giubileo davano animo a Clemente VI di umiliare la rimbaldanzita nobiltà. Bertoldo Orsini e Stefano Colonna, posti a reggere la città, erano stati l’uno lapidato, l’altro vôlto in fuga dalla plebaglia, che chiedeva pane: poi la guerra tra le parti erasi rinfocata; sorsero tiranni nobili e tiranni vulgari, finchè, valendosi de’ concetti non riusciti a Cola Rienzi, erasi messo secondo tribuno del popolo e console augusto Francesco Baroncelli già scrivano del senato, che molti sediziosi mandò al supplizio, e che ben tosto da un’altra sedizione fu trucidato. Allora comparve il cardinale Egidio Albornoz (1353) nobilissimo spagnuolo, che come arcivescovo di Toledo guerreggiando i Mori nella famosa battaglia del Rio Salado, avea guadagnato gli sproni d’oro, e adesso dal papa era mandato a sottomettere la Romagna, «spegner l’eresia, reprimere la licenza, restaurare l’onore del sacerdozio, rialzare la maestà del culto divino, chetare la discordia, porgere soccorso agl’infelici, procurare la salute delle anime, disfare le alleanze ordite contro la Chiesa romana, obbligare gli usurpatori a rendere il mal tolto, e rintegrarne l’autorità colla pace o colla guerra». Tanti erano i mali da riparare, tanta la confidenza del papa nel suo legato. Più che la scarsa masnada e il denaro, lo rendevano potente la dignità, il merito personale, lo scontento dei popoli, ai quali veniva a restituire il buono stato, abbattendo gli Ordelaffi, i Manfredi e gli altri tirannelli, contro cui Clemente VI prima di morire avea lanciato la scomunica. Egli costrinse il prefetto Giovanni di Vico a cedere le città di Viterbo, Orvieto, Trani, Amelia, Narni, Marta, Camino, che aveva occupate, e ne trasse in sè la signoria. Il popolo allora (1354) lo pregò volesse dargli per rettore Cola Rienzi che seco era venuto, ed egli in fatto lo istituì senatore, perchè colla sua popolarità ravviasse qualche ordine; e Cola, trovato chi gli prestasse, comprò una banda di ducencinquanta cavalieri e ducento fanti Al solito, fu ricevuto con tanto entusiasmo, con quanto sprezzo era stato espulso; i nobili, che lo esecravano, si tennero chiotti, ed egli diede un terribile esempio col cogliere e processare il famoso capo di ventura (29 agosto) frà Moriale. Costui da molti anni desolava l’Italia colla sua banda; e temuto dai popoli, rispettato dai principi, non avrebbe mai creduto che un villano osasse cercare al castigo e all’infamia lui cavaliero, e che gli avea prestato grosse somme. Come conobbe apparecchiarsegli da senno il supplizio, pregò, minacciò, esibì; tutto invano; sicchè contrito, e con tutte le esteriorità di penitente andò alla morte, baciando il ceppo fatale, e dicendo: — Salve, o santa giustizia». Il papa fece sequestrare sessantamila fiorini che costui avea messi a frutto presso mercadanti veneziani, e invece di renderli ai popoli cui gli avea smunti, li versò nel tesoro pontifizio[385]. Cola fu da Innocenzo VI riconosciuto nobile cavaliero; e se avesse profittato della stanchezza de’ Romani, poteva ottenere la gloria ch’è la più bella dopo una rivoluzione, quella di restauratore. Ma egli erasi buttato al mangiare e bevere eccessivo; il terrore che ispirava, lo credette sommessione; dacchè poi esercitava la potenza a nome del papa, cessava di essere il balocco del popolo. Condusse le truppe ad assediare Palestrina, dov’erasi afforzato il giovane Colonna, ma fu costretto distogliersene per manco di denari. Per farne, mise imposte sul sale e sul vino, le quali colmarono lo scontento de’ Romani, che sollevatisi e gridando: — Mora il traditore che ha fatto la gabella», l’assalirono in palazzo. Non credendo gli minacciassero la vita, egli aspettò quella sfuriata in abito senatorio e col gonfalone del popolo in mano; e chiese di parlare: ma preso a sassi e fuoco, cercò trafugarsi, e scoperto (1354 8bre) fu trucidato e appeso alle forche. Così il popolo spezza i proprj idoli: eppure l’altezza del concetto e una certa generosità nell’attuarlo sceverano Cola dai sommovitori ordinarj, e lo lasciano anc’oggi tema di studj, di meditazioni, di simpatie. Il cardinale Albornoz e Rodolfo di Varano signore di Camerino, comandante all’esercito pontifizio, rimisero il freno a Roma; indi colla dolcezza e colla forza continuarono a sottomettere il patrimonio di san Pietro, il ducato di Spoleto, la marca d’Ancona e l’altre piccole città, in ciascuna delle quali avea fatto nido un tiranno. CAPITOLO CXI. Carlo IV. Il cardinale Albornoz. I condottieri italiani. Le arme da fuoco. I reali di Napoli stavano occupati nella guerra intestina, della quale vedremo appresso la causa e le vicende; il papa trescava in Avignone; l’alito repubblicano s’andava spegnendo, sicchè i tirannelli prevalevano in ogni parte. Fra essi maggioreggiava Giovanni Visconti. Oltre Milano di cui era arcivescovo, quindici grosse città possedeva: Lodi, Piacenza, Borgo San Donnino, Parma, Crema, Brescia, Bergamo, Novara, Como, Vercelli, Alba, Alessandria, Tortona, Pontremoli, Asti; e lasciando alla cheta svampar l’amore della comunale indipendenza e l’ira delle fazioni, a cose maggiori aspirava. Taddeo de’ Pepoli, bell’uomo, dottore e cavaliere aurato, umano di costumi, sereno d’aspetto, studioso e degli studiosi amico, liberale e caritatevole, sollecito per gli amici, erasi fatto gridare signor di Bologna (1337); le schede di tutte le corporazioni lo confermarono; il letterato Ferino Gallucci predicò sulla felicità di una repubblica governata da un capo. Colla libertà terminava la grandezza di Bologna, che languì sotto dominj l’uno più stupefacente dell’altro. I figli di Taddeo secondavano Ettore Duraforte, il quale, col titolo di conte, era stato deputato dal papa a sottomettere i signorotti di Romagna, e v’adoprava le bande mercenarie e tradimenti. Ma avendo arrestato Giovanni Pepoli, Giacomo, costui fratello, prese le armi (1350), e vedendo non potere altrimenti salvar la città, la vendette a Giovanni Visconti. Il popolo gridava: — Noi non volemo esser venduti»; Clemente VI facea mostra di accingersi a ripigliarla: ma le sue bande passavano a servizio del Visconti, che le retribuiva più lautamente. Ricorso ad altre armi, Clemente processò d’eresia costui, intimando rilasciasse Bologna, e scegliesse fra il potere temporale e lo spirituale. Il Visconti fece assistere i legati alla messa, che celebrò colla magnificenza di quel capo di rito; e voltandosi a dare la finale benedizione col pastorale in una, la spada nell’altra mano, disse a quelli: — Riferite al papa che colla spada difenderò il pastorale». E poichè questo insisteva a citarlo in Avignone, vi mandò forieri che accaparrassero abitazioni, e magazzini di fieno e grano per dodicimila cavalieri e seimila fanti: di che sgomentato, il papa gli fece intendere bastargli la buona volontà mostrata; e per raccomandazione e denaro lo ricomunicò (1352 — 5 maggio), e lasciogli per dodici anni Bologna, purchè retribuisse dodicimila fiorini l’anno. Vi fu posto governatore Giovan d’Oleggio, cherichetto del duomo di Milano, che i Visconti aveano allevato con tanta benevolenza da dargli il proprio nome; e accortissimo politico non men che provveduto capitano, di là menava guerra e intrighi. Lo sorreggevano i signorotti di Romagna, che avendo armi proprie e sapendo esercitarle, se ne valevano sì per proprio conto, sì per guadagnare al soldo altrui; e affine di sottrarsi all’autorità più vicina, attaccavansi al Visconti. Firenze perseverava a sostenere la libertà pericolante, sia prima coll’incorare Bologna, sia ora coll’opporsi al Biscione, che cercava avvolgerla nelle sue spire. Giovan d’Oleggio invase le valli dell’Ombrone e del Bisentino, e favorito dagli Ubaldini di Mugello, dai Pazzi del Valdarno, dagli Albertini di Valdambra, dai Tarlati d’Arezzo, rialzava dappertutto la bandiera ghibellina, tanto più da che i reali di Napoli avean altro a fare che contrastarlo. Però Siena, Perugia, Arezzo s’accomunarono con Firenze in una lega guelfa che resistette generosamente a Giovanni, finchè a Sarzana (1353) fu conchiusa pace[386]. Non meno che le repubbliche, i signori ingelosivano dell’incremento dei Visconti; e quei di Mantova, Ferrara, Verona, Padova, a sollecitazione della signoria di Venezia, fermarono alleanza per reprimerli, e chiesero appoggio all’imperatore Carlo IV. Fingendo prendere a cuore le sorti d’Italia, ma in fatto perchè ricordava che si potea smungerne danaro, diede egli ascolto ai nemici di casa Visconti e ai Fiorentini che lo invitavano; e col consenso di papa Innocenzo VI, al quale avea promesso cassare tutti gli atti di Lodovico il Bavaro, passò le Alpi con alquanti baroni (1354 — 8bre), de’ cui obblighi feudali il più ilare appunto era questa pomposa comparsa in Italia. Ma quali rimasero e amici speranti e nemici paurosi quando il videro giungere a Udine con nulla più che trecento cavalieri, e «traversar l’Italia sopra un ronzino fra gente disarmata, quasi un mercante cui preme d’arrivare alla fiera!» (M. VILLANI). Strani imperatori codesti! venivano con forza? erano odiati; senza? disprezzati. Pure a questo porporato fantoccio i letterati prodigavano latine adulazioni, i giuristi rammemoravano i diritti imperatorj, Ghibellini e tiranni volontieri faceano capo a lui, invocandolo giudice ne’ litigi. Mentre ambasciadori di tutti i paesi sciorinavangli erudite dicerie, sua maestà baloccavasi a sbucciare col temperino virgulti di salice: mal dissimulò la paura quando i Visconti faceano due o tre volte il giorno sfilare seimila cavalli e diecimila pedoni in armi e ben in arnese davanti al palazzo ove l’aveano accolto ad onoranza. S’intromise di qualche pace: a Giovanni Paleologo marchese di Monferrato confermò la signoria di Torino, Susa, Alessandria, Ivrea, Trino, e d’oltre cento castelli, e il titolo di vicario imperiale: quanto ai diritti, egli non istava a guardare per minuto; chè questi, e il titolo regio e l’imperiale gli piacevano soltanto per avere alcuna cosa da poter farne denari onde abbellire la sua Praga. A Lucca era stato governatore al tempo di suo padre, e v’avea fabbricato la bellissima fortezza di Monte Carlo, che chiude il territorio verso val di Nievole, fronteggiando i Fiorentini (1355). Ora i Lucchesi sperarono essere da lui rimessi in libertà; ma egli già s’era obbligato con Pisa, che gli avea esibito sessantamila fiorini per le spese di sua coronazione. Venuto a questa città, straziata fra Bergolini e Raspanti, e gridatone sovrano, per sospetto manda al supplizio la casa Gambacurti, che per lui s’era sagrificata: ma poco poi essendosene pentiti i Pisani, egli rinunzia alla sovranità. Altrettanto gli avviene di Siena, la cui oligarchia artigiana v’era stata indotta, come l’altra, dal timore di Firenze. E Firenze, che dapprima l’avea chiamato, si sgomentò vedendolo farsi capo della nobiltà avversa alle istituzioni cittadine (1355), e lusingare il basso popolo col promettere giustizia. I partigiani dell’imperatore asserivano che i governi municipali s’intendessero costituiti soltanto in sua assenza, e al comparire di lui cessasse ogni autorità, ogni restrizione, come avveniva (diceano) degli antichi imperatori romani. I Guelfi di rimpatto frugavano nell’erudizione la libertà, mostrando che Augusto e Tiberio s’erano mantenuti subordinati al senato e al popolo; mentre tutte le genti erano ad essi tributarie, _essi ai cittadini obbedivano_, la cui autorità li creava. I Comuni toscani, ammessi fra i primi alla romana cittadinanza, traevano di là il diritto a godere della libertà del popolo romano, in nessun modo sottoposta alla libertà dell’impero; e questo popolo medesimo, non da sè, ma la Chiesa per lui, in sussidio de’ fedeli cristiani concedette l’elezione degl’imperatori a sette principi d’Alemagna[387]: e consideravano come peccato il sottomettersi agli imperatori. Pure Firenze credette che poco nocesse il riconoscere la supremazia d’un principe che presto se n’andrebbe, e col denaro risparmiarsi una guerra; laonde giurò vassallaggio a Carlo, purchè egli la assolvesse da tutte le condanne lanciatele da Enrico VII, confermasse le leggi e gli statuti fatti e da farsi; i membri della Signoria fossero vicarj dell’imperatore, e in nome di lui esercitassero la giurisdizione; egli non mettesse piede nè in Firenze nè in altra città murata, ma s’accontentasse di centomila fiorini per riscatto delle regalie, poi di quattromila annui, finchè vivesse. I Guelfi (Matteo Villani ce l’esprime) trovavano obbrobriosa questa soggezione, sebben nominale; il popolo la sentì fra gemiti e singhiozzi; non s’interveniva alle adunanze, non si sonavano campane, e ci volle tutta la erudizione de’ prudenti per mostrare che l’indipendenza della patria non era perduta. Il Petrarca amava Carlo IV perchè in Avignone avea voluto vedere madonna Laura, e per ammirazione baciarla, mostrato molta riverenza al poeta stesso, e chiestogli la dedica del suo libro _Degli uomini illustri_; esso gli regalò alquante medaglie d’oro e d’argento d’imperatori, dicendogli: — Ecco a chi tu succedi; ecco i modelli che devi seguire. Io conosco i costumi, i titoli, le imprese di costoro; tu se’ obbligato non solo a conoscerle, ma a imitarle». Tutto classiche reminiscenze, il Petrarca desiderava restaurata la dignità d’Augusto e di Costantino, e avea scritto sollecitando Carlo: — Invano all’impazienza mia tu opponi il cangiamento de’ tempi, e lo esageri in lunghe frasi che mi fanno ammirare in te piuttosto l’ingegno di scrittore, che l’animo d’imperatore. Possono forse i mali nostri paragonarsi a quei degli antichi, quando Brenno e Pirro e Annibale sperperavano Italia? Le piaghe mortali che nel bel corpo io veggo dell’Italia, son colpa nostra e non natural cosa. Il mondo è ancora lo stesso, lo stesso il sole, gli stessi gli elementi; soltanto il coraggio diminuì. Ma tu sei eletto ad uffizio glorioso, a togliere le disformità della repubblica, e rendere al mondo l’antica sua forma: allora agli occhi miei sarai Cesare vero, vero imperatore». Consigliandolo di porsi a capo degli uomini dabbene, gli dava per esempio Cola di Rienzo. — Egli non era re nè console nè patrizio, ma appena conosciuto per cittadino romano; e benchè non distinto da titoli di antenati nè da virtù proprie, osò chiarirsi risarcitore della pubblica libertà. Qual titolo più illustre? La Toscana subito a lui si sottomise; Italia tutta seguì l’esempio; l’Europa, il mondo intero si commosse: e già la giustizia, la buona fede, la sicurezza erano tornate, già ricompariva l’età dell’oro. Aveva egli assunto il titolo più infimo, quel di tribuno; col quale se tanto potè, che non potrebbe il nome di Cesare?» E quando l’udì arrivato, non capiva in sè dalla gioja, e — Che dirò? donde comincierò? Longanimità e pazienza io desiderava nell’aspettanza mia: or comincio a desiderare di ben comprendere tutta la mia felicità, di non essere inferiore a tanta gioja. Più non sei tu il re di Boemia; il re del mondo sei, l’imperator romano, il vero cesare. Tutto ritroverai disposto com’io t’assicurai, il diadema, l’impero, gloria immortale, e la strada del cielo aperta. Io mi glorifico, io trionfo d’averti colle parole mie animato. Noi ti reputiamo italiano; nè importa dove sii nato, ma a quali imprese. E non io solo verrò a riceverti nel calar dall’Alpi, ma meco infinita turba, tutta Italia madre nostra, e Roma capo dell’Italia, ti si fanno incontro cantando con Virgilio: _Venisti tandem, tuaque expectata parenti Vicit iter durum pietas_»[388]. Or bene, questo re glorioso avea dovuto lasciare in pegno a Firenze il proprio diadema, finchè i Senesi glielo riscattarono per mille secentoventi fiorini: avea promesso al papa di non badarsi in Roma più che una sola giornata; onde, essendovi giunto alquanto prima, entrò incognito da pellegrino, tanto per visitarne i monumenti. Splendidissima fu la solennità della coronazione, gareggiando di sfarzo l’arcivescovo di Salisburgo, i duchi di Sassonia, d’Austria, di Baviera, i marchesi di Moravia e Misnia, il conte di Gorizia ed altri, calati coll’imperatore. Il quale, per nulla geloso d’abbassare la dignità imperiale davanti alla pontifizia, addestrò il cavallo del papa insieme con Giovanni Paleologo imperatore d’Oriente, venuto ad abjurare lo scisma; servì da diacono alla messa, ebbe la corona, e il dì medesimo uscì per andarsene. — Fugge senza che alcuno l’insegua (esclamava il disingannato Petrarca); le delizie d’Italia gli fanno ribrezzo; per giustificarsi dice aver giurato di non rimanere che una giornata a Roma: oh giornata d’obbrobrio! oh giuramento deplorabile! il papa, che rinunziò a Roma, non vuole tampoco che altri vi s’indugi!»[389]. I signorotti e le truppe ch’erano venute con esso, si sbandarono da che lo spettacolo fu terminato. A Pisa, di cui nominò cavaliere e vicario Giovanni d’Agnello, volle fare una scelta, coronando il retore fiorentino Zanobio Strada coll’alloro, che non valse a mantenergli la gloria di poeta. Per via, a Siena, dove volea riformare il governo, è assediato in palazzo, poi datigli ventimila fiorini perchè se ne vada: dappertutto lo insultano, ed egli inghiotte; i Visconti gli chiudono le porte in faccia, ed egli inghiotte; a Cremona è tenuto due ore fuor delle mura mentre si esaminava la sua gente, di cui solo un terzo si lasciò entrare e senz’armi; a Soncino altrettanto, e a Bergamo[390]; ed egli inghiotte, consolandosi nel pensare ai tesori che riporta nella sua Boemia. Così giunse bramato dai deboli, temuto dai forti, e partì sprezzato da tutti, sempre più convincendo che queste calate imperiali riuscivano di reciproca ruina. Allora dalla corona germanica si staccarono e il contado Venesino, venduto da Giovanna di Napoli ai papi, e il Delfinato, ceduto al re di Francia, e la Provenza, che pur essa divenne provincia francese; poi, per raccogliere i centomila fiorini che ciascun elettore pretendeva in pagamento del dare a suo figlio Venceslao il voto per l’impero, egli cedette dominj, città, diritti imperiali, sicchè ben si disse aver lui rovinato la sua casa per ottenere l’impero, poi per ringrandire sua casa rovinato l’impero, dove parve anche, colla sua predilezione per la Boemia, volere far prevalere la stirpe slava alla tedesca. Eppure forse nessun imperatore potè vantarsi d’avere goduto estesa quanto lui la prerogativa imperiale. Condusse in Germania il celebre Bàrtolo da Sassoferrato, «stella della giurisprudenza, maestro della verità, lanterna del diritto, guida de’ ciechi», e gli conferì l’allora nuovo, poi prodigato titolo di conte palatino[391], e da lui fece compilare la Bolla d’oro (1356), costituzione dell’Impero, dove venivano determinati i diritti sempre perplessi degli elettori, rendendo stabili anche le grandi dignità secolari; e il modo d’eleggere i re e coronarli ad Aquisgrana; oltre molte norme per la pace pubblica e per le diete. Con ciò sodandosi le attribuzioni e il potere degli elettori, restavano impiccioliti gli altri principi di Germania, e stabilita la divisione di questo paese in varj Stati sovrani, nel tempo che gli altri regni d’Europa stringevansi all’unità e all’ereditaria successione; si escludevano i papi dal vicariato che negl’interregni pretendevano, destinandolo al palatino del Reno e all’elettore di Sassonia. Più che non la discesa di Carlo giovò ai Fiorentini e ai Guelfi la morte dell’arcivescovo Visconti. I nipoti Bernabò e Galeazzo II succedutigli (1354) non cessarono d’ambire Firenze, ma ne furono impediti dalle guerre che ripullulavano coi signori di Monferrato, d’Este, della Scala, di Gonzaga, di Carrara. A Pavia tiranneggiavano i Beccaria, signori delle terre e dei tredici colli sulla destra del Ticino, ed ora si faceano vicarj de’ Visconti (1356), ora del marchese di Monferrato. Rottasi guerra fra questi, Pavia si chiarì pel marchese, onde fu dai Visconti assediata. E cadeva, se Jacopo Bussolari, frate eremitano che vi predicava quella quaresima, e d’uomini e donne erasi guadagnata la devozione, non avesse incorato a difendere l’indipendenza, accagionando di tutti i mali le disoneste portature femminili, la scostumatezza, l’egoismo de’ dominanti e dei dominati. Ne pianse il popolo e si emendò; i signori dapprima ne risero, poi s’ingrossirono, e dopo ch’egli ebbe guidato la gioventù a respingere gli assediatori, essi fecero opera di torgli la fama e la vita. Se ne rincalorì il valente frate, e persuadendo i Pavesi a qualunque sagrifizio per sostenere la libertà, fece cacciare i Beccaria, che allora unitisi ai Visconti, cavalcarono la città. A forze tanto superiori non potendo questa resistere, il Bussolari capitolò, stipulando il perdono ai cittadini e nulla per sè; onde, preso (1359 — 8bre), fu mandato a consumar nel _vade in pace_ d’un monastero di Vercelli[392]. Ma altrove le fortune viscontee chinavano. Genova, che nelle traversie avea fatto getto di sua libertà, nelle vittorie ne ripigliò l’amore, e si sottrasse al Visconti, risarcendo il governo a comune e il doge Boccanegra, che continuando a sottigliare la nobiltà, stette in dominio fin agli ultimi suoi giorni (1356 — 15 9bre); e i Fieschi e loro amistà dovettero acconciarsi al nuovo ordine di cose. Il cardinale Albornoz avea proseguito la guerra in Romagna, più agevolmente dopo ch’ebbe con lunga campagna sottomesso il prefetto Giovanni da Vico. Mal provveduto a denaro dalla Corte d’Avignone, vi suppliva coll’arte, coll’alternare rigore e clemenza, col guadagnarsi i signorotti per mezzo di concessioni che davano una specie di legittimità al loro dominio, e col sostenere i minori contro i grossi, e secondare le rivalità e le vendette. Eccellente cooperazione, massime contro i Malatesta, gli prestò Gentile da Mogliano signore di Fermo, che poi gli si rivoltò. Giovanni Manfredi signore di Faenza, Malatesta signore di Rimini, i Polenta di Ravenna, gli Ordelaffi di Forlì conobbero tardi il bisogno d’unirsi nel comune pericolo (1354), ma furono costretti a cedere un dopo l’uno, per lo più riservandosi di governare a vita i paesi che aveano tiranneggiati. Solo resisteva Francesco degli Ordelaffi signore di Forlì, Forlimpopoli, Cesena, Castrocaro, Bertinoro ed Imola; quando udì la campana che annunziava la sua scomunica, fece sonare tutte le altre, scomunicando egli a vicenda papa e cardinali; agli amici diceva: — Non per questo ci sa men buono il pane e il vino»; e martorò molti preti che vollero osservare l’interdetto. Insieme sollecitava tutti i Ghibellini d’Italia, assoldò le bande del conte Guarnieri, e dichiarossi disposto a difendere sin all’estremo una città dopo l’altra. Affidò Cesena a sua moglie madonna Cia (1356), degli Ubaldini signori di Susinana, «che si chiuse nella rôcca con Sinibaldo suo giovane figliuolo, e con due piccoli nipoti, e con una fanciulla grande da marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano, e cinque damigelle. Ed essendo stretta d’assedio, e combattuta da otto edificj che continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo sentimento d’alcun soccorso, e sapendo che le mura della rôcca e delle torri di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si teneva, atando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa durezza, Vanni suo padre andò al legato, e impetrò grazia di andar a parlare colla figliuola, per farla arrendere con salvezza di lei e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre e uomo di grande autorità e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dèi credere ch’io non sono venuto qui per ingannarti, nè per tradirti del tuo onore. Io conosco e veggo che tu e la tua compagnia siete agli estremi d’irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro che di trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la rôcca al legato. E sopra ciò le assegnò molte ragioni perchè ella il dovea fare, mostrando ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe vergogna, trovandosi in così fatto caso. La donna rispose: _Padre mio, quando voi mi deste al mio signore, mi comandaste che sopra tutte le cose io gli fossi ubbidiente: e così ho fatto in fino a qui, e intendo di fare fino alla morte. Egli m’accomandò questa terra, e disse che per niuna cagione io l’abbandonassi, o ne facessi alcuna cosa senza la sua presenza, o d’alcun secreto segno che m’ha dato. La morte e ogni altra cosa curo poco, ov’io obbedisca a’ suoi comandamenti_. L’autorità del padre, le minaccie degli imminenti pericoli, nè altri manifesti esempj di cotanto uomo poterono smovere la fermezza della donna; e preso commiato dal padre, intese con sollecitudine a provvedere la difesa e la guardia di quella rôcca che rimasa l’era a guardare, non senza ammirazione del padre e di chi udì la fortezza virile dell’animo di quella donna»[393]. Alfine essa fu costretta a capitolare (21 giugno); l’Ordelaffi stesso, perduta ogni speranza nelle bande mercenarie, si rese a discrezione, e fu assolto; e la Romagna, ove l’Albornoz non avea trovati soggetti che Montefalco e Montefiascone, tutta rientrò nell’obbedienza del pontefice. A ragione dunque il cardinale era ricevuto con sommi onori dappertutto, massime ad Avignone, ove fu acclamato _padre della Chiesa_ in senso così diverso dall’antico. Restava ancora Bologna sotto la verga di ferro di Giovanni d’Oleggio, il quale, dopo che, a un suo ordine, vide affluire l’onda di cittadini a consegnare le armi, prese tanta baldanza che li menò in campo con soli bastoni, e colà distribuì loro le armi, che poi ritogliea dopo la battaglia. In tempo di tante ambizioni riuscite, perchè egli pure non avrebbe tentato sua ventura? Ribellatosi a’ Visconti, si fece gridare signore di Bologna; reprimeva con estremo rigore le trame interne, mentre guardavasi dagli stili e dalle lusinghe di Bernabò, cui nel tempo stesso mandava blandizie e soccorsi contro il marchese di Monferrato. Bernabò, che mai non conobbe gratitudine, non gli sapeva perdonare la rivolta; e sbarazzatosi del marchese di Monferrato col sottrargli a denaro i mercenarj del conte Lando e di Anichino, li lanciò addosso all’Oleggio (1360). Questi, assalito da tremila cavalieri, millecinquecento Ungari, quattromila fanti, mille alabardieri, non amato dai popoli, non soccorso da vicini, esibì vendere Bologna a chi la volesse; e l’Albornoz strinse il contratto, assegnando a vita all’Oleggio Fermo e il suo territorio. In Bologna fra i soliti schiamazzi di _Viva la Chiesa_ fu rimesso il governo municipale e richiamati gli esuli: ma Bernabò adontato proseguì guerra di devastazione; e l’Albornoz, non potendo trar soccorsi nè da Avignone nè dai vicini potentati, dopo consunti trentamila ducati e gli argenti suoi proprj, chiamò settemila Ungheri, feccia di gente, che sperando le indulgenze assassinarono il bel paese. Bernabò seppe comprarle per sè, e mentre ad Avignone movea lamenti che gli si negasse una città per dodici anni concessa a suo zio, si sfogava perseguitando gli ecclesiastici; nè quelle codarde guerre furono cessate tampoco dalla peste, che recata dalle bande inglesi, qui si rinnovò nel 1361, e vuolsi che nella sola Milano troncasse settantasettemila vite. Bernabò, che se n’era schermito col sequestrarsi rigorosamente nel castello di Melegnano, appena essa cessò ricomparve, e gridò — Voglio Bologna», e cercò sorprenderla, comprando bande e rialzando i vinti signorotti: sicchè l’Albornoz (1362) rannodò i signori della Scala, d’Este, di Carrara a difendere la Chiesa, di cui non erano ombrosi, contro il Visconti temuto, e allora scomunicato da Urbano V: la lega contro di lui fu sostenuta da una bandiera imperiale, e prese a stipendio la Grande Compagnia; e la battaglia di San Rafaello (1363 — 16 aprile) tolse a Bernabò la speranza di sovrastare ai pontifizj. Egli non cessava di negoziare ad Avignone, mentre combatteva con variati successi. Godeva allora gran reputazione di santità Pier Tommaso di Sarlat, dalla povertà salito colla virtù e colla predicazione al favore del papa, che lo deputò nunzio apostolico nel regno di Napoli, poi in Germania, in Bulgaria, e che infervoratosi a crociar l’Europa contro i Turchi allora minaccianti, riconciliò i Veneziani col re d’Ungheria, cercò riunire la Chiesa greca colla latina, guidò spedizioni contro que’ barbari, e trasse il re di Cipro in Europa per sollecitare la crociata. A questa recava impedimento la guerra contro Bernabò, logorando le entrate della Chiesa, onde si cercò pacificarlo inviando a Milano Pier Tommaso[394]; e fu segnato un accordo (1364 — 8 marzo) ove Bernabò rinunziava a Bologna, ma contro l’enorme prezzo di cinquecentomila fiorini, la restituzione dei prigionieri, e che l’Albornoz fosse rimosso da quella legazione. Costui, destro anche nella politica, avea raccolto in Roma i deputati di tutte le città sottoposte, e pubblicate per loro le _Costituzioni egidiane_ (1357), che rimasero il vero diritto pubblico della Romagna: accolte con applauso unanime, ebbero credito pari al gius canonico, e i papi ne raccomandarono poi sempre l’osservanza, come opportunissima agli Stati pontifizj. Non impiantava di nuovo, come si pretende oggi, ma riformava il vecchio col senso pratico e colla conoscenza degli uomini e delle cose. Avendo il papa domandato conto all’Albornoz delle somme spese in quei quattordici anni, esso gli mandò un carro di chiavi delle città soggettate. Alla morte di Innocenzo VI avrebbe potuto facilmente succedergli; ma non se ne diè briga, e continuò a regolare le Marche e il Patrimonio di san Pietro finchè morì a Viterbo (1367 — 24 agosto), legando moltissime limosine e di che fondare in Bologna un collegio con giardino e sale e ogni occorrente per ventiquattro giovani spagnuoli. L’Italia restava ancora alla mercede de’ venturieri. Corrado Wirtinger di Landau militava nelle bande di frà Moriale; e allorchè questi perì sotto la mannaja di Cola Rienzi, le conservò attorno a sè coll’ordine a cui quegli le aveva abituate, e rese terribile all’Italia i nomi di conte Lando e di Grande Compagnia, che fu dato a lui ed a’ suoi. Una bella Tedesca pellegrinando a Roma pel giubileo, era stata a Ravenna violentata da Bernardino da Polenta, e non volle sopravvivere all’oltraggio. Due suoi fratelli scesero in Italia, senz’altra provvigione che il proprio sdegno; lo comunicarono al conte Lando, il quale, a vendetta de’ suoi compatrioti, menò la Compagnia a desolare il Ravennate. Ma avendo il tiranno raccolte le persone e i viveri nelle terre murate, la Compagnia penuriando dovette passare altrove, e mandò a sperpero gli Abruzzi, la Puglia, Terra di Lavoro, ingrossata dai molti a cui giovava quel facile e impunito rubare. Re Luigi di Napoli patteggiò vilmente darle settantamila fiorini in due termini, fin allo scadere de’ quali rimanesse pure a carico del Reame. Uscitone, minacciò or questo or quello, finchè si allogò colla lega contro Bernabò Visconti; ma invece di uniformarsi ai divisamenti de’ suoi compratori, fermavasi dove più roba e miglior vino e più belle donne, e raccoglieva gente rea e famosa di malfare. Bernabò trasse fuori dalla lunga cattività Lodrisio Visconti, il gran vinto di Parabiago; e costui coll’autorità del nome suo raccolse molte barbute, e al passaggio del Ticino vinse i nemici (1365), sino ad avere prigioniero il conte Lando. I venturieri lo riposero subito in libertà; ma Bernabò ebbe l’arte di trarlo dalla sua. Fatta la pace, la Compagnia rimasta sciopera battè la marciata verso Toscana. Quivi era morto Saccone de’ Tarlati, che fino ai novantasei anni dal castello di Pietramala dava il motto ai Ghibellini di tutta Toscana; i quali dominavano ancora in Pisa, sempre astiosa a Firenze. Come questa sopra Pistoja, Prato, Volterra, Colle, San Miniato, così Perugia voleva principare sopra Todi, Cortona, Città di Pieve, Chiusi, Assisi, Foligno, Borgo San Sepolcro. Ma Cortona, allora padroneggiata da Bartolomeo di Casale, si difese valorosamente; e Siena (1358), presa parte con essa, chiamò Anichino Bongardo, altro famoso avventuriero, ed essendo questo battuto, invitò la Grande Compagnia. Il conte Lando, che già dai Fiorentini aveva riscosso cinquantamila zecchini per lasciarli quieti tre anni, allora li richiese del passo sul loro territorio; ma essi, presone giusto sgomento, s’accordarono coi conti Ubaldini e Guidi per afforzare i varchi degli Appennini. La banda si difilò dunque per val di Lamone; ma giunta che fu al sentiero affatto scosceso della Scalella (24 luglio), i contadini cominciarono a rotolare dalla montagna sassi, munizione plebea, sicchè sgominarono quel corpo, trecento cavalieri uccisero, fecero moltissimi prigionieri e lauto bottino, e il Lando stesso ferirono. I Fiorentini non vollero mentire la fede impegnata di non molestarla, sicchè la Compagnia, dopo gravissime perdite, si raggomitolò, e Lando, troppo presto guarito, ebbe raunati cinquemila cavalieri, mille Ungheri, duemila uomini di masnada, oltre dodici migliaja di servi e bagaglioni, coi quali diede addosso ai Fiorentini (1379), disopportunamente umani. Risoluti di por termine a quel nuovo e schifoso genere di tirannide, essi fecero appello agli Italiani, che, come per imitazione aveano tremato, allora per imitazione ripigliarono coraggio. S’avvide del pericolo il Lando, ed esibì fin compensare a denaro se alcun guasto i suoi facessero nell’attraversare le terre de’ Fiorentini; ma essi ricusarono, e mandato a dare alle armi per tutto, gli uscirono incontro guidati da Pandolfo Malatesta di Rimini. Quando vennero trombetti da parte del Tedesco, recando un guanto sanguinoso su bronconi spinosi, e provocando levarlo chi si sentisse cuore di combattere col conte, Pandolfo lo prese, e schierò l’esercito in modo, che Lando diede addietro quanto il più tosto potè, bruciando il campo, e a forza di tattica riuscì a sfilare verso il Monferrato. Da quel punto la Grande Compagnia andò sfrantumata; ma «pare che la penna non si possa passare senza far memoria delle compagnie; chè maravigliosa cosa è il vederne e udirne tante creare l’una appresso dell’altra in flagello de’ Cristiani, poco osservatori di loro legge e fede» (M. VILLANI). Perocchè allora salse in grido quella di Anichino Bongardo. Traditore di amici e di nemici secondo gli conveniva, primamente avea servito al marchese di Monferrato contro Galeazzo Visconti, poi gli ruppe amistà e fede; sicchè quello chiamò nuovi pedoni, e furono Inglesi, che la pace di Bretigny tra la Francia e l’Inghilterra avea lasciati senza condotta. Costoro ebbero nome di Compagnia Bianca, e per capitano Alberto Sterz. «Caldi e vogliosi, usi agli omicidj ed alle rapine, erano correnti al ferro, poco avendo loro persone in calere. Ma nell’ordine delle guerre erano presti ed obbedienti ai loro maestri, tuttochè nell’alloggiarsi a campo, per la disordinata baldanza e ardire poco cauti, si ponessero sparti e male ordinati, e in forma da lievemente ricevere da gente coraggiosa dannaggio e vergogna. Loro armadura quasi di tutti erano panzeroni, e davanti al petto un’anima d’acciajo, bracciali di ferro, cosciali e gamberuoli, daghe e spade sode, tutti con lancia da posta, le quali, scesi a piè, volentieri usavano, e ciascuno di loro aveva uno o due paggetti e tale più, secondo che era possente. Come s’avieno cavato l’arme di dosso, i detti paggetti di presente intendevano a tenerle pulite, sì che, quando comparivano a zuffa, loro arme pareano specchi, e per tanto erano più spaventevoli. Altri di loro erano arcieri, e i loro archi erano di nasso e lunghi, e con essi erano presti ed obbedienti, e facevano buona prova. Il modo del loro combattere in campo era quasi sempre a piede, assegnando i cavalli ai paggi loro, legandosi in schiera quasi tonda, e tra due prendieno una lancia, a quello modo che con gli spiedi s’aspetta il cinghiale; e così legati e stretti colle lancie basse a lenti passi si facieno contro i nemici con terribili strida, e duro era il poterli snodare. E per quello se ne vide per la sperienza, erano più atti a cavalcare di notte e furare terre, che a tenere campo; felici più per la codardia di nostra gente, che per loro virtù. Scale avieno artificiose, che il maggior pezzo era di tre scaglioni, e l’un pezzo prendeva l’altro a modo della tromba, e con essi sarebbero montati in su ogni alta torre»[395]. Questa banda, che trent’anni continuò a campeggiare per chi la pagasse, cominciò dal fare tal guasto nel Novarese, che Galeazzo II Visconti, non avendo potuto opporle altrettante masnade, stimò meglio ardere dodici castelli, incapaci a difendersi. Ben cinquantatre ne distrussero gl’implacabili Inglesi, e per due anni seguitarono le devastazioni, piacendosi di troncare i corpi, finchè gli abbandonavano ai cani o al fuoco. Nel combatterli a Briona periva il conte Lando (1363), e i suoi seguitarono Lucio Lando fratello di lui, il quale occupò Reggio, e invece di darlo agli Estensi, a cui soldo stava, lo vendette per venticinquemila fiorini a Bernabò. La Compagnia Bianca passò poi a servire i Pisani, cioè a menare ad eguale sperpero la media Italia. A loro si congiunse il Bongardo, e una notte Firenze atterrita dall’alto delle mura li vide consumare un infernale bagordo al chiaror di fiaccole e degl’incendj, e quivi Bongardo farsi cingere gli sproni di cavaliero, poi egli stesso cingerli ai più prodi del campo. Esso Bongardo e lo Sterz formarono la Compagnia della Stella, della Bianca restando a capo quel Giovanni Acuto di cui già parlammo (Cap. CVIII); e fu una gara di far peggio: Provenzali, Guaschi, Bretoni furono condotti giù da altri, e per lunghi anni la penisola restò in costoro balia, qualunque parte guerreggiante avendo al soldo truppe di diversissima nazione. Aggiungi di diversissima disciplina, conservando ognuna le native usanze. Ma per l’ordinario gli eserciti si componevano di militi e di barbute: queste, così dette dall’elmo che portavano senza cimiero, ma con ventaglia davanti e criniera in alto, si servivano d’armi semplici, piccoli cavalli e un solo sergente col palafreno; a differenza del milite, armato pesante e seguito da due o tre cavalli. Vi si unirono poi gli Ungheri, aventi ognuno due piccoli cavalli, lungo arco, lunga spada, pettiera di cuojo, agili al corso e trascuranti d’ogni agio. L’Acuto, superiore d’accorgimento e di militare maestria ai capi antecedenti, primo introdusse qui di contare i cavalieri per lancie, ognuna delle quali componevasi di tre uomini, con cotte di maglia, petti di acciajo, di ferro gli schinieri, l’elmo, i bracciali, grande spada e daga, e una lunga lancia che sostenevano tra due[396]. Le marcie facevano a cavallo per cagione delle gravi armature; ma sul campo per lo più combatteano pedestri, unendo così alla prontezza della cavalleria la solidità della fanteria. Neppur la pace sospendeva i mali de’ popoli, anzi i disordini di quella erano meno sopportabili che non i sofferti nella guerra; e quel brutale valore, non accessibile a verun sentimento nobile di patria o di libertà, aveva indebolito la stima dovuta al vero coraggio, che nasce dalla coscienza di una causa giusta. Urbano V papa esortava i Fiorentini e gli altri a una lega contro le bande; e con ordini e brevi insistette, finchè fu conchiusa coll’accordo di formare una milizia nazionale (1366 — 7bre), e ridurre tutti i viveri in luoghi castellati[397]. Ma nè scomuniche nè indulgenze tolsero che presto la lega si scomponesse; e nerbo e obbrobrio delle guerre restarono ancora i mercenarj. I costoro guasti non meno che i guadagni aveano presto eccitato i nostri a formare bande, e mettersi anch’essi a servizio di ventura, per utilizzare l’attività e il coraggio, cui erano mancate più nobili occasioni, e per acquistare preda o anche dominj. Abbiamo già veduto Lodrisio Visconti ergersi capo d’una compagnia di Tedeschi: Ambrogio, bastardo di Bernabò Visconti, rinnovò la compagnia di San Giorgio, ma ben presto fu vinto e carcerato a Napoli; e de’ suoi, seicento rimasero prigioni a Roma, ove il papa ne fece strozzare trecento, e poi anche gli altri perchè tentarono fuggire[398]. Ma que’ signori romagnuoli che dicemmo dediti alle armi, furono i primi che unissero bande nostrali. Astore Manfredi signore di Faenza radunava sul Parmigiano la Compagnia della Stella di venturieri romagnuoli; ed essendosi avventato sopra Genova, nella valle del Bisagno fu sterminato. Giovanni d’Azzo degli Ubaldini, uno dei meglio esercitati guerrieri, ne accozzò un’altra sugli Appennini, ma precoce morte il rapì: altre Pandolfo Malatesta, altre Boldrino da Panicale, accorrendo ove fosse da combattere o da rapinare. Qualche gentiluomo coi soli suoi uomini allestiva una lancia spezzata, e quando l’avesse compita, cioè di trenta lancie che formavano sessanta uomini a cavallo, andava a servire da volontario a questo o a quello. Talvolta una famiglia intera metteasi a tal guadagno; come nel 1395 il Comune di Firenze soldava la squadra de’ Tolomei di trenta lancie da tre cavalli ciascuna[399]. Allora i nostri si videro aperta un’altra via di guadagno, si generalizzò una razza di bravacci, aventi per mestiero la guerra e per sistema la prepotenza, tutti arme e far soldatesco e discorsi di valenteria, gran barba, cimieri immaginosi, nomi altisonanti, come Fracassa, Fieramosca, Lanciampugno, Animanegra, Spaccamontagna, Maccaferro, Rodimonte, Abbattinemici. Alberico di Barbiano, signore delle vicinanze di Bologna, ne’ fatti di guerra senza pari valoroso, raccolta una banda tutta di suoi vassalli ed amici, potè affrontare le oltramontane; vintele a Marino, entrò in Roma, che dopo secoli vedeva un primo trionfo d’Italiani; meritò dal papa un’insegna con iscritto _Italia liberata dai Barbari_; anzi fu detto non arrolasse se non chi giurava odio agli stranieri. Quella banda divenne semenzajo d’insigni capitani, quale Jacopo Del Verme milanese, Facino Cane di Casal Monferrato, Ottobon Terzo, e più famosi Braccio di Montone e Attendolo Sforza, che furono istitutori di due scuole di guerra. L’introduzione di capitani nostrali portò un miglioramento, giacchè essi, cernendo non i primi venuti e feccia d’uomini malfattori, ma persone conosciute, o parenti e vassalli e fazionieri, poterono meglio mantenere la disciplina; si apprese ad osservar fedeltà a una bandiera, e non volerla disonorata; e l’emulazione degli avanzamenti, le cure del buon nome, la riverenza ai capi, imposero qualche regola a quel valore brutale. D’altro lato però i nostri non istettero paghi a spogliare amici e nemici come faceano gli oltramontani, ma vi mescolarono passioni proprie, ire di parte, vendette ereditarie, studio di novità, ambizione di qualche brano d’un paese che ormai si spartiva a sciabolate. E di fatto tra poco furono veduti acquistar signorie, e il più fortunato di loro ereditare il trono visconteo. Ma all’arte antica dell’uccidere e farsi uccidere veniva a dare il crollo l’invenzione della polvere. Del vero nitro e degli effetti suoi non mostransi conoscenti gli antichi, nè del fabbricare il salnitro, cioè tramutare il nitrato di calce in nitrato di potassa. Forse all’Europa ne pervenne notizia dall’India e dalla Cina, ove il salnitro incontrasi naturale; ma chi insegnasse a mescolarne settantacinque parti con quindici e mezzo di carbone, e nove e mezzo di solfo, e formarne la polvere tonante, non consta; il frate Schwarz tedesco, che dicono lo trovasse a caso, pare da collocarsi tra gli enti ideali. Più probabile è siasi appresa dagli Arabi, i quali la tenessero dalla Cina; e poichè quel popolo toccava in diversi punti la cristianità, in più d’un luogo introdusse le pratiche sue; onde la vediamo comparire in distanti contrade a un tratto, e senza che veruna pretenda al vanto dell’invenzione. Il primo ingegno di applicar la polvere alla guerra furono i cannoni; avanti il 1316 li menziona Giorgio Stella, autore ufficiale di storie genovesi; e un documento fiorentino del 1326 parla di palle di ferro e _cannones de metallo_[400]. Nel 58 alla guerra di Forlì i papali lanciavano bombe, e una fonderia di cannoni aveasi a Sant’Arcangelo in Romagna: nel 76 Andrea Redusio porge esatta descrizione della bombarda[401]. Nell’84, in cui primamente gli Ottomani adoprarono artiglierie, i Veneziani se ne valsero contro Leopoldo d’Austria, poi nella guerra di Chioggia, che mal si crede la prima ove servissero: secondo il Corio, Gian Galeazzo nel 1397 possedea già da trentaquattro pezzi fra grossi e sottili. I cannoni, che non abolirono affatto i tormenti bellici antichi, si faceano di lastre, incassate entro doghe di legno e cerchiate di ferro; dappoi si fusero di ferro; indi si arrivò a farli d’una lega di rame e stagno. Al principio del 1400, il più grosso non eccedeva le cenquindici libbre; ma verso il 1470 ne apparvero di giganteschi[402]. Allegretto Allegretti, al 1478, narra come a Siena «si provò la nostra bombarda grossa di due pezzi, la quale fece Pietro detto il Campana, ed è lunga tutta braccia sette e mezzo, cioè la tromba braccia cinque, e la coda braccia due e mezzo; pesa il cannone libbre quattordicimila, e la coda undicimila, somma in tutto libbre venticinquemila; gitta dalle trecensettanta alle trecentottanta libbre di pietra, secondo pietra»[403]; e segue a dire della bombarda del papa, lunga braccia sei e un terzo, di palla libbre trecenquaranta. Coi cannoni non si pensava in origine che a pareggiare le bricolle, i mangani e le altre macchine della balistica antica, della quale si raccontano prodigi[404]; laonde credeasi meglio riuscire col darvi enorme grossezza; ed anche eliminando le asserzioni vaghe, troviamo precisa menzione di smisurati projetti di pietre, o anche di ferro e di bronzo[405]. Talvolta, oltre il nome terribile di Vipera, Lionfante, Diluvio, Rovina, Terremoto, Grandiavolo, Non-più-parole, davansi loro figure stravaganti; una nel castello di Milano fu colata di ferro «in forma d’un lione, proprio a vedere pare che a giacere stia» (FILARETE); e vi si scriveva o il proprio lor nome o qualche motto[406]. Anche sulle palle faceansi parola o figure, lo che rendeva sempre meno esatti i tiri. Si variavano pure di costruzione, e la serpentina, la colubrina, il falconetto, il basilisco, l’aquila, il girifalco, l’aspido, il saltamartino, il cacciacornacchia... indicavano differenti foggie di pezzi che non prima del secolo passato ebbesi l’accorgimento di tutti ridurre a un calibro solo o due. Per caricarli svitavasi la coda dalla tromba, vi si versava la polvere, chiudendola con un cocchiume, indi si tornava ad avvitare, e si sovrapponea la palla; tutto ciò dopo aver rinfrescata la canna con acqua o coltri bagnate. Quanta fatica e perditempo! Piantati poi in un luogo, non si sapea mutarli giusta il bisogno; e si notò come un gran caso che Francesco Sforza, assediando Piacenza, traesse in una notte sessanta colpi di bombarda. Valeano dunque soltanto contro le mura, fabbricate per resistere alle catapulte, e che allora si dovettero ingrossare; ma per tutto il secolo XV non si provò bisogno di mutar le fortificazioni da semplici fossi e torri rotonde in bastioni ad angoli ed opere avanzate. Agli eserciti poi sarebbero stati piuttosto d’impaccio quando fin venti paja di bovi si voleano per tirare una colubrina da 60, la quale poi non facea meglio di quaranta colpi al giorno. Infine si trovò l’artiglieria volante, e il Davila ne fa merito a Carlo Brisa bombardiere normanno; ma fra noi la vediamo già alla battaglia della Molinella nel 1468. I Francesi, oltre quelli montati su carretti, fecero cannoni fin da portarsi da un soldato solo, e nella guerra d’Italia n’adoperarono d’agevolissimi, fatti d’una canna di rame spessa quanto uno scudo, e chiusa in un astuccio di legno che si vestiva di cuojo. Un par di bovi li traeva, un altro pajo menava il carro colle munizioni e colle palle di pietra, che nel 1500 si fecero poi abitualmente di ferro. Sigismondo Malatesta nel 1460 formò le bombe di bronzo, in due emisferi connessi con zone di ferro, e coll’esca al bocchino, lanciandole da mortaj coll’anima incampanata. Nel 1524 Giambattista Dellavalle di Venafro insegnò a fondere queste granate[407]. Non si tardò a collocare bombarde sulle navi. Strade sotterranee per cui traforarsi nelle piazze, cunicoli con cui scalzar le mura e le torri sicchè diroccassero, erano in uso fra gli antichi e nel medioevo, e presto si pensò applicarvi la polvere. Il primo concetto ne nacque il 1405 durante l’assedio di Pisa, ma senza effetto nè seguito; e solo i Genovesi ne vantaggiarono all’assedio di Sarzanello nel 1487, poi gli Spagnuoli per far volare Castel dell’Ovo nel 1502. L’illustre e sfortunato Pier Navarro perfezionò quest’arte delle mine. Secondo la cronaca del canonico Giuliano, i fuorusciti di Forlì nel 1331 _balistabant cum sclopo versus terram_: la estense al 34 racconta che il marchese Rinaldo d’Este contro Bologna _præparare fecit maximam quantitatem sclopetorum, spingardarum, etc._; nel 46 era munita di schioppi la torre al ponte di Po a Torino. Ed erano canne di bronzo, poi di ferro, con un forellino, al quale s’applicava una miccia. Evitavasi il rimbalzo mediante un risalto che appoggiavasi contro la forcina di ferro, entro la quale si fissava l’archibuso per iscaricarlo. Avendo il fantaccino occupata una mano all’arma, l’altra alla forcina, si dovè provvedere alla miccia col porla in bocca ad un draghetto, che allo scattare d’una molla scoccava sopra la polvere dello scodellino. La macchina pesava da cinquanta libbre, onde difficilissima a far giocare. S’aggiunga che rozzamente fabbricavasi la polvere, rozzamente le canne; non sapevasi nè mantenere il fuoco, nè usare il fucile come arma difensiva; e il maggior vantaggio derivava dallo spaventare i cavalli. Perciò non si dismisero le armi antiche, nè lo Svizzero avrebbe deposto la sua picca, o il Genovese il suo arco. Il milanese Lampo Birago, in un trattato manoscritto sul far guerra ai Turchi, antepone la balestra allo schioppo, atteso che questo non vaglia se non usato da vicino e con comodità; in battaglia mal si riesce a caricarlo, e peggio a toglier la mira; l’umidità guasta la polvere e spegne la miccia, nè ha gittata maggiore della balestra, e lascia scoperto il soldato mentre carica. A tali sconci riparavasi via via, per modo che i balestrieri andavano scemando e crescendo gli schioppi: nel 1422 Sigismondo imperatore menò in Italia cinquecento moschettieri, nel 49 la milizia de’ Milanesi n’avea ventimila, ma solo al 1680 si generalizzarono gli archibusi colla pietra focaja. La carabina sembra dovuta agli Arabi, e altri vogliono ai Calabresi, che ne armavano le barche dette carabe. Fin dal 1550 trovansi le pistole, forse denominate da Pistoja ove s’inventarono. L’Italia non ignorava le cartuccie, e Gianfrancesco Morosini ambasciador veneto in Savoja, nel 1570 riferisce alla Signoria: — Oltre alli marinari che mette sua eccellenza (Emanuel Filiberto) per ogni galera, suole mettervi sino a ottanta ovvero cento soldati per combattere, e a questi fa portar due archibugi per uno, con preparazione di cinquanta cariche, acconciate in modo con la polvere e palla insieme ben legate in una carta, che, subito scaricato l’archibugio, non ci è altro che fare, per caricarlo di nuovo, che mettere in una sola volta quella carta dentro la canna con prestezza incredibile; e ciò in tempo di bisogno fa fare da uno delli forzati, avvezzato a questo per ogni banco; onde, mentre che il soldato attende a scaricar l’uno archibugio, il forzato gli ha già caricato e preparato l’altro, di maniera che senza alcuna intermissione di tempo vengono a piovere l’archibugiate con molto danno dell’inimico e utile suo»[408]. Ma l’arma da fuoco pareva ed inumanità per le micidiali ferite, e vigliaccheria perchè l’ultimo fantaccino poteva uccidere il meglio valoroso ed esercitato campione. Di fatto essa poneva in formidabile eguaglianza il villano col barone, il quale sin allora l’aveva calpestato impunemente dal catafratto destriero. Per tali cagioni lentamente si perfezionarono le armi da fuoco, e tardarono a portare radicale mutamento nell’arte della guerra. Come a proteggere dal cannone s’ingrossarono enormemente le muraglie, così i cavalieri rinforzarono le armadure da parere incudini: ma presto se ne vide lo sconcio, e principalmente per insinuazione del capitano Giorgio Basta vennero le corazze abbandonate ai supremi comandanti e ad un corpo distinto[409]; sicchè crebbe la difficoltà di sostenere un posto, e le battaglie divennero più speditive. FINE DEL TOMO SETTIMO INDICE LIBRO NONO Capitolo XCIV. L’Italia dopo caduti gli Hohenstaufen. I Feudatarj. Torriani e Visconti. _Pag._ 1 » XCV. Toscana » 33 » XCVI. Le repubbliche marittime. Costituzione di Venezia » 57 » XCVII. Prosperamento delle repubbliche in popolazione, ricchezze, istituti » 91 » XCVIII. Costumi. — Liete usanze. — Spettacoli » 114 » XCIX. Belle arti » 160 » C. Lingua italiana » 205 » CI. Italiani letterati. Primordj della poesia nostra fino a Dante » 225 » CII. Ingerenza francese. — I Vespri siciliani, e la guerra conseguente » 262 » CIII. Bonifazio VIII. — Dante politico e storico » 280 LIBRO DECIMO Capitolo CIV. Gli storici del medioevo » 321 » CV. Calata di Enrico VII » 365 » CVI. Roberto di Napoli. — Uguccione. — Castruccio. — Lodovico il Bavaro. — Giovanni di Luxemburg » 382 » CVII. I tiranni. I figli di Matteo Visconti. Gli Scaligeri. Casa di Savoja » 404 » CVIII. Le compagnie di ventura » 448 » CIX. Incrementi di Firenze. Il duca d’Atene. La Morte nera. Petrarca e Boccaccio » 467 » CX. Roma senza papi. — Cola di Rienzo » 520 » CXI. Carlo IV. Il cardinale Albornoz. I condottieri italiani. Le arme da fuoco » 552 NOTE: [1] _Archivio storico_, XV. 53; SAVIOLI, _St. di Bologna_ ad ann. 1266, e doc. 749. [2] Dante fra i negligenti in Purgatorio mette Rodolfo, c. VII. Colui che più siede alto, e fa sembianti D’aver negletto ciò che far dovea, E che non move bocca agli altrui canti, Rodolfo imperator fu, che potea Sanar le piaghe ch’hanno Italia morta. [3] Nel 1111 Enrico IV concede alla _città_ di Torino e a’ suoi abitanti la strada romana, dalla terra di Sant’Ambrogio in giù, talchè nessuno possa molestarceli (_Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 737); e nel 1116 le conferma la libertà che godeva al tempo di suo padre; _in eadem libertate in qua hactenus permanserunt, deinceps permanere et quiescere collaudamus_; salva la solita giustizia, cioè giurisdizione del vescovo (_Ib._ 742). Nel 1136 Lotario II concedeva altrettanto. _Quemadmodum _antiquitus_ ipsis statutum et sancitum est, ut eandem quam ceteræ civitates italicæ libertatem habeant_. Viene poi l’immunità di Federico Barbarossa, ma sembra che i Torinesi se ne redimessero, poichè nel 1193 Arduino vescovo concede ai consoli di Torino diritto di guerra e pace sul castello e borgo di Rivoli e Testona, e su tutti gli altri del vescovado, e gli assolve dal pedaggio che pagavangli a Testona (_Ib._ 1003). Alla Lega Lombarda non prese parte Torino fin al 1226; poi presto cadde ai duchi di Savoja. I ricchissimi possessi di quel vescovo sono divisati nel privilegio del Barbarossa del 26 gennajo 1159 (_Ib._ 815). [4] Nel 1111 già troviamo regolarmente costituito il popolo d’Asti; nel qual anno i canonici della cattedrale fecero una convenzione col popolo, giurata e comunicata al vescovo, ai consoli di tutta la città e al popolo, tendente a restituire ai canonici la terra di Garsia a quelli appartenente. L’aveva il popolo occupata, sicchè i canonici voleano abbandonare la città; quando il vescovo, avuti a sè i consoli e i più prudenti, con ammonizioni e preci li divisò da tale proposito. Nel 1123 i consoli d’Asti, che erano Oberto _Vexillifer_ (probabilmente Alfieri), Giuseppe giudice, Marchio della Torre, Bonomo di Vivario, Pietro Gallo, Belbello, Bailardo, Ainardo di San Sisto, Ribaldo curiale, vendano alla chiesa di Santa Maria una pezza di terra di sette tavole per dieci lire di denari pavesi; e l’anno stesso un pezzo di bosco. _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. [5] Nel 999 Ottone III conferma al vescovo di Vercelli il contado: _Liberalitas nostri imperii pro Dei et sancti Eusebii amore donavi Leoni episcopo, omnibusque successoribus suis in perpetuum totum comitatum vercellensem in integrum cum omnibus publicis pertinentiis, et totum comitatum Sanctæ Agatæ_ (Santhià) _in perpetuum cum omnibus castellis, villis, piscationibus, venationibus, sylvis, pratis, pascuis, aquis, aquarumve decursibus, et cum omnibus publicis pertinentiis, cum mercatis, cum omnibus teloneis, et cum omnibus publicis functionibus; ut remota omnium hominum omni contrarietate, tam Leo sanctæ vercellensis sedis episcopus, quam omnes sui successores, ad honorem Dei omnipotentis et ad reverentiam sancti Eusebii magnifici episcopi, invicti contra heresiarcas militis, et in civitate vercellensi intus et foris, et in toto comitatu Sanctæ Agatæ, et in omnibus eorum pertinentiis liberam habeat potestatem placitum tenendi, legem omnem faciendi, omnem publicum honorem, omnem publicam potestatem, omnem publicam actionem, et omnem publicam redditionem habendi, exigendi, et secundum propriam voluntatem et potestatem judicandi, et omnem potestatem, et omne dominium publicum quod ad nos pertinuit, in potestatem et in dominium sanctæ vercellensis ecclesiæ et Leonis nostri episcopi et omnium sibi successorum dedimus, largiti sumus, ut omnino concessimus in perpetuum_. Seguono le minacce perchè nessun conte, marchese, vescovo, grande o piccolo, tedesco o italiano, turbi tale possesso. _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 326. Però in una carta del 1146 (_Ib._ 788) il delegato apostolico dichiara che, degli stromenti prodotti in una pretesa del vescovo sovra i porti de’ fiumi Servo e Sesia, _major pars falsa propter sigillorum impressionem ac literarum mutationem a nobis jure suspecta est_. [6] In sul paese ch’Adige e Po riga. DANTE, _Purg._, XVI. Che Tagliamento e Adige richiude. _Par._, IX. Intra Rialto E le fontane di Brenta e di Piava. _Ivi._ [7] Vedi _Trento città d’Italia_, ragionamento del C. B. GIOVANNELLI. — HORMAYR, _Säml. Werke_. — BARBACOVI, _Mem. storiche_. — PEZ, _Rerum austriacarum_. — PERINI, _I castelli del Tirolo_. [8] Fano, Pesaro, Camerino pagavano ciascuno cinquanta libbre d’argento, che sarebbero lire cinquemila: Jesi quaranta. Vedi _Ep. Innocenti III_, lib. III. N. 29. 35. 53, lib. VIII. N. 211. [9] Ap. AMARI, _Un periodo di storia siciliana_, docum. II e III. [10] MURATORI, _Antich. estensi_, part. I, c. 1. [11] CORIO, II. Merita pure d’essere studiata l’amplissima pace fatta nel 1241 dai Comuni d’Asti e d’Alba coi Comuni di Cuneo, Mondovì, Fossano, Savigliano, riferita nei _Monum. Hist. patriæ_, Chart. II. 1419. [12] _Quod illustris et inclitus dominus Azo marchio estensis sit et habeatur et gubernator et rector et perpetuus dominus civitatis Ferrarie._ _Anno domini millesimo ducentesimo octavo. Ad honorem Dei, et sancte et individue Trinitatis, et ad laudem ejus matris sanctissime Virginis Marie, et ad reverentiam beati Georgii martiris, et omnium sanctorum. Ad bonum statum civitatis Ferrarie, et ad laudem et commodum amicorum, ut civitati eidem salubriter sit provisum, non solum in presenti tempore, sed etiam in futuro: volumus et duximus inviolabiliter observandum, et per hanc nostram legem municipalem per nos et heredes nostros perpetuo decrevimus observari, quod magnificus et inclitus vir dominus Azo Dei et Apostolica gratia estensis et anconitanus marchio sit et habeatur gubernator, et rector, et generalis et perpetuus dominus in omnibus negotiis providendis et emendandis et reformandis ipsius civitatis ad sue arbitrium voluntatis; et jurisdictionem, et potestatem atque imperium intus et extra ipsius civitatis gerat et habeat dominandi, faciendi atque disfaciendi, et statuendi, et removendi, et reformandi, et precipiendi et puniendi, et disponendi, prout placuerit, et eidem utile visum erit. Et generaliter possit et valeat, sicut perpetuus dominus civitatis et districtus Ferrarie, omnia et singula facere, et disponere ad suum beneplacitum et mandatum, ita quidem quod ipsa civitas, et districtus, et homines habitantes nunc et in posterum in ipsa civitate et districtu cum jurisdictione dominii eidem domino marchioni, sicut suo generali domino perpetuo obediant et intendant. Quæ omnia et singula supradicta habere locum volumus, et perpetuam firmitatem non solum in persona domini Azonis marchionis predicti, donec vixerit, verum etiam post ejus decessum heredem ipsius esse volumus in locum sui gubernatorem et rectorem et generalem dominum civitatis et districtus, et habeat dominium, imperium, et potestatem, et jurisdictionem plenam, sicut supra continetur in omnibus et per omnia in persona domini marchionis predicti. Adjicientes, quod de anno in annum hoc statutum firmetur et cetera supradicta, et scribantur annuatim in corpore statutorum, ita quod rectores, et potestates futuri et homines Ferrarie jurent predicta omnia precise, sicut supra scriptum legitur observare._ Questo era uno statuto; il Muratori poi, nel vol. II delle _Antichità Estensi_, adduce i decreti originali, con cui in varj tempi venne conferita ai marchesi d’Este la signoria di Modena e di altre città. Ivrea nel 1278 sottoponeasi alla signoria di Guglielmo marchese di Monferrato, facendo carta dei patti. Ogn’anno s’elegga dagli uomini d’Ivrea un podestà, che sia delle terre del marchese o suo vassallo o amico; ed esso il confermi: il quale poi eserciti la giurisdizione in Ivrea a nome di esso marchese, senza che questi vi ponga impedimento o divieto; giudichi secondo gli statuti che la credenza d’Ivrea crederà fare, e _in difetto di statuti, secondo il diritto_. Il marchese abbia in essa città i bandi e le condanne, i pedaggi, le macine, la gabella del sale, e qualunque altra rendita stabilissero gli uomini del Comune; nè possa gravarli di militare, di viaggio o cavalcata od altra esazione senza loro consenso. Il massajo (_clavarius_) che esiga le varie gabelle, sia eletto dai comunisti, come pure il castellano che custodisca Castelfranco di Polenzo. Il marchese potrà fabbricare in Ivrea una casa; il Comune giurerà fedeltà al marchese, ma non gli individui. Alla morte del marchese potranno esser casse queste convenzioni. Tralasciamo le stipulazioni su oggetti particolari. La carta empisce sette colonne dei _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 1512. [13] MARCHIONNE STEFANI, al 1316, e rubr. 875. [14] Cornelio Nipote, in _Milziade_, avverte _omnes et haberi et dici thyrannos, qui potestate sunt perpetua in ea civitate, quæ libertate usa est_. E Giovan Villani, IX. 154: «Matteo Visconti fu un savio signore e tiranno». [15] Consoli trovatisi a Lucca il 1124, a Volterra il 1144, a Siena il 1145 ecc.; a Pisa già nel 1094. [16] Non ripudio del tutto il racconto dei cronisti circa l’espugnazione di Fiesole; ma già prima dell’età da loro assegnata Fiesole e Firenze formavano un solo contado. [17] Così i cronisti, ma il castel di Prato è nominato anteriormente. [18] _Arch. delle riformagioni_, lib. XXIX, carte 35. Il Targioni Tozzetti, ne’ suoi _Viaggi di Toscana_, fu diligentissimo a dare la storia de’ Comuni toscani; nel che lo imitò poi il Repetti, e sarebbe desiderabile si facesse dappertutto. Di molti schiarimenti la illustrò il Manni nei _Sigilli_. [19] _Prout unicuique contigit ipsorum per soldum et libram._ Delizie degli eruditi toscani, tom. VIII. [20] Suddivideansi in Ubaldini da Coldaria, della Pila, di Montaccianico, da Senno, da Gagliano, da Spugnole, da Querceto, dalla Torà, da Susinana, da Castello, da Feliccione, da Peniole, da Ascianello, da Ripa, da Pesce, da Villanuova, da Farneto, da Vico, da Molettiano, da Palude, da Barberino, da Carda, da Palazzuolo, da Carinca, da Apecchio, da Mercatello. [21] Ciascun che della bella insegna porta Del gran barone, il cui nome e il cui pregio La festa di Tommaso riconforta, Da esso ebbe milizia e privilegio. DANTE, _Par._, XVI. [22] MALEVOLTI, _Istorie sanesi_, part, I e II. [23] Il nome di Bellincion Berti ne richiama la storiella della Gualdrada sua figlia. Ottone IV imperatore vedendola, chiese di chi fosse quella bellissima fanciulla; e Bellincione, che gli era accanto, rispose: — È figliuola di tale, che gli darebbe l’animo di farvela baciare». Ma la fanciulla arrossendo soggiunse: — Padre, non siate sì libero promettitore di me; chè non mi bacierà mai chi non sia mio legittimo sposo». Del che lodandola, l’imperatore la fece sposare a un conte Guido con lauta dote. [24] Allora i Pisani furono costretti cedere il forte di Motrone, posto al mare presso la cittadina che fu detta Pietrasanta, dal podestà di quell’anno Guiscardo da Pietrasanta milanese. I Fiorentini stanziarono distruggerla, come costosa e difficile a tenersi. I Pisani, temendo la conservassero, e così tenessero un piede sul mare, spedirono a Firenze chi segretamente persuadesse a demolirla. L’incaricato si diresse ad Aldobrandino Ottobuoni, cittadino povero, molto ascoltato; e gli offerse quattromila zecchini se inducesse i suoi colleghi a ciò che appunto il giorno innanzi era stato risolto. Aldobrandino argomentò che, se i Pisani desideravano tanto la distruzione di quel forte, segno era che tornava meglio conservarlo; onde agli anziani seppe ciò persuadere, e la sua generosità non fu conosciuta se non per opera dei nemici. G. VILLANI, VI. 63. I vincitori di Monteaperti lo cavarono dal sepolcro ove da tre anni posava, e lo trascinarono in una cloaca. [25] _Guelfi et Ghibellini_, ms. della biblioteca Riccardi, n.º 1878 f. 19. [26] NICOLÒ VENTURA, _La sconfitta di Monteaperti_. [27] _Cronache_ del VENTURA. Di tali miracoli sono piene le cronache delle città. Quando i Cremonesi furono assaliti dai Milanesi il giorno di san Pietro e Marcellino del 1213, uscirono divisi in quattro porte; e intanto le donne e i restanti si raccolsero in San Tommaso, dove sono i corpi di que’ santi. Sconfitta essendo la porta San Lorenzo, si estinse la quarta parte delle lampade accese dinanzi ad essi santi; sconfitta anche porta Natale, si spense un altro quarto delle lampade; e così fu per porta Pertusa. Restavano quei di porta Ariberta, quando dall’arca uscirono due colombe, che volarono all’esercito cremonese, poi tornarono nell’arca stessa; e subito le lampade tutte si riaccesero, e la vittoria fu piena pei Cremonesi. [28] Chi abbia veduto la valle fra l’Arbia e il Biena, di appena mezzo miglio quadrato, crederà che il Malespini, quando vi fa combattere trentamila pedoni e mille cavalieri della sola lega guelfa, abbia fatto come tutti i gazzettieri e i narratori vulgari; nè che _tutta_ quell’oste potesse rifuggirsi nel castellotto di Monteaperti, ove appena alloggerebbe un reggimento. [29] Dante colloca Farinata (che pur era del partito suo) all’inferno tra gli Epicurei, cioè tra coloro _che l’anima col corpo morta fanno_. Mostra gran venerazione per lui e per altri seco dannati, i cui onorati nomi dice aver sempre raccolti e ripetuti con riverenza. Farinata gli domanda perchè Firenze durasse così avversa alla famiglia sua in ogni decreto, giacchè gli Uberti restavano sempre esclusi dalle tregue che tratto tratto si faceano. Dante gli rammenta la battaglia dell’Arbia; e Farinata, Poi ch’ebbe sospirando il capo scosso, A ciò non fui io sol (disse), nè certo Senza cagion sarei con gli altri mosso. Ma fui io sol colà dove sofferto Fu per ognun di tôrre via Fiorenza Colui che la difesi a viso aperto. _Inf._, X. [30] Si ha la stima dei danni recati dai Ghibellini ai Guelfi, che furono valutati 132,160 fiorini d’oro, vale a dire un milione e mezzo. Delle moltissime case distrutte, alcune sono stimate appena quindici fiorini: palazzi chiamansi quelle che valgono più di trecento. Anche negli statuti di Calimala è prefisso che «tutti i consoli dei mercanti siano quattro, e il camerlingo sia uno; e tutti siano ad esser debbiano guelfi, e amatori di santa romana Chiesa». § VI. I Fiorentini nel 1277 faceano statuto, _Quod nullus ghibellinus possit esse in aliquo officio in civitate vel comitatu Florentiæ: et si quis eum elegerit, puniatur in libris XXV: et si talis ghibellinus receperit, puniatur in libris XXV: et sit precisum. Addatur quod nihilominus removeatur ab officio, et possit probari quod sit ghibellinus per publicam famam, et quilibet possit eum accusare et teneatur secrete_. [31] DATI, _Cron._, pag. 55. [32] DINO COMPAGNI. [33] Si leggano nell’_Archivio storico_. Le famiglie primamente escluse dal Governo furono trentasette; ma nel 1354 erano cresciute; e millecinquecento magnati doveano prestar garanzia al Comune; nel 1415, quando si compilò lo statuto del Comune, le famiglie escluse erano novantatre. Ser Belcaro Bonajuti nel 1318, per esser posto fra i popolani, espone come esso e i figli o discendenti suoi non aveano alcun titolo o motivo d’essere avuti per magnati, e chiede non vengano _reducti inter magnates, ut consortes sive de domo filiorum Seragli, sed intelligantur esse et sint populares, et tanquam populares civitatis et comitatus Florentiæ, et in omnibus et quoad omnia debeant haberi, teneri et tractari tanquam populares et de populo civitatis et comitatus Florentiæ; non graventur, inquietentur vel molestentur per aliquem officialem communis Florentiæ,_ ecc. Delizie degli Eruditi, tom. VII. p. 290. [34] Fin dal 1188 il popolo di Carrara otteneva dal vescovo di Luni, antico suo signore, il terreno per fabbricare la borgata di Avenza in val di Magra, a comodo dei carrettieri e marinaj che trasportavano i marmi. Del 1202 si ha un compromesso tra il vescovo di Luni e i marchesi di Malaspina, cui intervennero come garanti i consoli e militi del comune di Carrara. [35] FOGLIETTA, lib. V; _Ann. Genuenses_, lib. X. L’ira fra le repubbliche manifestavasi anche in atti diplomatici. Del 1284, 13 ottobre, abbiamo la carta dell’alleanza de’ Genovesi e Lucchesi con Fiorentini contro Pisani, e comincia: _Instante persecutione valida Pisanorum, quorum virus nedum vicinas partes infecerat, verum pene maritimas universas, ita quod per Comunia infrascripta vix poterat tollerari; pro tali zizania de terra radicitus extirpanda, quæ etiam messem dominicam dudum sua contagione corrumpere incoavit, et ipsorum perfidia refrenanda.... quia innocentes tradit exitio qui multorum non corripit flagitia; idcirca, Jesu Christi nomine invocato, et B. V. Mariæ etc.... et B. Sisti, in cujus festivitate civitas Januæ immensum triumphum habuit contra Pisanos, ipsorum Comunium perfidos inimicos... societatem, fraternitatem et pacta quæ in infrascripta societate continentur, fecerunt adinvicem etc._ E seguono otto colonne dei _Monum. Hist. patriæ_. [36] Moltissimi atti di tutto ciò si hanno nel _Liber jurium_. La credenza del 1290 prese ordine di far armare cenventi galee, stabilendo che Genova contribuisse due terzi degli uomini; gli altri erano ripartiti sopra il restante territorio, delle cui proporzioni è indizio il numero degli uomini fissato per dieci galee come segue: Roccabruna dovea dare due uomini, Mentone tre, Ventimiglia cinquanta, Poggiorinaldi tre, San Remo e Ceriana sessanta, Taggia venticinque, Porto Maurizio cinquanta, Pietra dieci, Santo Stefano cinque, i conti di Ventimiglia trentatre, Lingueglia e il Castellaro quindici, Triora cinquanta, Diano quaranta, Cervo quindici, Andora trenta, Albenga sessantadue e il suo vescovado quarantacinque, il marchese di Clavesana quaranta, Cosio e Pornassio otto, Finale sessantadue, Noli venticinque e il suo vescovado tre, Cugliano dieci, Savona sessantadue, Albissola sei, Varazze e Celle cinquanta, Voltri cento, Polcèvera settantacinque, Bisagno cento, Recco venti, Rapallo trenta, Chiavari cento, Sestri settantacinque, Levanto venti, Passano e Lagnoto tre, Materana e i due Carodani cinque, Corvara cento, Carpena settantacinque, Porto Venere venticinque, Vezzano diciotto, Arcola dieci, Trebiano tre, Lèrici tre; cioè in tutto millecinquecentoquarantatre. Il Varagine dice che nel 1203 la Liguria allestì una flotta di ducento galee, ognuna con ducentoventi in trecento uomini, cioè quarantacinquemila combattenti, eppur ne rimasero abbastanza per armarne altre quaranta, senza sguarnire la città e le riviere. Poniamo novemila i rimasti, la popolazione marittima sarebbe stata di cinquantamila teste; e ritenendola un sedicesimo della popolazione totale, porterebbe questa a circa novecentomila abitanti. Nella _Storia delle alpi Marittime_ del GIOFFREDO sono riferiti molti di questi riparti, con assai particolarità della storia genovese. [37] _Monum. Hist. patriæ_, pag. 190. Leges municipales. [38] GIOFFREDO, op. cit. [39] GIOFFREDO, col. 666. [40] Un comune di signori è indicato nel diploma con cui Enrico III nel 1014 confermava _hominibus majoribus habitantibus in marchia saonensi_ tutte le cose e proprietà del mare sin a metà del monte, e le ville, i livelli, le pescagioni e caccie ch’erano soliti avere; in quel tratto non si fabbrichino castelli, nè si metta alcuna sovrimposta. _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. 404. [41] _Monum. Hist. patriæ_, pag. 284. Leges municipales. Nel 1105 al marchese Alderamo che la chiedeva, i consoli concessero la cittadinanza di Genova, promettendo ajutarlo come fosse un cittadino della loro compagnia; salvo che non accetteranno testimonj fuorchè abitanti nel vescovado, in cause concernenti cose poste nel vescovado; se esso cederà i proprj castelli per occorrenza di guerra, essi non glieli torranno; e se per ciò abbia danno o guerra, essi nel rifaranno e ajuteranno; e se, morto lui, la moglie e i figli suoi giurino la stessa convenzione, essi gliela manterranno: la qual convenzione sarà osservata finchè egli l’osservi. Alderamo reciprocamente prometteva esser cittadino di Genova, e abitarvi esso e suo figlio a volontà de’ consoli, e adempiere il giuramento della compagnia del Comune di Genova; darà i suoi castelli al Comune quando invitato per far la guerra che sia decretata dalla pluralità de’ consoli; quando il Comune di Genova faccia guerra, esso andrà in campo con due militi, a proprie spese e a volontà della maggioranza de’ consoli; gli uomini che erediterà, dopo morta sua madre, dal Giovo al mare, sottoporrà al servizio militare pel Comune suddetto; non obbligherà, nè venderà o infeuderà Varazino; terrà immuni nel suo distretto i Genovesi e le cose loro; soltanto si riserva di non dovere far guerra al Comune di Acqui. — _Liber jurium_, pag. 51. Seguono i patti col conte di Lavagna e con molti altri signori, e n’è pieno il volume stampato nei _Monumenta historiæ patriæ_. [42] Sotto il 270 gli _Annali genovesi_ dicono: _Januensis civitas cum toto districtu suo in amaritudine morabatur; regnabat enim inter cives et districtuales divisio, quæ adeo succrevit, quod invalescentibus voluntatibus partium venenatis, per villas et loca communis Januæ cædes et homicidia indifferenter committebantur et prœlia. Qua ex causa ex utraque parte banniti sunt infiniti, qui irruentes in stratas publicas, insultabant homines, homicidia committebant, spoliantes nedum inimicos sed etiam quoslibet transeuntes etc._ [43] _Johannes, Dei gratia Venetiarum, Dalmatiæ atque Croatiæ dux, dominus quartæ partis et dimidii totius imperii romani, de consensu et voluntate minoris et majoris consilii sui, et communis Venetiarum, ad sonum campanæ et vocem præconis more solito congregati, et ipso consilio etc._ Vedi tom. VI, p. 264. Non è senza singolarità che, d’un Governo durato fin all’età nostra, sia così vacillante e oscura la descrizione; ogni autore cambia e l’epoca e le attribuzioni de’ varj magistrati; il Daru peggio degli altri, se si credesse a Giacomo Tiepolo (-1812), il quale lo accompagnò d’un nojosissimo commento; ma il Tiepolo stesso è smentito da posteriori, che neppur essi n’andarono senza contraddizione; ed ognuno taccia l’altro d’ignorante, di negligente, di invido, di denigratore. Certamente il Daru conobbe pochissimo di quel meccanismo complicato; e sebbene, scrivendo sotto il despotismo napoleonico, per allusione disapprovi gli arbitrj altrui e l’onnipotenza della Polizia, però frantende o disama le libertà storiche. Eppure è il solo letto e ristampato: ma come lamentarcene se non facciamo di meglio? il criticare è facile, non tanto il fare. [44] «Molti capi andavano dal doge e consegier a lamentarse de tal novità et esclusione; dove che poi quelli erano fati passar in una camera segreta, e la notte strangoladi, e poi la mattina attaccadi con la corda al collo al palazzo». Cronaca citata dal Daru. Probabilmente allude alla congiura di Marin Boconio, di cui il Sanuto riferisce che alcuni congiurati erano chiamati in palazzo, e subito, serrata la porta, venivan spogliati e butati nel Trabucco de Toresella e morti.... Poi furono tolti i corpi de alcuni e posti in piazza, facendo comandamento che, in pena della testa, niuno li toccasse. E veduto che niuno ardiva toccarli, conobbero aver il popolo ubidiente». [45] Una tal Giustina, che abitava in Merceria, gettò dalla finestra un mortajo, che colpì non Bajamonte, come si suol dire, ma il portastendardo, e sgomentò i seguaci. Offertole un premio, ella domandò di poter esporre ogni anno, nel giorno di san Vito, lo stendardo collo stemma di San Marco alla finestra fatale; e la casa dove stava non dovesse mai pagare più di quindici ducati di pigione ai procuratori di San Marco, cui apparteneva. Sulla diroccata casa del Tiepolo fu posta una colonna infame coll’iscrizione: De Bajamonte fo questo terreno E mo per lo so iniquo tradimento S’è posto in comun per altrui spavento E per mostrar a tutti sempre seno (_senno_). Sul fine della Repubblica veneta, quando tutto dovea sonare democrazia, taluno propose di ripristinar l’onore del Tiepolo, come benemerito d’aver tentato spezzare quell’oligarchia, di cui non era male che allora non si dicesse, erigergli un monumento, e fargli esequie anniversarie. Vi fu chi osò porre in dubbio i costui meriti; atto coraggioso in tempo che si considera empietà ogni irriverenza agl’idoli del giorno: molto si scrisse pro e contro, e intanto arrivarono i tempi da non curar più nè le infamie nè le glorie passate. La colonna andò poi a smarrirsi in una villa del lago di Como. [46] Il nome d’_inquisitori di Stato_ venne in uso nel 1600; prima chiamavansi _inquisitori del consiglio dei Dieci_. Dallo spoglio degli archivj si trova che fecero dal 1573 al 1600 processi 73 dal 1600 al 1700 — 554 dal 1700 al 1773 — 646, cioè sei all’anno. [47] _Chron. Novalicense_, v. 14. [48] _Monum. Hist. patriæ_, Chart. I. col. 217. [49] Tra altri, frà Salimbeni racconta che nel 1216 gelò sì fattamente il Po, che le donne vi menarono un ballo, e i cavalieri una giostra. Il Gennari, negli _Annali di Padova_ al 1302, soggiunge che, sul fine del secolo passato, essendosi gelato il Bacchiglione, quei di Pontelongo vi fecero una festa da ballo, alla quale accorse tutto il vicinato. [50] In un registro dell’archivio civico di Vercelli sta un curioso catalogo delle robe che, nel 1203, i Pavesi aveano rubate dal castello di Robbio, col rispettivo valore, e di cui si domandava il rintegro: tre cavalli lire novantasei: ventiquattro loriche, trentanove pancere, ventun capironi, quarantuna maniberghe, trentotto canberìe in tutto lire seicentosedici e soldi otto; scudi quarantasei, altrettante spade; schinieri ventiquattro, falcioni sedici; poi dodici botti, quattro bottali, due tini; carraletti due, quattro coltrici, due cuscini, e così via. [51] Il duca d’Atene proibì ai Fiorentini di portar merci a San Geminiano perchè non volle rimpatriare certi sbanditi. Lo statuto di Chieri vuole che, chi ricetta un omicida, paghi venticinque lire; se non le ha, gli si guasti la casa e tagli la vigna. CIBRARIO, _Economia pol. del medio evo_. [52] Lo statuto di Mantova a lunghissimo provvede intorno ai cavalli e ai difetti loro. Ivi (lib. IV. rub. 17) è ordinato che in ogni terra di quindici famiglie (_habente XV lares_) siavi un ferrajo e sufficiente quantità di chiovi e ferri pei cavalli d’arme che passassero. [53] L’irrigazione era già conosciuta dagli antichi; onde il virgiliano, _Claudite jam rivos, pueri; sat prata biberunt_. Columella cita Porcio Catone, che distingue il prato _siccaneum_ e il prato _riguum_, e suggerisce di non farli nè in piano troppo declive, nè in fondo tropo concavo. Nei conti antichi de’ monaci di Sant’Ambrogio e di Chiaravalle a Milano non occorre cenno de’ formaggi. Al 1494 sono menzionati formaggi da libbre piccole quattordici; il che è appena un decimo de’ presenti. [54] Gregorio vescovo di Bergamo, nel 1136, concedette ai monaci cistercensi un territorio allo sbocco della valle Seriana, detto Vall’Alta, pel livello di dodici libbre di cera l’anno. I nomi di Cerreto, Cerretina, Gagio, Roncarizio, che ancora vi si conservano, ricordano le boscaglie, addensate ove ora son prati e vigneti. I Cistercensi diedero quelle terre a coloni temporarj obbligati anche a difendere il monastero e la chiesa; e poichè furono dissodate, le concessero a commendatarj, i quali le affidavano a coloni stabili, che finirono col diventare livellarj. GATTI, _St. dell’abbazia di Vall’Alta_. Milano 1853. [55] Re Astolfo, da Pavia il 10 febbrajo 733, nel privilegio a favore di Anselmo suo cognato, fondatore dell’insigne badia di Nonantola, donava un oliveto posto presso al castello d’Aghinolfo tra Pietrasanta e Massa. Nel 753 due figli di Walperto, duca dei Longobardi in Lucca, rinunziano al fratello Walprando vescovo di Lucca, per un pezzo d’oro a guisa di torre, la loro porzione di tenuta in Tucciano, con vigne, oliveti e coloni. _Mem. lucchesi_, tom. V. p. I. Nel 779 un Pistojese, partendo per un viaggio, lascia testando tutti i suoi beni ai poveri, eccetto un oliveto posto in Orbiniano, che assegna al monastero di San Bartolomeo in Pistoja. _Arch. dipl. fiorentino, carte del San Bartolomeo di Pistoja._ Nell’818 le monache di Santa Lucia di Lucca investendo il parroco di San Pietro a Nocchi, gli imponevano di dar loro la metà del ricolto di vino, ghiande, fichi secchi, castagne, olio. Ed oggi pure l’olio eccellente forma la ricchezza maggiore di quella valle. In una carta del 779 si rammenta l’oliveto di Arliano in val del Serchio. _Mem. lucchesi_, tom. IV. p. I. [56] _Pratis Longula dives_ _Et virides nutrit oleas, Bacchique liquores_.... _Non est mons alius melius tibi, Bacche proterve,_ _Non alibi tantum placuit sua sylva Minervæ._ MOYSE. [57] Ai mali che talora portavano carestia, bisogna aggiungere le cavallette, delle quali cade frequente memoria. Andrea prete nell’871 ricorda che si lanciarono sul Bresciano, Cremonese, Lodigiano, Milanese a torme, consumando i grani minuti. Altrettanto narra Giovanni Diacono della Campania e di Napoli; e sono descritte con quattro ale, sei piedi, bocca assai larga, vasto intestino, due denti più duri che pietra, con cui rodeano qualunque solida corteccia, lunghe e grosse quanto un pollice, e drizzantesi verso occidente. S’aggiunge che in quell’anno a Brescia piovve sangue per tre giorni, il che può attribuirsi alle crisalidi di quegl’insetti; come anche quanto Andrea narra che, verso Pasqua, in Lombardia si trovarono le foglie coperte di terra che credevasi piovuta. Stefano III, oltre l’aspersione d’acquasanta, prese il metodo, oggi ancora usato, di pagare cinque o sei denari ogni stajo che i contadini ne portassero. Federico II nel 1231, essendone la Puglia devastata, ordinò che ciascuno, la mattina prima del levar del sole, ne pigliasse quattro tomoli, e li consegnasse ai ministri del pubblico per bruciarli. Linneo le chiamò _acridium migratorium_; ma l’_acridium italicum_ è indigeno e infesta la Romagna, e nel 1825 guastò il Mantovano e il Veronese, e alcuno crede tali guasti dovuti specialmente alla _gamma nottua_. Girolamo Cardano (_De subtilitate_, lib. IX. p. 364) dice che per esperienza si conobbe che il miglior riparo è distruggerne le ova. La maremma toscana ne fu spessissimo devastata, e nel 1716, nelle sole campagne di Massa, Monterotondo, Gavorrano, Ravi, Scarlino, in due mesi se ne presero e bruciarono seimila staja. TARGIONI TOZZETTI, _Relaz. di viaggi_, IV. 162. [58] TARGIONI-TOZZETTI, ivi, IV. 275. [59] GALVANO FIAMMA. Il conte D’Arco dice non aver trovato menzione del riso negli ordini mantovani fin al 1481. Nel 1550 i Gonzaga prescrissero, «le risaje non si facessero dentro cinque miglia vicino alla città» (_Economia_, 279). È noto che col riso s’introdussero molte specie palustri, la _leersia_, la _bidens cernua_, l’_ammannia_, il _cyperus difformis_.... [60] Dopo il 1340 vi lavorarono i migliori artisti: Giovanni, Ugo, Nicolino, Antonio da Campione ne fecero le suntuose porte e il battistero che ora è nella cattedrale; Bertolasio Morone il campanile; Bartolomeo Buono e Andreolo de’ Bianchi una croce con statue e bassorilievi d’argento; dal 1363 innanzi vi dipinsero Pasino e Pietro da Nova, e Giorgio da San Pellegrino. [61] _Rer. It. Scrip._ VIII. 1107. [62] GENNARI, _Ann. di Padova_ al 1276, 92, 93; e le leggi 1339, 1360 ecc. [63] GHIRARDACCI, _passim_ e principalmente al 1293. [64] JACOPO DA VARAGINE. [65] Registri battesimali non si tenevano. In Firenze, dove unico battistero è quello di San Giovanni, il pievano buttava in un bossolo per ogni maschio una fava bianca, una nera per ogni femmina, e al fin d’anno si contavano. I primi registri sono di Siena nel 1379, di Pisa nel 1457, di Piacenza nel 1466. Il concilio di Trento ne decretò poi la regolare tenuta. Giovan Villani fa al 1280 la popolazione fiorentina di novantamila abitanti, e morirne ottantamila; poi al 1340 pone cenventimila abitanti. Nel 1351 si noverano mille ottocentosettantotto fuochi, che a sette per uno non arriverebbero settantasettemila bocche. Se dice giusto Coro Dati che vi si consumavano cento moggia di grano il giorno, dando uno stajo per bocca al mese, non si passerebbero le settanduemila. [66] GHIRARDACCI al 1288. [67] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie_, lib. XI. [68] Gli statuti di Garessio sono del 1278. Vedi _Cronaca di Siena_ di NERI DONATO, nei _Rer. It. Scrip._, XV. [69] In uno dei tanti incendj di Bologna avvenne che il gesso, di cui erano costruite le case, si cocesse, e gettatavi l’acqua per ispegnerlo, fece una presa maravigliosa. Il fatto fu avvertito, e d’allora si cominciò a usare il gesso cotto per costruzioni, cornici, statue e altro. GHIRARDACCI al 1210. [70] «Il nostro Comune, per guerra ch’ebbe co’ Pisani per lo fatto di Lucca, si trovò aver accattati da’ suoi cittadini più di seicento migliaja di fiorini d’oro: e non avendo donde renderli, purgò il debito, e tornollo a cinquecentoquattro migliaja di fiorini d’oro e centinaja, e fecene un monte, facendo in quattro libri, catuno quartiere per sè, scrivere i creditori per alfabeto, e ordinò con certe leggi penali, alla camera del papa obbligate, chi per modo diretto o indiretto venisse contro a privilegio e immunità ch’avessono i danari del Monte. E ordinò che in perpetuo ogni mese, catuno creditore dovesse avere e avesse, per dono d’anno e interesse uno danajo per lira, e che i danari del Monte ad alcuno non si potessono tôrre per alcuna cagione o malificio o bando o condannagione che alcuno avesse, e che i detti danari non potessero essere staggiti per alcuno debito nè per alcuna dote, nè fare di quelli alcuna esecuzione; e che lecito fosse a catuno poterli vendere e trasmutare; e così catuno in cui si trovassono trasmutati, que’ privilegi e quell’immunità e quello dono avesse il successore che ’l principale. E cominciato questo agli anni di Cristo 1345, sopravenendo al Comune molte gravi fortune e smisurati bisogni, mai questa fede non maculò, onde avvenne che sempre a’ suoi bisogni per la fede servata trovava prestanza da’ suoi cittadini senz’alcun rammaricamento: e molto ci si avanzava sopra il Monte, accattandone contanti cento, e facendone finire al Monte altri cento, a certo termine n’assegnava dugento sopra le gabelle del Comune, sicchè i cittadini il meno guadagnavano col Comune a ragione di quindici per centinajo l’anno.... Di questi contratti dei comperatori si feciono in Firenze l’anno 1353 e 54 molte quistioni, se la compera era lecita senza tenimento di restituzione o no, eziandio che il comperatore il facesse a fine d’avere l’utile che il Comune avea ordinato ai creditori, e comperando i fiorini cento prestati al Comune per lo primo creditore, venticinque fiorini d’oro, e più o meno come era il corso loro. L’opinione de’ teologi e dei leggisti in molte disputazioni furono varie, che l’uno tenea che fusse illecito e tenuto alla restituzione, e l’altro no, e i religiosi ne predicavano diversamente: que’ dell’Ordine di san Domenico diceano che non si potea fare lecitamente, e con loro s’accordavano i Romitani; i Minori predicavano che si potea fare, e per questo la gente ne stava intenebrata». III. 106. [71] CIBRARIO, _St. di Chieri_, I. 473. [72] TRONCI, _Ann. pisani_; AMMIRATO, _Storie_, lib. XIX. [73] FIAMMA, _Manip. florum_; GATTARO, _Hist. Patav._, in _Rer. It. Scrip._, tom. XVII; MUSSO, _Chron. Placent._ Ivi. [74] † _Non fuit ignarus cujus domus hæc Nicholaus_ _Quod nil momenti sibi mundi gloria sentit._ _Verum quod fecit hanc non tam vana coegit_ _Gloria, quam Rome veterem renovare decorem._ † _In domibus pulcris memor estote sepulcris,_ _Confisque tiu non ibi stare diu_ _Mors vehitur pennis. Nulli sua vita perennis._ _Mansio nostra brevis, cursus et ipse levis_ † _Si fugias ventum, si claudias ostia centum_ _Lisgor mille jubes non sine morte cubes._ _Si maneas castris ferme vicinus et astris_ _Ocius inde solet tollere quosque volet._ † _Surgit in astra domus sublimis. Culmina cujus_ _Primus de primis magnus Nicholaus ab imis_ _Erexit, patrum decus ob renovare suorum;_ _Stat patris Crescens matrisq. Theodora nomen_ † _Hoc culmen clarum caro depignere gessit_ _Davidi tribuit qui pater exhibuit._ È attorniata di lettere majuscole, delle quali tentò la interpretazione il p. Tommaso Gabrini. [75] Caterina di Viennois, principessa d’Acaja nel 1339, per aver carne da un macellajo di Pinerolo dovette dargli in pegno un bicchiere d’argento. CIBRARIO, _Economia pol. del medioevo_. [76] _Cronaca di Sanminiato_, ap. BALUZIO, I. 457. [77] Nel testamento dell’arcivescovo milanese Andrea: _Pascere debeat pauperes centum, et det per unumquemque pauperem dimidium panem, et companaticum lardum, et de caseo inter quatuor libra una, et vino stario uno_. [78] GIULINI, _Memorie della città e campagna milanese_, tom. V, p. 473. [79] _Egloga_ VII. [80] — Poserò in mezzo del castello una colonna con portico, sotto il quale si raccolgano i padri per fuggire il caldo e trattare delle cose loro. Aggiungivi che la gioventù sarà meno nei suoi giuochi dissoluta alla presenza de’ patrizj». LEON BATTISTA ALBERTI, _Architettura_, lib. VIII. c. 6. [81] Vedi il Boccaccio. [82] Fiorentino Mi sembri veramente quand’io t’odo. _Inf._, XXX. Sòstati tu, che all’abito mi sembri Essere alcun di nostra gente prava. Ivi, VII. [83] La legge suntuaria di Lucca, del 20 ottobre 1587, che vegliò fino al termine della repubblica, proibiva in sostanza tutti i lavori stranieri sì di metalli preziosi che di sete e lane, le vere e le false gemme e perle, i ricami, le vesti d’altro colore che nero, le penne, le piume, i fiori di seta, i capelli finti, i pendenti alle orecchie, i lunghi strascichi. Si concedevano cappelli e abiti neri agli uomini e alle donne; alle spose per un anno vesti di seta colorate; alle vedove, abito di lana nero; ogni cosa semplice, senza trine nè lavori d’intaglio, passamani o frangie; se si voleva un guarnimento, aveva ad esser di seta e del colore stesso del drappo, e semplice e un solo giro all’estremità. Le calze alle donne o bianche o nere; agli uomini, o nere o grigie. Alle fanciulle impedito il vestire di seta; concedevansi di seta le maniche e i grembiuli, i collari di taffetà; ma a tutti vietavansi i listelli e ricami e telette d’oro e d’argento fino o falso. I forestieri erano tenuti soggetti alla legge un anno dopo che fossero in Lucca, e i magistrati o capitani usar potevano di piume essendo in uffizio od in funzione: le loro donne erano eccettuate dalla legge sin che i mariti duravano in carica. Pure, perchè anche in Lucca lavoravasi d’argento e d’oro, si permise poi qualche filza di bottoncini d’argento, qualche fettuccia di seta ad intrecciar i capelli, cuffie di velo o tela, una rete d’oro filato con occhietto d’oro, un fregio e un vezzo d’oro del valore di trenta scudi da mettere al collo, con una collana pure d’oro (sempre tirato alla trafila a maglia) di scudi cento; un paio di smaniglie d’oro di trenta scudi, e un altro di bottoncini d’oro o d’argento di egual valore; una cintura di scudi ottanta o d’oro o d’altro non proibito dalla legge, senza smalti, fuorchè nelle serrature; e di gioje o perle appena qualcuna, ma solo negli anelli; di cristalli e coralli, soltanto ne’ vezzi; profumi e paste odorifere nulla, eccetto che nei guanti. Sicchè una donna poteva comparire in pubblico fornita di tanta roba preziosa per più che quattrocento scudi, i quali oggi rappresenterebbero più che dodicimila franchi. Volevasi la legge eseguita; per ciò multa e carcere ai maschi se mancavano, e alle femmine multa e confino in casa. Quindi ad impegnar queste a fuggire ciò che innanzi appetivano, la legge permise alle meretrici quello che proibiva alle oneste. TOMMASI, _Sommario_. Uno statuto fiorentino del 24 marzo 1299 porta: _Si qua mulier voluerit portare in capite aliquod ornamentum auri vel argenti, vel lapidum preciosorum vel etiam contrafactorum, vel perlarum, teneatur solvere Comuni florentino pro quolibet anno 50 libr. f. p.; salvo quod possit quælibet domina, si sibi placuerit, portare aurum filatum vel argentum filatum usque in valorem libr. 3 ad plus. — Et si qua mulier voluerit defferre ad mantellum fregiaturam auri vel argenti vel serici texti cum auro vel argento, vel scannellos aureos vel argenteos vel perlas, teneatur solvere Comuni florentino libr. 50 f. p. pro quolibet anno. — Et si qua mulier voluerit portare aliquod ornamentum perlarum in aliqua alia parte vestimentorum sui corporis, teneatur solvere dicto Comuni florentino libr. 50 f. p. pro quolibet anno._ Nell’archivio delle Riformagioni. Fra gli altri, possono vedersi gli _Statuti suntuarj circa il vestire degli uomini e delle donne_, ordinati prima dell’anno 1322 dal Comune di Perugia, e pubblicati ivi dal Vermiglioli nel 1821. Altri del 1416 pubblicò il Fabbretti nell’_Osservatore del Trasimeno_ 1846, tratti dagli _Annali decemvirali_ di Perugia. La motivazione di essi è che alcune donne fanno disonesta portatura, avendo mantelli in capo, sicchè non si discernono le vedove dalle maritate, le cittadine dalle forestiere; e sin meretrici e donne di mala fama e serve di preti portano mantelli onorevoli come le mogli de’ migliori cittadini. Laonde i Decemviri «fanno bandire et commandare che non sia veruna femena, meretrice, inonesta, de mala fama, de qualunque stato et conditione sia, così citadina come contadina et forestiera, ac etiandio fancella de preite o d’altri religiosi, che per alcuno modo overo quesito colore, ardisca portare mantello de più lunghezza che persino alli ginocchi.... E che a ciascuno offitiale... sia leceto cercare, inquirere et investigare contro qualunque persona delle sopradicte che contrafacessero nelle predicte cose». Le noje causate dalle leggi suntuarie, e i sotterfugi delle donne sono lepidamente esposti da Franco Sacchetti, _Nov._ CXXXVII: — Veggendo certi cittadini le donne portare ciò che esse voleano senza alcun freno, e sentendo la legge fatta, e ancora sentendo l’officiale nuovo esser venuto, vanno di loro certi ai signori, e dicono che l’officiale nuovo fa sì bene il suo officio, che le donne non trascorsono mai nelle portature, come al presente faceano. Onde li signori mandarono per lo detto officiale, e dicendoli come si maravigliavano del negligente officio, che faceva sopra gli ordini delle donne, il detto messer Amerigo rispose in questa forma: Signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione; e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io trovo che io so nulla; perocchè cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per gli ordini che m’avete dati, sì fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge, come sono quelli ch’elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E’ si trova una donna col becchetto frastagliato avvolto sopra il cappuccio: il notajo dice: Ditemi il nome vostro; perocchè avete il becchetto intagliato. La buona donna piglia questo becchetto che è appiccato al cappuccio con uno spillo, e recaselo in mano, e dice ch’egli è una ghirlanda. Ora va più oltre: trovo molti bottoni portare dinanzi; dicesi a quella che è trovata: Questi bottoni voi non potete portare; e quella risponde: Messer sì, posso, chè questi non sono bottoni, ma sono coppelle; e se non mi credete, guardate, e’ non hanno picciuolo, e ancora non c’è niuno occhietto. Va il notajo all’altra che porta gli ermellini, e dice: Che potrà apporre costei? Voi portate gli ermellini; e la vuole scrivere; la donna dice: Non iscrivete, no, chè questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi...» [84] _Leges municipales_ 248, 99, 66 nei _Monum. Hist. patriæ_. [85] _Corbelletur in lacu ita quod submergatur_: lib. I. rub. 23, e lib. V. rub. 12. [86] _Antiq. M. Æ._, I. 902. [87] DINO COMPAGNI. — _Dottata_ per temuta. [88] Parodiò questi sonetti Cene dalla Ghitarra aretino, voltando in peggio ogni cosa: Io vi dono nel mese di gennajo, Corti con fumo al modo montanese; Letta quali ha nel mare il Genovese, Ed acqua e vento che non cali majo, _ecc._ [89] VILLANI, _Storie_, VII. 131, X. 218. BOCCACCIO, _Giorn._ VII. _nov._ 9. — Di sciagurata memoria fu Nicolò Salimbeni, ricordato da Dante nel XXIX dell’_Inferno_, che istituì la brigata godereccia a Siena di molti giovani, i quali posero in comune ducentomila fiorini, e in venti mesi vi diedero fondo straviziando. [90] _Hastarum ludis et cursibus usus equorum, Ac proponendo vincenti præmia curso._ _De bello balearico_. Rer. It. Scrip., VI. RADEVICUS, _De gest. Friderici Aug._, lib. _ii_. c. 8. DANTE, _Inf._, XXII. E Fazio degli Uberti nel _Dittamondo_: Giovani bagordare alla quintana, E gran tornei e l’una e l’altra giostra Far si vedea con giochi nuovi e strani. [91] Abbiamo manoscritte le particolarità d’una giostra ordinata il 1481 da Alvise Vendramin in Treviso, dove compajono Bernardino da Pola con cento cavalli, cinquanta mori con banderuole e targhe alla turchesca, tamburi, nacchere, trombe otto, con diciassette sopravesti fra oro, argento e seta; Stefano dal Corno con altrettanti cavalli, quattro staffieri vestiti di _restagno_ d’oro, dieci sopravesti d’oro e argento, trombe, pifferi, quattro elmi forniti d’oro, con quattro garzoni di dieci anni vestiti d’oro; Giovanni da Onigo cencinquanta fanti e cencinquanta cavalli, e trenta garzoni vestiti all’antica e con schinieri; Orlandino Braga con ottanta cavalli e trenta fanti con targhe e bastoni all’antica; Lionardo Volpato con cento pedoni aventi celate d’argento con coda di volpe, ducento cavalli, quattro buffoni, un carro trionfale con un monte alto trenta piedi con cinquantasei putti sui quattro gradini, e due draghi che li conducevano, e trenta Mori vestiti di bianco. Cecco da Pola avea venti fanti, dieci fauni, due ciclopi e una montagna con Eolo e i quattro venti; dalla quale usciti uomini silvestri ignudi, combatterono coi fauni. Aggiungi un Cupido con trenta fantolini a cavallo nudi con facelle in mano, e ducento ninfe; e un trionfo con un Ganimede in cima, e Vulcano con quattro putti: il qual trionfo era tirato da due centauri, con quattro giganti uccisi dalle saette, e Nettuno, e dietro ducento cavalli e dieci trombe. Girolamo da Verona ebbe cento cavalli, e venti sopravesti di più sorta, e cento pedoni con una carica di selvaggina, da cui uscirono dodici animali con teste di lupo: Girolamo Gravolin cento cavalli e cinquanta fanti, e un Ercole armato sopra un leone della grossezza d’un bue: Sosio da Pola, Stefano e Strafagio Azoni cencinquanta cavalli, quaranta sopravesti d’oro, argento e seta, ducento fanti con corazze, spiedi, ronconi, scudi, con un trionfo a tre gradi, dov’era in cima Marte trionfante; ed altre bellezze, che non poterono però compirsi in grazia del tempo. La giostra durò dalle quindici ore fino alle ventitrè e mezzo, e premio furono trentasei braccia di panno cremisino, foderato di vaj. Alla giostra presero parte quattordicimila persone. — Ap. CICOGNA, _Iscriz. veneziane_, tom. I. 355. [92] Tal solennità è descritta da un chierico Pier di Matteo da Pionta, che un’altra, ma meno magnifica, ne avea veduta nel 1240. [93] BOCCACCIO, _Introduzione_; AULICO TICINESE, _De laud. Papiæ_, cap. XIII. [94] La legge longobarda infligge novecento soldi al violatore di sepolcri come ad un omicida (ROT., _leg._ 19), e Teodorico la morte (_Edict._ 110); varie pene troviamo negli statuti, e le cronache e i novellieri mostrano ogni tratto simili violazioni. [95] SACCHETTI, _Nov._ 155. [96] Manuscritto ap. MURATORI, _Ant. ital._, XLVI. [97] LIUTPR., III. 4. [98] _Tota regio illa_ (di Pavia) _mundatur a venenosis animalibus, et maxime serpentibus per ciconias, quæ illic toto tempore veris et æstatis morantur_. AUL. TICIN., cap. XI. [99] BONCONTE MONALDESCHI, _Annali_. Rer. It. Scrip., XII. [100] Il 2 luglio, da ciascuna delle diciassette contrade a cui son ridotte le sessanta della decaduta Siena, eleggevasi un condottiere, e divisati variamente, concorreano sulla stupenda piazza del Campo, fatta a guisa d’una conchiglia, della circonferenza di trecentottanta metri, circondata da fabbriche eleganti e col bel casino dei nobili, avente statue e rilievi, e dipinti di Jacopo della Quercia e de’ fratelli Rustici. Nel secolo XIV si faceano corse di tori, poi nel 1590 si sostituirono corse di bufali, nel 1650 di cavalli, e così si mantiene finora, trasferitolo al 16 agosto, con una marcia trionfale, dove i capitani vestono come nel medioevo i colori del quartiere, onorando un carro della Madonna; poi lanciansi a corso i cavalli, e non potrebbe descriversi la smania che quel popolo mostra per la sorte della gara; invocano Dio e la Madonna e il santo speciale di ciascuna contrada, urlano, piangono, finchè sia assicurato il vincitore: allora letteralmente portano lui e il cavallo in trionfo, e fin alla chiesa della contrada, ove si depone in voto la bandiera. [101] _Carnisprivium_ è spesso chiamato nelle carte vecchie; come dai Greci αποκρεος _senza carne_. Altre volte dicesi _carnis levamen, carnem laxare_, onde _carnasciale_. [102] AUL. TICIN., cap. XIII. [103] _Storie_, lib. XIII. LASCA, _Pref. alle Novelle_: «Semo ora in carnevale; nel qual tempo è lecito a’ religiosi di rallegrarsi, e i frati tra loro fanno al pallone, recitano commedie, e travestiti suonano, ballano e cantano; e alle monache ancora non si disdice, nel rappresentare le feste, questi giorni vestirsi da uomini colle berrette di velluto in testa, colle calze chiuse in gamba e colla spada al fianco». [104] SAGORNINO, _Cronaca_. [105] Luchino Visconti risparmiò all’erario milanese trentamila fiorini d’oro, che annualmente si davano per mercede a giullari. [106] AUL. TICIN., cap. XV. [107] _Mem. del B. Enrico_, par. I. p. 21. Alla materia di questo capitolo è necessario complemento il cap. CXXIII. [108] Di tutto ciò porge esempj il San Vitale di Ravenna; un arco a frontone è la porta postica di San Fedele a Como; un altro l’edifizio circolare effigiato nel musaico dell’abside di Sant’Ambrogio a Milano. [109] Dopo tant’altri, vedi QUAST, _Die Altchristlichen Bauwerke von Ravenna_, Berlino 1842; e per quanto segue, SCHORN e THIERSCH, _Reisen in Italien seit_ 1822; OSTEN, _Die Bauwerke in der Lombardei vom siebenten bis zum vierzehnten Jahrhundert gezeichnet, und durch historische Text erläutert_. Darmstadt 1846; SELVATICO, _Sulla architettura e scultura_, Venezia 1847. [110] L’autore è nominato _Volvinus_; e Texier e Didier Petit, nell’_Essai sur les émaux_, lo fanno nativo di Limoges, perchè colà fiorivano tali arti! [111] _Hoc opus eximii præpollens arte magistri_ _Bis novies lustris annis jam mille peractis_ _Et tribus cœptum post natum Virgine Verbum._ [112] _Quod vix mille boum possent juga cuncta movere,_ _Et quod vix potuit per mare ferre ratis,_ _Buscketi nisu, quod erat mirabile visu,_ _Dena puellarum turba levabat onus._ Così l’epigrafe ivi posta. Che Buschetto non fosse greco ma pisano s’induce da un istromento del 2 dicembre 1105, il quale porta quattro operaj del duomo di Pisa, Uberto, Leone, Signoretto e Buschetto, figlio del _quondam_ Giovanni Giudice. [113] Sono disegnati nell’opera di LUIGI MAZARA, _Temple antidiluvien dit des Géants, découvert dans l’île de Calipso, aujourd’hui de Gozo près de Malta_. Parigi 1827. Questo tempio fu supposto antediluviano. [114] DE LUYNES, _Recherches sur les monuments et l’histoire des Normands et de la maison de Souabe dans l’Italie méridionale_. 1844; SERRA DI FALCO, _Del duomo di Monreale e di altre chiese siculo-normanne_. 1838. [115] _Lettere senesi sopra l’arti belle_, tom. II, p. 75. [116] Nelle commissioni che la repubblica di Genova dava il 1175 al Grimaldi per un trattato coll’imperatore di Costantinopoli, leggiamo: _Item pro opere nostre matris ecclesie pulchra et laudabili fabricacione ad honorem Dei et gloriosi martiris beati Laurentii.... petite a sanctitate imperiali XM perperorum et annuatim postmodum quod conveniens videatur, donec opus Deo auctore, compleatur_. Ap. SAULI, _Col. di Galata_. La basilica dì Bologna fa eretta, come dice l’editto 31 gennajo 1390, _cupientes statum popularem et felicissimam libertatem hujus almæ civitatis, Deo propitio, in æternum propagari, ut inexorabile jugum durissimæ servitutis nos et posteri nostri propensius evitemus, quod profecto acerbius foret propter amœnam degustationem floridæ libertatis, quam ipse Deus nobis contulit_. [117] Di edifizj gotici, nelle diverse gradazioni di questo stile, in Sicilia, si hanno in Palermo la Matrice 1169, la Martorana 1139, la Cappella palatina 1130, San Cataldo 1161, San Salvadore 1198, la cattedrale di Catania 1170, il duomo di Monreale 1186, la cattedrale di Cefalù 1131; a Roma Santo Spirito in Saxia 1198, San Giovanni e Paolo, Sant’Antonio abate, Santa Pudenziana 1130, Santa Maria Transtevere 1139. Inoltre San Nicolò di Bari 1197; la cattedrale di San Leo 1173; quella di Ferrara 1135; la torre della Garisenda a Bologna 1110; Fonte Branda a Siena 1193, e il duomo di questa città 1180; a Pistoja San Salvadore 1150, Sant’Andrea 1166, la facciata di San Bartolomeo 1167 e di San Giovanni; a Pisa Sant’Andrea 1110, la torre inclinata 1174, il battistero 1153, San Matteo 1125. A Genova si comincia San Lorenzo 1199; a Piacenza la cattedrale 1117; a Parma il battistero 1196; a Padova Santa Sofia verso il 1200, e il battistero nel 1167; a Cremona la cattedrale nel 1107; presso Milano la chiesa di Chiaravalle 1135; a Bergamo Santa Maria Maggiore 1134, e là vicino San Tommaso di Almenno 1100. Poi nel secolo XIII Santa Maria del Fiore a Firenze 1298; San Francesco d’Assisi 1226; a Padova il Santo 1231; a Roma la Minerva 1280; a Siena la facciata del duomo 1284; il duomo d’Orvieto 1290; d’Arezzo 1256; il camposanto di Pisa 1278, e Santa Maria della Spina 1230; Santa Maria Novella 1279, e Santa Croce 1294 a Firenze; a Napoli il duomo 1280; il battistero di Bergamo 1275; il campanile di Cremona 1284; a Milano Sant’Eustorgio 1278, San Marco 1254, la piazza dei Mercanti 1233; a Venezia i Frari e San Giovanni e Paolo 1246; la cattedrale di Vicenza 1260; ad Arezzo Santa Maria dei Servi 1286, Santa Margherita da Cortona 1297; Or San Michele 1284, la Santissima Trinità 1250, e il palazzo vecchio a Firenze; la facciata di San Lorenzo a Genova 1260; Santa Maria del Popolo a Roma 1277. Al XIV secolo appartengono Santa Anastasia, il duomo di Verona e San Pietro martire, San Fermo Maggiore; a Pavia il Carmine 1373; a Venezia il campanile dei Frari 1361, Santo Stefano 1325, il palazzo ducale 1350; a Firenze, oltre i restauri d’Or San Michele e le cappelle della Madonna 1348 e di Sant’Anna 1349, la loggia dei Lanzi 1355, la Certosa 1314; San Martino di Lucca restaurato 1308; San Martino di Pisa 1332; il campanile di Pistoja 1301; il duomo di Prato 1312; quel di Perugia 1300; il palazzo Pepoli a Bologna 1344; Santa Chiara di Napoli 1328. [118] Vedi marchese FERDINANDO CANONICI, _Studj sulla cattedrale di Ferrara_, Venezia 1845. [119] Fu primamente pubblicato dal DEL MIGLIORE nella _Firenze Illustrata_ 1684, e se anche non è autentico, fu pensato e scritto di quei tempi. Ecco la cronologia di Santa Maria del Fiore: 1294. Si decreta il rinnovamento dell’antica chiesa di S. Riparata. 1296. È benedetta la prima pietra, e l’iscrizione dice: _Annis millenis, centum, bis octo nogenis_ _Venit legatus Roma bonitate donatus,_ _Qui lapidem fixit fundo simul et benedixit, etc._ 1334. Giotto è nominato architetto; si comincia il campanile. 1350. Si ripiglia il lavoro, interrotto per la peste. 1364. Si fanno le volte. 1393. Si crea una balìa per provvedere a costruir la cupola. 1420. Brunelleschi è nominato architetto della cupola 1423. e di tutta la fabbrica. 1462. Si finisce la lanterna. 1474. Si mette la palla. 1547. Si fabbrica il coro di marmo. 1515. Si mette una facciata di legno. 1588. Si demolisce la parte antica della facciata giottesca. 1636. Se ne comincia una nuova, non mai compita. Dicono che Arnolfo sotto l’edifizio aprisse grandi pozzi, acciocchè i gas elastici, sviluppati per azione del fuoco centrale, vi trovassero libera uscita; fatto notevole nella fisica d’allora. [120] Sono de’ più curiosi documenti dell’arte i sedici progetti della facciata, che stanno nella residenza della reverenda fabbrica, disegni originali de’ primarj architetti. Dove giova avvertire che i migliori maestri non palesarono per lo stile gotico quel disprezzo, che poi parve un indizio di buon gusto. Palladio, interrogato sulla facciata di San Petronio, voleva si conservasse il basamento, e s’acconciasse il restante all’aria generale dell’edifizio; e mostrò come di gotico sieno bellissime fabbriche per l’Italia. Sul fatto medesimo Pellegrino Tibaldi asserisce che «li precetti di essa architettura sono più ragionevoli di quello che altri pensa». Vedi molte delle lettere del vol. III del _Carteggio d’artisti_ del Gaye, e singolarmente i numeri CCXCV, CCCXLIX, CCCLXXX. Principale attenzione merita il numero CCCCVIII, ove si discute sui modi di coprire San Petronio, alcuni volendo ridurlo secondo Vitruvio, altri mantenere la foggia _tedesca_. [121] Un’iscrizione (si noti che in molti edifizj già si trovano iscrizioni italiane) dice: _El principio dil domo de Milano fu nell’anno 1386_. È certo più moderna; e nel decreto 1387, 16 ottobre, leggesi: _Ad utilitatem et debitum ordinem fabrica majoris ecclesiæ Mediolani, quæ de novo, Deo propitio et intercessione ejusdem Virginis gloriosæ, sub ejus vocabulo_, JAM MULTIS RETRO TEMPORIBUS INITIATA EST, _quae nunc, divina inspiratione et suo condigno favore, fabricatur, et ejus gratia mediante, feliciter perficietur_. Negli _Annales archéologiques_ del 1845, sostenendosi l’origine francese dell’architettura ogivale, è asserito che dal nord della Francia vennero chiamati gli architetti a tracciare il piano d’essa metropolitana, e si nomina specialmente Filippo Bonaventura di Parigi. Gli archivj patrj ajutano scarsamente a conoscere i primi architetti: ma nella prima adunanza di cui abbiamo gli atti, nel 1388 si trovano gl’ingegneri Simone da Orsenigo direttore dei lavori, Marco, Giacomo, Zeno, Bonino da Campione, Guarnerio da Sirtori, Ambrogio Ponzone; tutti però mostrano decidere sopra un disegno d’un altro. Chi era quest’altro? la tradizione nomina un Gamodia; ma Enrico di Gmunden non venne che nel 1392, quando il lavoro già era inoltrato; disapprovò tutto, espose al pubblico un modello d’un capitello dei piloni; ma che altro facesse, non consta. Essi Annali (p. 140) dicono: _Tous les architectes de ce célèbre édifice sont connus, depuis le premier jusqu’au dernier. Dès la seconde année des travaux, Philippe Bonaventure de Paris devenait maître de l’œuvre, et conservait la maîtrise pendant huit ans, jusqu’à ce que des événements politiques (l’expédition du comte d’Armagnac) le fissent exiler de l’Italie, ainsi que les autres Français qui travaillaient sous sa direction_. Asserzioni gratuite. Nel 1390 diffatti è un protocollo _quod cassetur magister Nicolaus de Bonaventis_ (forse è abbreviato) _inzign. a salario quod sibi datur pro fabr. et tollatur ab opere ipsius fab. penitus_; e torna ingegnere in capo Simone da Orsenigo. Molti Tedeschi vi lavorarono certo, quali Giovanni de Fernach, Giovanni da Furimburg, Pietro di Franz, Hans Marchestein, Ulrico Fusingen o Eisingen di Ulma. Quando rivaleva il gusto classico, Cesare Cesariano pretese riscontrare i precetti di Vitruvio in quella _maxima sacra ede baricefala_; nella quale, a dir suo, ricorrono i numeri simbolici 7, 10, 12; cinquanta piedi da un pilone all’altro dell’arcata; cinquanta si elevano le colonne, metà le navi piccole, il triplo la facciata; e tutto l’edifizio è tre volte la larghezza totale; sette finestre ha il coro, e due volte sette colonne fiancheggiano le navate. [122] V’è scritto: _Cosmas et filii Lucas, et Jacobus alter,_ _Romani cives in marmoris arte periti,_ _Hoc opus explerunt abatis tempore Landi._ Lando fu abate nel 1235. [123] Sono qualificate di turrita Pavia, Volterra, Cremona, Siena, principalmente Bologna. Vedi GOZZADINI, _Delle torri gentilizie di Bologna_. [124] In Santa Restituta, attigua al duomo di Napoli, mostrano la Madonna del Principio a musaico, come fatto ai tempi di Costantino. Ma l’iscrizione smentisce la tradizione, dicendo: _Annis dat clerus jam instaurator partenopensis_ _Mille tricentenis undenis bisque retensis._ E ancor più difficilmente vi si legge: _Hoc opus fecit Lellus_. Ivi nella cappella di San Giovanni in Fonte sono pitture del 550. [125] Il Rosini dubita dell’autore o del tempo, atteso che sieno troppo rozze: egli non vide quelle di Monreale. [126] _Quicquid auro vel argento_ _Et metallis ceteris,_ _Quicquid lignis ex diversis_ _Et marmore candido,_ _Nullus unquam sic peritus_ _In tantis operibus._ _Horologium nocturnum_ _Nullus ante viderat,_ _Et invenit argumentum,_ _Et primum fundaverat._ Si avverta la rima alla francese, cioè come se l’accento cadesse sempre sull’ultima sillaba. [127] Al tempo del Meschinello contenea milletrecento perle, quattrocento granate, novanta ametiste, trecento zaffiri, trecento smeraldi, quindici balasci, quattro topazj, due cammei preziosissimi, incastonati in oro. [128] _Munere divino, decus et laus sit Peregrino_ _Talia qui sculpsit; opus ejus ubique refulsit._ [129] Per quelle opere riceveva soldi otto al giorno; il suo figlio Giovanni quattro; sei gli altri allievi. [130] La cronologia di queste opere è emendata dal Rosini, _St. della pittura italiana esposta coi monumenti_, Pisa 1840 e seg., e dal p. Marchesi. Vedi pure DAVIA, _Mem. storico-artistiche intorno all’arca di San Domenico_. Bologna 1838. [131] Il Davia trovò il documento originale, con cui i frati Minori nel 1288 ne danno la commissione a questi, per ducati 2150 d’oro. [132] Egidio Boucher nel 1612 vedeva quelle pitture ad Aquisgrana, e vi lesse questi versi: _A patriæ nido rapuit me tertius Otto_.... _Claret Aquisgranæ tua qua valeat manus arte._ E nel suo epitafio: _Qua probat arte manus dat Aquis dat cernere planum_ _Picta domus Karoli rara sub axe poli._ [133] In Napoli vedeasi Federico II in trono, e Pier delle Vigne in cattedra, e lor davanti il popolo che chiedeva giustizia con questi versi: _Cæsar amor legum, Federice piissime regum,_ _Causarum telas, nostras resolve querelas:_ e Federico additando Pietro, rispondeva: _Pro vestra lite censorem juris adite._ _Hic est, jura dabit, vel per me danda rogabit:_ e a Pietro usciva di bocca: _Vinea cognomen, Petrus judex est tibi nomen._ Le pitture di Subiaco si sa dalle cronache che furono fatte sotto i papi Innocenzo III, Onorio III, Gregorio IX, cioè dal 1198 al 1241. Ora vi si legge _magister Consulus pinxit hoc opus_. Sarebbe dunque un pittore antichissimo, romano probabilmente di nazione come di nome; e se tutte son di sua mano, mostrerebbero che già staccavasi dalla secchezza de’ Bisantini. [134] La repubblica di Perugia nel 1297 ordinò di cancellare tali ritratti. Altre volte si effigiavano i condannati: nel bando di Federico II contro Verona il 1239 è detto che i ribelli erano ritratti nella sala. Altre pitture si ordinarono nella sala della Ragione di Padova. [135] L’Escalopier fece nel 1843 a Parigi una nuova edizione di quest’opera, attentamente collazionata e con versione francese e note: esso la crede d’autore tedesco. Guichard vi unì una dissertazione sull’autore, ch’e’ collocherebbe tra il fine del XII e il principiare del XIII secolo. Vedasi i capi _De coloribus et de arte colorandi vetra_, e _De rubricandis ostiis et de oleo lini_. Poi in quello _De coloribus oleo et gummi terendis_ scrive: _Omnia genera colorum eodem genere olei teri et poni possunt in opere ligneo, in his tantum rebus quæ sole siccari possunt, quia, quotiescumque unum colorem imposueris, alterum ei superponere non potes, nisi prior exsiccetur, quod in imaginibus diuturnum et tædiosum nimis est. Si autem volueris opus tuum festinare, sume gummi quod exit de arbore ceraso vel pruno, et concidens illud minutatim, pone in vas fictile, et aquam abundanter infunde, et pone ad solem, sive super carbones in hieme, donec gummi liquefiat, et ligno rotundo diligenter commisce; deinde cola per pannum, et inde tere colores et impone. Omnes colores et misturæ eorum hoc gummi teri et poni possunt, præter minium et cerussam et carmin, qui cum claro ovi terendi et ponendi sunt_. [136] Giovanni pisano in Sant’Andrea di Pistoja scrisse: _Laude Dei trini rem ceptam copulo fini;_ a Pisa: _Laudo Deum verum, per quem sunt optima rerum,_ _Qui dedit has puras homini formare figuras;_ a Castel San Pietro presso Pisa: _Magister Johannes... fecit ad honorem Dei et sancti Petri apostoli;_ a San Paolo fuor delle mura: _Summe Deus, tibi hic abbas Bartholomæus_ _Fecit opus fieri, sibi te dignare mereri._ Duccio di Buoninsegna sotto la tavola del duomo di Siena pose: _Mater sancta Dei, sis causa senis requiei._ _Sis Ducio vita te quia pinxit ita._ Gelasio di Nicolò a Ferrara: _Jesù spos dilet, a ti me rachomando, doname fede._ Sotto al quadro di Guido da Siena nella sua patria leggerebbero: _Me Guido de Senis diebus pinxit amœnis_ _Quem Christus lenis nullis velit agere pænis_ _Anno D._ MCCXXI. Ma la critica obbliga a leggere MCCLXXXI. [137] BISCIONI, _Lettere di santi e beati fiorentini_. [138] Il signor Raynouard (_Choix des poésies originales des Troubadours_) la sostiene: ma i medesimi accidenti incontransi nel valacco, ben distinto dal romanzo. Il Perticari si valse degli argomenti stessi per umiliare Firenze col derivare il parlar nostro dal provenzale. [139] Pier d’Alvernia, presso MILLOT, _Storia de’ Trovadori_. Una raccolta di poeti provenzali nella biblioteca di Modena, fatta fin dal 1254, porta quest’annotazione: «Maestro Ferrari fu da Ferrara e giullare; e s’intendeva meglio di trovare ossia poetar provenzale, che altro uomo che fosse mai in Lombardia; e meglio intendeva la lingua provenzale, e sapea molto bene di lettere, e nello scrivere non aveva persona che il pareggiasse. Fece di molti buoni libri e belli. Cortese uomo fu di sua persona; andò e volentieri servì a baronie cavalieri, ed a’ suoi tempi stette nella casa d’Este; e quando accadeva che i marchesi facessero festa e corte, vi concorrevano i giullari che s’intendevano di lingua provenzale, e convenivano a lui, e il chiamavano maestro. E se alcuno ci venìa che s’intendesse meglio degli altri, e che facessero quistioni del trovar suo e d’altri, maestro Ferrari gli rispondeva all’improvviso, in maniera ch’egli era il primo campione della corte del marchese d’Este. Da giovane attese ad una donna che avea nome madonna Turca, e per lei fece di molte buone cose. Venuto vecchio, poco andava attorno, pure si conduceva a Trevigi, a messer Gerardo da Camino ed a’ suoi figliuoli, che gli facean grand’onore e accoglienze e regali». [140] Vedi il nostro _Ezelino da Romano, storia d’un Ghibellino esumata da un Guelfo_. [141] Ecco qualche strofa della Barca: _De quatre element ha Dio lo mont formà,_ _Fuoc, ayre, ayga e terra son nomà._ _Stelas e planetas fey de fuoc,_ _L’aura e lo vent han en l’ayre lor luoc._ _L’ayga produy li oysel e li peyson,_ _La terra li jument e li om fellon._ _La terra es lo plus vil de li quatre element,_ _De la cal fo fayt Adam paire de tota gent._ _O fang, o polver, or te ensuperbis!_ _O vaysel de miseria, or te enorgolhis!_ _Hornate ben, e quer vana beotà (beltà),_ _La fin te mostrare que tu aures obrà._ V. RAYNOUARD, t. II. p. 103. Ma dell’età di quelle molto si dubita. [142] TIRABOSCHI, IV. 51; e il nostro Cap. XC, nota 20. [143] _Sim licet agrestis, tenuique propagine natus,_ _Non vacat omnimoda nobilitate genus._ _Non præsigne genus, nec clarum nomen avorum,_ _Sed probitas vera nobilitate viget._ [144] Il padre Spotorno lo difende mostrando che i passi insulsi vi furono interpolati. [145] «Questa presente opera è stata impressa per Antonio de Alexandria della Paglia, Bartholomeo de Fossombrono de la Marcha, et marchesino di Salvioni milanese, nella inclita città, di Venexia, negli anni del incarnatione MCCCCLXXXI». A correzione del Crescimbeni e del Tiraboschi vedi _Il Maurolico_, giornale di Messina, nel novembre 1833. [146] _Seu cantare juvat, seu ter pede læta ferire_ _Carmina_... CALPURNIO, Ecl. IV. _Dumque rudem præbente modum tibicine thusco_ _Ludius æquatam ter pede pulsat humum._ OVIDIO, Ars. am. [147] _Gallias Cæsar subegit, Nicomedes Cæsarem etc._ _Ego nolo Florus esse etc._ e così il notissimo epigramma: _Animula, vagula, blandula._ Orazio, tutto greca umanità, chiama orrido il verso saturnio; ma confessa che, malgrado de’ grecanici, si conservava ancora al suo tempo: _Horridus ille_ _Defluxit numerus saturnius, et grave virus_ _Munditiæ pepulere; sed in longum tamen ævum_ _Manserunt, _hodieque manent_ vestigia ruris._ Ep. I. lib. 2. [148] Ovidio amava cominciare col dattilo, Virgilio collo spondeo; Claudiano gli alterna, e per lo più il primo piede è dattilo, spondeo il quarto. La cesura nel secolo d’oro trovasi dopo il secondo piede; Claudiano la mette dopo il primo e dopo il terzo. Al tempo della decadenza si volle sempre terminato il verso con un bisillabo. [149] San Paolino d’Aquileja prega il lettore a perdonargli _cum aut per incuriam brevem pro longa, aut longam pro brevi_ trovasse; e Fortunato di Valdobbiadene: _Posthabui leges, ferulas et munia metri;_ _Non puto grande scelus, si syllaba longa brevisque_ _Altera in alterius dubia statione locetur._ [150] Ne occorrono in questo volume frequenti esempj. — Nel Fabretti leggiamo quest’epitafio: _Nome fuit nomen; hæsit nascenti Cosuccia,_ _Utraque et hoc titulo nomina significo._ _Vixi parum, dulcisque fui dum vixi parenti;_ _Hoc titulo tegor, debita persolui._ _Quisque legis titulum, sentis quam vixerim parum,_ _Hoc peto nunc dicas, Sit tibi terra levis._ [151] Omero: Ἒσπετε νῦν, μοῦσαι, ὀλύμπια δόματ’ ἔχουσαι. Spessissime sono le rime ne’ Greci, e massime nell’_Edipo a Colono_ e nelle Trachinie di Sofocle. Orazio: _Non satis est pulchra esse poemata: dulcia sunto,_ _Et quocumque volent animum auditoris agunto._ Virgilio: _Cornua velatarum obvertimus antennarum._ Ovidio: _Quot cœlum stellas tot, habet tua Roma puellas._ Properzio: _Non non humani sunt partus talia dona;_ _Ista deûm mentes non peperere bona._ Si sarebbe infiniti a volerli addur tutti; ma non isfugga che la prima ode d’Orazio è quasi tutta rimata colle rime imperfette. Son pure notissimi i quattro versi di Virgilio: _Sic quos non vobis fertis aratra boves_ etc.; e questi di Ennio presso Cicerone, _Tuscul._: _Hæc omnia vidi inflammari,_ _Priamo vitam evitari,_ _Jovis aram sanguine turpari._ [152] Così san Colombano: _Differentibus vitam mors incerta surripit;_ _Omnes superbos vagos mœror mortis corripit._ [153] In un antifonario bencorense, del VII od VIII secolo, il Muratori trovava questi versi di rima perfetta: _Vere regalis aula — variis gemmis ornata,_ _Gregisque Christi caula — Patre summo servata._ Pier Damiani nel 1053 ne usava di perfette ed imperfette: _Ave David fil_ia — _sancta mundo n_ata, _Virgo prudens, sobr_ia — Joseph despons_ata. _Ad salutem omn_ium — _in exemplum d_ata _Supernorum civ_ium — _consors jam prob_ata. E altrove: _O miseratrix — o dominatrix — præcipe dictu_ _Ne devastemur — ne lapidemur — grandinis ictu._ [154] Frà Jacopone da Todi compose quinarj sdruccioli: _Cur mundus militat sub vana gloria,_ _Cujus prosperitas est transitoria?_ _Tam cito labitur ejus præsentia,_ _Quam vasa figuli quæ sunt fragilia etc._ [155] _Dulce et decorum est pro patria mori,_ _Jam satis terræ nivis atque diræ..._ _Ibis liburnis inter alta navium..._ Orazio. _Phaselus ille quem videtis, hospites..._ Catullo. [156] La partenza che fo dolorosa E penosa — più ch’altra m’ancide, Per mia fide — a voi dà bel diporto. [157] È nell’Allacci, _Poeti antichi_, dove n’ha pure due di Cecco Nuccoli da Perugia, con tre terzetti. [158] Prima di lui abbiamo l’ottava in Tibaldo conte di Champagne presso PASQUIER, _Recherches de la France_, Parigi 1617. Anche fra gli Arabi se ne trova. [159] Frà Bonvexin de Riva che sta in borgo Legnano, D’ le cortesie de desco ne disette primano; D’ le cortesie cinquanta che s’ dè usare a desco Frà Bonvexin de Riva ne parla mo de fresco. Dello stesso Buonvicino il codice Nº 92 della biblioteca Ambrosiana contiene una _disputatio Roxe et Viole_, che comincia: In nome de Dio grande e de Bonaventura, Chilò (_qui_) si da comenzo a una legenda pura De gran zoya e solazo: zaschun sì n’abia cura D’imprender ste parole de dolze nudridura. Altri versi suoi cantano la _dignitade de la glorioxa vergine Maria_: Quella viola olente, quella roxa fioria, Quella è bianchissim lilio, quella è gemma fornia, Quella è nostra advocata, nostra speranza e via, Quella è piena de gratia, piena de cortexia... Quella è salut del mondo, vaxello de deitade, Vaxello pretioxissim, e pien d’ogni bontade, Vergen sopra la vergen, soprana per beltade, Magistra d’ cortexia, et de grande humiltade ecc. Se ne hanno pure varie leggende, di san Cristoforo, di santa Lucia, dello schiavo Dalmasina. Quest’ultima comincia: Intendete, signori, sel vi piace ascoltare D’uno bello sermone eo ve vollio cuntare; Se voi ponete mente, ben ve porà zovare; Chè sempre de la morte se dee l’uom recordare. Chi serve a Jesu Cristo non può mal arrivare. Lo sclavo Dalmasina per nome era chiamato, E ’l fo de la Zizilia, e in Palermo el fo nato ecc. Quest’è il verso martelliano; e in esso fu pur dettata da Boezio di Rinaldo aquitano la storia d’Aquila dal 1252 al 1362. _Rer. It. Scrip._ Non credo potermi valere d’altri poeti derivati dalle disputate carte d’Arborea. [160] È manoscritto; e vedasi MAFFEI, _Verona illustrata_, par. II. lib. 2. [161] _Vulg. eloq._, I. 13; _Purg._, XXIV. [162] L’edizione del 1474 è citata dal MEHUS, _Vita Ambrosii camaldolensis_, pag. 156. L’orrido guazzabuglio del _Patafio_ che gli si attribuisce, è almeno d’un secolo posteriore, come provò il Dal Furia. [163] _Convivio — De vulgari eloquio — Purg._, XXVI; e l’_Epistola al signor Federigo_, comunemente ascritta al Poliziano, ma da Apostolo Zeno con buone ragioni attribuita a Lorenzo de’ Medici. [164] In un boschetto trovai pastorella Più che la stella bella, al mio parere; Capegli avea biondetti e ricciutelli, E gli occhi pien d’amor, cera rosata; Con sua verghetta pasturava agnelli, E scalza, e di rugiada era bagnata; Cantava come fosse innamorata, Era adornata di tutto piacere. D’amor la salutai immantinente, E domandai se avesse compagnia; Ed ella mi rispose dolcemente Che sola sola per lo bosco gìa, E disse: Sappi quando l’augel pia, Allor desìa lo mio cuor drudo avere. Ballata _Era in pensier d’amor_. Gli esempj degli altri diamo nell’Appendice I. [165] Buonagiunta scriveva a Guido Guinicelli: E voi passate ogni uom di sottiglianza Che non si trova già chi ben disponga; Cotanto è scura vostra parlatura. [166] _Vita nuova._ — Sono i pensieri che espresse nel sonetto, il più bello fra gli amorosi che abbia la nostra favella, me lo perdoni il Petrarca: Tanto gentile e tanto onesta pare La donna mia, quand’ella altrui saluta, Che ogni lingua divien tremando muta, E gli occhi non ardiscon di guardare. Ella sen va, sentendosi lodare, Benignamente d’umiltà vestuta, E par che sia una cosa venuta Di cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi sì piacente a chi la mira, Che dà per gli occhi una dolcezza al core, Che intender non la può chi non la prova; E par che dalle sue labbia si mova Uno spirto soave pien d’amore, Che va dicendo all’anima, Sospira. [167] Ma quel che più ti graverà le spalle, Sarà la compagnia malvagia e scempia, Con la qual tu cadrai in questa valle: e altrove per avverso: Cader coi buoni è pur di laude degno. [168] _Primus sensus est qui habetur per literam; alius qui habetur per significata per literam. Et primus dicitur literalis, secundus vero allegoricus, sive moralis. Est subjectum totius operis, literaliter tantum accepti, status animorum post mortem simpliciter sumptus; nam de illo et circa illum totius operis versatur processus. Si vero accipiatur opus allegorice, subjectum est homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem justitia praemiandi et puniendi obnoxius est. Finis totius et partis est removere viventes in hac vita de statu miseriæ, et perducere ad statum felicitatis._ Lettera a Can Grande. [169] Jacopo suo figlio nel commento inedito. [170] Le particolarità che il fanno tanto somigliare a Dante, potrebbero essere state aggiunte dal traduttore italiano, dopo conosciuta la Divina Commedia. Nella _Revue des Deux Mondes_, 1º 7bre 1842, si enumerano moltissime visioni dell’altro mondo che precedettero quella di Dante. Meglio Ozanam, nel _Correspondant_ del 1843, espose _les sources poétiques de la Divine Comédie_. Tra i moltissimi confronti ch’egli reca, è particolare questo d’una Saga scandinava: _Catervatim ibant illi ad Plutonis arcem, et gestabant onera e plumbo. Homines vidi illos qui multos pecunia et vita spoliarunt; pectora raptim pervadebant viris istis validi venenati dracones_ (Solar-Liod, 63, 64). Eccovi la città di Dite, le cappe di piombo degli ipocriti, e quel che è più particolare, i serpenti che inseguono i masnadieri. — Nell’_Alphabetum thibetanum_ il padre Giorgi pubblicò un’immagine dell’inferno secondo gl’indiani, che ha strana somiglianza con quel di Dante (tav. II. p. 487). L’inferno del Corano suppone sette porte, che conducono ciascuna ad un particolare supplizio. [171] Pensando a capo chino Perdei il gran cammino, E tenni alla traversa D’una selva diversa... Io v’era sì invescato, Che già da nullo lato Poteva mover passo. Così fui giunto lasso E messo in mala parte; Ma Ovidio per arte Mi diede maestria, Sì ch’io trovai tal via. _Tesoretto_. [172] GEREMIA, cap. V. vers. 6: _Percussit eos _leo_ de silva; _lupus_ ad vesperam vastavit eos; _pardus_ vigilans super civitates eorum: omnis qui egressus fuerit ex eis, capietur, quia multiplicatæ sunt prævaricationes eorum, confortatæ sunt aversiones eorum_. [173] E’ dice esplicitamente che Bice è un 9, cioè un miracolo cui radice è la santissima Trinità. [174] Sono cento canti in 14,230 versi, ripartiti in modo, che la prima cantica è appena superata di trenta dalla seconda, e di ventiquattro dalla terza. E a chi il supponesse caso, risponde il poeta: Ma perchè piene son tutte le carte Ordite a questa cantica seconda, Non mi lascia più ir lo _fren dell’arte_. [175] In Ricardo da San Vittore, _de præparatione ad contemplationem_, la famiglia di Giacobbe raffigura quella delle facoltà umane; Rachele e Lia, l’intelletto e la volontà; Giuseppe e Beniamino figli della prima, la scienza e la contemplazione, operazioni principali dell’intelletto; Rachele muore nel partorir Beniamino, come l’intelligenza umana svanisce nell’estasi della contemplazione. [176] Chiede consiglio da persona Che vede, e vuol dirittamente, ed ama. [177] Io mi son un, che quando Amore spira, noto, e in quel modo Ch’ei detta dentro, vo significando. [178] La contingenza, che fuor dal quaderno Della vostra memoria non si stende, Tutta è dipinta nel cospetto eterno. Necessità però quindi non prende Se non come dal viso in che si specchia, Nave che per corrente giù discende. [179] Nella dedica a Can della Scala vuole che il titolo dell’opera sua sia _Incipit Comœdia Dantis Alighierii, florentini natione non moribus_. E soggiunge: — Io chiamo l’opera mia Commedia, perchè scritta in umile modo, e per aver usato il parlar vulgare, in cui comunicano i loro sensi anche le donnicciuole». Ov’è a sapere che, nel _Vulgare eloquio_, distingue tre stili, tragedia, commedia, elegia. [180] Il Boccaccio in un sonetto dice: Dante Alighieri son, Minerva oscura D’intelligenza e d’arte. [181] L’anonimo commentatore ha: — Io scrittore udii dire a Dante che mai rima nol trasse a dire quello che aveva in suo proposito, ma ch’elli molte e spesse volte faceva li vocaboli dire nelle sue rime altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere». Questa è padronanza di genio, non merito, giacchè per essa dice _Vermo, Giuseppo, gli idolatre, allore, tarde, eresiarche, figliuole_ per figliuolo, _egli stessi, mee, trei, si partine, plaja, strupo, maggi, lodo, preghiero, di butto, robbi_ e _fusi_ e _cola_ e _agosta_ per stupro, maggiori, lode, preghiera, di botto, rossori, fussi, cole, augusta; dice che l’uomo si fa _sego_ per seco e _seguette_ per seguì; ha liberamente finito un verso con _Oh buon principio_, e ai due corrispondenti pone _scipio_ e _concipio_, storpiando questi anzichè modificar quello; e per comodo o di rima o di verso mette _nacqui suo Julo_, e _lome_, e _fazza_, e _Cristo abate del collegio_, e _conti_ i santi, e _cive_ di Roma ecc. Sarà sempre pedanteria suprema il volere che ne’ sommi si ammiri ogni cosa. [182] Crede la prima lingua creata coll’uomo, ed essere stata l’ebraica. Al contrario, nel _Paradiso_ l’avea creduta d’origine naturale, e che fosse perita. Egli sosteneva che al primo uomo fosser rivelate tutte le scienze: Tu credi che nel petto, onde la costa Si trasse per formar la bella guancia, Il cui palato tanto al mondo costa, Qualunque alla natura umana lece Aver di lume, tutto fosse infuso. _Par._, XIII. [183] _Vulg. eloq._, I. 15. Eppure già erano fioriti un Giovanni da Modena, un Anselmo e un Antonio dal Berrettajo ferraresi; e a Reggio diversi della famiglia da Castello, e un Gherardo che corrispose di sonetti con Cino da Pistoja; poi furono ferraresi il Bojardo, l’Ariosto, il Minzoni, il Monti. [184] La dimostrazione di fatto può vedersi in GALVANI, _Sulla verità delle dottrine perticariane nel fatto storico della lingua._ Milano 1845, pag. 124 seg. E vedasi il Manzoni. [185] Non credo cantato il poema, bensì le poesie amorose, alcune delle quali supremamente soavi, come questa: Quantunque volte, lasso, mi rimembra Ch’io non debbo giammai Veder la donna ond’io vo sì dolente, Tanto dolore intorno al cor mi assembra La dolorosa mente, Ch’io dico, Anima mia, che non ten vai? [186] _Karolensis ponatur in igne ut accendatur; et sic totus calidus et accensus ab igne imprimatur in facie illius vel illorum qui karolensem pro minori quantitate dederint vel expenderint._ Decreto dei 1268. [187] _Capitoli del regno di Napoli_, novembre 1275. [188] NICOLA BUSCEMI, _Vita di Giovanni da Procida_, 1841. — Michele Amari (_Un periodo della storia siciliana_, Palermo 1842) sfronda l’alloro che la storia e la poesia attribuirono a Giovanni da Procida e a Ruggero di Loría, ch’e’ chiama _stranieri_ perchè della terraferma. Molti lo confutarono. [189] Ap. RAYNALD., ad 1267, § 4. [190] Adottò questa tradizione Dante, _Inf._, XX: Carlo venne in Italia, e per ammenda Vittima fe di Corradino, e poi Ripinse al ciel Tommaso per ammenda. Avrebbe forse san Tommaso alluso alla tirannia di Carlo nel libro _De regimine principum_? [191] Negli atti di quella pace, riferiti dal Ghirardacci, lib. VIII, si trovano distinte le famiglie delle due fazioni. [192] _Tractabat... ut totum imperium in quatuor divideretur partes; in regnum Alemaniæ, quod dabatur posteris Rodulphi in perpetuum; in regnum viennense, quod dabatur in dotem uxori Caroli Martelli, filiæ dicti Rodulphi: de Italia vero, præter regnum Siciliæ, duo regna fiebant, unum in Lombardia, aliud in Tuscia._ PTOLOMEI LUCENSIS, Hist. eccl. — _Adnisus est ut cognatos suos eveheret, et alterum in Etruria, alterum in Longobardia reges faceret, quoniam Rodulphus imperator, rebus germanis impeditus, in Italiam non veniebat. Verum civitates Italiæ imperatori adhærentes contrastabant, et misso locumtenente per Rodulphum in Italiam, consilia pontificis frustrata sunt._ ABBAS USPERGENSIS, Chron. [193] «Passò in Sicilia con circa ducento tra galee e vascelli armati, tra’ quali furon molti Veneziani, e tra quelli diversi suoi regj e vassalli, messer Marco Badoer e messer Jacomo Tiepolo Scopolo, il qual condusse seco gran compagnia, nella qual si fu anco messer Lorenzo Tiepolo suo parente e mio cugino». MARIN SANUTO il vecchio. [194] Allora vi si cantava questa canzone: Deh! com’egli è gran pietate Delle donne di Messina, Veggendole scapigliate Portar pietre e calcina. Iddio dia briga e travaglio A chi Messina vuol guastare. [195] Giovan Villani vorrebbe che il duello si fosse giurato al cospetto del papa. Al contrario, Martino IV nella sua bolla dice: _Duellum reprobamus, irritamus, ac penitus vacuamus, cum non sit omnino ab Ecclesia tollerandum_. [196] E tali s’affatica a mostrarli il Giannone, che, scandolezzato dal vedere un papa italiano frenare il venturiero tiranno francese, ammonisce i re «di guardarsi molto bene a commettere la cura ed il governo de’ loro Stati ad altri che a se stessi ed a’ loro più fedeli ministri». L’hanno imparata tal lezione. [197] — Re Jacobo con parte de’ suoi cavalieri e altra gente si partì di Sicilia, e andò a Roma ove era la Corte, e fu a parlamento con il pontefice. Il pontefice fra le altre cose li disse, che l’avea raso senza bagnarlo; nè senza causa li disse queste parole, perchè l’armata costava al pontefice ogni giorno miladucento onze d’oro, ed era stato detto re Jacobo in quel viaggio e spedizione circa un anno e mezzo». MARIN SANUTO. [198] _Calath al-Bellut_, castello delle querce. E di simile radice molti nomi sorvivono in Sicilia. [199] Della vita di quei baroni ci è saggio la storia di Macalda di Scaletta. Vedova di un Guglielmo d’Amico, esigliato al tempo degli Svevi, era andata profuga in abito di frate Minore, stette a Napoli, a Messina, e da Carlo d’Angiò ricuperò i beni confiscati al marito. Sposatasi ad Alaimo di Lentini, uno dei più fervorosi nel Vespro, tradì i Francesi che a lei, come beneficata da Carlo, rifuggivano in Catania, della qual città suo marito fu fatto governatore. Quand’egli andò alla guerra di Messina, essa ne tenne le veci; e sui quarant’anni, pure ancor bella, generosa nel donare, vestiva piastre e maglie; e con una mazza d’argento alla mano, emulava i cavalieri ne’ cimenti guerreschi. Di sua onestà chi bene disse, chi ogni male. Aspirò agli amori di re Pietro, lo accompagnò, gli chiese ricovero; ma egli non volle comprenderla, di che essa pensò vendicarsi. Alaimo fu poi fatto maestro giustiziere, e valse a reprimere i molti che reluttavano alla nuova dominazione, e acquistò tal reputazione che eccitò la gelosia dell’infante don Giacomo. La crescevano i superbi portamenti di Macalda, la quale tenevasi alta fin con Costanza, e non volea dirle regina, ma solo madre di don Giacomo; se compariva alla Corte, era per isfoggiare abiti e gioje. Contro ogni decenza, volle in un convento passar la gravidanza e il parto, sol per godere l’amenità del luogo: Costanza fu a visitarla, e n’ebbe accoglienze sgarbate; offrì di levare al battesimo il neonato, e Macalda rispose non voler esporlo a quel bagno freddo, poi tre giorni appresso vel fece tenere da popolani. Costanza, male in salute, si fece portare in lettiga da Palermo al duomo di Monreale; e Macalda essa pure, per le strade della città e fin a Nicosia in lettiga coperta di scarlatto, di che fu un gran mormorare. Re Giacomo viaggiava con trenta cavalli di scorta; e Macalda con trecento, e volea far da giustiziere, e apponeva a re Pietro di avere mal compensato coloro, che del resto l’aveano domandato compagno e non re. Alaimo condiscendeva alla moglie, e dicono le giurasse non dar mai consigli a danno dei Francesi, anzi procurarne il ritorno in Sicilia. Se il facesse nol sappiamo; certo i re aragonesi gli si avversarono, fors’anche per la solita ingratitudine a chi più beneficò. Giacomo finge spedire Alaimo in gran diligenza a suo padre in Catalogna per sollecitarne ajuti: Alaimo va, è accolto con ogni maniera di cortesia; ma appena egli partì, la plebe di Messina, sollecitata dal Loria, lo grida traditore, affollasi alla sua casa ad ammazzare i Francesi prigionieri di guerra che vi tenea, e così quelli che stavano nelle carceri e che egli aveva salvati. Macalda accorse per sostenere i suoi fautori, ma vide il marito dichiarato fellone e confiscatigli i beni, Matteo Scaletta fratello di lei, decapitato; ella stessa chiusa in un castello, forse vi finì la vita. Alaimo, dopo alquanti anni, fu rimandato verso la Sicilia, e come fu in vista della patria isola, buttato in mare. V. _Cronaca catalana_, cap. XCVI; DE NEOCASTRO, SPECIALE; D’ESCLOT ecc. [200] GREGORIO, _Considerazioni sulla storia della Sicilia_. Palermo 1807. [201] Frà Jacopone da Todi gli scriveva una canzone per mostrargli quanto corresse pericolo l’anima sua nel papato: Che farai, Pier di Morone? Se’ venuto al paragone; Vederemo il lavorato Che in cella hai contemplato; Se il mondo è di te ingannato, Seguirà maledizione..... Se l’ufficio ti diletta Nulla è più malsania infetta; Bene è vita maledetta Perder Dio per tal boccone. Grande ebb’io per te cordoglio Lor ti uscio di bocca _Voglio_, Se t’hai posto giogo in coglio Da temer tua dannazione... Grande è la tua dignitate, Non minor la tempestate, E grande è la vanitate Che averai in tua magione.... Da persone prebendate Guardati, sempre affamate.... Guardati da barattiere Che il ner bianco fa vedere. Se non ti sai ben schermire Canterai mala canzone. [202] Da Anagni erano stati i papi Innocenzo III, Gregorio IX, Alessandro IV; e ne provenivano le cinque illustri case romane Ceccano, Toscanella, Frangipane, Collemedio, Annibaldesca; cui s’erano aggiunte quelle di Segni e de’ Gaetani. [203] Vidi l’ombra di colui Che fece per viltate il gran rifiuto _Inf._, III. V’ha chi nega che alluda a papa Celestino, ma non si accordano su altri. In ben altro senso il Petrarca (_De vita solitaria_, lib. II. c. 18) esalta Celestino, «il quale depose il gravissimo carico del papato con quella alacrità che altri avrebbe mostrata trovandosi sciolto improvvisamente da nemiche catene. Magnanimo fatto del santissimo solitario... Ho udito dire da chi era presente all’uscir suo dal concistoro in cui avea deposto il gran peso, che gli sfavillava negli occhi una cotale allegrezza che aveva dell’angelico. Nè a torto; chè sapeva il valore di ciò che recuperava, nè ignorava quel che perdeva». Saviissimo giudizio ne reca Clemente V nella bolla di sua santificazione: — Uomo di stupenda semplicità, inesperto de’ negozj che concernono il reggimento della Chiesa universale, attesochè dalla puerizia sino alla vecchiaja aveva applicato l’animo non alle cose di quaggiù ma alle divine, prudentemente rivolgendo in se stesso l’occhio dell’intima sua attenzione, liberamente e appieno rinunziò agli onori e agli oneri del papato, perchè all’universa Chiesa non derivasse pericolo dal suo reggimento, e perchè, deposte le turbanti cure di Marta, potesse starsene con Maddalena ai piedi di Gesù, nella pace della contemplazione». Gli accordi e le promesse con cui Bonifazio VIII avrebbe comprato la tiara da Carlo d’Angiò, asseriti da scrittori posteriori, più che dal silenzio de’ contemporanei, sono smentiti dall’interesse che Carlo aveva d’allontanare Bonifazio dal papato. Da poi i Colonna scrissero fieramente contro di lui, dichiarandolo eletto illegalmente, ma solo fondandosi sull’invalidità della rinunzia di Celestino: se egli avesse compra la tiara colla simonia di cui Dante lo infama, l’avrebbero taciuto questi accaniti suoi avversarj? [204] Il giubileo fu rinnovato dopo cinquant’anni da Clemente VI; e Matteo Villani narra essersi veduta a Roma una fiera perpetua, e un milione ducentomila persone, talchè mancarono i viveri; e il danaro raccolto si occupò parte a vantaggi della Chiesa, parte a ricovrare dai tiranni le città di Romagna. Urbano VI ridusse l’intervallo a trentatrè anni, quanti ne visse Gesù Cristo; poi Paolo II a venticinque, come restò. Si attribuisce a Bonifazio VIII l’avere introdotto la doppia corona per la tiara papale: eppure sei statue che si conoscono, alzategli da vivo o poco dopo morto, recano la corona semplice; e tale pure l’hanno quelle di Benedetto XI suo successore. Suggero scriveva di Innocenzo II: «Impongono al suo capo un frigio ornamento a foggia di elmo, adorno d’un aureo cerchio». La triplice compare nella statua che il Manno orefice bolognese fece di Bonifazio VIII, poi in quelle di Urbano VI. [205] PETRARCA, _Ep._, pag. 4-15. [206] _Alter oculus Florentiæ._ BENVENUTO DA IMOLA al X dell’_Inferno_. [207] LEONARDO ARETINO, v. 57. [208] _Vulgare Eloquio_. — E in un congedo: O montanina mia canzon, tu vai; Forse vedrai Fiorenza, la mia terra Che fuor di sè mi serra Vuota d’amore e nuda di pietate; Se dentro v’entri, va dicendo, — Omai Non vi può fare il mio signor più guerra. [209] Quest’ignominia era stata subìta dal suo compagno di pena, il padre del Petrarca, dispensato però dalla mitera al capo; e la riformagione del 10 febbrajo 1308 stanzia _quod præfatus ser Petraccolus, facta de eo oblatione secundum modum prædictum, intelligatur esse et sit perpetuo exemptus, liberatus et totaliter absolutus._ [210] Di queste profonde convinzioni sì energicamente espresse dà prova continua nel poema; e nel _Convivio_, a proposito d’una proposizione filosofica, dice: — Col coltello, non con argomenti convien rispondere a chi così parla». [211] Digli che il buon col buon non prende guerra Prima che co’ malvagi vincer prove: Digli ch’è folle chi non si rimuove, Per tema di vergogna, da follìa. _Canzone_. [212] _Par._, XVI. Baldo d’Aguglione e Morubaldini da Signa erano quelli che proferirono la sentenza capitale contro Dante. [213] Lettera a Guido Novello da Polenta, che i Veneziani però vorrebbero apocrifa. [214] Però Dante faceva espressa riserva degli statuti particolari: _Advertendum sane quod cum dicitur humanum genus posse regi per unum principem, non sic intelligendum est, ut ab illo uno prodire possint municipia et leges municipales. Habent namque nationes, regna et civitates inter se proprietates, quas legibus differentibus regulari oportet. _De monarchia_._ Sono le eccezioni, colle quali il buon senso ovvia le illazioni che mostrerebbero erroneo il posato principio. [215] Vedi l’_Appendice_ VIII. [216] Non l’Orgagna, come si dice volgarmente. Vedi GAYE, _Carteggio_, II. V. La cattedra di spiegar Dante durò lungo tempo: nel 1412 la Signoria pagava otto fiorini il mese a Giovanni di Malpaghini ravennate, il quale aveva lungo tempo commentato Dante, e che ancora lo spiegava ogni domenica; sei anni dopo, adempiva tale uffizio Giovanni Gherardi da Pistoja, con sei fiorini il mese; alquanto più tardi, gli successe Francesco Filelfo. [217] La conferma datagli da Bonifazio respira grave orgoglio: _Fecit Deus duo luminaria magna; luminare majus, ut præesset diei, luminare minus ut præesset nocti. Hæc duo luminaria fecit Deus ad literam, sicut dicitur in Genesi: et nihilominus spiritualiter intellecta fecit luminaria prædicta, scilicet solem, idest ecclesiasticam potestatem, et lunam, hoc est temporalem et imperialem ut regeret universum. Et sicut luna nullum lumen habet nisi quod recipit a sole, sic nec aliqua terrena potestas aliquid habet nisi quod recipit ab ecclesiastica potestate. Licet autem ita communiter consueverit intelligi, nos autem accipimus hic imperatorem, solem qui est futurus, hoc est regem Romanorum, qui promovendus est imperator, qui est sol, sicut monarcha, qui habet omnes illuminare et spiritualem potestatem defendere, quia ipse est datus et missus in laudem bonorum et in vindictam malefactorum.... Unde hæc nota et scripta sunt, quod vicarius Jesu Christi et successor Petri potestatem imperii a Græcis transtulit in Germanos, ut ipsi Germani, idest septem principes, quatuor laici et tres clerici, possint eligere regem Romanorum, qui est promovendus in imperatorem et monarcham omnium regum et principum terrenorum. Nec insurgat hic superbia gallicana, quæ dicit quod non recognoscit superiorem. Mentiuntur: quia de jure sunt et esse debent sub rege romano et imperatore. Et nescimus unde hoc habuerint vel adinvenerint, quia constat quod Christiani subditi fuerunt monarchis ecclesiæ romanæ, et esse debent... Et attendant hic Germani, quia, sicut translatum est imperium ab aliis in ipsos, sic Christi vicarium successor Petri habet potestatem transferendi imperium a Germanis in alios quoscumque, si vellet, et hoc sine juris injuria.... Electus in regem Romanorum, prius fuit in nubilo arrogantiæ, etenim non fuit devotus ad nos et ecclesiam istam sicut debuit. Nunc aute mexhibet se devotum et promptum ad facienda omnia quæ volumus nos et fratres nostri et ecclesia ista... Si autem ipse vellet contrarium facere, non posset; quia nos non habemus alas nec manus ligatas, nec pedes compeditos, quia bene possumus eum reprimere et quemcumque alium principem terrenum_. [218] Perfino il Sismondi, accannito contro Bonifazio, dice: — Avidi di servitù, chiamarono libertà il diritto di sacrificare perfino le coscienze ai capricci dei loro padroni, respingendo la protezione che loro offriva contro la tirannide un capo straniero e indipendente... I popoli dovrebbero desiderare che i sovrani dispotici riconoscessero al dissopra di loro un potere venuto dal cielo, che li fermasse sulla strada del delitto». _St. delle repubbliche ital._, cap. 24. [219] Tanto vien rimproverata a Bonifazio questa bolla; eppure non conteneva che il preciso senso del canone 44 del concilio IV di Laterano, e la dottrina generalmente accettata nel diritto canonico d’allora. Lo dimostra ad evidenza Philipps nel _Diritto ecclesiastico_, vol. III. lib. I. § 130. [220] L’anno seguente in concistoro dichiarò, non intendeva arrogarsi la giurisdizione del re, ma che questo è sottoposto al papa in quanto al peccato. [221] _Petrus_ (la Flotte) _literam nostram falsavit, seu falsa de ea confixit_. Preuves du différend etc. pag. 77. Ma la lettera di Filippo pare autentica. [222] Si pretende che Bonifazio mandasse al famoso Guido di Montefeltro, che stanco delle avventure s’era messo frate, e l’esortasse a capitanare l’impresa contro Palestrina. Egli si scusò; ma instando il papa perchè almeno gli sovvenisse di consigli, rispose temeva per l’anima sua. Il papa l’assolse, ed esso gli suggerì di promettere e non mantenere. Dante vi allude in quel verso «Lungo prometter con attender corto». Tutte le cronache attestano la penitenza di Guido, il suo ritiro dal mondo e la santa fine. E davvero valeva egli la pena che si facesse uscir di monastero un frate per farsi suggerire uno spediente così comune? [223] Il Ferreto racconta che morì rabbioso, dando del capo per le pareti, rodendo il bastone, soffocandosi. Sismondi neppur gli domanda donde trasse queste particolarità; e perchè al suo cadavere, trovato intatto dopo 302 anni, non apparisse il minimo segno di lesione. Il processo di Bonifazio narra che morì tranquillo nel palazzo Vaticano; e il cardinale Stefaneschi che v’assisteva, scrive: _Lecto prostratus anhelus_ _Procubuit, fassusque fidem, curamque professus_ _Romanæ ecclesiæ, Christo tunc redditur almus_ _Spiritus, et sævi nescit jam judicis iram,_ _Sed mitem placidamque patris, ceu credere fas est._ Vedansi JO. RUBEI, _Bonifacius VIII_. Roma 1651. Da Dante, dal Ferreto, dagli storici, e principalmente dal Sismondi lo difesero il _Dublin Review_, anno 1842, e il cassinese padre Tosti nella _Storia di Bonifazio VIII_, 1847. Benvenuto da Imola, commentando Dante, lo chiama _magnanimo peccatore_; e magnanimo è il titolo datogli da sant’Antonino e da Giovanni Villani; _meraviglia del mondo_ lo dice Petrarca. Con cristiana imparzialità il Rainaldo, continuatore del Baronio, conchiuse così il giudizio intorno ad esso pontefice: _Super ipsum itaque Bonifacium, qui reges et pontifices ac religiosos, clerumque ac populum horrende tremere fecerat, repente timor et tremor et dolor una die irruerunt, ut ejus exemplo discant superiores prælati non superbe dominari in clero et populo, sed forma facti gregis, curam subditorum gerant, priusque appetant amari quam timeri._ L’opera capitale intorno a quel papa sono sempre le _Prove_, cioè gli atti pubblici, editi da Pietro Dupuy. Nel 1526 Alessandro bolognese viaggiava da quelle parti, e vedendo Anagni deserta e in ruina, domandò la ragione: — La prigionia di Bonifazio (rispose un de’ pochi abitanti); da quell’ora guerre, peste, fazioni peggiorarono sempre più la città». [224] _Tacita mente conciperet intra magnam Italiam apud Longibardos sedem apostolicam sibi statuere, ut et in posterum ibidem esset forte mansura_. FERRETO, lib. III. p. 1012. [225] L’Istituto di Francia nel 1858 premiava una memoria di M. Rabanis, _Clément V et Philippe le Bel_, ove, spogliando i giornali di Bertrando de Goth che quell’anno era in visita della sua diocesi, e quelli di re Filippo, convince che certamente essi non s’incontrarono nè a Saint-Jean-d’Angely nè altrove. E con altri argomenti prova quel che già il buon senso presumeva, l’impossibilità di quell’accordo. [226] Clemente V «fu uomo molto cupido di moneta e simoniaco, che ogni beneficio per moneta in sua corte si vendea; e fu lussurioso, che palese si diceva che tenea per amica la contessa Palagorgo, bellissima donna, figliuola del conte di Fos. E lasciò i suoi nepoti e suo lignaggio con grandissimo e innumerabile tesoro; e dissesi che vivendo il detto papa, essendo morto un suo nepote cardinale cui elli molto amava, costrinse uno grande maestro di nigromanzia che sapesse che fosse dell’anima del nipote. Il detto maestro, fatta sua arte, un cappellano del papa molto sicuro fece portare alle demonia allo inferno, e mostrogli visibilmente un palazzo dentrovi un letto di fuoco ardente, nel quale era l’anima del detto suo nepote morto, dicendoli che per la sua simonia era così giudicato. E vidde nella visione fatto un altro palazzo allo incontro, il quale li fu detto si facea per papa Clemente; e così rapportò il detto cappellano al papa, il quale mai poi non fu allegro e poco vivette appresso». VILLANI. [227] VILLANI; e Dante, _Purg._, XX: Veggio il nuovo Pilato sì crudele Che ciò nol sazia, ma senza decreto Porta nel tempio le cupide vele. Sui Templari e il loro processo in Toscana ragionò ripetutamente alla Accademia Lucchese monsignor Telesforo Bini, com’è a vedersi negli atti di quella del 1838 e del 1845. Appare di là come fossero numerose le loro case in Toscana. Vero è che il papa nel 1307 scriveva agli arcivescovi di Pisa, Ravenna ed altri che assumessero informazione sui Templari, ma non che s’adunasse per ciò un concilio a Pisa, come asserì il Tronci, dal 20 settembre al 23 ottobre 1308; e il processo fu fatto in Firenze e in Lucca da frà Giovanni arcivescovo di Pisa, Antonio vescovo di Firenze, Pietro de’ Giudici di Roma canonico di Verona pei Templari di Lombardia e Toscana: que’ commissarj nel 1312 ne diedero al papa un ragguaglio, che conservasi nella Vaticana, legalizzato da nodaro e testimonj. Il papa aveva trasmesso cenventiquattro e più articoli sui quali esaminarli: e gl’inquisiti erano cinque a Firenze, uno a Lucca. Appare che furono esaminati senza le torture usate in Francia, non perchè i tribunali ecclesiastici non le usassero, chè anzi in quel processo parlasi delle deposizioni di sette altri fratelli di minor conto, che non pareano attendibili, _licet, debito modo servato, eosdem exposuerimus coactionibus et tormentis_. Inoltre essi non doveano temere che, confessando, andrebbero al rogo, siccome in Francia, atteso che qui li giudicava un tribunale ecclesiastico, le cui pene erano il pentimento e la ritrattazione. In fatto a Ravenna furono assolti, come non rei delle colpe imputate (RUBEIS, _Storia di Ravenna_, lib. VI). È dunque più attendibile la loro deposizione, che giurano aver fatta _non odio vel amore, parte, pretio vel timore, sed pro veritate tantum_. Le accuse numerosissime possono ridursi a sei capi: 1º che rinegassero la fede, bestemiassero Cristo, Maria, i Santi, conculcassero e deturpassero la croce; 2º che consacrando non proferissero le parole sacramentali, e il maestro, sebben laico, assolvesse i peccati; 3º adorassero la testa di Bafomet, e si cingessero con cingoli, benedetti dal suo contatto; 4º usassero fra loro baci indecenti; 5º peccassero contro natura; 6º tutto facessero clandestinamente, giurando di estender l’Ordine con qualsifosse modo. Le accuse, alcune sono ammesse generalmente; altre solo da alcuni, o per casi o persone speciali, o sol come d’udita, o come d’uso di là dal mare; sopratutto convengono quanto alla gelosissima secretezza dei capitoli e alla bestemmia miscredente. Dopo ciò parrebbe che, se gli scellerati processi fatti loro in Francia spinsero a crederli innocenti e vittime dell’avidità di Filippo il Bello, la calma con cui procedette la Chiesa, i processi fatti regolarmente in Italia come in altri paesi, nel volger di molti anni, senza violenze, lascino supporre che molti de’ Templari fossero rei, e che col re di Francia mal si metta a fascio Clemente V, il quale, col sopprimer l’Ordine _non de jure sed per viam provisionis_, salvò individui innocenti, e ne sottrasse i beni dalla principesca avidità, applicandoli alla difesa di Terrasanta. Parmi che i documenti uniti a quel discorso, e da cui il Bini raccolse il nome di ben centosette Templari, aggiungano gran luce a questo punto storico, molto dibattuto dal Raynouard in poi. * Vedansi nuovi documenti, pubblicati nel 1875, fra gli Atti Ravennati in continuazione a quelli del Fantuzzi. [228] _Gesta ducum veterum veteres cecinere poetæ;_ _Aggrediar vates novus edere gesta novorum._ _Dicere fert animus, quo gens normannica ductu_ _Venerit Italiam, fuerit qua causa morandi,_ _Quosve secuta duces Latii sit adepta triumphum._ e finisce: _Nostra, Rogere, tibi cognoscis carmina scribi;_ _Mente tibi læta studuit parere poëta._ _Semper et auctores hilares meruere datores:_ _Tu duce romano dux dignior Octaviano,_ _Sis mihi, quæso, boni spes, ut fuit ille Maroni._ [229] _Hist. Sic._ nei Rer. It. Scrip., VII, 253-264. [230] _Istoire de li Normant_, pubblicata ultimamente da Champollion Figeac. [231] La sua _Storia imperiale_ si dubita fosse un’invenzione del celebre Bojardo. [232] Oltre il Napione, _Cronisti piemontesi_, vedasi la prefazione al vol. II delle Carte nei _Monumenta Historiæ Patriæ_. [233] _Referant suas legationes in illis consiliis, in quibus electi fuerunt._ 1296. _In scriptis relationes facere teneantur._ 1425. Nel 1718 si cominciò una collana di storici veneti. Degli storici e cronisti veneti diede ampia informazione il Foscarini; dietro al quale Flaminio Cornaro pubblicò la cronaca latina di Lorenzo De Monacis, Girolamo Zanetti quella del Sagomino, altri altre, e distintamente l’inglese Rawdon Brown estratti dei _Diarj_ di Marin Sanuto, gli _Annali veneti_ del Malipiero e d’altri nell’_Archivio storico_, vol. VII. [234] Questo svario lo fece anche Dante, cantando nel XIII dell’Inferno: Quei cittadin, che poi la rifondarno Sovra ’l cener che d’Attila rimase. Alcuno volle correggere Totila, ma neppur questo distrusse Firenze. [235] Uno storico recentissimo lo taccia d’indegna avversione contro i papi d’Avignone (_Histoire de la papauté pendant le XIV siècle, par l’abbé_ CRISTOPHE. Parigi 1853). Anche concesso ciò, questo era sentimento comune agli Italiani d’allora, nè quell’apologia parmi dimostri che avessero torto. [236] Il suo libro comincia: — Io Giovanni Villani, considerando la nobiltà e grandezza della nostra città, mi pare che si convenga di raccontare ecc.» E altrove: — Convien cominciare il duodecimo libro, però che richiede lo stile del nostro trattato, perchè nuova materia e grandi mutazioni e diverse risoluzioni avvennero in questi tempi alla nostra città di Firenze per le nostre discordie tra’ cittadini e ’l mal reggimento de’ Venti, come addietro fatto avemo menzione; e fieno sì diverse, che io autore che fui presente, mi fa dubitare che per li nostri successori appena sieno credute di vero; e furono pur così come diremo in appresso». [237] Del _Metodo per istudiare la storia fiorentina_ scrisse il Manni, a tacere la meschina _Istoria degli scrittori fiorentini_ di Giulio Negri. Gervinus diede a Francoforte nel 1833 in tedesco un saggio sugli storici fiorentini fino ai tempi del Machiavelli. Vedi pure MORENI, _Bibliografia storica ragionata della Toscana_. 1805. [238] Gli storici di Lucca sono ben estimati dal Tommasi, _Introduzione al sommario di storia lucchese_, nell’_Archivio storico_, vol. X. [239] Un cronista romano scrive: — Io Ludovico Bonconte Monaldeschi nacqui in Orvieto, e fui allevato alla città di Roma, dove vissi. Nacqui l’anno 1327 del mese di giugno, nel tempo che venne l’imperatore Ludovico. Hora io voglio raccontare tutta la storia dello tempo mio, poichè io vissi allo mondo centoquindici anni senza malattia, autro che quanno nacqui io tramortio, e morsi di vecchiezza, e fui allo lietto dodici mesi di continuo». Anche il milanese Burigozzo finisce il suo libro: — Come vedrete nella cronaca di mio figliolo, imperocchè per la morte che mi è sopragiunta non posso più scrivere». [240] Il Muratori chiama quell’opera _insigne opus et monumentorum copia et splendore sermonis et ordine narrationis; ex quo incredibilis lux acta est eruditioni barbarorum temporum, in illum usque diem apud Italos tenebris innumeris circumfusæ._ Vita del Sigonio, pag. 9. Beniamino Guérard, nella introduzione al Cartulario di Saint-Père de Chartres e al Poliptico di Irminon, mostrò quanto partito può trarsi dalle raccolte del medioevo. Gran giovamento recò la Scuola delle Carte di Parigi, formando buoni allievi, dando metodo e attività, compiendo varie opere utili e promovendo le ricerche. [241] Gli storici di Perugia sono annoverati nella prefazione al tom. XV, par. II dell’_Archivio storico_. [242] Il primo _Bullario_ comparve nel 1586, ove Laerzio Cherubini collocò cronologicamente le costituzioni pontifizie da Leone I a Sisto V; Angelo Maria suo figlio lo aumentò, poi Angelo Lantusca e Paolo di Roma: collezioni superate dal _Bullarium Magnum_ del 1727 che va da Leon Magno fino a Benedetto XIII, e dalla collezione di Carlo Coquelines fatta a Roma dal 1739 al 48, e cui Andrea Barberi nel 1835 aggiunse le costituzioni fino a Pio VIII. [243] _Rerum Italicarum Scriptores ab anno Domini_ D _ad_ MD, _quorum potissima pars nunc primum in lucem prodit_. 28 vol. in-fol., Milano 1723-51. — _Antiquitates italicæ medii ævi_. 6 vol. in-fol., ivi 1738-43. — _Dissertazioni sopra le antichità italiane_. 3 vol. in-4º, ivi 1751; traduzione dell’opera predetta, ommessi i documenti. — _Annali d’Italia_. 18 vol. in-8º, ivi 1753-56. — _Delle antichità estensi ed italiane_. 2 vol. in-fol. Modena 1717-40. [244] BELLINI, _De monetis Italiæ medii ævi_. Ferrara 1755. — ZANETTI, _Nuova raccolta delle monete e zecche d’Italia_. Bologna 1745. [245] _Apparatus ad historiam juris mediolanensis antiqui et novi. — Constitutiones mediolanensis dominii_. [246] _Archiepiscoporum mediolanensium series_, 1755. [247] _Ecclesiæ mediolanensis historia ligustica_, 1795. [248] Nelle _Delizie degli eruditi toscani_, tom. VIII. [249] Aggiungiamo, SANSOVINO, _Dell’origine, fatti... delle famiglie illustri d’Italia_. GAMURRINI, _Famiglie toscane e umbre_. CHERUBINI, _Cronologia de’ Gaetani di Firenze_. ALDIBERTI, _Compendio dell’antichità di casa Cevoli_. FINESCHI, _Memorie d’illustri Pisani_. ADRIANI, _Degli antichi signori di Sarmatorio, Marzano e Monfalcone_. CAMPANILE, _Notizie di nobiltà_. BORRELLI, _Vindex neapolitanæ nobilitatis_. MORENI, _Serie d’autori d’opere risguardanti la famiglia Medici_. RATTI, _Della famiglia Sforza_. BERLINGHIERI, _Notizie degli Aldobrandeschi_. A. REUMONT, _Die Carafa von Maddaloni_. Berlino 1851. Jacob W. Imhof, _Corpus historiæ genealogicæ Italiæ et Hispaniæ_. Norimberga 1702. Pompeo Litta, _Famiglie celebri italiane_, opera importante per la genealogia, e lasciata incompiuta dall’autore morendo nel 1853. [250] G. P. VON SPANNAGEL, _Notizia della vera libertà fiorentina_, 1724. — MASCOW, _Exercitatio de jure Imperii in magnum ducatum Etruriæ_, 1721. — _Imperii germanici jus ac possessio in Genua ligustica_, 1751; e infiniti altri. [251] Fanucci, _Storia dei tre celebri popoli marittimi dell’Italia_. — MARSIGLI, _Ricerche sul commercio veneto_. — PAGNINI, _Della decima e di varie altre gravezze imposte dal Comune di Firenze; della moneta e della mercatura de’ Fiorentini nel secolo XVI_. Lucca 1765. [252] Vedi il _Monitum_ premesso al V vol. Venezia 1781-92. [253] _Dell’uso e dell’autorità della ragion civile nelle provincie dell’impero occidentale, dal dì che furono inondate da Barbari sino a Lotario II_. Napoli 1720-22-51. [254] _Istoria d’Italia dalla venuta d’Annibale fino al 1527_, di Girolamo Briano. Venezia 1624. — _Italia travagliata, dove si narrano i fatti dalla venuta d’Enea al 1755_ per frà Umberto Locato vescovo di Bagnarea. Ivi 1776. [255] Chi abbia veduto le storie dei Malespini, del Compagni, dei Villani, troverà ben ingiusto il Machiavelli, ove pronunzia che sono diligentissimi nel descrivere le guerre coi forestieri, «ma delle civili discordie, e delle intrinseche inimicizie, e degli effetti che da quelle sono nati, averne una parte al tutto taciuta, e quell’altra in modo brevemente descritta, che ai leggenti non puote arrecare utile o piacere veruno... Perchè se niuna cosa diletta o insegna nella storia, è quella che particolarmente si descrive; se niuna lezione è utile ai cittadini che governano le repubbliche, è quella che dimostra le cagioni degli odj e delle divisioni della città, acciocchè possano, con il pericolo d’altri divenuti savj, mantenersi uniti». _Proemio alle Storie fiorentine._ [256] _Epistolari historia nulla fidelior atque tutior._ BARONIO. [257] Frà Paolo Sarpi l’8 giugno 1612 incoraggiava il celebre Casaubono a scrivere contro il Baronio, di cui non è male che non dica: solo lo scaltrisce che, se lo tacciasse di mala fede e di frode, nessun gli crederebbe di quelli che il conobbero; «era uomo integerrimo, se non che beveva le opinioni di chi gli stava dattorno». [258] La stampa più compita è quella di Lucca del 1738-57 in quarantatre volumi: _Apparatus Annalium ecclesiasticorum Baronii, additis O. Raynaldi, G. Laderchi_ (che li seguitò grossolanamente fino al 1571), _A. Pagi, J. Casauboni, L. S. Le Nain Tillemont, H. Noris_, per opera di G. D. Mansi. Il padre Theiner s’accinse a proseguirli, ma presto si fermò. [259] «Sereno cominciò a voler raccorciare il piviale a Donato (al 719). Ma un grand’imbroglio era il dover correre dietro a costoro (722). Non sapevano digerirla d’aver per signore un imperatore empio (728). Per timor della pelle se ne tornò a Roma (731). S’imbrogliarono in quest’anno non poco gli affari d’Italia (740). Cammina con tutti i piedi lo zelante gridar del papa (770). Vedendo il re Carlo esser un osso duro quella città (773). Cosa manipolassero insieme papa Giovanni e Bosone, si raccoglie da... (878). Federico, quant’era da lui, avrebbe ridotto il papa a portar il piviale di bombagina (1239). Mastino cominciò a imbrogliarsi col comune di Venezia (1336). L’armata veneta gli diede un giorno una buona spelazzata (1509). Gli arrabbiati villani non furono pigri a menar le griffe (ivi). Il vicerè ebbe dei _meremur_ dal re cattolico (1563). Parea che a Leopoldo non mancasse mai qualche miracolo in saccoccia per risorgere (1704). Per lui Cola da Rienzo è un _vile_, Masaniello un _arlecchino finto principe_. [260] Senza ripetere qui ciò che in lavoro più ampio noi sostenemmo, invitiamo i lettori di poca fatica a consultare le prime pagine d’uno storico moderno, liberalissimo e protestante, T. B. Macaulay nella _Storia d’Inghilterra_, ediz. Pomba 1852, pag. 43, tom. I. [261] Si declamò tanto contro il poeta francese Lamartine perchè chiamò l’Italia _la terra dei morti_; e quand’era affisso all’ambasciatore francese a Firenze, dovette darne soddisfazione colla spada a Gabriele Pepe. Eppure la frase stessa si trova nel Sismondi, autore de’ più benevoli all’Italia e apprezzato per liberalità. Nel capo 126 della _Storia delle Repubbliche_ dice chiaro che, «sia che si osservi tutta intera l’Italia, e si esamini la natura del suolo o le opere dell’uomo e l’uomo stesso, sempre si crede essere nel paese de’ morti, vedendo insieme la debolezza della generazione presente e la possa di quelle che la precedettero». La sottintendono poi tutti quelli che oggi non san parlare che del _risorgimento_ dell’Italia. [262] In un erudito tanto benemerito, e che sarà sempre fonte preziosissima, spiace quella trivialità di critica e di riflessi. Aprendolo a caso, leggo al lib. III. c. 1. § 3 della sua _Storia della letteratura_: «S’ei debba chiamarsi Biondo Flavio o Flavio Biondo, ella è questione non ancor bene decisa, e poco importa il sapere com’ella debba decidersi. Io scrivo Biondo Flavio perchè così leggesi nell’iscrizion sepolcrale a lui posta, e negli antichi _Annali di Forlì_ sua patria, pubblicati dal Muratori; e così pure lo chiama Francesco Filelfo in più lettere a lui scritte, delle quali diremo fra poco. Che se ciò non ostante altri crede ch’ei debba dirsi Flavio Biondo, io non per ciò vo’ movergli guerra». Al tom. VII. part. III. pag. 1169: «Di Benedetto Bordone appena mi tratterrei io a parlarne, se una quistione assai dibattuta qui non ci si offerisse, e che non vuolsi passar senza esame; cioè se fosse padovano o veronese, e, ciò che più importa, se ei fosse o no il padre del celebre Giulio Cesare Scaligero»; e sei pagine profonde in tal discussione attorno un autore che _appena_ crede degno d’essere mentovato. Al tom. VIII. l. II. c. IV. nº 19: Gioachino Scaino fu uno de’ più illustri giureconsulti, e _ne è testimonio_ l’onorevole iscrizione a lui posta nella sua patria dappoichè egli fu morto... Paolo Zanchi, bergamasco, meritò d’essere encomiato con orazione funebre da Giovita Rapicio». [263] Il Leo (_Storia d’Italia_, cap. 2. § 1) dice: — Nuovi elementi, nuovi principj doveano essere portati all’Italia, acciocchè una nuova vita si svegliasse dopo la caduta dell’Impero. Nè si può comprendere come in circostanze siffatte lo spirito del popolo italiano potess’essere capace di dare nuovi prodotti, importanti alla storia del mondo». Anche il Sismondi nella prefazione parla dell’«Italia rinvigorita dall’unione del suo popolo con popoli settentrionali». [264] Si tenga presente la data di questo lavoro. [265] Qualcosa di meglio uscirà dall’istituzione, decretata nel 1852, d’un archivio centrale di Stato in Firenze, ove ordinare da 115,870 tra filze e registri, e 126,830 pergamene, e acquistando sempre nuovi documenti dalle case che ne sono ricchissime. [266] Somma prova del degradamento degli studj eruditi fra noi è la sfacciataggine con cui si pubblicano o spacciano documenti assolutamente falsi, o sì evidentemente scorretti, che, senza aver sott’occhio gli originali, può emendarli chi appena abbia attinto a studj siffatti. Ma più sciagurato ancora è il vedere tali pubblicazioni lodate dai dispensieri della fama, e dato nome d’eruditi a tali che meritano unicamente quello di cerretani. [267] Ora sono 12, e vi si devono unire le pubblicazioni delle Deputazioni storiche delle varie regioni italiane, e molti giornali. [268] FILIPPO JAFFE, _Regesta pontificum romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum_ MCXCVIII. Berlino 1850. [269] La calata d’Enrico VII è narrata da un vescovo _in partibus_ di Butronto, tedesco amico dell’imperatore non men che del papa, al quale dà ragguaglio dell’impresa con dignitosa franchezza e semplicità. La descrisse pure Albertino Mussato. Gli atti d’Enrico VII sono raccolti da Döniges, _Regesta Enrici VII_. [270] GIULINI, _Memorie del Milanese_, VIII. 619; BONINCONTRO MORIGIA, _Chron._, lib. II. c. 6. [271] Alla coronazione di Bonifazio VIII dodici ambasciatori assistettero, tutti fiorentini, cioè: Palla Strozzi messo della repubblica di Firenze, Cino Diotisalvi del signore di Camerino, Lapo Uberti della repubblica di Pisa, Guido Talunca del re di Sicilia, Manno Adimari di quello di Napoli, Folco Bencivenni del granmaestro di Rodi, Vermiglio Alfani dell’imperatore, Musciato Franzesi del re di Francia, Ugolino dal Vecchio di quello d’Inghilterra, Rimeri di quel di Boemia, Simone de Rossi dell’imperatore di Costantinopoli, Guicciardo Bastari del gran kan dei Tartari. Il che vedendo, Bonifazio chiamò i Fiorentini il quinto elemento. [272] Cioè dagli uomini d’arme. Sono parole di Dino Compagni. [273] LUENIG, _Cod. diplom._, I. 1078. [274] LEONARDO ARETINO. — Di quelli che andarono nell’oste di Enrico si ha la lista nelle _Delizie degli eruditi tosc._, XI. 109. [275] GIO. DA CERMENATE, _Hist._, cap. 62. [276] «Sarebbesi partito (da Poggibonzi) se avesse avuto con che, perocchè era largo spenditore e donatore, e di sua coscienza era buono e avea buona fede. Non si volea partire, che non avea che dare da cui aveva accattato.... Re Federico di Sicilia mandogli ventiquattro migliaja di fiorini, con li quali esso pagò i suoi debiti e partissi». COPPO DI STEFANO, lib. V. — _Hic etenim rex noster magnanimus erat, et omnium virtutum dives, pecunia et auro nimium pauper, nihil nisi Italicis adjutus propositi agere omnino valebat_. CERMENATE, cap. 20. [277] Leggesi nel _Corpus juris civilis_; sicchè i papi non erano soli in siffatte pretensioni. La costituzione seguente è in Döniges, _Regesta Enrici VII_, pag. 226. La sentenza contro Firenze è riferita nelle _Delizie degli eruditi_, XI. 105, in una traduzione che credesi contemporanea, e che perciò qui ripetiamo: — Acciocchè venga agli altri in exemplo acciocchè della loro contumacia non possano gloriarsi il loro Comune et huomini, per la loro contumacia habbiendo per confessi et legiptimamente convinti di tutti et ciascuni de’ sopradetti excessi, chiamato il nome di Cristo, sedendo per tribunale sententialmente priviamo in questi scripti il detto Comune et huomini Fiorentini del mero et mischiato imperio, della ragione et della signoria di podesteria, rettoria, capitaneria et di ogni jurisditione delle quali sono usi, o vero usarono di usare nella detta ciptà et suo distretto et tenitorio. Ancora le castella et le ciptà, le ville et li distretti della medesima ciptà di Firenze, et tutti i beni che la detta ciptà et Comune di Firenze ha et possiede dentro et di fuori in ogni luogo la nostra Camera et del romano Imperio confischiamo, et in perpetuo pubblichiamo, privando loro degli statuti et leggi municipali et della autorità di farle in futuro, et di tutti i feudi, franchigie, brevilegi, libertà et immunità et honori dagl’imperadori et re de’ Romani predecessori nostri conceduti a loro, delle quali cose si sono renduti indegni; et quelle rivocando cassiamo, et di nostra certa scientia et sententia annulliamo. Et nondimeno el detto Comune et huomini in cinque mila libre d’oro a pagare alla nostra Camera et del romano Imperio condepniamo. Ancora i priori et i consoli della detta terra et tutti gli altri uficiali che ora sono et che per innanzi durando la detta rebellione a detti uficj saranno eletti, perpetuamente condepniamo in infamia et come consapevoli et favoreggianti della detta rebellione perpetualmente sbandiamo. Et ancora tutti et ciascuni ciptadini et habitatori et del distretto della detta ciptà sbandiamo, comandando che niuna città, castello o vero barone, comunità, o spetiale persona i detti Comuni, ciptadini et distrettuali o alcuno di loro ricepti o dia loro ajuto in alcuno modo o vero favore dopo a uno mese fornito, da incominciare dal dì di questa data sententia, sotto pena a ciascuno Comune di ciptà di libre cinquanta d’oro, et a ciascuno castello et barone di libre venti d’oro, et a ciascuna spetiale persona di libre una d’oro a pagare alla nostra Camera, et più et meno a nostro arbitrio, considerato la qualità delle persone et modo del delitto: et questa pena tante volte si paghi quante volte sarà contraffatta. Et dichiarando che chiunque possa i detti Fiorentini come nostri sbanditi et rebelli nostri et del sacro romano Imperio personalmente pigliare, però senza offesa delle persone, et in nostra balìa destinare, et così pigliare et havere i loro beni, proibendo che niuno debitore del detto Comune, o vero delle persone singolari della ciptà di Firenze et suo distretto presuma di soddisfare o rispondere del suo debito a detti. Da tutte le predette cose però eccettuiamo coloro che sono della famiglia nostra, et coloro che sono sbanditi per cagione delle predette cose dalla medesima ciptà et suo distretto et loro famiglia et cose; i quali familiari nostri et sbanditi, et loro famiglie et beni delle dette pene et sententie et sbandimenti trajamo, et sotto la nostra protetione et del romano Imperio riserbiamo. Comandando che lo podestà, et capitano della già detta ciptà et loro giudici et notaj, se infra venti dì dal pronuntiamento di sì fatta nostra sententia da loro uficj et dalla ciptà non si partiranno, o vero chi, per lo innanzi a’ detti uficj di podesteria, capitaneria, judiceria, noteria chiamati, presumeranno di andare ad exercitare, sieno per questa stessa legge tosto et perpetuamente della podestà di giudicare, di assistere et di fare pubblici stromenti et di ogni altro honore et dignità privati. Et vogliamo et dichiariamo che i medesimi soggiacciano all’infamia, se i predetti Comuni et huomini infra lo spazio di venti dì per sindaco legiptimamente dichiarato non compariscano dinanzi per ubbidire efficacemente a’ nostri comandamenti sopra tutte queste cose». [278] Che fosse avvelenato nell’ostia, è ciancia smentita dal silenzio de’ contemporanei. «Lo corpo dell’imperadore, cioè le ossa, in una cascia ne fue recato a Pisa, e posto nella chiesa maggiore: e mai tanto duolo e pianto non fu fatto per li Pisani quanto allora, PERCHÈ avevano speso più di due milioni di fiorini, e non avea fatto pro nissuno, e rimaneano in briga, senza monete o alcuno ajuto». RANIERI SARDO, _Cron. pisana_. [279] _Decr. Clem._, lib. VII. [280] LELMI, _Cronaca di Sanminiato_. [281] È l’opinione di Carlo Troya, _Del veltro allegorico di Dante_. Il Purgatorio diresse al marchese Mornello Malaspina; il Paradiso a Federico I di Sicilia, poi a Can Grande della Scala. [282] BALUZIO, _Vitæ paparum avinionensium_, tom. I, addit. col. 704. [283] Quattro giorni egli serenò nella maremma per assalire Grosseto: e anche Federico II più volte accampò in quella pianura, or davanti Sovana, or davanti Selvena; mentre oggi una sola notte estiva darebbe le febbri. Non era dunque ancora sì micidiale l’aria. [284] G. VILLANI, X. 54. Castruccio portava un abito di seta cremisi, che sul petto avea scritto _È come Dio vuole_, e sulle spalle _Sarà quel che Dio vorrà_. [285] Carlo di Boemia scrisse la propria vita, ove dice che suo padre ordinò al cappellano d’istruirlo _aliquantulum in literis_, _quamvis ignarus esset literarum_; e da lui imparò a leggere l’uffizietto della beata Vergine. [286] Laurin si fa della sua patria capo, Ed in privato il pubblico converte; Tre ne confina, a sei ne taglia il capo; Comincia volpe, ed indi a forze aperte Esce leon, poi ch’ha il popol sedutto Con licenze, con doni e con offerte. ARIOSTO, _Satire_. Del vario modo onde sorgevano le signorie, e del conseguente loro comportarsi, ragiona da par suo il Machiavelli, _Principe_, cap. IX: — Si ascende al principato o con il favore del popolo, o con il favore de’ grandi. Perchè in ogni città si trovano questi due umori diversi, e nasce da questo che il popolo desidera non essere comandato nè oppresso dai grandi, e i grandi desiderano comandare e opprimere il popolo; e da questi due appetiti diversi surge nelle città uno de’ tre effetti, o principato, o libertà, o licenza. Il principato è causato o dal popolo o da’ grandi, secondo che l’una o l’altra di queste due parti ne ha l’occasione; perchè vedendo i grandi non poter resistere al popolo, cominciano a voltare la riputazione ad uno di loro, e lo fanno principe per poter sotto l’ombra sua sfogare il loro appetito. Il popolo ancora volta la riputazione ad un solo, vedendo non poter resistere ai grandi, e lo fa principe per essere con l’autorità sua difeso. Colui che viene al principato con l’ajuto dei grandi, si mantiene con più difficoltà che quello che diventa con l’ajuto del popolo, perchè si trova principe con di molti intorno che a loro pare essere uguali a lui, e per questo non gli può nè comandare nè maneggiare a suo modo. Ma colui che arriva al principato con il favor popolare, vi si trova solo, ed ha intorno o nessuno o pochissimi che non siano parati ad ubbidire. Oltre a questo, non si può con onestà satisfare a’ grandi e senza ingiuria d’altri, ma sibbene al popolo; perchè quello del popolo è più onesto fine che quel de’ grandi, volendo questi opprimere e quello non essere oppresso. Aggiungesi ancora, che del popolo inimico un principe non si può mai assicurare, per esser troppi; dei grandi si può assicurare per esser pochi. Il peggio che possa aspettare un principe dal popolo nimico, è l’essere abbandonato da lui: ma da’ grandi nemici non solo debbe temere di essere abbandonato, ma che ancor loro gli vengano contro; perchè essendo in quelli più vedere e più astuzia, avanzano sempre tempo per salvarsi, e cercano gradi con quello che sperano che vinca. È necessitato ancora il principe vivere sempre con quel medesimo popolo; ma può ben fare senza quelli medesimi grandi, potendo farne e disfarne ogni dì, e tôrre e dare a sua posta riputazione loro. E per chiarir meglio questa parte, dico come i grandi si debbono considerare in due modi principalmente, cioè o si governano in modo col procedere loro che si obbligano in tutto alla tua fortuna, o no. Quelli che si obbligano e non siano rapaci, si debbono onorare ed amare: quelli che non si obbligano, si hanno a considerare in due modi; o fanno questo per pusillanimità e difetto naturale d’animo, ed allora tu ti debbi servir di loro, e di quelli massime che sono di buon consiglio, perchè nelle prosperità te ne onori, e nelle avversità non hai da temerne. Ma quando non si obbligano ad arte, e per cagione ambiziosa, è segno come e’ pensano più a sè che a te; e da quelli si debbe il principe guardarsi, e temerli come se fossero scoperti nimici, perchè sempre nelle avversità l’ajuteranno rovinare. Debbe pertanto uno che diventi principe mediante il favore del popolo, mantenerselo amico; il che gli fia facile, non domandando lui se non di non essere oppresso. Ma uno che contro il popolo diventi principe con il favore dei grandi, deve innanzi ad ogni altra cosa cercare di guadagnarsi il popolo; il che gli fia facile quando pigli la protezione sua. E perchè gli uomini, quando hanno bene da chi credevano aver male, si obbligano più al benefattore loro, diventa il popolo subito più suo benevolo, che se si fusse condotto al principato per i suoi favori; e puosselo il principe guadagnare in molti modi. Conchiuderò che ad un principe è necessario avere il popolo amico, altrimenti non ha nelle avversità rimedio». [287] In messali del secolo X trovò il Muratori (_Antiq. ital._, diss. LIV) alcune messe contro i tiranni, ove s’invoca il padre degli orfani, il giudice delle vedove a mirare le lacrime della sua Chiesa, e liberarla dai tiranni, rinnovando gli antichi portenti. Invece sotto il duca Filippo Maria Visconti si pregò nella messa per Agnese del Maino sua concubina, e per Bianca loro figlia. [288] Che le terre d’Italia tutte piene Son di tiranni, ed un Marcel diventa Ogni villan che parteggiando viene. DANTE, _Purg._, VI. A Milano dominarono i Torriani, poi i Visconti, poi gli Sforza; a Lodi Vestarini, Fisiraga, Vignati; a Crema Venturino Benzone; a Como i Rusca; a Pavia Beccaria e Langosco; a Bergamo i Suardi; a Brescia i Maggi e i Brusati; a Cremona i Pelavicini, i Cavalcabò, i Correggio, Cabrino Fondulo; a Mantova Passerino Bonacolsi e i Gonzaga; a Novara i Tornielli; ad Alessandria Facino Cane; a San Donnino i Pelavicini; i Da Camino a Treviso, Feltre e Belluno; a Verona gli Scaligeri; a Padova i Carrara; a Ferrara i Salinguerra e gli Estensi; a Piacenza gli Scotti; a Parma i Rossi e Correggio; alla Mirandola i Pico; a Pisa e Lucca Castruccio Castracane; a Ravenna Paolo Traversari e i Polenta; a Fermo i Migliorati, Gentile da Magliano e gli Sforza; a Massa i Malaspina; a Monaco i Grimaldi; a Rimini i Malatesta; a Bologna i Pepoli; a Urbino i Montefeltro; a Forlì gli Ordelaffi; ad Imola gli Alidosi; a Cortona i Casale; a Faenza i Manfredi, i Calboli a Brettinoro; i Gabrielli a Gubbio; i Cima a Cingoli; i Vico e gli Annibaldeschi a Viterbo; i Monaldeschi e gli Annibaldeschi ad Orvieto; i Chiavelli a Fabriano; gli Ottoni a Metelica; i Salimbeni a Radicofani; i Simonetta a Jesi; i Malucci a Macerata; i Brancaleoni a Urbania; gli Atti a Sassoferrato; i Mentorio a Aquila; i Varano a Camerino; i Baglioni a Perugia; i Vitelli a Civita di Castello; i Del Pecora a Montepulciano; nel Lazio i Savelli; a Preneste i Colonna; alle Paludi pontine i Frangipani; i Farnesi verso il lago di Bolsena; al sud-est della Toscana gli Aldobrandini ecc. [289] La scomunica di Benedetto XII è però taciuta dalla maggior parte degli storici coevi. Alberto di Strasburgo, che la attribuisce alle minacce del re di Francia, è gran fautore del Bavaro. Se il Cuspiniano deferisce affatto a questo, il Platina caratterizza Benedetto XII come «di tanta costanza, che non fu chi lo potesse mai per prieghi o per forza dalle cose oneste e sante torcere un punto, perchè amava i buoni, e all’aperta odiava gli scellerati». [290] _Consistorium tenuit, in quo decrevit et statuit, quod toto tempore suo Ecclesia romana vel alia quævis gladium martialem non exerceat vel faciat guerras contra quemcumque hominem._ Chron. Cornelii Zantfliet ap. MARTÈNE, _Vet. Script. ampl. coll._ V. 208. [291] Nel _Missale Ambrosianum_ edito a Milano dal Zarotto il 1475, e in quello da Cristoforo di Ratisbona il 1482, come pure nel Breviario del 1490, v’è la messa distinta per questa vittoria, e il prefazio finisce: _O felix victoria, o beata victoria, quomodo fuisti pro Mediolanensibus valde bona, magis gratia quam viribus acquisita. Nam qui predam pernitiemque minabantur, facti sunt mortui, preda victoriæ triumphalis. Et ideo etc._ [292] Nel prezioso monumento erettogli in San Gotardo in Milano, disperso dalla calcolata barbarie dell’età precedente alla nostra, Azzone compariva in ginocchio, in atto d’essere col gonfalone investito del Milanese da Lodovico il Bavaro; tanto era lungi che quest’omaggio si considerasse per umiliante. L’epitafio diceva: _Hoc in sarcofago tegitur vir nobilis Azo_ _Anguiger, imperio placidus, non levis et asper,_ _Urbem qui muris cinxit, regnumque recepit,_ _Punivit fraudes, ingentes struxit et ædes,_ _Dignus longa vita, in fatis si foret ita_ _Ut virtus multos posset durare per annos._ [293] Della famiglia Pusterla non rimase verun ricordo fra il popolo; eppur dovette essere di gran conto, se la troviamo implicata in tutte le cospirazioni contro i Visconti. Vantavasi di stirpe longobarda, e nello stemma portava l’aquila imperiale; possedeva trentacinque ville, e in città quasi tutto il quartiere di porta Ticinese. Un dato giorno questa famiglia allestiva un gran cavallo di legno, il quale tirato da facchini, a suon di musiche traversava quel quartiere fino al duomo: ivi schiudevasi, e ne uscivano persone coi regali di cui faceano omaggio alla metropolitana. Terminavasi in lauti pasti agli innumerevoli clienti, trattati secondo il grado nelle capaci sale e nei clamorosi cortili. [294] STELLA, _Ann. januens._ Rer. It. Scrip., XVII. 1073. [295] Lo racconta il Petrarca nelle _Lettere famigliari_, lib. XVIII. ep. 4. [296] FERRETO, lib. VI, p. 1130. [297] CORTUSI, _Hist. de novitatibus Paduæ_, lib. I. c. 22. [298] In quelle rivoluzioni non manca mai un avvocato, che, per reminiscenza dei Greci e dei Romani, e per isfoggio d’eloquenza, persuade a sottoporsi a un tiranno. Nicola Duc giureconsulto dimostrava agli Astigiani quanto loro tornava conto mettersi in obbedienza di Filippo di Piemonte. Messer Ugolino da Celle, dottor di legge, persuadeva i Lucchesi ad eleggere signore Castruccio: _Cum magnificus vir Castruccius, sua industria, sapientia, virtute, sollicitudine et vigore, et non sine magno risico suæ personæ, multas vicarias, castra, terras, jura et jurisdictiones Lucani comunis, diu in damnum et præjudicium Lucani comunis per quosdam nobiles et magnates detenta, occupata recuperavit et subjecerit fortiæ Lucani comunis, et alia maxima ordinaverit et fecerit, et ordinare, facere et executioni mandare in honorem et servitium Lucani comunis continuo sit paratus in actu et prosecuturus; et ipsam civitatem Lucanam multimode dissolutam reduxerit, et conservet continuo in plena justitia, pacifico et tranquillo statu; et dignum sit quod ex tantis beneficiis et honoribus, quæ Lucano comuni acquisivit, et quibus ipsam civitatem sua virtute promovit, meritum consequatur; si placet ordinare, consulere et reformare quod ipse Castruccius sit et eligatur, et electus intelligatur, et sit vigore præsentis consilii dominus et generalis capitaneus civitatis Lucanæ, et ejus comitatus, districtus et fortiæ cum omni et tota baylia et auctoritate Lucani comunis; quæ baylia et auctoritas vigore præsentis consilii eidem attributa sit et intelligatur super omnibus et singulis negotiis ejusdem comunis pro tempore vitæ ipsius Castrucci etc._ Memorie lucchesi, I, 249. [299] «Questo messere Mastino (dice un Romagnuolo contemporaneo) fu de li maggiori tiranni de Lombardia, quello che più cittate ebbe, più potenza, più castella, più comunanze, più grandigia: di quindici grosse cittate fu signore. Mentre che sua oste si posava sopra alcuna cittate, drizzavale sopra quaranta trabocchi; mai non se ne partiva fintanto che non era signore; voleva essere signore sì per forza sì per amore. Mise piede in Toscana, ebbe Lucca, e ingannò i Fiorentini; donde i Fiorentini gli ordinarono quella ruina, la quale gli venne di sopra. Po’ minacciava di volere Ferrara e Bologna. Una cosa facea a li nobili li quali davano le città, che li tenea con seco, e dava loro grande protezione. Molti erano li baroni, molti erano li soldati da piede e da cavallo, molti li buffoni, molti suoi falconi, palafreni, pontani, destrieri di giostra. Grande era lo armeggiare. Vedeasi levare capucci di capo; vedeasi Todeschi inchinare, conviti smesurati, trombe e caramelle, cornamuse e naccare sonare: vedeasi tributi venire, muli con some scaricare, giostre e bello armeggiare, cantare, danzare, saltare; ogni bello e dolce diletto fare; drappi franceschi, tartareschi... velluti ’ntagliare; panni lavorati, smaltati, inorati portare. Quando questo signore cavalcava, tutta Verona crollava; quando minacciava, tremava. In fra le altre magnificenze sue si racconta che ottanta taglieri di credenza ebbe una volta che volse pranzare in camera; e ogni tagliere ebbe un deschetto con due baroni. Giudici, medici, letterati, virtuosi di ogni cognizione, avea provisione in sua terra. La sua fama sonava in corte di Roma. Non ha simile in Italia, e si magnifica messer Mastino. Fu uomo assai savio de testa, giusto signore; per tutto lo suo regno givase sicuro con oro in mano; grande giustizia facea. Fu uomo bruno, peloso, carnuto, con un grandissimo ventre; mastro de guerra. Cinquanta palafreni avea di sua casa; ogni dì mutava roba; duemila cavalieri cavalcavano con esso, quando cavalcava; duemila fanti da piedi armati, eletti, colle spade in mano, givangli intorno. E sua persona, mentre che seguitò la virtù, crebbe; poi che in superbia comenzò a corrompersi, forte diventò lussurioso; che avesse detorpate cinquanta polzelle in una quaresima si vantò. Questi vizj lo fecero cadere de suo onrato stato. Po’ manicava la carne lo venerdì e lo sabbato, e la quatregesima; non curava de scomunicazione; e considerando essere tanto potente, gloriavasi non conoscere fragilitate umana. Quando si vide in tanta grandezza e alterigia, fece fare palazzi, come si vede in Verona; e per fare le fondamenta, guastò chiesa. Mai bene non gli prese da poi. Comenzò a desprezzare li tiranni de Lombardia: non curava di gire a parlamento con essi. Poi fece fare una corona, tutta adornata di perle, zaffiri, balasci, robini, smeraldi, valore di fiorini ventimila; perchè ebbe intenzione di farsi incoronare re di Lombardia, e di fresco. Ma tiranni di Lombardia furono forte turbati; bene pensarono via da non essere subjetti a loro paro». — CORTUSIO, op. cit., lib. VI. c. I; MUZIO GAZATA, e _Storia romana_ ap. MURATORI, Antiq. Ital. [300] Sul mausoleo di Can Grande del 1329 fu scritto; _Si Canis hic grandis ingentia facta peregit_ _Marchia testis adest, quam sævo marte subegit._ _Scaligeram qui laude domum super astra tulisset_ _Majores in luce mores si Parca dedisset._ Su quello di Cansignorio: _Scaligera hac nitida cubo Cansignorius arca_ _Urbibus optatus latiis sine fine monarca._ _Ille ego sum gemine qui gentis sceptra tenebam,_ _Justitiaque meos mixta pietate regebam;_ _Inclyta cui virtus, cui pax tranquilla fidesque_ _Inconcussa dabunt famam per secla diesque._ Su quello di Mastino: _Me dominum Verona suum, me Brixia vidit,_ _Parmaque cum Lucca, cum Feltro Marchia tota._ [301] Diversi paesi portavano il nome di ducato di Borgogna. Il re della Borgogna cisgiurana, cioè di Arles e Provenza, capitale Vienna: il re della Borgogna transgiurana, capitale Ginevra, che comprendeva gran parte della Svizzera, il Lionese, porzione del Delfinato, la Bresse, la Savoja, e di qua dai monti le valli d’Aosta, Susa, Maira; il ducato proprio di Borgogna. I molti studj in proposito sono riassunti nelle _Memorie cronologiche e genealogiche di storia nazionale_ del Cibrario, e nella sua _Storia della monarchia di Savoja_. Vedi pure GINGINS LA SERRA per l’origine dai duchi di Provenza. [302] In una donazione all’abbazia di Pinerolo, Umberto II professa vivere _ex nacione mea lege romana_. Il Guichenon omise queste parole perchè contrariavano il suo sistema: noi però mostrammo che non provano l’origine di una famiglia. [303] _Cronaca di Evian_, ms. nell’archivio cantonale di Losanna. [304] Quei di Magnano davansi al Conte Verde, 1373, volendo essere _sub justæ manus dominio, potiusquam sub tyrannisantium sævissima voragine et regimine crudeli_. [305] Allora unico arcivescovo ne’ possessi di Savoja era quello di Tarantasia, sotto cui la Moriana e Aosta. La Savoja propria dipendeva dal metropolita di Vienne, come parte del vescovado di Grenoble: gli altri paesi d’oltremonte riverivano i metropoliti di Lione e di Besanzone; quelli qua dai monti, l’arcivescovo di Milano. [306] Il Gioffredo, St. delle Alpi Marittime, tom. i. p. 590, trovò confermati fin dal 1040 da Ottone e Corrado conti di Ventimiglia gli statuti dati da un Arduino marchese d’Ivrea agli uomini di Tenda, Saorgio, Briga, e che importano la ricognizione del diritto d’eredità nei maschi e nelle femmine; dispensa dal combattimento giudiziale in cause civili, surrogandovi i testimonj sacramentali, o giurati; il conte nè i suoi non potranno pigliare in ostaggio la persona, o mettere sequestro sui beni e sulle case d’essi uomini; questi non saranno tenuti assistere al giudizio pubblico se non una volta l’anno per tre giorni; nè a mandare loro dipendenti in guerra se non in caso di oste generale; potranno far legna, adacquare, pascolare, cacciare su tutti i dominj del conte fino al mare. È uno de’ più antichi documenti di vita comunale. I privilegi della val di Lanzo si leggono in Cibrario, Studj storici, pag. 302. [307] _Lib. consil. civitatis Taurini._ [308] CIBRARIO, _Storia di Chieri_; — SCLOPIS, _Considerazioni storiche intorno a Tommaso di Savoja e degli Stati generali ed altre istituzioni politiche del Piemonte_. Torino 1851. [309] Salinguerra per servizio feudale doveva ad Innocenzo III il censo di quaranta marche d’argento; servire a proprie spese con cento militi in Romagna e Lombardia; con cinquanta in Toscana, nelle marche d’Ancona e di Spoleto; con venti di là da Roma e fin in Sicilia. Il servizio doveva durare trenta giorni ogn’anno, non computando l’andata e il ritorno. SAVIOLI, _Ann. bolognesi_, doc. 431. 444. [310] Nel 1233 Anselmo di Vinguilia pel proprio padre Bonifazio e per Jacopo di Casanova suo parente giura fedeltà al Comune di Genova; ed oltre le solite convenzioni promette che, qualora esso Comune faccia esercitare cavalcata, vi andrà come gli altri della Riviera, e uno di loro due, o un idoneo sostituto. Se faccia armata di dieci galee, darà sette uomini a spese proprie; e così di più o di meno in ragione, purchè non siano meno di sei. _Liber jurium_, I. 931. Seguono altre consimili convenzioni. [311] GHIRARDACCI, al 1297, e lib. XIV. p. 477. [312] _Delizie degli eruditi toscani_, X. 199. — Chiamavasi _cavalleria, cavallata_ o _milizia_ l’obbligazione di servire a cavallo. Determinavasi secondo gli averi a chi intiera, a chi un quarto, a chi metà; a tale di due cavalli, a tale di un solo. Chi n’era dispensato per età, legge o malattia, dava armi e destrieri, che il Comune distribuiva a’ cittadini di minor sorte. Studiavansi i rettori d’accrescere il numero delle cavallate, sia distribuendo a’ più poveri alcuna somma di danaro a modo di prestito o di dono, sia consegnando alle genti forestiere alcuni cavalli in socio o, come allora dicevasi, _in adequanza_, al patto che servissero in guerra e venissero ad abitare colle famiglie dentro le mura. Del resto le cavallate s’imponevano solitamente ogni anno, ed a chi possedeva oltre a cinquecento fiorini: a chi erano imposte importavano l’obbligazione di tener un cavallo di valuta fra i trentacinque e i settanta fiorini (fra le 854 e le 1708 lire d’oggi), e di militare ad ogni cenno del capitano di guerra. La paga in Firenze pe’ semplici cittadini era di quindici soldi al dì; pe’ giudici e cavalieri di corredo, di venti. I destrieri delle cavallate primamente venivano esaminati, stimati e descritti da uffiziali deputati a ciò; poscia bollavansi col bollo del Comune. Caso che il cavallo per pubblico motivo venisse guasto, morto o ferito, il danno veniva compensato al padrone dal Comune: ciò dicevasi _emendare_. Finchè il cavallo non fosse emendato, correva la paga al milite senz’obbligo di servizio. Cavallo emendato contrassegnavasi per non averlo ad emendare una seconda volta. Vedi RICOTTI, _Storia delle compagnie di ventura_. [313] GIULINI, al 1235; — G. VILLANI, IX. 47. [314] I fuorusciti di Ferrara nel 1271 fanno lega con Bologna, promettendo _quod facient exercitum et cavalcatam cum commune Bononiæ, scilicet milites ut milites, et pedites ut pedites, ad voluntatem et mandatum communis et populi bononiensis, sicut cives civitatis Bononiæ....; quod facient et tractabunt guerram omnibus et singulis inimicis communis Bononiæ....; quod dicti Ferrarienses et eorum sequaces defendent et manutenebunt toto eorum posse sicut alii cives civitatis Bononiæ castrum bononiense factum apud Primarium_. SAVIOLI, doc. 765. [315] Anche i capitani successivi erano di nobili case: Werner di Monfort, Wirtinger di Landau, Anichino di Baumgarten...; dai nostri nominati il duca Guarnieri, il conte Lando, il Bongardo. Vedi il Cap. CXI. [316] G. VILLANI, IX. 182. [317] _Novella_ 181. — Quando Pino degli Ordelaffi sconfisse la banda della Rosa nel 1398, esso Sacchetti lo lodò in un sonetto: Se ciaschedun signor desse le frutte A chi le va cercando, come voi, Le strade si terrian nette ed asciutte. E soggiungeva in prosa: — Perchè virtuosamente avete adoperato, che ’l simile facessono tutti gli altri signori, non mi sono possuto tenere ch’io non v’abbia scritto.... E se in ciò si accordasse tutta Italia, e facesse come voi, la gente barbara tornerebbe a lavorar le terre ecc.». [318] ROSMINI, _Vita del Magno Trivulzio_, lib. IV. doc. 23. [319] Lettera di re Roberto al duca d’Atene. [320] Le particolarità sono di Coppo Stefani. Vedi HECKER, _Der Schwarze Tod_. Berlino 1832. [321] _Rer. It. Scrip._, tom. XV, cronaca di Andrea Dei. Un altro anonimo dice, più ragionevolmente, che da sessantacinquemila bocche si ridussero a quindicimila. [322] Ma nel 1361 la peste scoppiò in Lombardia, desertò Como, a Novara e Pavia consumò un terzo degli abitanti, settantasettemila in Milano, oltre il contado. Tornò nel 74, poi nel 99, quando la sola Como, al dire di Benedetto Giovio, perdè tredicimila persone. [323] PETRARCA, _Ep. famil._, lib. VIII. 7. [324] Questa singolarità eccitò la curiosità, e molti la tolsero a soggetto di dotte dissertazioni, che crescono di continuo. In Italia, oltre il Camposanto di Pisa, troppo noto, ne conosciamo uno poco fuori di Como, oggi perito; uno a Santa Caterina del Sasso sul lago Maggiore; uno sulla facciata dei Disciplini a Clusone del Bergamasco. [325] _Cron. riminese._ [326] Probabilmente sotto Fiesole al Poggio Gherardi, e alla villa già Palmieri detta Schifanoja e dei Trevisi. [327] — Quanti valorosi uomini, quante belle donne, quanti leggiadri giovani, li quali, non che altri, ma Galeno, Ippocrate o Esculapio, avrieno giudicati sanissimi, la mattina desinarono coi loro parenti, compagni ed amici, che poi, la sera vegnente appresso, nell’altro mondo cenarono colli loro passati». Più che in tutta la retorica del Boccaccio, trovo verità in queste parole di Panieri Sardo cronista pisano: — In del 1348, alla intrata di gennajo, vennero a Pisa due galee di Genovesi che venivano di Romanìa; e come furono giunti alla piazza dei Pesci, chiunque favellò con loro di subito fue amalato e morto; e chiunque favellava a quelli malati o toccasse di quelli morti altresì, tosto amalavano e morivano: e così fu sparta la grande corruzione in tanto, che ogni persona morìa. E fu sì grande la paura, che nime (nessuno) volea l’un l’altro vedere: lo padre non volea vedere morire lo figliuolo, nè lo figliuolo volea vedere morire lo padre, nè l’uno fratello l’altro, nè la moglie lo suo marito. E ogni persona fuggiva la morte; ma poco li valea, che chiunque dovea morir si moria, e non si trovava persona che li volesse portare a fossa. Ma quello Signore che fece lo cielo e la terra, provvide bene ogni cosa; che lo padre, vedendo morto lo suo figliuolo e abbandonato da ogni persona (che nimo lo volea toccare, nè cucire, nè portare), egli si recusava morto (_si dava per morto_) e poi facea egli stesso lo meglio che potea; egli lo cucia, e poi lo mettea in della cascia, e con ajuto lo portava alla fossa, ed egli stesso lo sotterrava; e poi l’altro giorno egli o chiunque l’avea toccato, si era morto. Ma benedetto Dio, che provvide di dar ajuto l’uno all’altro. Con tutto che ciascun morie purchè egli toccasse di sue cose o denari o panni, nondimeno non ne rimase in nessuna casa nè in sul letto nessuno a sotterrare, che egli non fosse onorevolmente sotterrato secondo la sua qualità: tanta carità Dio diede all’uno coll’altro, recusandosi ciascuno morto. E dicea: _Ajutiamo, e portiamli a fossa, acciocchè ancora noi siamo portati_». Archivio storico, tom. VI. part. ii. p. 114. [328] Non è ben dimostrato che il De Sade trovasse il vero intorno a questa Laura. Vedi _L’illustre châtelaine des environs de Vaucluse, e la Laure de Pétrarque par_ HYACINTHE D’OLIVIER-VITALIS. Parigi 1843. Anche Salvatore Betti sostiene ch’ella fosse la nobilissima Laura Des Beaux Adhémar di Cavaillon, figlia del signore di Vaucluse, nata in riva alla Sorga, e morta fanciulla di consunzione il 1348. «Le trenta vite del cantore di Laura ce ne lasciano bramare una degna di lui», scriveva il Bettinelli quasi un secolo fa, e possiamo ripeter noi. [329] Perchè a me troppo ed _a se stessa_ piacque. La rividi più bella e meno _altera_. [330] Con lei foss’io da che si parte il sole, E non ci vedess’altri che le stelle.... Solo una notte, e mai non fosse l’alba, E non si trasformasse in verda selva Per uscirmi di braccia.... Pigmalïon, quanto lodar ti dèi Dell’immagine tua, se mille volte N’avesti quel ch’io sol una vorrei. E _De contemptu mundi_, dial. III: _Nullis mota precibus, nullis victa blanditiis, muliebrem tenuit decorem, et adversus suam simul et meam ætatem, adversus multa et varia quæ adamantinum flectere licet spiritum debuissent, inexpugnabilis et firma permansit._ [331] _De vita solitaria; De remediis utriusque fortunæ_. [332] _Seniles_, 3. 6. [333] _Apol. contra Galli calumnias._ È in ripicchio d’un anonimo che avea confutato la lettera ove egli persuadeva Urbano V a ritornare la sede pontifizia in Roma, dicendogli ogni male della Francia. [334] _Opera_, pag. 170. ediz. di Basilea. [335] Rathery, nella Memoria premiata dall’Accademia nel 1852 intorno all’_Influenza dell’Italia sulle lettere francesi_, vorrebbe nel Roman de la Rose riconoscere l’influenza di Dante, ch’e’ suppone amico di Giovanni de Meun. [336] _Audio, quo nil possem tristius, nihilque indignantius audire, quosdam cardinales ibi esse qui murmurent se Benvense vinum in Italia non habere_. Opera, pag. 845. [337] Di lui scrive nelle _Epist. famil._, VII. 13: _Reges terræ bellum literis indixerunt; aurum, credo, et gemmas atramentis inquinare metuunt, animum ignorantiæ cæcum ac sordidum habere non metuunt. Unde illud regale dedecus? videre plebem doctam, regesque asinos coronatos licet (sic enim eos vocat romani cujusdam imperatoris epistola ad Francorum regem). Tu ergo hac ætate vir maxime, et cui ad regnum nihil præter nomen regium desit... meliora omnia de te spero._ E nell’_Epist. metr._ lib. III: _Maximus ille virûm quos suspicit itala tellus,_ _Ille, inquam, aeriæ parent cui protinus Alpes,_ _Cui pater Apenninus erat, cui ditia rura_ _Rex Padus ingenti spumans intersecat amne,_ _Atque coronatos altis in turribus angues_ _Obstupet..._ _Adriaci quem stagna maris, thyrrenaque late_ _Æquora permetuunt, quem transalpina verentur,_ _Seu cupiunt sibi regna ducem, qui crimina duris_ _Nexibus illaqueat, legumque coercet habenis,_ _Justitiaque regit populos, quique aurea fessæ_ _Tertius Hesperiæ melioris secla metalli_ _Et Mediolani romanas contulit artes,_ _Parcere subjectis et debellare superbos._ Alla nascita d’un figlio di Barnabò cantava: _Te Padus expectat dominum, quem flumina regem_ _Nostra vocant, te purpureo Ticinus amictu...._ _Tu quoque tranquillo votivum pectore natum_ _Suscipe, magne parens, et per vestigia gentis_ _Ire doce, generisque sequi monumenta vetusti._ _Inveniet puer iste domi calcaria laudum_ _Plurima, magnanimos proavos imitetur avosque,_ _Mirarique patrem docili condiscat ab ævo._ [338] Dodici vestiti di scarlatto erano delle case Forni, Trinci, Capizucchi, Caffarelli, Cancellieri, Coccini, Rossi, Papazucchi, Paparesi, Altieri, Leni, Astalti; sei di verde, delle case Savelli, Conti, Orsini, Annibaldi, Paparesi, Montanari. [339] _Incubui unice ad notitiam antiquitatis, quoniam mihi semper ætas ista displicuit._ Ep. ad posteros. [340] _Auctor venatus fuit ubique quidquid faciebat ad suum propositum_. BENVENUTO DA IMOLA al XIV del _Purgatorio_. [341] Il Petrarca narra che Dante fu ripreso da Can Grande, qual uomo meno urbano e men cortese che non gli istrioni medesimi e i buffoni della sua Corte. _Memorab._, II. Avendogli Can Grande domandato: — Perchè mi piace più quel buffone che non te, cotanto lodato?» n’ebbe in risposta: — Non ti maraviglieresti se ricordassi che la somiglianza di costumi stringe gli animi in amicizia». [342] _Sonetto_ 25. II. — Nella prefazione alle _Epistole famigliari_ dice avere scritto alcune cose vulgari per dilettar gli orecchi del popolo. Nella VIII di esse soggiunge che per sollievo dei suoi mali dettò «le giovanili poesie vulgari, delle quali or prova pentimento e rossore (_cantica, quorum hodie pudet ac pœnitet_), ma che pur sono accettissime a coloro i quali dallo stesso male sono compresi». Nella XIII delle Senili: _Ineptias quas omnibus et mihi quoque si liceat ignotas velim_. E scolpandosi a quei che lo diceano invidioso di Dante: — Non so quanta faccia di vero sia in questo, ch’io abbia invidia a colui che consumò tutta la vita in quelle cose, in che io spesi appena il primo fiore degl’anni; io che m’ebbi per trastullo e riposo dell’animo e dirozzamento dell’ingegno quello che a lui fu arte, se non la sola, certamente la prima». E nella XI delle _Famigliari_ modestamente: — Di chi avrà invidia chi non l’ha di Virgilio?» Altrove dice essersi guardato sempre dal leggere i versi di Dante, e al Boccaccio scrive: — Ho udito cantare e sconciare quei versi su per le piazze... Gl’invidierò forse gli applausi de’ lanajuoli, tavernieri, macellaj e cotal gentame?» Eppure Jacopo Mazzoni (_Difesa di Dante_, VI. 29) asserisce che il Petrarca «adornò il suo canzoniere di tanti fiori della Divina Commedia, che può dirsi piuttosto ch’egli ve li rovesciasse dai canestri che dalle mani». È un’arte dei detrattori senza coraggio il deprimere un sommo col metterlo a paraggio de’ minori. Ora il Petrarca due volte menziona Dante come poeta d’amore, ponendolo in riga con frà Guittone e Cino da Pistoja; Sonetto 257: _Ma ben ti prego che in la terza spera Guitton saluti e messer Cino e Dante_. Trionfo d’Amore, IV: _Ecco Dante e Beatrice, ecco Selvaggia, ecco Cin da Pistoja, Guitton d’Arezzo_. [343] Si confronti la descrizione della sera. DANTE, _Purg._, VIII: — Era l’ora che volge il desìo e intenerisce il cuore dei naviganti il dì che dissero addio ai cari amici; e che punge d’amore il nuovo pellegrino se ode squilla da lontano che sembri piangere il giorno che si muore». PETRARCA: — Poichè il sole si nasconde, i naviganti gettan le membra in qualche chiusa valle sul duro legno o sotto l’aspre gòmone. Ma perchè il sole s’attuffi in mezzo l’onde, e lasci Spagna e Granata e Marocco dietro le spalle, e gli uomini e le donne e ’l mondo e gli animali acquetino i loro mali, pure io non pongo fine al mio ostinato affanno». [344] Eppure la parola _melanconia_ nè una volta si trova nei suoi versi. [345] Indicò chiaramente gli antipodi e il centro di gravità della terra; fece argute osservazioni sul volo degli uccelli, sulla scintillazione delle stelle, sull’arco baleno, sui vapori che formansi nella combustione (_Inf._, XIII. 40. XIV. III; _Purg._, II. 14. XV. 16; _Par._, II, 35. XII. 10), sull’origine delle meteore acquose (_Ben sai come nell’aer si raccoglie Quell’umido vapor che in acqua riede Tosto che sale dove freddo il coglie_), e sulla teoria de’ venti (_il vento Impetuoso per gli avversi ardori_), sul rapporto fra l’evaporazione del mare e le correnti de’ fiumi (_In fin là, ’ve si rende (l’Arno) per ristoro, Di quel che il ciel della marina asciuga, Ond’hanno i fiumi ciò che va con loro_). Prima di Newton assegnò alla luna la causa del flusso e riflusso (_E come ’l volger del ciel della luna, Copre e discopre i lidi senza posa_. _Par._, XVI). Prima di Galileo attribuì il maturar delle frutte alla luce che fa esalare l’ossigeno (_Guarda il color del Sol che si fa vino Giunto all’umor che dalla vite cola_. _Purg._, XXV). Prima di Linneo e dei viventi dedusse la classificazione dei vegetali dagli organi sessuali, e asserì nascer da seme le piante anche microscopiche e criptogame (_Ch’ogn’erba si conosce per lo seme._ Ivi, XVI; _Quando alcuna pianta Senza seme palese vi s’appiglia_. Ivi, XXVIII). Sa che alla luce i fiori aprono i petali e scoprono gli stami e i pistilli per fecondare i germi (_Quali î fioretti dal notturno gelo Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca, Si_ drizzan _tutti_ aperti _in loro stelo. Inf._, II); e che i succhi circolano nelle piante (_Come d’un tizzo verde ch’arso sia Dall’un de’ capi, che dall’altro geme E cigola per vento che va via_. Ivi, XIII). Prima di Leibniz notò il principio della ragion sufficiente (_Intra duo cibi distanti e moventi D’un modo, prima si morria di fame Che liber uom l’un si recasse a’ denti_. _Par._, IV). Prima di Boussingault e Liebig assegnò le rimutazioni della materia (_Il ramo Rende_ alla terra _tutte le sue spoglie_). Prima di Bacone pose l’esperienza per fonte del sapere (_Da questa istanzia può deliberarti Esperienza, se giammai la provi, Ch’esser suol fonte a’ rivi di vostr’arti_. Ivi, II). Anzi l’attrazione universale vi è adombrata, cantando — Questi ordini di su tutti rimirano, E di giù vincon sì che verso Dio Tutti tirati sono e tutti tirano» (_Par._, XXVIII). Indica pure la circolazione del sangue, dicendo in una canzone: — Il sangue che per le vene disperso Correndo fugge verso Lo cor che il chiama, ond’io rimango bianco». Il che più circostanziatamente esprime Cecco d’Ascoli nell’_Acerba_: Nasce dal cuore ciascuna arteria E l’arteria sempre dov’è vena; Per l’una al core lo sangue si mena, Per l’altra vien lo spirito dal core; Il sangue pian si move con quiete. [346] Oltre l’argomento dedotto dal suo silenzio, vedi la confusione che ne fa nel IV dell’_Inferno_; altrove nomina come autore di _altissime prose_ Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio; nel _Par._, VI. 49, fa venire in Italia gli Arabi con Annibale, ecc.; nel _Convivio_ confessa che stentava a capire Cicerone e Boezio. [347] Per esempio, Cino da Pistoja scrive degli occhi della sua donna: Poichè veder voi stessi non potete, Vedete in altri almen quel che voi siete; e il Petrarca: Luci beate e liete, Se non che il veder voi stesse v’è tolto: Ma quante volte a me vi rivolgete, Conoscete in altrui quel che voi siete. Cino ha un sonetto: Mille dubbj in un dì, mille querele Al tribunal dell’alta imperatrice, ecc. ove figura che egli ed Amore piatiscano avanti alla Ragione, e infine questa conchiude: A sì gran piato Convien più tempo a dar sentenza vera. Petrarca riproduce quest’invenzione nella canzone _Quell’antico mio dolce empio signore_, ove dopo il dibattimento la Ragione sentenzia: Piacemi aver vostre quistioni udite, Ma più tempo bisogna a tanta lite. Confronti del Petrarca coi Provenzali fece il Galvani nelle _Osservazioni sulla poesia de’ trovadori_. E vedi il _Paradosso_ del Pietropoli. [348] Però il Bembo, quel gran petrarchista che ognun sa, confessa aver letti per oltre quaranta volte i due primi sonetti del Canzoniere senza intenderli appieno, nè avere incontrato ancora chi gl’intendesse, per quelle contraddizioni che pajono essere in loro; _Lettera a Felice Trofimo_, lib. VI. E Ugo Foscolo, grande studioso del Petrarca, interrogato sul senso della strofa famosa _Voi cui natura_, ecc., la spiega con un _Se non m’inganno_ (Epistolario, vol. III. 46). Fin ad ora si disputò sul senso del verso Mille piacer non vagliono un tormento e dell’altro Che alzando il dito colla morte scherza. [349] Gli aneddoti che si raccontano in contrario, e l’asserzione del Petrarca parmi non si possano riferire che a’ versi amorosi, od altri men conosciuti, che sono di forma affatto moderna e di concetto semplice. [350] Tali sarebbero i frequenti giuocherelli sul nome di Laura; tale la _gloriosa colonna_ a cui s’appoggia nostra speranza, e il vento angoscioso de’ sospiri, e il fuoco de’ martiri, e le chiavi amorose, e il lauro a cui coltivare adopera _vomer di penna con sospir di fuoco;_ e la nebbia di sdegni che _rallenta le stanche sarte della nave sua, fatte d’error con ignoranza attorto_: e i ravvicinamenti fra cose disparate, come fra sè e l’aquila, la cui _vista incontro al Sol pur si difende_; e il dolore che lo fa _d’uom vivo un verde lauro_. Nel che talvolta non ha pur rispetto alle cose sacre; come là dove loda il borgo in cui la bella donna nacque, paragonando con Cristo che _sceso in terra a illuminar le carte, fa di sè grazia a Giudea_; e il _vecchierel canuto e bianco, che viene a Roma per rimirar la sembianza di colui che ancor lassù nel ciel vedere spera_, confronta a sè _che cerca la forma vera di Laura_. [351] Alessandro Velutello nel 1525 fu il primo che distribuì il Petrarca in rime avanti la morte, dopo la morte di madonna Laura, e rime varie. [352] Un’elevata definizione della poesia leggiamo pure nel Boccaccio (_Genealogia degli Dei_, lib. XIV, c. 7): _Poesis, quam negligentes abjiciunt et ignari, est fervor quidam exquisite inveniendi atque discendi seu scribendi quod inveneris, qui ex sinu Dei procedens, paucis mentibus, ut arbitror, in creatione conceditur. Ex quo, quoniam mirabilis est, rarissimi semper fuere poetæ. Hujus enim fervoris sublimes sunt effectus ut puta mentem in desiderium dicendi compellere, peregrinas et inauditas inventiones excogitare, meditatas ordine certo component ornare compositum inusitato quodam verborum atque sententiarum contextu, velamento fabuloso atque decenti veritatem contegere_. [353] La Divina Commedia a La Harpe parve _une rapsodie informe_, a Voltaire _une amplification stupidement barbare_. Ebbe essa ventuna edizione nel secolo XV, quarantadue nel XVI, quattro nel XVII, trentasei nel XVIII, più di cencinquanta nella prima metà del nostro; diciannove traduzioni latine, trentacinque francesi, venti inglesi, altrettante tedesche, due spagnuole; cencinquantacinque illustrazioni di disegni o pitture. Vedi COLOMB DE BATINES, _Bibliografia dantesca_. [354] Nota varietà di giudizj. Il padre Cesari, proclamato pedante, ristampando i _Fioretti_ (Verona 1822) levò le uscite alla antica, mettendovi le moderne «per togliere agli schifiltosi ogni cagione di mordere e sprezzare questa lingua del Trecento; e così cammineranno senza incespicare». Sebastiano Ciampi, ristampando il vulgarizzamento d’Albertano Giudice (Firenze 1833), conserva non che le cadenze, fin tutti gli sbagli del manuscritto, e ne fa per rogito notarile attestare l’identità. [355] Come tale è considerato dal TEMPESTI, _Disc. sulla storia letteraria pisana_. [356] Altre letterate italiane, oltre la Pisani e la Nina sicula, nomineremo le fabbrianesi Ortensia di Guglielmo, Leonora della Genga, Livia di Chiavello, Elisabetta Trebani d’Ascoli, Giustina Levi Perotti, che indirizzò sonetti al Petrarca; la Selvaggia, cantata da Cino di Pistoja; Giovanna Bianchetti bolognese, che sapeva di greco, latino, tedesco, boemo, polacco, italiano, e di scienze filosofiche e legali. [357] F. VILLANI nella sua vita; _Filocopo_, v. 377. [358] Dal _Dolopathos_ il Boccaccio dedusse le novelle, 2ª della giornata IX, 4ª della giornata VII, 8ª della giornata VIII. Contano dieci delle sue novelle, tratte dai trovadori. [359] Vedi _Sonetto_ 192, 121. 87. E nella _Canzone_ x: Pace tranquilla senza alcun affanno, Simile a quella che nel cielo eterna Move dal loro innamorato riso cioè degli occhi; e che da questi move un dolce lume Che mi mostra la via che al ciel conduce. _Canz._ IX. E più disteso nel _Trionfo della Morte_: Più di mille fïate ira dipinse Il volto mio, ch’amor ardeva il core; Ma voglia in me, ragion giammai non vinse. Poi, se vinto te vidi dal dolore, Drizzai ’n te gli occhi allor soavemente, Salvando la tua vita e il nostro onore... S’al mondo tu piacesti agli occhi miei, Questo mi tacio: pur quel dolce nodo Mi piacque assai che intorno al core avei... Fur quasi eguali in noi fiamme amorose, Almen poi ch’io m’avvidi del tuo foco; Ma l’un l’appalesò, l’altro l’ascose. [360] Però anche Laura fu veduta da Petrarca il giovedì santo; Beatrice da Dante nel luogo dove si cantava le lodi della regina di gloria; ser Onesto bolognese s’innamorò il giovedì santo; il Firenzuola in chiesa l’Ognissanti; e nella _Flamenca_ Guglielmo di Nevers s’invaghisce vedendo a messa la figlia del conte di Nemours. Tali coincidenze non hanno significazione? [361] Son note le lunghe fatiche adoperate tra a Firenze e a Roma, tra dagli accademici della Crusca e dal maestro del Sacro Palazzo per allestire un’edizione purgata del Decamerone. Il Ginguené, il Foscolo, dopo molti e seguiti da molti, non rifinano di cuculiare sopra questo censore. Eppure, convenuto che niuno porrebbe il Decamerone in mano a’ suoi figliuoli e neppure a sua moglie, e che, chi non voglia i petulanti arbitrj della censura preventiva, dee sottomettersi ai giudizj della repressiva, dovrà in quella fatica riconoscere il desiderio di dare agli studiosi un libro, che credeasi opportunissimo per l’arte quanto pericoloso pel costume. Ugo Foscolo, che non sa di frate, termina il secondo suo inno _alle Grazie_ raccontando l’origine del Decamerone: Gioì procace Dioneo, sperando Di sedur, coll’esempio della ninfa, La ritrosa fanciulla, e pregò tutti Allor d’aita, e i satiri canuti E quante invide ninfe eran da’ balli E dagli amori escluse: e quei maligni Di scherzi e d’antri e d’imenei furtivi Ridissero novelle, ed ei ridendo Vago le scrisse, e le rendea più care: Ma ne increbbe alle Grazie. Or vive il libro Dettato dagli Dei, ma sventurata Quella fanciulla che mai tocchi il libro! Tosto smarrite del pudor natìo Avrà le rose; nè il rossore ad arte Può innamorar chi sol le Grazie ha in core. [362] Petrarca designa così il tempo del suo innamoramento: Era il giorno che al sol si scoloraro Per la pietà del suo fattore i rai, Quand’io fui preso... Boccaccio nel _Filocopo_: — Avvenne un giorno, la cui prima ora Saturno aveva signoreggiata, essendo già Febo co’ suoi cavalli al sedicesimo grado del celestial montone pervenuto, e nel quale il glorioso partimento del figliuolo di Giove dagli spogliati regni di Plutone si celebrava, io della presente opera componitore mi trovai in un grazioso e bel tempio in Partenope, nominato da colui che, per deificarsi, sostenne che fosse fatto di lui sacrificio sopra la grata... e già essendo la quarta ora del giorno sopra l’oriental orizzonte passata, apparve agli occhi miei l’ammirabile bellezza della prefata giovane». Cioè la domenica di Pasqua 8 aprile, in San Lorenzo di Napoli. [363] Nel _Filostrato_ forma sin un’ottava intera con versi di Dante: Quali i fioretti dal notturno gelo Chinati e chiusi, poi che ’l sol gl’imbianca, Tutti s’apron diritti in loro stelo; Cotal si fe di sua virtude stanca Troilo allora, e riguardando il cielo Incominciò come persona franca, ecc. [364] Cioè _acervo_, mucchio di grano. [365] Me ne appello ai primi pretesi versi, _si digito callemus et aure_: Novellamente, Francesco, parlai Coll’onestade; Ed a preghiera di molte altre donne Mi lamentai con lei, e dissi Ch’erano molti, ch’avean scritti libri, Costumi ornati d’uom, ma non di donna. Sicch’io pregava lei Che per amor di sè, E per amor di questa sua compagnia, Ch’à nome cortesia; Ed anco per vestir l’altre donne con meco Di quello onesto manto, ch’ella hae seco, E ch’ella porge a quelle che voglion camminare Per la via de’ costumi, degnasse di parlare Con questa donna, che si appella Industria; E seco insieme trovassono uno modo Che l’altra donna, ch’ha nome Eloquenza, Parlasse alquanto di questa materia, E ’l suo parlare si trovasse in scritto. Rimase inedito fin al 1815. [366] O man leggiadra, ove il mio bene alberga... O bella e bianca mano, o man soave... [367] SCIPIONE AMMIRATO, _Storie fiorentine_, lib. XIV. [368] BENVENUTO DA IMOLA al cap. VIII del _Purgatorio_. [369] Al principio del XII secolo Avignone era sottomessa ai conti di Tolosa, di Provenza, di Forcalquier; della qual divisione profittando i cittadini, di buon’ora se ne emanciparono, e si unirono col vescovo. Nel 1154 già si davano statuti e forma comunale sotto la presidenza del vescovo Gaufredo, e si conserva quella carta, donde appare l’amichevole cooperazione dei poteri. Sussisteva però ancora il visconte, subordinato al conte di Provenza, ma restò vinto, e cessò verso il 1190. Allora Avignone prosperò grandemente, costruì sul Rodano un ponte lungo un quarto di lega, eppure gli abitanti erano esenti da ogni tassa o gabella. Il governo consolare era composto: 1º di due o quattro e fin otto consoli che univano l’amministrazione, la giurisdizione, il comando militare; 2º di un giudice annuo; 3º di un consiglio della città composto di nobili, di borghesi e del vescovo che rappresentava la città e dava la direzione degli affari; 4º di un parlamento a cui avean parte tutti i cittadini. Nel 1225 si scelse un podestà, come aveano fatto Marsiglia e Arles; annuo, straniero e intitolato _Dominus_. [370] _Storie fiorentine_, lib. II. c. 19. 20. Sarebbero ducencinquanta milioni d’oggi. Galvano Fiamma dice ventidue milioni di zecchini; Alberto di Strasborgo diciassette milioni; Buonconte Monaldeschi quindici. Siamo appoggiati a CRISTOPHE, _Hist. de la papauté pendant le xiv siècle_, tom. II. l. VI: e vedansi pure HURTER, _Quadro delle istituzioni e costumi della Chiesa al medio evo_; ANDRÉ, _Monarchie pontificale au_ XIV _siècle_; Antiq. M. Æ., V. diss. 60. Vedi pure GREGOROVIUS, _Gesch. der Stadt Rom in Mittelalter vom_ V _bis zum_ XVI _Jahrhundert_. Stuttgard 1859. [371] _De vestris marmoreis columnis, de liminibus templorum, de imaginibus sepulcrorum, sub quibus patrum vestrorum venerabilis cinis erat, ut reliquas sileam, desidiosa Neapolis adornatur_. Così il Petrarca, dalle cui lettere desumo quella dipintura. E TOMAO FORTIFIOCCA, _Vita di Cola di Rienzo, tribuno del popolo romano, scritta in lingua volgare romana di quella età_. Bracciano 1624: — La cittate di Roma stava in grannissimo travaglio. Rettori non avea. Onne dì se commettea. Da onne parte se derobbava. Dove era loco de vergini, se detorpavano. Non ce era reparo. Le piccole zitelle se ficcavano, e menavanose a deshonore. La moglie era tolta a lo marito ne lo proprio lieto. Li lavoratori, quando jevano fora a lavorare, erano derobbati. Dove? fin su la porta di Roma. Li pellegrini, li quali viengo pe merito de le loro anime a le sante chiesie, non erano defesi, ma erano scannati e derobbati. Li preti stavano per mal fare. Onne lascivia, onne male, nulla justitia, nullo freno: non ce era più remedio. Onne perzona periva. Quello più havea ragione lo quale più potea co la spada. Non ce era altra salvezza, se no che ciascheduno se defenneva con parienti e con amici. Onne die se faceva adunanza». Tanto basti per saggio del dialetto romanesco: ai pezzi che in appresso riferiremo, daremo terminazioni toscane. Quell’opera fu illustrata di copiose note da Zefirino Re nel 1828, poi nel 1854 con moltissime aggiunte e rettificazioni, valendosi de’ lavori pubblicati nell’intervallo. Quel cronista, a torto chiamato Fortifiocca, fu lodato e vituperato a vicenda da quei che di Cola vollero fare un eroe o un arruffaplebe. Realmente e’ scrisse come tutti i contemporanei di rivoluzioni, lodando sulle prime, vituperando poi; e chi sapeva leggere nel 1848, n’avrà il commento migliore nella propria memoria. Vedi pure LEVATI, _Viaggi del Petrarca_; DU CERCEAU, _Conjuration de Nicolas Gabrini dit de Rienzi tyran de Rome_, 1733; SCHILLER, _Rivoluzione di Cola di Rienzo_ 1788; PAPENCORDT, _Cola de Rienzo und seine Zeit, besonders nach ungedruckten Quellen dargestellt_, 1841. I documenti inediti sono lettere di Cola a Carlo IV e all’arcivescovo di Praga, a cui racconta in latino tutta la sua storia. Le scoprì Pelzel, poi l’originale andò perduto; la copia fu pubblicata dal Papencordt, cui la morte impedì di seguitare la storia di Roma dalla caduta dell’impero fin al principio del XVI secolo. Sono da aggiungere dieci lettere che Giovanni Gaye pubblicò nel _Carteggio degli artisti_, vol. I, dirette dal tribuno alla Signoria di Firenze; e «documenti risguardanti le relazioni politiche dei papi d’Avignone coi Comuni d’Italia avanti e dopo il tribunato di Cola di Rienzo», nell’appendice 24 dell’_Archivio storico_. [372] _Novella_ 3 della _Giornata_ V. [373] Il prefetto di Roma dopo il senatore aveva il primo luogo, esercitato da baroni romani; ed aveva carico di mantenere la patria abbondante, e di tenere purgate e sicure le strade della campagna di Roma, nette da ladroni ed assassini, e con rigore li castigava. Però gli andava avanti un putto con la frusta; e le città, terre, castelli erano obbligati di mantenergli i soldati. E quando i pontefici coronavano gl’imperadori, egli teneva la corona imperiale, e andavagli sempre avanti vicino al pontefice; e nelle pompe portava una bacchettina d’oro in mano. E quest’uffizio lo esercitò molto tempo la nobilissima famiglia di Vico, concessole dal popolo romano e da’ pontefici in eredità successiva pe’ benemeriti di questa famiglia; ma poi per la loro mala vita ed enormi scelleraggini la perseguitarono con l’arme e la estinsero, e lo uffizio diedero ad altre famiglie nobili romane. _Antiq. M. Æ._, II. 858. [374] Della deputazione a Clemente VI facea parte il Petrarca; e l’orazione recitata da lui in quell’occasione, è una prosopopea ove Roma parla come una vedova la quale si lagni dell’assente marito. E gli dipinge tutti i meriti della città, fra’ quali principalmente le tante reliquie ond’è ricca la cuna di Cristo, i capelli della Madonna e parte della sua veste, la verga d’Aronne, l’arca dell’alleanza, un dito di sant’Agnese coll’anello nuziale che lo ornava, la testa di san Pancrazio che sudò sangue e versò lacrime quando i sacerdoti la sottraevano all’incendio appiccatosi a San Giovanni Laterano. _Carminum_, lib. II. [375] «Pinse una similitudine in questa forma. Era pinto un grandissimo mare, le onde orribili e forte turbate; in mezzo a questo mare stava una nave poco meno che soffocata, senza timone, senza vela. In questa nave, la quale per pericolare stava, ci era una femmina vedova, vestita di nero, cinta di cingolo di tristezza, sfessa la gonnella da petto, sciliati li capelli, come volesse piangere; stava inginocchiata, incrociava le mani piegate al petto per pietade in forma di pregare che suo pericolo non fosse; lo soprascritto dicea, _Questa è Roma_. Attorno questa nave da la parte di sotto nell’acqua stavano quattro navi affondate, le loro vele cadute, rotti li arbori, perduti li timoni. In ciascuna stava una femmina affogata e morta; la prima avea nome _Babilonia_, la seconda _Cartagine_, la terza _Troja_, la quarta _Gerusalemme_. Lo soprascritto diceva, _Queste cittadi per la ingiustizia pericolaro, e vennero meno_. Una lettera esciva fuora fra queste morte femmine, e diceva così: Sopra ogni signoria fosti in altura, Ora aspettiamo qua la tua rottura. Dal lato manco stavano due isole. In una isoletta stava una femmina che sedea vergognosa, e diceva la lettera, Questa è Italia; favellava questa e diceva così: Tollesti la balìa ad ogni terra, E sola me tenesti per sorella. Nell’altra isola stavano quattro femmine colle mani a le gote e a li ginocchi, con atto di molta tristezza, e diceano così: D’ogni virtude fosti accompagnata, Ora per mare vai abbandonata. Queste erano le quattro virtudi cardinali, cioè Temperanza, Giustizia, Prudenza e Fortezza. Da la parte ritta stava una femmina inginocchiata; la mano distendeva al cielo come orasse; vestita era di bianco, nome avea _Fede cristiana_, e lo suo verso dicea così: O sommo padre, duca e signor mio, Se Roma pere, dove starò io? Ne lo lato ritto de la parte disopra stavano quattro ordini di diversi animali colle sue ale, e tenevano corna alla bocca, e soffiavano come fossino venti, li quali facessero tempestate al mare, e davano ajutorio a la nave, che pericolasse. A lo primo ordine erano lioni, lupi e orsi; la lettera diceva, _Questi sono li potenti baroni e rei rettori_. A lo secondo ordine erano cani, porci e caprioli; la lettera diceva, _Questi sono li mali consiglieri seguaci de li nobili_. A lo terzo ordine stavano pecoroni, dragoni e volpi; la lettera diceva, _Questi sono li falsi officiali, giudici e notarj_. A lo quarto ordine stavano lèpori, gatti, capre e scimmie; la lettera diceva, _Questi sono li popolari ladroni micidiali adulteratori e spogliatori_. Ne la parte disopra stava lo cielo; in mezzo la Majestade divina come venisse al giudizio; due spade l’escivano dalla bocca di là e di qua; dall’uno lato stava santo Pietro, e dall’altro santo Paolo in orazione. Quando la gente vidde questa similitudine di tale figura, ogni persona si maravigliava». [376] _Nihil actum fore putavi si, quæ legendo didiceram, non adgrederer exercendo_. Epist. [377] _Spirto gentil, che quelle membra reggi_, ecc. De Sade sostenne che lo _spirto gentil_, il _cavalier che tutta Italia onora_ non può essere Cola di Rienzo. Egli fu confutato da Zefirino Re, al quale consente il Papencordt, giacchè le lettere del Petrarca a Cola ripetono quei medesimi sentimenti, e gli drizzò pure un’egloga pastorale, mandandogliene anche la chiave. Ma Salvatore Betti adduce fortissime ragioni per sostenere che la canzone è diretta a Stefano Colonna senatore, e perciò ornato della onorata verga. Ed è singolare che abbia a disputarsi a chi dirette la più bella canzone del Petrarca, e le speranze di Dante. [378] «In prima apparecchiarono alle nozze tutto lo palazzo del papa, con ogni circostanza di San Giovanni di Laterano, e per molti dì innanzi fece le mense da mangiare, delle tavole e del legname dei chiostri de li baroni di Roma. E furo stese queste mense per tutta la sala vecchia dello vecchio palazzo di Costantino e del papa, e lo palazzo nuovo, sì che stupore parea a chi lo considerava. E fuori rotti i muri delle sale, donde venivano scaloni di legno allo scoperto per agio da portare la cucina, la quale si coceva. E ad ogni sala apparecchiato lo cellaro di vino nel cantone. Era la vigilia di san Pietro in vincoli: ora era di nona. Tutta Roma, maschi e femmine ne vanno a San Giovanni. Tutti si apparecchiano sotto li porticali per la festa vedere; nelle vie pubbliche per questo trionfo vedere. Allora venne la molta cavallaria de diverse nazioni de gente, baroni, popolari, foresi, a pettorali da sonagli, vestiti di zendato con bandiere; facevano grande festa; correvano giocando. Ora ne vengon buffoni senza fine: chi suona trombe, chi cornamuse, chi ciaramelle, chi mezzi cannoni. Poi questo grande suono, venne la moglie a piedi colla sua madre; molte oneste donne l’accompagnavano per volerle compiacere. Dinanti alla donna venivano due assettati gioveni, li quali portavano in mano un nobilissimo freno di cavallo tutto inaurato. Trombe di argento senza numero; ora si vede trombare. Dopo questi venne grande numero di giocatori da cavallo; poi veniva lo tribuno, e lo vicario del papa a canto. Dinanzi a lo tribuno veniva uno, il quale portava una spada ignuda in mano. Sopra lo capo un altro gli portava lo pennone; in mano portava una verga di acciaro. Molti e molti nobili erano in sua compagnia. Era vestito con una gonnella bianca da seta _miri candoris_, inzaganata di oro filato. In tanta moltitudine di ogni parte era letizia. Non fu orrore, nè fu arme: due persone ebbero parole; adirate trassero le spade; innanzi che colpi menassero, le tornarono in sue vagine. Ognuno va in sua via. De le città vicine a questa festa vennero gli avvitatori, che più? e li veterani, e le pulzelle, vedove e maritate. Poi che ogni gente fu partita, allora fu celebrato uno solenne officio per lo chiericato. E dopo l’officio entrò nel bagno, e bagnossi nella conca de lo imperatore Costantino, la quale è di preziosissimo paragone. Uno cittadino de Roma messere Vico Scotto cavaliere gli cinse la spada. Poi se addormì in un letto venerabile, e giacque in quel loco, che si dice li fonti di San Giovanni, dentro de lo circuito de le colonne. Là compì tutta quella notte. Ora senti maraviglia grande. Lo letto e la lettiera nuovi erano. Come venne lo tribuno a salire a lo letto, subitamente una parte del letto cadde in terra, e _sic in nocte silenti mansit_. Fatta la dimane, levossi su lo tribuno vestito de scarlatto con vari; cinta la spada per messere Vico Scotto, co’ speroni di oro, come cavaliere. Tutta Roma, e ogni cavalleria ne va a San Giovanni: ci vanno ancora tutti li baroni, e foresi, e cittadini per vedere Cola de Rienzo cavaliere. Fassi grande festa, e fassi letizia». [379] _Nos non sine inspiratione Sancti Spiritus jura sacri romani populi recognoscere cupientes, habuimus, cum opportuna maturitate omnium utriusque juris peritorum et totius collegii urbis judicum, et quamplurium aliorum sacræ Ytaliæ consilium sapientum, qui per expressa jura sæpius revoluta, discussa et examinata mutuis collationibus, opportuna noverunt et dixerunt: senatum populumque romanum illam auctoritatem et jurisdictionem habere in toto orbe terrarum, quam olim habuit ab antiquo tempore, videlicet quo erat in potentissimo statu suo, et posse nunc jura et leges interpretari, condere, revocare, mutare, addere, minuere, ac etiam declarare, et omnia facere sicut prius, et posse etiam renovare quidquid in sui lesionem et præjudicium factum fuerit ipso jure, et revocatum esse etiam ipso facto. Quibus discussis et satis congregatis apud sacrum latinum palatium omnibus, senatu, magnatibus, viris consularibus, satrapis, episcopis, abbatibus, prioribus, clericis urbis omnibus ac populo universo in plenissimo et solemnissimo parlamento, omnem auctoritatem, jurisdictionem et potestatem, quam senatus populusque romanus habuerunt et habere possent, et omnem alienationem, cessionem et concessionem et translationem officiorum, dignitatum, potestatum et auctoritatum imperialium, et quarumcumque aliarum per ipsum senatum et populum factas in quoscumque viros clericos et laicos, cujuscumque conditionis existant, et cujuscumque etiam nationis, auctoritate quidem populi et omni modo et jure, quo melius de jure potuimus, de totius ejusdem romani populi voluntate unanimi duximus solemniter revocandas, et ea officia, dignitates, potestates et auctoritates imperiales et quascumque alias, et omnia primitiva et antiqua jura ejusdem romani populi reduximus ad nos et populum prelibatum; citare quoque fecimus in parlamento præfato gerentem se pro duce Bavariæ, ac dominum Karolum, illustrem regem Boemiæ, se romanorum regem appellantem, et tam præcedentes singulos alios speciales, tam electos quam etiam electores nominatim, et omnes et singulos imperatores, reges, duces, principes, marchiones, prelatos et quoscumque alios tam clericos quam laicos in romano imperio et electionis ipsius imperii jus aliquod prætendentes, qui diversas incurrerunt ingratitudines et errores in urbis et totius sacræ Ytaliæ detrimentum et totius fidei christianæ jacturam, ut usque ad festum Pentecosten futurum proximum in urbe et sacro Laterani palatio coram nobis et romano populo cum eorum juribus omnibus, tam in electione et imperio supradictis, quam contra revocationem ipsam, personaliter vel per legitimos eorum procuratores studeant comparere, alioquin in revocationis hujusmodi et electionis imperii præfati negotio prout de jure fuerit, non obstante eorum contumacia, procedetur. Et ut dona et gratia Spiritus Sancti participarentur per Ytalicos universos, fratres et filios sacri romani populi pervetustos, omnes et singulos cives civitatum sacrae Ytaliæ cives romanos effecimus, et eos admittimus ad electionem imperii ad sacrum romanum populum rationabiliter devoluti; et decrevimus electionem ipsam per XX seniorum voces eligentium in urbe mature et solemniter celebrandam. Quarum aliquibus reservatis in urbe, reliquas distribuimus per sacram Ytaliam, prout in capitulis et ordinationibus super hoc editis continetur. Cupimus quidem antiquam unionem cum omnibus magnatibus et civitatibus sacræ Ytaliæ et vobiscum firmius renovare, et ipsam sacram Ytaliam, multo prostratam jam tempore, multis dissidio lacessitam hactenus et abjectam ab iis, qui eam in pace et justitia gubernare debebant, videlicet qui imperatoris et augusti nomina assumpserunt, contra promissionem ipsorum venire, nomini non respondente, effectui non verentes, ab omni suo abjectionis discrimine liberare, et in statum pristinum suæ antiquæ gloriæ reducere et augere, ut pacis gustata dulcedine floreat per gratiam Spiritus Sancti melius, quam unquam floruit inter ceteras mundi partes. Intendimus namque ipso Sancto Spiritu prosperante, elapso præfato termino Pentecostem, per ipsum sacrum romanum populum et illos quibus electionis imperii voces damus, aliquem Ytalicum, quem ad zelum Ytaliæ digne indicat unitas generis et proprietas nationis, secundum inspirationem Sancti Spiritus, dignati ipsam sacram Ytaliam pie respicere, feliciter ad imperium promoveri, ut Augusti nomen, quod romanus populus, immo inspiratio divina concessit et tribuit, observemus per gratas effectuum actiones. Hortatur vos itaque purus nostræ sinceritatis affectus, ut commune nostrum et totius Ytaliæ decus, commodum et augmentum velitis congrua consideratione diligere, et honores proprios occupari et detineri per alios pati nolle, in tantum nefas, tantum opprobrium, quantum est proprio privari domino, et propriis raptis honoribus, alieno indebite subdere colla jugo, eorum videlicet qui sanguinem ytalicum sitiunt, sicut sunt soliti deglirare_. Lettera del 19 settembre 1347, ap. GAYE. [380] Nelle accennate lettere, Cola pretende essere generato da Enrico VII, cui sua madre in una bettola di Roma _ministrabat, nec forsitan minus quam sancto David et justo Abrahæ per dilectas exstitit ministratum_. [381] _Ep. famil._, lib. XIII. 6. [382] _Ep. famil._, lib. XIII. 6. [383] _Epistolæ sine titulo_, ep. 4. Ho molto compendiato. [384] _Et nihilominus prorsus mandamus angelis paradisi, quatenus animam illius, a purgatorio penitus absolutam, in paradisi gloriam introducant_. Bolla ap. BALUZIO, che vuol crederla falsa, come altre asserzioni a carico di questo papa. [385] Della morte del Moriale assai lodavano Cola i Fiorentini, il 4 settembre 1354 scrivendo al Comune di Perugia: _Fidedigna relatione didicimus, magnificum dominum almæ urbis senatorem illustrem, tamquam justitiæ zelatorem notorium, divinitus inspiratum, virum nequam fratem Monregalem de Albanio, dudum iniquum compagniæ capitaneum et nefarium conductorem, homicidiorum, robariorum, incendiorum ac maiorum omnium nefarium patratorem, die sabati præteriti proxime, in urbe, quæ omnibus comunis est patria, fecisse ultimo puniri supplicio; primo, sicut juris ordo expostulat, vista, lecta, ac promulgata solemniter sententia in Campitolio contra eum_. Archivio storico, app. N. 24, p. 397. [386] Nel trattato, riferito dal Dumont, sono nominati più di quaranta signori ghibellini. Di questo Giovanni d’Oleggio poco dicono gli storici milanesi, ma ne discorse De Minicis ne’ _Monumenti di Fermo_, 1857. Schiericatosi, sposò una Benzoni di Crema, fu podestà e capitano in varie città e fazioni; ebbe Bologna, come dicemmo, e la cedette alla Chiesa, ricevendo in ricambio a vita la signoria di Fermo, dove morì nel 1366. Sua moglie gli alzò colà un monumento, scolpito da Tura di Imola, artista che non si conosce per altra opera. [387] Sono le ragioni lungamente esposte da Matteo Villani, lib. IV. c. 77. [388] _Epistolæ famil._, IX. 1. X. 1. [389] Anche il Boccaccio nella V _Egloga_: _I, decus Arctoum, Teutonos lude bilingues:_ _Nos titulos vacuos, et lentos novimus arcus._ [390] Così scriveva Dondacio Malvicini da Ferrara alla Signoria fiorentina il 27 giugno 1355. Vedi _Arch. storico_, app. Nº 24, p. 408. [391] Tale carica ebbe origine in Italia, dove gl’imperatori nominarono conti del palazzo Laterano: uffiziali però che non aveano l’esercizio d’alcuna prerogativa imperiale, come ebbero in appresso i conti palatini in Germania. È vero che Castruccio ottenne di nobilitare e legittimare spurj, crear notaj, ecc.: ma queste prerogative gli furono accordate da Lodovico il Bavaro col diploma dell’11 novembre 1327, che lo costituì duca di Lucca; quello del 14 marzo successivo, che gli conferì la delegazione di conte lateranese, parla unicamente delle funzioni che, in tal qualità, dovrà sostenere all’incoronazione dell’imperatore. Questo è l’unico esempio di tali diritti conferiti ad alcuno, salvo che fosse a titolo di conte del palazzo. I primi conti del palazzo imperiale furono nominati da Carlo IV, il quale conferì dignità siffatta a Bartolo di Sassoferrato, e a Giovanni Amadio di Padova d’esercitare tutte le funzioni della giurisdizione volontaria, accordare la cittadinanza romana e la nobiltà, crear dottori, e delegare altrui parte di questi diritti. I conti palatini nominati da Carlo IV erano italiani, e sembra la loro delegazione non si estendesse se non sull’Italia. Così fu della prima comitativa lateranese conferita a un tedesco, cioè a Gaspare Schlick cancelliere dell’imperatore Sigismondo, che l’ottenne nel 1433; e alcuni mesi dipoi ai fratelli di Schlick e loro discendenti. Pare che Federico III pel primo trasferisse in Germania la dignità di conte di palazzo. Ve n’ebbe di grandi e di piccoli, secondo l’importanza dei diritti che l’imperatore vi attribuiva: il diritto di nobilitare apparteneva ai grandi. Quando la dignità piccola accordava di nominare dottori, era ordinariamente limitata a un numero d’individui: in tal modo il celebre Reuclino potè creare dieci dottori durante la sua vita. La dignità di conte di palazzo durò sino al termine dell’impero germanico; alcuni di questi conti gli sopravvissero. SCHOELL. [392] «_Scioccamente_ avea dimenticato di chiedere alcuna sicurezza o vantaggio», dice il Muratori, che in generale è avverso a cotesti capipopolo, tanto più se frati. [393] MATTEO VILLANI, VII. 69; il quale conchiude: — Io penso, che se questo fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non l’avrebbero lasciata senza onore di chiara fama, tra l’altre che raccontano degne di singolar lode per la loro costanza». [394] _Vita b. Petri Tommasii_. Fu poi patriarca di Costantinopoli. Vedasi SEPULVEDA, _Hist. de bello administrato in Italia a cardinali Egidio Albornotio_. [395] FILIPPO VILLANI, cap. 81. — Gio. Cavalcanti, l. IV. c. 1, dice che Guido Torello «fece fare un ponte a pezzi con tanta arte, che l’un pezzo con l’altro s’annestava». [396] Le repubbliche teneano boschi apposta, donde trarre i legni per le aste. Tali erano _li Cavrei_ in val Brembana sul Bergamasco, dove i faggi e frassini metteano rami diritti, che tagliati e rimondati metteansi in vendita. I Veneziani ne cavavano da Montona nel Triestino, e sempre era preferito il frassino. I ferri migliori da innastarvi venivano da Valenza di Spagna. A Brescia un maestro Serafino, al principio del Cinquecento, fece una spada tanto vantata, che un principe gliela pagò cinquecento ducati: altre fabbriche n’aveano il Bergamasco, Serravalle e Cividal di Belluno: Modena e Treviso preparavano i tamburi. G. MATTEO CICOGNA, _Trattato militare_, 1567; CIBRARIO, _Studj storici_. [397] _Arch. storico_, XV. p. 41. [398] CORIO al 1367. [399] Una lancia costava da tredici a sedici fiorini il mese, cioè circa lire centottanta, che oggi varrebbero il quadruplo: e appartenevano al cavaliere l’armi e i cavalli. Quattro per lancia era obbligato darne il magnifico cavaliere messer Colluccio de Grisis di Calabria, che il 6 di novembre 1475 fu condotto da Violanta di Francia duchessa di Savoja per un anno co’ patti seguenti: — In primamente che lo dito mesiro lo caualero se conduca cun armati vintezinque, videlicet lanze XXV a quattro cauali per lanza, infra le quali sia un homo d’arme armato imbardato cum la testera de azelle in ordine, a uso talliano, cum uno sachomano et uno ragazzo, el quale sachomano auerà la balestra, en utrio (_inoltre_) la zellata e lo corseto cum la lanza o sia pertesana, o un altro sachomano appresso a lo caualo cum la lanza in mane. Item per ogni lanza et homo d’arme cum quatro cauali in modo sopradicto li sia dato per suo soldo e pacto fl. XX de Savoja per zarcheduna lancia e per zascheduno mese, pagando lo suo soldo da tre mesi in tre mesi sanza alcuna difficultà. Item la ferma sua se intende de un anno del dì conducto, comenzando lo termine facta la mostra». Fu ancora pattuito che avesse la paga di trenta lancie, e non fosse tenuto che alla mostra di venticinque, e quelle cinque la signora gliele donava per la sua persona ed il suo piattello; egli promise di stare e andare dove piacerà a madama, in Italia e fuori, e offendere e difendere come gli sarà comandato. Pigliando uomo di Stato e caporale di guerra, lo lascerebbe a disposizione dell’_excelsa madama_, e così pure ville e castella. _Conto d’Alessandro Richardon tesoriere generale_, fol. 383, ap. CIBRARIO. Nel 1386, allorchè i Padovani osteggiavano i Veronesi, così erano composti gli eserciti, secondo il Gataro. Quel di Padova era in otto schiere: 1ª Giovanni Acuto con cinquecento cavalli e seicento arcieri tutti inglesi; 2ª Giovanni degli Ubaldini con mille cavalli; 3ª Giovanni da Pietramala con mille cavalli; 4ª Ugolotto Biancardo con ottocento cavalli; 5ª Francesco Novello con millecinquecento cavalli; 6ª Broglia e Brandolino con cinquecento cavalli; 7ª Biordo e Balestrazzo con seicento cavalli; 8ª Filippo da Pisa con mille cavalli. Questa era alla guardia delle bandiere, e con essa erano anche i consiglieri del campo. Da ultimo venivano mille fanti provvigionati, spartiti in due bande, sotto il Cermisone da Parma. L’esercito di Verona era distinto in dodici schiere: 1ª Giovanni Ordelaffi, capitano del campo, con mille cavalli; 2ª Ostasio da Polenta con millecinquecento; 3ª Ugolino Del Verme con cinquecento cavalli; 4ª il vecchio Benetto da Marcesana con ottocento; 5ª il conte di Erre con ottocento; 6ª Martino da Besuzuolo con quattrocento; 7ª Francesco da Sassuolo con ottocento; 8ª Marcardo dalla Rôcca con quattrocento; 9ª Francesco Visconti con trecento; 10ª Taddeo Del Verme con seicento; 11ª Giovanni Del Garzo e Ludovico Cantello con cinquecento; 12ª Raimondo Resta e Frignano da Sesso con milleottocento. Venivano di poi mille fanti palvesati, divisi in due schiere, e milleseicento arcieri e balestrieri tra forestieri e del paese. Marciava alla coda un grosso di popolo sotto il pennone della Scala, fin in sedicimila persone. Terminato lo scompartimento e fatte le schiere, tutti i condottieri si raccolsero presso il capitano del campo, che gli esortò a combattere virilmente, e a non dar quartiere. Dal Sanuto (Vita del Foscari, _Rer. It. Script._, XXII) abbiamo il nome de’ condottieri e il numero de’ lor soldati nella guerra de’ Veneziani e Fiorentini contro Milano il 1426. Il Carmagnola ducentrenta lancie; Gian Francesco Gonzaga quattrocento; Pietro Gian Paolo cennovantasei; il marchese Taddeo cento; Ruffino da Mantova ottantotto; Falza e Antonello sessantatre; Rinieri da Perugia sessanta; Lodovico de’ Micalotti settanta; Battista Bevilacqua cinquanta; altrettante messer Marino, Blanchin da Feltro, Buoso da Urbino; quaranta Scariotto da Faenza; trenta Lombardo da Pietramala; dieci Jacopo da Venezia; otto Cristoforo da Fuogo, oltre centredici lancie libere. Altri capi stavano nelle guarnigioni: Bernardo Morosini con sessanta lancie; Jacopo da Castello con ventisei; Antonello di Roberto con cinquanta; Testa da Moja con venti, Jacopo da Firminato con tredici; Giovanni Sanguinazzo con sessantatre; Antonio degli Ordelaffi con dieci; Bolachino da Cologna con quarantatrè; il conte d’Ulenda con quarantacinque; Luigi Del Verme con ducensessanta; Orsino degli Orsini con cenventi; Pietro Pelacane con cento; Giovanni da Pomaro con trentotto. Arroge le compagnie di fanteria. Ciascuno avea patti diversi colla repubblica, e diversi gradi d’obbedienza e disciplina. [400] Nell’Archivio delle Riformagioni di Firenze (filza 23. c. 65) è sotto il 1326, 11 febbrajo, questa provvigione, pubblicata dal Gaye, ii. 8: _Item possint dicti domini priores artium, et vexillifer justitie, una cum dicto officio duodecim bonorum virorum, eisque liceat nominare, eligere et deputare unum vel duos magistros in offitiales et pro offitialibus ad fatiendum et fieri fatiendum pro ipso Comuni_ pilas seu palloctas ferreas et cannones de metallo pro ipsis cannonibus et palloctis, _habendis et operandis per ipsos magistros et offitiales et alias personas in defensione Comunis Flor. et castrorum et terrarum, quæ pro ipso Comuni tenentur, et in damnum et prejuditium inimicorum pro illo tempore et termino, et cum illis offitio et salario, eisdem per Comune Flor. et ipsius Comunis pecunia per camerarium camere dicti Comunis solvendo illis temporibus et terminis, et cum ea immunitate et eo modo et forma, et cum illis pactis et conditionibus, quibus ipsis prioribus e vexillifero et dicto offitio _XII_ bonorum virorum placuerit_. Ne’ libri pubblici di Lucca è notato al 1382, 23 agosto: _Cum per commissarios Lucani Comunis ordinatum fuerit quod pro munitione et tuitione civitatis Lucanæ fierent quatuor bombardæ grossæ, et sic per Johannem Zappetta de Gallicano jam duo fabricataæ sint, et in civitate Lucana ductæ, et denariis egeat præfatus Johannes pro fabricatione et constructione reliquarum_ etc. Il 27 ottobre 1470 Paolo Nicolini domandava di poter fare a Petrajo un edifizio a acqua per trapanare le spingarde. _Mem. Lucchesi_, II. 221. [401] _Est bombarda instrumentum ferreum cum tromba anteriore lata, in qua lapis rotundus, ad formam trumbæ, habens cannonem a parte posteriori secum conjungentem, longum bis tanto quanto trumba, sed exiliorem, in quo imponitur pulvis niger artificialis cum salnitrio et sulphure et ex carbonibus salicis per foramen cannonis prædictis versus bucam etc._ De bellicis machinis, mss. — Moschetto diceasi nel medio evo un projettile che si lanciava con una balista più forte. V. DUCANGE. Giovan Villani, lib. x, c. 21, dice che in una battaglia data dal fratello del re Roberto «molti furono fediti e morti di moschetti di balestri di Genovesi». E nelle _Storie pistoiesi_ al 1326: «M. Simone fu fedito d’una moschetta al ginocchio». [402] Al 1441 nel castello di Nizza marittima v’avea venticinque palle di pietra da centrentasei libbre. [403] _Rer. It. Script._, XXIII. 794. [404] All’assedio di Zara, nel 1346, lanciaronsi pietre da libbre tremila (metriche 1431): a quello di Cipro nel 1373, che costò alla repubblica più di tre milioni di ducati (15 milioni di nostre lire) i Genovesi ebbero un trabocco che lanciava da dodici a diciotto cantari, da libbre cencinquanta (metriche 1287). Non di rado fu usato il fuoco greco, composizione arcana; e pare che questo nome si applicasse a tutti i mezzi d’incendiare. Il Valturio chiama fuoco greco una composizione di carbon di salice, nitro, acquavite, solfo, pece, incenso, con filo di lana molle d’Etiopia. [405] Nel 1405 il Sanuto (_Rer. It. Script._, XXII. 817) parla di bombarde che scagliavano palle di quattrocento in cinquecento libbre; da cinquecentotrenta libbre ne cita al 1437 Neri Capponi (XVIII. 1285); d’una nel 1420 di sei cantari genovesi Giovanni Stella (XVII. 1282); nel 1453 molte di mille e milleducento libbre sono accennate in MARTÈNE, _Thes. Nov. Anecd._, 1820. I Genovesi lanciarono pietre da Pera fino a Costantinopoli. [406] Così un sacro dell’arsenal veneto aveva: Chiamata son la fiera serpentina Che ogni fortezza spiano con ruina. 1508, _Opus Thome D. Fr._; e una spingarda, _Il nome mio possente_; una colubrina, _Non mi aspettare_; un’altra,_ Non più parole_. Ad Algeri nel 1831 fu trovato un grosso cannone colla scritta: Quand’io mi nutrirò di polve e foco, Ogni terrena possa Contro ai vomiti miei cederà il loco. [407] A torto dunque si dicono adoperate la prima volta all’assedio di Wachtendonk nel 1588. L’ambasciadore veneto Andrea Gussoni scrive che «il duca Cosmo di Toscana si diletta di fuochi artifiziali, e ha modo di fare una palla di così grande artifizio, che uscita dal pezzo, si fa rompere ove l’uomo vuole, o vicino a trenta braccia d’uscita, o a mezza strada: e dove dà ed è volta, fa grandissima mortalità di gente». L’Archivio mediceo, filza 45, contiene originale questa lettera di Ferdinando re di Napoli a Lorenzo il Magnifico (ap. Gaye): «_Rex Siciliæ, magnifice vir, amice mi carissime_, «Avendo noi presentito che in lo arsenale de questa Signoria è un capomastro, nominato mastro Joanni, lo quale noviter ha trovato certa natura de navili, quali chiama _arbatrocti_, che teneno bumbarde supra quali tirano preta de CCL libbre, ne è stato piacere intendere la invenzione, ed havevamo assai de caro vederne l’effecto. Pertanto vi pregamo ne vogliate mandare lo dicto mastro Joanni quale monstrarà lo modo di taglio de dicti navilii ad questi nostri, acciò che ne possiamo o ad lui o ad li nostri far costruere uno per satisfatione dell’animo nostro, che de ciò ne farete piacere etc. etc. _Datum in civitate Calvi_, XIII _jan._ 1488. _Rex Ferdinandus._ _Joannes Pontanus._ [408] _Relazioni d’ambasciadori veneti_. Firenze, serie II, vol. II, p. 135. [409] Negli _Statuti de’ pittori fiorentini_ verso il 1400, rubrica LXXXIX, si legge: — Conciosiacosa che socto l’armadure da cavagli di cuojo o di ferro gli uomini si difendino e fidino le loro persone a vita, e di fuori della città di Firenze sieno portati, e portansi alla città di Firenze armadure di cuojo debili e vili e falsamente facte, sotto la fiducia delle quali gli uomini spesse volte perdono la persona e la vita: stabilito e ordinato è che larmadure da cavallo di cuojo si faccino e far si debbino di cojame di bue, di vaccha, di toro o di bufalo, come di consuetudine nella città di Firenze sopradetta, o non di niun altro cuojo, ovvero d’altre bestie o dalcuna altra bestia. E che niuno dipintore o alcunaltra persona dell’arte predetta, o niunaltra persona possa, ardisca o presuma tenere o far tenere nelle loro botteghe armadure da cavallo facte contro la forma predetta nella città di Firenze o fuori della città di Firenze, nè esse dipingere o far dipingere, nè facte contro la forma predetta raconciare o far aconciare, sotto la pena di lire cinque di f. p. per ogni armadura e tante volte; e l’armadura s’intenda testiera per sè, fiancali per sè, pectorali per sè. E non di meno tali armadure così contro la predetta forma facte, s’ardino e ardere si debbino. La pena dell’ardere abbia luogo nell’armadure facte contro la forma predetta, che si trovassero nelle botteghe e appresso alcuno dipintore e alcun’altra persona della detta arte». Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. In particolare il testo in greco è stato trascritto tal quale, senza alcuna correzione. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Storia degli Italiani, vol. 7 (di 15)" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.