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Title: Cronica di Matteo Villani, vol. II: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna Author: Villani, Matteo Language: Italian As this book started as an ASCII text book there are no pictures available. *** Start of this LibraryBlog Digital Book "Cronica di Matteo Villani, vol. II: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna" *** VOL. II *** CRONICA DI MATTEO VILLANI A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA COLL’AIUTO DE’ TESTI A PENNA TOMO II. FIRENZE PER IL MAGHERI 1825 LIBRO TERZO _Qui comincia il terzo libro della Cronica di Matteo Villani; e prima il Prologo._ CAPITOLO PRIMO Rendendo spesso testimonianza delle mutevoli cose del mondo ogni stato umano, non è da pensare cosa maravigliosa quella che ha fatto maravigliare ne’ nostri dì ovunque la sua fama aggiunse. E domandando la debita materia di fare cominciamento al terzo libro, possiamo con ragione dire, che la corona dell’imperiale maestà e il suo regno, alla quale dipendea la monarchia dell’universo, era Roma coll’italiana provincia, delle provincie della quale ne’ nostri tempi la città di Firenze, Perugia e Siena, seguendo alcune orme di quella, per li tempi avversi dello sviato imperio, in segno della romana libertà, avendo veduto per li tempi passati l’incostanza degl’imperadori alamanni avere in Italia generate e accresciute tirannesche suggezioni di popoli, hanno mantenuto la franchigia e la libertà discesa in loro dall’antico popolo romano: e zelanti di non sostenere quella a tirannia, molte volte per diversi e lunghi tempi apparvono contradi all’imperiale suggezione, intanto che non si poteva in questi popoli sostenere senza sospetto, senza pericolo e senza infamia il raccontamento dell’imperiale nome. E come subitamente gli animi di que’ popoli e de’ loro rettori per paura del potente tiranno arcivescovo di Milano si cambiarono, procurando l’amistà e l’avvenimento in Italia di messer Carlo re di Boemia eletto imperadore, i movimenti già narrati, e le operazioni che appresso ne seguirono, seguendo nostro trattato il dimostreremo. CAP. II. _La potenza dell’arcivescovo di Milano, e il procaccio fece a corte per la sua liberazione._ Era in questo tempo potentissimo e temuto signore messer Giovanni de’ Visconti arcivescovo di Milano, sotto la cui signoria si reggea la nobile e grande città di Milano, e l’antica e famosa città di Bologna, Cremona, Lodi, Parma, Piacenza, Brescia, Moncia, Bergamo, Como, Asti, Alessandria della paglia, Tortona, Alba, Novara, Vercelli, Bobbio, Crema, e più altre città e terre nelle montagne di verso la Magna, co’ loro contadi ville e castella; e i signori di Pavia, ch’erano que’ di Beccheria, l’ubbidivano come signore, benchè la città fosse al loro governamento. In Toscana aveva acquistato il Borgo a san Sepolcro, e il castello d’Anghiari e altre castella d’intorno. E accomandati e ubbidienti gli erano Cortona, Orvieto, Cetona, Agobbio, i Tarlati usciti d’Arezzo, gli Ubaldini, i Pazzi di Valdarno, gli Ubertini, e que’ da Faggiuola; e i conti da Montefeltro, e de’ conti Guidi dal lato ghibellino, e il conte Tano da Montecarelli, e gli altri ghibellini caporali di Toscana, e di Romagna e della Marca l’ubbidivano. E a sua lega e a compagnia avea il signore della Scala e di Mantova e di Padova: e il marchese di Ferrara in Lombardia, e il comune di Genova e quello di Pisa sotto alcuno ordinato servigio, e il capitano di Forlì, e il tiranno di Faenza, e il signore di Ravenna tenevano con lui in lega e in compagnia, come nel secondo nostro libro narrato abbiamo. E non avendo l’arcivescovo altra guerra che col comune di Firenze e di Perugia, alla cui compagnia e lega s’accostava debolmente il comune di Siena, era sì potente e di tanto aiuto e forza, che impossibile pareva a questi popoli potersi difendere senza aiuto di più potente braccio, e però aveano mandato a corte, come detto è, per inducere il papa e i cardinali contra lui, sentendo che la Chiesa per le grandi ingiurie ricevute procedeva contro a lui. Ma l’arcivescovo per riparare, sentendo che gl’impugnatori erano grandi, pensò che non era tempo da nutricare il lavorio, ma di trarlo a fine; e avvedendosi quanto l’avarizia movea le cortigiane cose, e disponeva i prelati all’olore della pecunia, e per questo le cose, aspettando maggior frutto, si sostenevano, da capo mandò più grande e più solenne ambasciata a corte di suoi confidenti, uomini sperti e di grande autorità, e mandolli forniti di più di dugentomila fiorini d’oro, con pieno mandato a operare e fare con doni e con loro industria e impromesse, senza avere riguardo alla pecunia, d’avere la riconciliazione di santa Chiesa, rimanendoli la signoria di Bologna. E oltre a ciò aoperò per forza de’ suoi doni, che messer Giovanni di Valois re di Francia mandò altri baroni suoi ambasciadori al papa e a’ cardinali a procurare la riconciliazione dell’arcivescovo; e la contessa di Torenna governatore del papa nelle sue temporali bisogne, per cui il santo padre molto si movea nelle grandi bisogne, procacciò con ismisurati doni. Nel continuo tempellamento del papa, per lo suo aiuto, e ne’ parenti del papa si provvide con larga mano. E in certi cardinali che gli si mostravano avversi per zelo dell’onore di santa Chiesa si provvide per modo, che agevole fu a conoscere che l’onore di santa Chiesa non s’apparteneva a loro. E avendo l’arcivescovo tutta compresa la corte in suo favore, seguita il modo che papa Clemente tenne con gli ambasciadori de’ comuni di Toscana, per potere fare con più sua scusa quello che prima avea deliberato di fare. CAP. III. _Come papa Clemente sesto propose tre cose a’ comuni di Toscana, perchè pigliassono l’una._ Essendo tutta la corte di Roma ripiena di doni e d’ambasciadori per i fatti dell’arcivescovo, e volendo il papa terminare la sua causa secondo la domanda de’ suoi ambasciadori, i quali nella vista proferivano di lui ogni ubbidienza di santa Chiesa, e nel segreto aveano l’ubbidienza del papa e de’ cardinali alla sua volontà, per le ragioni e cagioni già narrate; volendo il papa mostrare agli ambasciadori de’ tre comuni di Toscana singolare affezione, da capo gli ebbe in concistoro, e commendato molto i loro comuni di molte cose, e singolarmente dell’amore e della fede che portavano a santa Chiesa, e dolutosi delle loro oppressioni per le divisioni e scandali d’Italia, infine conchiudendo disse, che mettea nella loro elezione quelle tre cose ch’avea altre volte loro promesse, ch’elli eleggessono l’una senza soggiorno: o di buona pace coll’arcivescovo, o lega e compagnia colla Chiesa contro a lui, o che facesse passare in Italia l’eletto imperatore. Gli ambasciadori ristretti insieme, che conoscevano e sentivano dove la causa dell’arcivescovo era ridotta, non si vollono rimutare da quello ch’altra volta aveano detto al papa, che quello che a lui paresse il migliore erano contenti che facesse loro, mantenendo in sul fatto la piena confidenza ch’aveano a santa Chiesa e al sommo pastore. Il papa conobbe che la risposta era intera alla sua intenzione, e che poteva procedere con giusto titolo senza offendere i comuni di Toscana ne’ suoi movimenti, quanto che in fatti era il contradio, alla sentenza di riconciliare l’arcivescovo, e però fu contento, e disse loro che provvederebbe per modo, che i loro comuni avrebbono coll’arcivescovo buona pace: della quale offerta niuna speranza si prese, conoscendo manifestamente ch’al tutto s’intendeva a magnificare il tiranno, e a fare la sua volontà. CAP. IV. _Come il papa e’ cardinali annullarono i processi contro all’arcivescovo._ Poco appresso dopo la detta risposta, avendo gli ambasciadori significato a’ loro comuni quello ch’aveano dal papa, e quello che sentivano di certo de’ fatti dell’arcivescovo, il papa convocò i cardinali a concistoro, i quali tutti, niuno discordante, erano d’accordo con gli ambasciadori dell’arcivescovo, e però non essendo tra loro quistione, domenica mattina a dì 5 di Maggio, gli anni Domini 1352, fu per la santa ubbidienza dell’arcivescovo sopraddetto annullato il processo fatto contro a lui, e riconciliato a santa Chiesa, e tratto d’ogni scomunicazione e d’ogni interdetto. E in quello concistoro piuvico, avendo per li suoi ambasciadori rendute le chiavi al papa in segno della restituzione di Bologna, il papa colla volontà de’ suoi cardinali ne rinvestì gli ambasciadori, riceventi per lo detto arcivescovo e de’ suoi successori, nella signoria di Milano e di Bologna, per tempo e termine di dodici anni prossimi a venire, con promessione che ogni anno ne darebbe di censo fiorini dodicimila alla camera del papa, e compiuto il detto termine la renderebbe libera a santa Chiesa, e allora restituiranno contanti, per nome del detto arcivescovo, fiorini centomila alla camera del papa, per la restituzione delle spese che la Chiesa vi fece quando vi tenne l’oste il conte di Romagna. E così per pietà e per danari ogni gran cosa si fornisce a’ nostri tempi co’ pastori di santa Chiesa. CAP. V. _Come gli ambasciadori de’ Toscani si partirono di corte mal contenti._ Il papa avendo grande appetito di servire tosto all’arcivescovo, vedendo che ’l trattare della pace promessa a’ comuni di Toscana avea a sostenere la causa del tiranno, si fece promettere triegua per un anno, in quanto il comune di Firenze e gli altri comuni la volessono, acciocchè infra il termine più ordinatamente si trattasse della pace. Gli ambasciadori ch’aveano assai dinanzi avvisati i loro comuni come la cosa procedeva acciocchè provvedessono al loro stato, frustrati della loro intenzione, si partirono mal contenti di corte, e tornaronsi in Toscana. E innanzi la loro tornata, in Firenze si piuvicò il trattato e la concordia presa col vececancelliere dell’eletto imperadore, come appresso diviseremo. Avvenne poco appresso che il vicario dell’arcivescovo in Bologna mandò a Firenze un messo con ulivo in mano e con sue lettere, significando la tregua fatta e bandita nelle terre dell’arcivescovo suo signore; e in quello dì fece muovere sua gente a cavallo e a piè da Montecarelli, e cavalcare nel Mugello predando, e uccidendo e ardendo come gravi nimici del comune, e ritrassonsi a salvamento; e ivi dopo pochi dì ritornarono, e misono loro aguati, e furono scoperti, e rotti, e morti e presi gran parte di loro, sicchè più non s’attentarono di venire in Mugello. Per questi segni si scoperse, che il trattato del papa con le tregue, colla fè corrotta del tiranno, non ebbe principio di buona intenzione. CAP. VI. _Come i tre comuni di Toscana s’accordarono a far passare l’imperadore._ I rettori de’ tre comuni di Toscana, per l’informazione ch’aveano avuta da corte da’ loro ambasciadori, sentivano a certo che la Chiesa gli abbandonava, ed era per magnificare il loro avversario: e bene che sentissono le promesse del papa, non vedeano da potersene confidare, e però tempellavano negli animi tra il sospetto e la paura, aggiugnendo temenza di cittadinesche discordie nel soprastare: e bene che ancora non avessono avuta certezza del fatto da’ loro ambasciadori, senza rendere al santo padre il debito onore, quasi palpando, per lo trattato tenuto col vececancelliere dell’imperadore, mostrando di prendere confidanza nella fama delle virtù e senno e larghe profferte del detto eletto imperadore, per aiutarsi dal potente tiranno nimico, valicando egli in Italia a istanza de’ detti tre comuni, come il suo cancelliere promettea, e per questa cagione, d’uno animo e d’uno volere tutto il reggimento di questi tre comuni, Firenze, Perugia, e Siena, con pubblico consentimento de’ loro popoli si deliberarono d’essere all’ubbidienza del detto eletto imperadore con certi patti e convenzioni, i quali erano assai strani alla libertà del sommo imperio. Ma perchè le cose disviate con alcuno mezzo più tosto si congiungono a unità e a concordia, non fu a quel tempo tenuta sconvenevole la domanda, nè ingiusto l’assentimento del signore; e però all’uscita del mese d’aprile del detto anno, nella città di Firenze in pubblico parlamento si fermò il trattato ordinato per lo vececancelliere dell’eletto imperadore, con gli ambasciadori e sindachi de’ detti tre comuni, e piuvicossi i patti e le convenzioni, e fattone solenni stipulazioni e carte, grande ammirazione ne fu per tutta Italia. I patti in sostanza racconteremo qui appresso nel seguente capitolo. CAP. VII. _Quali furono i patti dall’imperadore a’ tre comuni._ Promise il detto vececancelliere, che per tutto il prossimo mese di luglio l’eletto re de’ Romani imperadore sarebbe in Lombardia sopra le terre dell’arcivescovo di Milano per guerreggiare e abbattere la sua signoria con seimila cavalieri: de’ quali duemila ne dovea avere al suo proprio soldo, ovvero servigio, e mille che promessi gli avea la Chiesa di Roma quando passasse, i quali se dalla Chiesa non avesse, promettea fornirli da se, e gli altri tremila cavalieri, i quali dovea soldare a sua eletta. Questi tre comuni gli doveano dare per un anno dugento migliaia di fiorini d’oro, e oltre a ciò gli doveano donare come e’ fosse in Aquilea fiorini diecimila d’oro. La taglia era al comune di Firenze per millecinquecentocinquanta cavalieri, Perugia ottocentocinquanta, e Siena seicento. E se in uno anno la guerra non fosse terminata, si dovea provvedere del nuovo sussidio innanzi al tempo, confidandosi catuna parte d’averne concordia. E i detti tre comuni deono tenere il detto messer Carlo vero re de’ Romani, e futuro diritto imperadore, ed egli dee promettere di mantenere i detti tre comuni nella loro libertà e ne’ loro statuti; e come avesse la corona, avendo sottomesso il tiranno, i priori di Firenze e’ nove di Siena si doveano dinominare vicari dell’imperadore mentre che fossono all’uficio (i Perugini non s’obbligarono a questo, facendosi uomini di santa Chiesa) e il comune di Firenze promise in detto caso pagare ogni anno per nome di censo danari ventisei per focolare: gli altri comuni s’obbligarono senza distinzione di pagare ogni anno quello ch’era consueto all’imperadore per antico. E fu in patto che l’imperadore venuto alla corona dovesse privilegiare a’ detti comuni tutte le terre, ville e castella ch’al presente possedeano, e che avessono posseduto sei anni addietro, quanto che ora non le possedessono, e che dalla condannagione fatta per l’imperadore Arrigo suo avolo, promise liberare e assolvere i detti comuni. E ’l detto vececancelliere per nome del detto eletto imperadore promise, che le dette convenenze e patti il detto eletto confermerebbe infra mezzo il prossimo futuro mese di giugno del detto anno. Altre singulari cose vi si promisono, che non sono di necessità a raccontare. CAP. VIII. _Come il re Luigi e la reina Giovanna furono coronati per la Chiesa._ Avendo papa Clemente sesto e’ suoi cardinali mandati legati nel Regno, a dì 27 di maggio del detto anno, il dì della santa Pentecoste, nella città di Napoli, celebrata la solenne messa, con la consueta solennità consacrarono e coronarono in nome di santa Chiesa in prima il re Luigi, e dappresso la reina Giovanna, del reame di Gerusalemme e di Cicilia. E questo fu fatto con molta festa di baroni e di cavalieri del regno, e de’ Napoletani e de’ forestieri, i quali tutti si sforzarono di onorare il re e la reina in quella festa; e fecesi alle case del prenze di Taranto sopra le Coreggie, con molte giostre e con grande armeggiare: e vestiti e adorni il re e la reina in abito di reale maestà, ricevettono l’omaggio da tutti i baroni che non erano stati contrari nella guerra, e da assai di quelli ch’aveano tenuto contro a lui per lo re d’Ungheria, a’ quali tutti perdonò, mostrando loro buono animo e buono volere. E a coloro che alla sua coronazione non erano venuti a fare l’omaggio, assegnò termine giusto a potere venire con pace e con amore alla sua ubbidienza; e quale dal termine innanzi non fosse venuto, per decreto fece che fosse rubello della corona. E dopo la coronazione cavalcò il re in abito reale per la città di Napoli, montato in su uno grande e poderoso destriere, addestrato al freno e alla sella da’ suoi baroni. Quando fu valicato porta Petrucci nella via di Porto, certe donne per fargli onore e festa gittarono sopra lui dalle finestre rose e fiori di grande odore: il destriere aombrò, ed erse; i baroni ch’erano al freno si sforzarono d’abbassare il cavallo: il destriere ch’era poderoso ruppe le redine. Il re Luigi vedendosi sopra il destriere spaventato senza redine, di subito destramente se ne gittò a terra, e caddegli la corona di capo, e ruppesi in tre pezzi, cadendone tre merli; alla persona non si fece male: rilegata la corona, di presente, ridendo, montò a cavallo, cavalcando per la terra con gran festa e onore. In questo medesimo dì morì una sua fanciulla, che altro figliuolo non aveva della reina. Molti per questi casi pronosticarono non prospere cose alla maestà reale. CAP. IX. _Commendazione in laude di messer Niccola Acciaiuoli._ Degna cosa ne pare, e debito del nostro trattato, appresso la coronazione del re Luigi, rendere beneficio di memoria per chiara fama di messer Niccola Acciaiuoli cittadino popolare di Firenze, balio e governatore dell’infanzia del detto re; il quale essendo prima compagno della compagnia degli Acciaiuoli, con animo più cavalleresco che mercantile si mise al servigio dell’imperatrice moglie che fu del Prenze di Taranto, e quello esercitò realmente e personalmente con tanta virtù e con tanto piacere della donna, che ella avendo tre suoi figliuoli di piccola età, Ruberto primogenito, e messer Luigi secondo, e Filippo il terzo, tutti gli mise nel governamento di Niccola Acciaiuoli, che allora non era cavaliere, e tutto il suo consiglio l’imperatrice ristrinse in lui, e con lei se ne passò in Romania, e ordinati i fatti delle terre e baronie di là, con lei se ne tornò a Napoli. Ed essendo cresciuto di età di anni quindici messer Luigi, volendo il re Ruberto mandare gente d’arme in Calavra, e dilettandosi dell’industria del giovane barone, fatta eletta di cinquecento cavalieri d’arme, e datili all’ubbidienza di messer Luigi, lui accomandò a messer Niccola Acciaiuoli, comandandogli in tutto che ubbidisse al suo maestro. E questo fece il re di volontà dell’imperatrice sua madre; avendo poco innanzi fatto cavaliere il detto messer Niccola; e da quell’ora appresso il detto messer Luigi si resse in tutto e governò per le mani di messer Niccola. E sopravvenuta la morte del duca Andreasso, per operazione dell’imperatrice e di messer Niccola Acciaiuoli fu data la reina Giovanna per moglie a messer Luigi: e ne’ primi cominciamenti con assai prospera fortuna accrescea il suo signore. E cambiandosi le cose per l’avvenimento del re d’Ungheria alla vendetta del fratello, essendo tutti gli altri reali all’ubbidienza del potente re, costui solo, coll’aiuto d’alquanti che ubbidivano alla reina, per lo consiglio e conforto di messer Niccola, sostenne contro alla gente del re d’Ungheria lungamente, e tentò di resistere alla persona del loro re, e non si partì dalla frontiera di Capova, infino che abbandonato dagli avari regnicoli, e già soppreso dall’avvenimento del re e del suo esercito, fu costretto di partirsi da Capova, e appresso da Napoli, sprovveduto, di notte, ricogliendosi per necessità in su una vecchia e male armata galea; e in quella raccolto, con poco arnese e con lieve compagnia valicò in Toscana in povero stato. E per lo detto messer Niccola, e co’ suoi danari e di suoi amici fu atato e rifornito e confortato nella grave tempesta della fortuna. Presi tutti i reali, e morto il duca di Durazzo, e il Regno venuto nelle mani del suo persecutore, e non volendolo i Fiorentini ricevere nella loro città, nè sovvenire d’alcuna cosa per tema del re d’Ungheria, ridottosi parecchi dì alla possessione del detto messer Niccola in Valdipesa, di là si partì, e andò in Proenza ove la reina era rifuggita. E tornato il re d’Ungheria, per tema della generale mortalità, in suo paese; per sollecitudine e trattato di messer Niccola, prima tornato nel regno, e sommossi de’ baroni e de’ cavalieri, e confortati i Napoletani, e accolta gente d’arme in favore del suo signore, in breve tempo ordinò la sua tornata e della reina nel Regno, nel quale assai battaglie e vari e diversi assalti di guerra sostenne; e per avversa fortuna rotte le sue forze in battaglia per più riprese, tradito dagli amici, perseguitato da’ nemici, condotto all’inopia, sentina della fortuna, l’animo del valente cavaliere fu di tanta potenza e di tanta virtù, che con pari animo sostenne il giovane barone suo signore in speranza certa della sua esaltazione, sempre aiutandolo e sostenendolo con sua industria e suo procaccio, e con fortezza e con pazienza fece comportare l’asprezza della turbata fortuna. Onde avvenne, che quella potendosi maravigliare della costanza dell’uomo, subitamente e improvviso mutò la turbata faccia in chiara, e l’asprezza in dolcezza e in mansuetudine: e colui che avea ributtato per cotante tempeste e vari pericoli, oltre all’opinione degli uomini, con felici e prospere successioni condusse alla reale corona, e alla libera signoria di tutto il corrotto e sviato regno in brevissimo tempo. E per lo nobile consiglio e avvedimento di messer Niccola Acciaiuoli, i reali lasciati di prigione e tornati nel Regno, ove per tutti si stimava che il Prenze di Taranto maggiore fratello del re, per sdegno e per forte inzigamento contro al re movesse scandolo nel reame, con mansuetudine e con caritatevole animo il fece al re ricevere in compagno del regno; e fattogli prendere titolo dell’imperiato costantinopolitano, e aggiunto largamente alla sua baronia, conobbe e manifestò a tutti, che il padre loro messer Niccola, appresso la grazia di Dio, era cagione del ricoveramento del regno, e dello stato e onore. Perchè dunque dovevamo tacere? innanzi vogliamo essere da’ denti degl’invidiosi cittadini morso, che la provata verità per li suoi effetti, e per la fine de’ suoi felici avvenimenti, avessimo lasciata sotto scurità d’ignorante oblivione. CAP. X. _Come fu cacciato messer Iacopo Cavalieri di Montepulciano._ In questo anno del mese d’aprile, sabato santo, avendo messer Iacopo de’ Cavalieri di Montepulciano trattato, coll’aiuto della gente dell’arcivescovo ch’era in Toscana, di farsi signore della terra di Montepulciano, e a ciò consentivano una parte de’ terrazzani di suo seguito, messer Niccola suo consorto sentì questo trattato, e fecelo sentire a’ governatori del popolo; e in questo dì, levata la terra a romore, cacciarono messer Iacopo di Montepulciano, e venti altri terrazzani suoi seguaci, uomini nominati di stato intra il popolo; e col consiglio di messer Niccola de’ Cavalieri riformarono la terra di loro reggimenti, e ischiusonne gli amici e’ seguaci di messer Iacopo; il quale si ridusse a Siena, e là ordinò grande novità, e scandalo e suggezione di quella terra, come innanzi a’ suoi tempi si potrà trovare. CAP. XI. _Come si die’ il guasto a Bibbiena, e sconfitti i Tarlati da’ Fiorentini._ Del mese di maggio del detto anno, ricordandosi i Fiorentini dell’ingiuria ricevuta da’ Tarlati, Pazzi e Ubertini per la ribellione ch’aveano fatta al comune al tempo della guerra dell’arcivescovo di Milano, quando ruppono la pace e cavalcarono sopra il contado e distretto di Firenze, accolsono seicento cavalieri di loro masnade e gran popolo, e andarsene alla Cornia, e poi alla Penna, e a Gaenna, e ad altre terre e ville che si tenevano pe’ Pazzi e Ubertini e Tarlati, e a tutte diedono il guasto; e poi se n’andarono a Bibbiena, ov’era messer Piero Sacconi, e a Soci, e ivi dimorarono più dì, ardendo e guastando d’intorno: quelli da Bibbiena francamente si difesono dal guasto le vigne d’intorno presso alla terra. Messer Piero avea in Bibbiena milledugento buoni fanti e pochi cavalieri, con li quali si fece un grosso badalucco presso alla terra. Poi la mattina vegnente, a dì 10 di giugno, l’oste si mosse per andare a Montecchio. Messer Piero, antico e buono guerriere, sapendo l’andata de’ Fiorentini, si pensò di fare loro danno, e la mattina per tempo con settanta cavalieri e con mille buoni fanti in persona occupò un colle sopra l’Arno in sul passo, e mise aguati per danneggiare la gente de’ Fiorentini. Avvenne che, mossa l’oste dall’altra parte dell’Arno, vidono preso il colle dalla gente di messer Piero; allora cominciarono a fare valicare della gente dell’oste certi masnadieri, sì perchè tenessono a badalucco i nemici e per trarli abbasso, e a poco a poco li ringrossavano d’aiuto, ma non senza loro grande pericolo, a’ quali in sul maggiore bisogno soccorsono parecchi conestabili a cavallo co’ loro cavalieri. Ed essendo atticciata la battaglia, e stando i nemici attenti a quella sperandone avere vittoria, altri cavalieri e masnadieri de’ Fiorentini presono, scostandosi dall’oste, un’altra via, che i nemici non s’accorsono, e valicarono l’Arno, e sopravvennono alla gente riposta di messer Piero dall’altra parte del colle, i quali ruppono di presente, e montarono al poggio, e improvviso furono sopra la gente grossa di messer Piero, che stava attenta a vedere e ad aiutare quelli del badalucco, e con grandi grida correndo col vantaggio del terreno loro addosso, li ruppono e sbarattarono. Messer Piero per bontà del buono cavallo dov’era montato con pochi compagni, non potendo ritornare in Bibbiena, fuggendo ricoverò in Montecchio. Della sua gente furono in sul campo più di cento morti, e dugento presi, e molti fediti. I prigioni tornando l’oste li condussono a Firenze legati a una fune, e poco appresso furono lasciati; e l’oste tornò vittoriosa, avendo preso alcuna vendetta degl’ingrati traditori. CAP. XII. _Come si rubellò a’ Fiorentini Coriglia e Sorana._ In questo anno sentendo messer Francesco Castracani che i Fiorentini erano inbrigati par la gente che l’arcivescovo teneva a guerreggiare in Toscana, essendo forte in Lunigiana e in Garfagnana, a petizione de’ Pisani fece furare a’ Fiorentini la rocca di Coriglia, la quale appresso rendè a’ Pisani, a cui stanza l’avea furata, e’ Pisani la presono, rompendo la pace a’ Fiorentini; ch’espresso era nella pace rinnovata per lo duca d’Atene in nome del comune di Firenze, che in niun modo di quella terra si dovessono travagliare. E appresso i detti Pisani feciono con sagacità di grande tradimento torre a’ Fiorentini, contro a’ patti della pace, la terra di Sorana, e rendutala da capo, la ritolsono per indiretto, e poi in palese la difesono, non curando i patti della pace. I Fiorentini per queste due terre non si mossono, benchè grave li fosse l’oltraggio de’ Pisani. Messer Francesco avendo avuto trecento cavalieri dall’arcivescovo di Milano, montato in grande orgoglio, e confortato da’ Pisani, si pose ad assedio a Barga, ch’era de’ Fiorentini, e avendo grande popolo la strinse intorno con più bastie, sperandolasi avere per assedio. Lasceremo ora quest’assedio per raccontare altre maggiori cose innanzi che Barga fosse liberata. CAP. XIII. _Come i tre comuni di Toscana mandarono ambasciadori in Boemia a far muovere l’imperadore._ Avendo i tre comuni di Toscana presa e pubblicata la concordia col vececancelliere dell’eletto imperadore, volendo mettere ad esecuzione quello che per loro era stato promesso, catuno elesse de’ maggiori cittadini confidenti al reggimento di quelli per suoi ambasciatori, e mandaronli all’eletto imperadore a Boemia nella Magna per farlo muovere, e per fargli il pagamento ordinato, e per essere al suo consiglio per i tre comuni, nella promessa impresa passando egli in Italia. Gli ambasciadori del nostro comune di Firenze furono cinque: messer Tommaso Corsini dottore di legge, messer Pino de’ Rossi, messer Gherardo de’ Buondelmonti cavaliere, Filippo di Cione Magalotti, e Uguccione di Ricciardo de’ Ricci, a’ quali fu data grande e piena legazione, e dato loro un popolare sindaco per lo comune, a potere obbligare il comune, secondo le cose promesse al vececancelliere, come paresse a’ detti ambasciadori, se altro bisognasse di fare. Costoro tutti vestiti di fine panno scarlatto e d’altro fine mellato, catuno con otto scudieri il meno vestiti d’assisa, a dì 17 di maggio, il dì dell’Ascensione, si partirono di Firenze. E partiti loro, molti cittadini pensando che quello ch’era ordinato dovesse venire fatto, perocchè tra gli ambasciadori erano i più reputati caporali di cittadina setta, temettono, che essendo costoro al continuo con l’imperadore, e di suo consiglio, che pericolo si commettesse contro al comune e pubblica libertà de’ cittadini, e però si mosse questione di limitare il loro tempo, e strignerli con certe leggi, e di questo fu gara e lunga tira nel nostro comune; in fine si vinse, e fecesi per riformagione di comune, che niuno cittadino di Firenze potesse stare in quel servigio appresso all’imperadore più che quattro mesi, e che alcuna grazia, uficio, o beneficio reale o personale per i detti ambasciadori o per loro successori si dovesse ricevere o impetrare, sotto gravi pene, acciocchè la speranza si troncasse a tutti della propria utilità. E incontanente elessono e insaccarono molti cittadini per succedere di quattro mesi in quattro mesi a’ detti ambasciadori in quello servigio. CAP. XIV. _Di disusati tempi stati._ Non è da lasciare in silenzio quello che del mese di giugno del detto anno avvenne, perocchè fu notabile caso di tempo con diverse considerazioni, che essendo ne’ campi seminati cresciute le biade e’ grani d’aspetto d’ubertosa ricolta vicina alla falce, in diverse contrade di Toscana, e massimamente nel contado di Firenze, vennono diluvi d’acque, i quali guastarono molto grano e biade, e feciono de’ dificii, e d’altro singolari danni a molti. E a dì 14 del detto mese cominciò un vento austro spodestato e impetuoso con tanta furiosa tempesta, che ogni cosa parea che dovesse abbattere e mettere per terra, e tutte le granora e biade che trovò mature, ove il suo impetuoso spirito potè percuotere, battè per modo, che alla terra diede nuova sementa, e nelle spighe lasciò poco altro che l’aride reste, e quelle che ancora non erano granate percosse e inaridì; facendo nelle montagne in diverse parti sformate grandini e diverse tempeste, e molte vigne guastò, e abbattè alberi molti, e di grandi dificii in diverse parti di Toscana e di Romagna; e in Firenze fece rovinare il campanile del monastero delle donne degli Scalzi, e uccise la badessa con sei monache. Nella sommità delle montagne di Pistoia levò gli uomini di su’ poggi, traboccandoli dove l’impeto gli portava. E pubblica fama fu, che quarantatrè masnadieri ch’andavano in preda trovandosi in sul giogo, senza potersi ritenere furono portati dal vento per modo, che di loro non si seppe novelle. E restato lo strabocchevole vento, ivi a pochi dì fu un caldo sformato senza aiuto d’alcuno spiramento, che il residuo de’ grani e de’ biadi in molti paesi, singolarmente nel contado di Firenze, fece ristrignere e invanire per modo, che ov’era stata speranza d’ubertosa ricolta generò sformata carestia anzi l’avvenimento dell’altra ricolta, come appresso dimostreremo. Alcuni diedono questo singulare accidente agli effetti della congiunzione, già narrata al principio del nostro primo libro, de’ tre superiori pianeti onde Saturno fu signore: perocchè gli astrolaghi tengono che l’influenza di cotale congiunzione duri per diciannove anni, e altri tengono infino in ventitrè. Arbitrò altri, che questo procedesse dall’influenza della cometa ch’apparve in quest’anno, e quella fu saturnina, sicchè catuno trasse agli effetti saturnali. Altri tennono che ciò fosse dimostramento d’assoluto giudicio divino per i disordinati peccati de’ popoli non domati da tante tribolazioni di guerre, quante dimostrate abbiamo in poco tempo dopo la miserabile mortalità. CAP. XV. _Dell’inganno ricevette il comune di Firenze del braccio di santa Reparata._ Essendo stati certi ambasciadori del comune di Firenze alla coronazione del re Luigi per lo detto comune, domandarono di grazia al re e alla reina alcuna parte del corpo della vergine santa Reparata ch’è in Teano, per onorare la sua reliquia nella nobile chiesa cattedrale della nostra città ch’è edificata a suo nome. La loro petizione dal re e dalla reina fu accettata; ma perocchè la città di Teano era del conte Francesco da Montescheggioso, figliuolo che fu del conte Novello amicissimo del nostro comune, convenne che con sua industria il braccio destro di quella santa si procacciasse d’avere per modo, che i terrazzani non se n’avvedessono, che si mostrava loro, ed era nel paese in grande devozione, e questo si mostrò di fornire con industria, e con grande sollicitudine. Gli ambasciadori credendosi avere la santa reliquia il significarono a’ priori, acciocchè all’entrata della città l’onorassono. I rettori del comune ordinata solennissima processione di tutti i prelati cherici e religiosi della città di Firenze, con grandissimo popolo d’uomini e di femmine, con molti torchi accesi comandati per l’arti e forniti per lo comune, e il vescovo di Firenze ricevuto colle sue mani il santo braccio, colla mano segnando la gente molto divota e lieta, credendosi avere quella santa reliquia, fu portata e collocata nella nostra chiesa, a dì 22 di giugno 1352. CAP. XVI. _Di quello medesimo._ Avendo narrata la fede, la reverenza e la divozione che i nostri cittadini ebbono alla santa vergine, benchè l’inganno ricevuto fosse durato in fede del detto comune quattro anni e mesi, infine si scoperse il sacrilegio e l’inganno ricevuto per la femminile astuzia della badessa del monastero di Teano, ov’era il corpo della detta santa, che vedendo che quello braccio le conveniva dare per volontà del re, e della reina e del conte, dissimulando gran pianto colle sue suore per lo partimento della reliquia, lo sostennero di assegnare alcuno dì. E in questo tempo feciono fare un simulacro di legno e di gesso, che propriamente pareva quella santa reliquia, e dando questa con grande pianto, fece credere agli ambasciadori che avesse assegnata loro la santa reliquia, e a Firenze fece onorare come santuaria quello simulacro per cotanto tempo, essendo cagione di cotanto male, non manifestando la sua falsa religione. Avvenne che il comune del mese d’ottobre 1356, volendo d’oro e d’argento e di pietre preziose fare adornare quella reliquia, i maestri la trovarono di legno e di gesso: e segatala per mezzo, furono certi che niuna reliquia v’era nascosa, e il comune fu certo del ricevuto inganno. Noi, non ostante che cinquantadue mesi fosse questo ritrovato appresso alla sopraddetta venuta, contro all’ordine del nostro annuale trattato l’abbiamo congiunto insieme, acciocchè avendo alcuno letto la venuta del santo braccio, non fosse ingannato dalla simulazione di quello, e dalla malizia della sacrilega badessa. CAP. XVII. _Come la gente del Biscione cavalcarono i Perugini._ Del mese di giugno del detto anno, accolti duemila cavalieri dell’arcivescovo di Milano alla città di Cortona e popolo assai, cavalcarono per la valle di Chio, e strinsonsi alla città di Perugia predando e ardendo il suo contado. Per la qual cavalcata così bandalzosa i cittadini presono sospetto dentro, e però non ebbono ardire di fare uscire fuori alcuna loro gente contro a’ nimici. Conducitori di questa gente erano il conte Nolfo da Urbino, il signore di Cortona, e Gisello degli Ubaldini, i quali avevano trattato con messer Crespoldo di Bettona. Questo messer Crespoldo era guelfo, ma perocch’era male trattato da’ Perugini ricevette costoro in Bettona, e cacciarono coloro che v’erano alla guardia per lo comune di Perugia. Questa terra era presso a Perugia a otto miglia e nella loro vista, e sentendo la gente che dentro v’era, e la potenza dell’arcivescovo, furono in gran tremore; e non senza cagione, che quella terra era forte, e in frontiera ad Ascesi e all’altre terre de’ Perugini, le quali non amavano troppo la loro signoria, e però cominciarono incontanente a dare il mercato a’ nimici, e molto erano di presso a fare le comandamenta del tiranno, e ciò che gli ritenne fu, ch’aspettavano quello che in questa novità facesse il comune di Firenze. Stando i Perugini in questo pericolo, incontanente il comune di Firenze li mandò confortando per loro ambasciadori, promettendo loro aiuto quanto il comune potesse fare; e seguitando col fatto, di subito vi mandarono ottocento cavalieri di buona gente, promettendo d’arrogere quanti bisognasse infino a tanto che Bettona fosse racquistata. Avvenne che come Ascesi e l’altre terre circostanti de’ Perugini intesono l’aiuto e il conforto che i Fiorentini davano al comune di Perugia, ove stavano sospesi e non rispondeano al comune di Perugia, e davano il mercato a’ nimici, di presente levarono il mercato, e acconciarsi alla difesa, e mandarono a offerirsi a’ Perugini, e cominciarono a guerreggiare quelli di Bettona. Onde convenne per necessità delle cose da vivere che la cavalleria ch’era in Bettona s’alleggiasse, e lasciaronvi a guardia della terra seicento cavalieri e più d’altrettanti masnadieri, e l’altra gente tornò a Cortona. Rimasi in Bettona i sopraddetti capitani e’ riposono l’assedio a Montecchio, e ordinaronsi per accrescere loro forza e soccorrere Bettona, se il bisogno occorresse. Lasceremo alquanto de’ fatti di Bettona per seguire dell’altre cose, ch’avvennono innanzi ch’ella si racquistasse. CAP. XVIII. _Come i Romani andarono per guastare Viterbo._ Di questo mese di giugno del detto anno, vedendo il popolo romano che il prefetto da Vico cresceva in forza e ad acquisto occupando le terre del Patrimonio, feciono in fretta Giordano del Monte degli Orsini capitano di guerra, e accolsono tutta la gente d’arme che fatta aveano col loro rettore a piè e a cavallo e accozzaronli col capitano del Patrimonio messer Niccola delle Serre cittadino d’Agobbio, e in pochi dì accolsono milledugento cavalieri e dodicimila pedoni in arme, e con gran furia se n’andarono sopra la città di Viterbo per guastarla d’intorno e porvi l’assedio, e starvi tanto che tratta l’avessono delle mani del prefetto. Avvenne in su la giunta che a messer Niccola capitano del Patrimonio cadde il suo cavallo addosso, e per la percossa e per lo disordinato caldo per spasimo morì di presente. Morto il capitano, l’oste senza fare alcuna cosa notevole, con poco onore del capitano de’ Romani, si partì da Viterbo, e catuno si tornò a casa sua. CAP. XIX. _Come il re Luigi ebbe Nocera._ In questi dì messer Currado Lupo ch’era per addietro stato vicario del re d’Ungheria nel Regno, sapendo che la pace era fatta dal re d’Ungheria a’ reali di Puglia, e che di volontà del suo signore era ch’egli rendesse le terre che tenea al re Luigi, già coronato per la Chiesa del reame, con l’astuzia tedesca pensò di trarre suo vantaggio, e accolse tutti i Tedeschi ch’erano nel Regno, e con settecento barbute fece testa a Nocera de’ Saracini, e levò un’insegna imperiale, mostrando che a stanza dell’imperadore volesse rimanere nel Regno; e per alquanti si disse che alcuni baroni del reame il favoreggiavano. Temendo il re che questi non avesse appoggio d’altro signore, o che non l’acquistasse stando, per lo meno reo prese di patteggiar con lui, e diedegli contanti trentacinque mila fiorini d’oro, e rendè Nocera e la contea di Giuglionese, e uscissi del Regno con tutta la sua gente, con patto fermato per suo saramento, che da ivi a due anni non dovesse per alcuno modo tornare nel Regno, ma valicati i due anni vi potesse tornare come barone del re per le terre della moglie, facendogli il debito saramento e omaggio. CAP. XX. _Come fu sconfitto il conte di Caserta._ Seguitando i rivolgimenti dello sviato Regno, ci occorre in questi dì come il duca d’Atene conte di Brenna, il quale altra volta per la sua incostante tirannia meritò a furore essere cacciato della signoria di Firenze, essendo tratto di Francia all’odore dello sviato Regno non con intera fede, con sue masnade di cavalieri franceschi fece in Puglia spontanea guerra contro al conte di Caserta, figliuolo che fu di messer Diego della Ratta conte camarlingo, il quale era con gente d’arme a Taranto, e con assentimento del re Luigi guerreggiava le terre del detto duca, secondo la comune voce; l’infermità del Regno non consentiva nè in guerra nè in pace cose aperte nè chiari movimenti. Il detto duca accolti de’ paesani, co’ suoi Franceschi combattè col conte e sconfisselo, facendo alla sua gente grave danno. E rifuggito il detto conte in Taranto per sua sicurtà, del detto anno, del mese di Maggio, per lo detto duca fu lungamente senza frutto assediato. CAP. XXI. _La novità in Casole di Volterra._ I figliuoli di messer Ranieri da Casole di Volterra cacciati per lungo tempo da’ loro nimici del castello, come giovani coraggiosi, accolsono segretamente masnadieri e amici, e a dì 15 luglio del detto anno entrarono nella terra di Casole, che si guardava per lo comune di Siena, e improvviso corsono a casa i loro nimici, e quanti ve ne trovarono misono al taglio delle spade, e rubarono le case loro, e appresso l’arsono, e gli altri che non furono morti cacciarono della terra, e la podestà che v’era pe’ Sanesi riguardarono: la terra tennono tanto per loro, che co’ Sanesi presono accordo di tenervi podestà dal comune di Siena; e fecionsi ribandire, e rimasono i maggiori nella terra. CAP. XXII. _Come furono decapitati degli Ardinghelli di Sangimignano._ Seguita in questi medesimi dì, come Benedetto di messer Giovanni degli Strozzi di Firenze, essendo capitano della guardia per lo nostro comune di Sangimignano, con ingiusto sospetto prese il Rosso e Primerano di messer Gualtieri degli Ardinghelli, giovani di grande aspetto e seguito, d’animo e di nazione guelfi, e tenendoli senza trovare vera cagione perchè presi gli aveva, per accidente v’occorse caso, che gittarono una lettera a’ loro amici fuori della carcere, pregandoli che li venissono ad atare liberare di prigione. Il capitano avendo questa lettera, quale che fosse la cagione, o per zelo del suo uficio, o per inzigamento de’ Sanucci loro nimici, deliberò di farli morire. Il comune di Firenze sapendo che non erano colpevoli, volea che campassono; e mandandovi in fretta ambasciadori con espresso comandamento al capitano che non gli dovesse fare morire, la fortuna impedì i messaggi per disordinata grandezza dell’Elsa, che non li lasciò passare in quella notte. Il capitano temendo non sopravvenisse il comandamento, s’affrettò di farli morire; e la vilia di san Lorenzo, a dì 9 d’agosto, con un altro terrazzano a cui aveano scritto che fosse a loro scampo, in sulla piazza li fece dicollare, onde fu riputato grande danno, e il capitano ne fu molto biasimato. Questa decollazione si tirò dietro materia di grande scandalo e rivoltura di quella terra, come al suo tempo racconteremo. CAP. XXIII. _Come gente del re di Francia fu sconfitta a Guinisi._ Essendo il re di Francia in singolare sollecitudine di racquistare la contea di Guinisi che sotto le triegue gli era stata furata, vi mandò millecinquecento cavalieri e tremila pedoni, tra i quali ebbe gran parte di masnadieri lombardi e avendovi posto l’assedio, difendendosi lungamente que’ del castello, i Franceschi vi feciono bastite intorno, per tenerlo stretto con meno gente. Il re d’Inghilterra mettea con due barche di notte gente in Calese per modo, che i Franceschi non se n’accorgevano; e avendovi per questo modo accolta quella gente che a lui parve, forniti di capitani avvisati delle bastite e della guardia de’ Franceschi, una notte chetamente uscirono di Calese, e improvviso da più parti assalirono i Franceschi, i quali impauriti del non pensato assalto intesono a fuggire e a campare, senza mettersi alla difesa; e così in poca d’ora furono rotti e sbarattati dagl’Inghilesi, e i battifolli arsi, con più vergogna che danno de’ Franceschi per la grazia della notte. E liberato il castello dall’assedio, e rifornito di nuovo, del mese di luglio del detto anno gl’Inghilesi si ritornarono nell’isola senza fare altra guerra. Poco appresso il re di Francia scoperse che certi baroni il doveano uccidere per trattato del re d’Inghilterra, per la qual cosa a certi ne fu tagliata la testa: e il re a modo di tiranno si faceva guardare a gente armata, dentro e fuori di suo ostiere reale, a cavallo e a piè, di dì e di notte nella città di Parigi, cosa strana e disusata alla maestà reale e a’ paesani. CAP. XXIV. _Come i Perugini assediarono Bettona._ Tornando alle vicine materie, avendo il comune di Perugia da’ Fiorentini ottocento cavalieri di buona gente d’arme, con loro sforzo valicarono le Giaci per porre l’assedio a Bettona, e con grande popolo l’assediarono. E volendosi partire de’ cavalieri dell’arcivescovo della terra, ovvero per andare in foraggio, otto bandiere furono sorprese dalla gente dell’oste per modo, che la maggior parte rimasono presi, e d’allora innanzi si ritennono dentro alla guardia del castello. E procacciando d’avere soccorso da’ cavalieri e dagli amici dell’arcivescovo ch’erano per lo paese di qua, e per fare migliore guardia, si misono a campo fuori della terra nella piaggia a petto al campo de’ Perugini. I Perugini aggiungevano al continovo gente d’arme nel campo per soldo e per amistà, e mandaronvi la maggior parte de’ loro cittadini, e dall’altra parte della terra formarono due battifolli, perchè nè vittuaglia nè soccorso nella terra potesse entrare. E così assediata la terra, procuravano d’afforzare e d’impedire i passi, per riparare dalla lungi al campo che nimici non potessono sopravvenire. E per questo modo durò l’assedio infino all’agosto vegnente, come appresso diviseremo, e posto vi fu del mese di giugno del detto anno. CAP. XXV. _Come fu liberato Montecchio dall’assedio per soccorrere Bettona._ Era in questo tempo stato assediato lungamente il piccolo castello di Montecchio presso a Castiglionaretino da’ Tarlati e dal signore di Cortona colla cavalleria dell’arcivescovo, e recato a partito, che i maggiori di quelli che ’l teneano erano venuti nel campo per volerlo dare. Temendo i Tarlati che avuto il castello per la vicinanza non rimanesse al signore di Cortona, per consiglio aggiunte minacce a coloro ch’erano venuti per darlo, si ritornarono dentro alla difesa. E l’oste sollecitata del soccorso dagli assediati di Bettona, se ne levarono, e accozzaronsi i cavalieri dell’arcivescovo con gli altri cavalieri loro compagni ch’erano in Agobbio e nelle circostanze, e trovaronsi millecinquecento barbute e masnadieri assai, e per fare levare i Perugini da Bettona si misono a oste alla Città di Castello. E stativi alquanti dì, feciono provvedere i passi come potessono andare a soccorrere Bettona, e trovarono che i Perugini erano alla difesa de’ passi molto bene provveduti e forniti alla guardia; tornaronsi al Borgo per accogliere maggiore gente e forza, e farlo per altra più lunga via. In questo medesimo tempo gli assediati per la speranza del soccorso presono ardire, e assalirono l’uno de’ battifolli de’ Perugini, e vinsonlo e arsonlo, e mostrarne per segni di luminaria gran festa; e con quella baldanza presa andarono ad assalire l’altro, e furono occupati per modo da’ cavalieri dell’oste che tornarono in rotta, presa parte della loro gente da cavallo e da piè; gli altri si fuggirono tutti nella terra, levandosi da campo per stare alla difesa delle mura, e da’ Perugini furono più stretti. I capitani della gente dell’arcivescovo feciono capitano generale il conte Nolfo da Urbino, e misonsi per la valle di Chiusi, e andarono a Orvieto; e tratti i cavalieri ch’aveano in quella città, si trovarono con duemila barbute; e volendo soccorrere gli assediati, trovarono in catuno passo sì provveduti i Perugini e sì forti alla difesa, che per niuno modo vidono di poterlo fornire. Ed essendo disperati dell’impresa, vollono rimettere in Orvieto i loro cavalieri che n’aveano tratti, e non furono voluti ricevere, e con gli altri insieme se ne tornarono al Borgo, e gli assediati furono fuori d’ogni speranza d’avere soccorso. CAP. XXVI. _Come i Perugini ebbono Bettona e arsonla, e disfeciono affatto._ Vedendo i caporali ch’erano rinchiusi in Bettona che a loro era mancata ogni speranza di soccorso, e che la vittuaglia era mancata, e mangiata gran parte de’ loro cavalli, vedendosi a mal partito, con industria e con danari pensarono allo scampo delle loro persone molto segretamente, perchè sapeano bene che i Perugini avrebbono maggiore gloria d’avere le loro persone che la terra di Bettona; e però strettisi insieme, e prestato la fede l’uno all’altro, il signore di Cortona, e il conte di Montefeltro, e Ghisello degli Ubaldini avendo procacciato per danari il nome di quella notte, vestiti a modo di ribaldi per mezzo il campo passarono a salvamento: onde poi fu incolpato alcuno de’ rettori di Perugia. I soldati sentendo campati i loro capitani, incontanente presono messer Crespoldo signore di Bettona, e uno de’ Baglioni di Perugia ch’aveano loro data la terra, e patteggiarono co’ Perugini di dare costoro prigioni, e rendere la terra salve le persone loro solamente, lasciando l’arme e’ cavalli, e giurando di non venire mai contro a quello comune nè a quello di Firenze, e così fu fatto; e avendo mangiati centocinquanta cavalli de’ loro per fame, s’uscirono della terra, e i Perugini la presono; e trattine tutti gli abitanti, e tutte le masserizie e ogni altra sostanza, e condotta a Perugia, arsono la terra; e dopo l’arsione abbatterono le mura dentro e di fuori, acciocchè non avesse mai più cagione di rubellarsi a’ Perugini; e a messer Crespoldo e a quello de’ Baglioni feciono tagliare le teste. E questa fu la fine dell’antica terra di Bettona, ripresa a dì 19 del mese d’agosto gli anni _Domini_ 1352, in gran vituperio de’ Visconti di Milano, e a onore del comune di Firenze, per lo cui aiuto e conforto infino alla fine i Perugini ebbono questa vittoria. CAP. XXVII. _Come la città d’Agobbio s’accordò co’ Perugini._ Giovanni di Cantuccio signore d’Agobbio, avendo veduto come le cose non succedevano prospere all’imprese fatte per lo tiranno di Milano, e che Bettona non era potuta soccorrere, ed era disfatta, diffidandosi della sua difesa se la piena gli si volgesse addosso, sapendo che i suoi cittadini non erano in fede con lui, con astuta malizia si provvide e mandò a trattare pace co’ Perugini. E fu fatto che gli usciti vi tornassono, salvo messer Iacopo Gabbrielli, e tutti avessono frutti de’ loro beni, e che due anni il detto Giovanni vi potesse eleggere podestà d’Agobbio cui e’ volesse, e valicati i due anni, la città rimanesse al comune, e i Perugini avessono la guardia della terra senza altra giurisdizione: ma poco durò l’accordo, come seguendo si potrà vedere. CAP. XXVIII. _Come ser Lallo s’accordò con il re Luigi dell’Aquila._ Avemo addietro contato come la città dell’Aquila si reggeva sotto il governamento di ser Lallo suo piccolo cittadino, il quale avea dimostrato più volte di tenerla quando per lo re d’Ungheria, e quando per lo re Luigi, come bene gli mettea; ma poichè il re Luigi fu coronato, e i Tedeschi e gli Ungheri partiti del Regno, vedendo che mantenere non la potrebbe contro alla corona, trasse suo vantaggio, e fecesi fare conte di Montorio, ed ebbe altre due castella in Abruzzi, e nell’Aquila ricevette capitano per lo re e per la reina. Nondimeno i cittadini ubbidivano più ser Lallo che il re o suo capitano, e convenne al re dissimulare la sua offesa per lo minore male. CAP. XXIX. _Come i Perugini e’ Fiorentini tornarono a guastare Cortona._ I Perugini avuta la vittoria di Bettona, colle masnade del comune di Firenze ritornarono sopra la città di Cortona essendo messer Currado Lupo uscito del Regno all’Orsaia con cinquecento barbute, il quale si stette di mezzo senza pigliare arme; e i Perugini guastarono le ville intorno a Cortona come seppono il peggio. In questi medesimi dì, all’uscita d’agosto del detto anno, de’ cavalieri dell’arcivescovo ch’erano tornati al Borgo a san Sepolcro si partirono milledugento barbute, e andarono su quello d’Arezzo, e posonsi in sulla Chiassa, e afforzarono di steccati certo poggio sopra il campo per più loro salvezza: e quivi si misono per vernare in luogo dovizioso e grasso. E per ingannare gli Aretini cominciarono a comperare e a pagare derrata per danaio, non facendo vista d’alcuna violenza. E quando si vidono forniti, cominciarono a cavalcare per lo contado, e fare preda di bestiame e d’uomini e di ciò che trovavano senza avere contasto. E questo avvenne, che alquanti cittadini, meno di sette, avendo occupato il reggimento di quella città, per tema di loro stato presono gelosia de’ Fiorentini, e innanzi soffersono il danno da’ nemici, che volessono l’aiuto dagli amici. I Fiorentini nondimeno tennoro ottocento cavalieri alle frontiere di Valdarno, e raffrenavano alquanto le loro gualdane, e salvarono il loro distretto. Gli Aretini lungamente furono tribolati da quella gente, per la singolare non debita paura di pochi loro cittadini, come detto abbiamo. CAP. XXX. _Come gli ambasciadori de’ tre comuni di Toscana tornarono dall’imperadore senza accordo._ In questi dì gli ambasciadori de’ tre comuni di Toscana ch’erano stati con l’eletto imperadore tornarono, avendo assai praticato sopra i patti e convenenze promesse per lo suo vececancelliere, non trovando con lui concordia per la brevità del termine, e per la povertà del detto eletto, tempellato dal consiglio de’ ghibellini che non si fidasse de’ guelfi; ma questa parte non ebbe in lui podere, che conoscea che la necessità lo strignea, volendo pervenire al suo onore, d’avere l’amore e la confidenza de’ guelfi d’Italia, e però non si rompeva e non riusciva a niuno effetto. In questo avvenne che ragionando con gli ambasciadori, l’uno de’ Fiorentini per corrotto parlare, tenendosi più savio che gli altri perchè avea maggiore stato in comune, riprendendo l’eletto imperadore, disse: voi filate molto sottile; l’imperadore che sapea la lingua latina conobbe l’indiscreta parola, e turbato temperò se medesimo, parendoli che l’imperiale maestà ricevesse ingiuria dall’indiscreta e vile parola; ma d’allora innanzi poco volle udire quel savio ambasciadore. E venuto il termine diputato a’ detti ambasciadori convenne che tornassono, lasciando la cosa sospesa da ogni parte. CAP. XXXI. _Come l’arcivescovo cercava pace co’ Toscani._ In questa sospensione, gli animi de’ Toscani e principalmente de’ Fiorentini si cominciarono a cambiare, veggendo ch’erano a nulla del loro proponimento; e in questo l’arcivescovo conoscendo che questi comuni di Toscana intendeano a muovere contro a lui gran cose, e veggendosi ributtato da’ Fiorentini e da’ Perugini, grave gli sarebbe a mantenere guerra in Toscana, e già sentiva che i suoi vicini Lombardi non si contentavano di vederlo troppo grande, pensò che per lui facea d’avere pace co’ Fiorentini e Toscani; e confidandosi molto in Lotto Gambacorti da Pisa che allora era amico de’ Fiorentini, fece muovere le parole e insistere in quelle. Il nostro comune conoscendo che della pace del tiranno poco si poteano confidare, nondimeno vedendo che colla Chiesa nè coll’imperadore non aveano potuto far quello che procuravano, diede a intendersi a questo trattato. E avendo l’arcivescovo a questa fine mandati suoi ambasciadori a Serezzana, il comune vi mandò prima religiosi per suoi ambasciadori, per sentire se la sposizione fosse con speranza d’alcuno frutto. E nondimeno ordinarono e mandarono gli altri ambasciadori a Trevigi, ov’era venuto il patriarca d’Aquilea fratello dell’eletto e altri ambasciadori dell’imperadore futuro per trattare le cose cominciate co’ comuni di Toscana. Lasceremo al presente l’ambasciate tanto che torni il loro frutto, e seguiteremo nell’altre cose la nostra materia. CAP. XXXII. _Come il prefetto da Vico fu fatto signore d’Orvieto._ I cittadini d’Orvieto rotti divisi e insanguinati per le cittadine discordie, e caduti nella forza de’ ghibellini, essendo naturali guelfi, voltandosi come l’infermo palpando, voltandosi ora da una parte ora dall’altra, alla fine per la sagacità del prefetto da Vico loro vicino fu fatto signore con certi patti; e messo nella città cominciò a far fare alcune paci, e rimise dentro de’ cittadini cacciati, e di fuori ritenne cui e’ volle, e la signoria reggea con poco contentamento del popolo, e patto promesso non osservava, sicchè non si vedeano alleggiati delle divisioni, nè delle nimistà cittadinesche, e vedendosi sottoposti al tiranno e signoreggiati da’ ghibellini. Ma dopo il fatto, aggiunta del vituperio è il pentersi; che la soma sotto il tirannesco giogo convenne loro portare. E questo avvenne all’uscita d’agosto del detto anno. CAP. XXXIII. _Novità state a Roma._ All’entrata del mese di settembre del detto anno, il rettore del popolo romano oltraggiato da Luca Savelli, e male ubbidito dal popolo, volle ragunare il parlamento per rinunziare la signoria. Nel popolo nacque dissensione, che chi volea che rinunziasse, e chi nò. In questa contenzione messer Rinaldo Orsini, ch’era senatore, prese l’arme, e seguitato dal popolo, cacciò di Roma Luca Savelli co’ suoi seguaci, ma poco stettono fuori, che si tornarono dentro. Il rettore volendo fortificare il popolo con ordini, acciocchè i principi non avessono soperchia audacia, fece richiedere il popolo per rioni a bocca, e appresso colla campana: e non raunandosi, prese sospetto della sua persona; e trovando in sua balia seimila fiorini d’oro, che la Chiesa avea donati al popolo per aiutare mantenere quell’uficio, e altri denari ch’egli avea accolti, si partì di Roma e andossene in Abruzzi, e comperato uno castello si stette nel paese, avendo abbandonata la snervata repubblica, meritandolo per la sua incostanza. CAP. XXXIV. _Come la gente del Biscione assediarono la Città di Castello._ All’uscita di questo mese, i cavalieri dell’arcivescovo di Milano stati ad Arezzo e consumato il loro contado se ne partirono, e andarono sopra la Città di Castello, rubando per lo paese amici e nimici. E stando ivi, per più riprese i castellani uscirono a loro per assalti e per aguati, facendo d’arme assai notevoli cose. CAP. XXXV. _Come i Fiorentini soccorsono Barga e sconfissono i Castracani._ Del mese d’ottobre del detto anno, essendo stata la terra di Barga in Garfagnana del comune di Firenze assediata quattro mesi e più da messer Francesco Castracani degl’Interminelli di Lucca coll’aiuto dell’arcivescovo di Milano, per modo che più non si potea tenere per difetto di vettuaglia, il comune di Firenze, quanto che quella terra gli fosse di grande costo e di piccola utilità, per non abbandonare gli amici ragunò a Pistoia seicento barbute e ventimila masnadieri, accomandati a messer Ramondo Lupo da Parma capitano di guerra, il quale maestrevolmente a dì 7 d’ottobre, la notte, si mosse colla gente e colla salmeria per la montagna di Pistoia, dando vista d’andarla a fornire da Sommacologna. E mandati cinquecento fanti con parte della salmeria per quella via, innanzi il dì traversò da Seravalle e misesi per la Valdinievole, e cavalcato per lo contado di Lucca, il dì di santa Reparata si trovò in Garfagnana nel piano dinanzi al Borgo a Mezzano in sul passo, dov’era messer Francesco con trecento cavalieri e con millecinquecento fanti buona gente d’arme alla guardia, il quale si mise fuori del borgo colle schiere fatte, prendendo l’avvantaggio del terreno. Il capitano de’ Fiorentini avendo confortata la sua gente di ben fare, in sull’ora del mezzo dì percosse a’ nimici con sì fatto empito, che in poca d’ora gli ebbe rotti e sbarattati, e morti da cinquanta in sul campo, e centoventi n’ebbono a prigioni, e tolto l’arme e’ cavalli li lasciarono alla fede. E preso il Borgo a Mezzano, messer Francesco campato della battaglia si fuggì in Uzzano. I Fiorentini coll’empìto di questa vittoria senza arresto se n’andarono a Barga, e trovando abbandonati i battifolli, ch’erano quattro, gli presono e arsono, e la vittuaglia ch’aveano portata e la guadagnata misono in Barga, e fornitala doppiamente, tornati per la via ond’erano andati, con vittoria se ne tornarono e Pistoia. CAP. XXXVI. _Come si difese il borgo d’Arezzo per i Fiorentini._ In questi dì, sentendo i cavalieri dell’arcivescovo ch’erano alla Città di Castello come i cavalieri de’ Fiorentini erano andati a Barga, tornarono ad Arezzo milleottocento cavalieri e puosonsi a Quarata. Cento de’ cavalieri de’ Fiorentini che tornavano da Perugia albergarono la notte nel borgo d’Arezzo, ove molti contadini erano rifuggiti col loro bestiame per paura de’ nimici; la cavalleria del Biscione si strinse al borgo, assalendolo aspramente per modo, che i cittadini l’abbandonarono; e sarebbe perduto, se non ch’e’ cento cavalieri de’ Fiorentini francamente il difesono, e alla ritratta de’ nimici uscirono fuori del borgo, e feciono alla codazza danno e vergogna. CAP. XXXVII. _D’un segno mirabile ch’apparve._ Nel detto anno, a dì 12 d’ottobre, venerdì sera tramontato il sole, si mosse tra gherbino e mezzogiorno una massa grandissima di vapori infocata, la quale ardeva con sì gran fiamma, che tutto il cielo di sopra e la terra alluminava maravigliosamente, e alla nostra vista valicò sopra la città di Firenze, e così parve a tutti i cittadini di catuna città d’Italia. E perchè fosse in somma altezza pareva agli uomini in catuna parte che dovesse toccare le sommità delle torri e le cime degli alberi; e spesso gittava fuori di se grandi brandoni di fuoco, che parea che cadessono in terra. E il suo corso fu tanto veloce fra tramontana e greco, che a tutti gl’Italiani, e a quelli del mare Adriatico, e a’ Friolani, e agli Schiavoni e Ungheri, e ad altri popoli più lontani, apparve valicando in quella medesima ora che a noi, e catuno stimava che ivi presso dovesse essere data in terra. Com’ebbe di subito valicata la nostra vista, essendo il cielo sereno senza alcuna macchia di nuvoli, a’ nostri orecchi pervenne un tonitruo grandissimo steso tremolante, il quale tenne sospesi gli orecchi lungamente non come tuono consueto, ma come voce di terremuoto, e dopo il tuono rimase l’aria quieta e serena, e così in ogni parte s’udì questa voce dopo il valicamento della massa. Questo segno fece molto maravigliare la gente, eziandio i più savi, non meno per la novità del tuono che per la grande massa del fuoco. Dissono alquanti sperti, che quello infocamento de’ vapori, o cometa o Asub che si fosse, che ella fu nel cielo in somma altezza in quello di Marte: ed era sì grande, che se venuta fosse a terra avrebbe coperta tutta l’Italia e maggiore paese. Vedemmo seguire in quest’anno diminuzioni d’acque, che dal maggio all’ottobre non furono acque che rigassono la terra, se con tempesta di gragnola e fortuna di disordinati venti non venne, e di quelle niuna che con frutto nella terra entrasse. CAP. XXXVIII. _Come i Tarlati arsono il Borgo di Figghine._ Messer Piero Sacconi de’ Tarlati d’età di più di novant’anni, e il vescovo d’Arezzo degli Ubertini, e’ Pazzi di Valdarno con alquanti degli Ubaldini, avendo al loro servigio le masnade de’ cavalieri dell’arcivescovo di Milano, a dì 12 d’ottobre del detto anno si mossono da Quarata con duemila cavalieri, e duemilacinquecento pedoni, e la domenica mattina, a dì 14 d’ottobre, colle schiere fatte, coperti da una grossa nebbia, valicarono Montevarchi, e lungo la riva d’Arno vennono fino all’Ancisa, e di là girarono ed entrarono nel borgo di Figghine: il quale per la subita venuta non era sgombro, ma pieno di masserizie, e di vittuaglia e di bestiame senza difesa, che ogni uomo avea inteso a guardare la persona. Il castello e il castelluccio de’ Benzi erano forniti e pieni di gente alla difesa, e però non tentarono d’assalirli. In Firenze avea poca gente d’arme, che ancora non era tornata l’oste che andò a Barga; quelli che si poterono avere cavalcarono all’Ancisa. I nemici stettono nel borgo di Figghine la domenica e il lunedì, e raccolsono la preda, lasciando la vittuaglia. E durando la grossa nebbia continuamente, il martedì mattina affocate le case del borgo si partirono senza alcuno impedimento; e prima ebbono preso e arso il Tartagliese, che quelli delle castella di Figghine sapessono la loro partita, o che il borgo fosse infocato, tanto ingrossava il fumo la nebbia, che tolto era loro del foco ogni vista. Allora corsono al borgo a spegnere il fuoco, ma tardi, per la maggior parte. Il danno fu grande, e la vergogna non minore, avendo liberata Barga in Garfagnana, e perduto e arso il borgo di Figghine; ma tornò in bene, che fu cagione di fare una forte e grossa e buona terra, come appresso a suo tempo racconteremo. I cavalieri dell’arcivescovo si tornarono ad Arezzo, e posonsi fuori della porta alla fonte Guinizzelli, e tribolato alcuno tempo da capo il loro contado si divisono per vernare tra gli amici del Biscione, e parte se ne tornò a Milano. CAP. XXXIX. _Come gli usciti di Montepulciano venuti alla terra ne furono poi cacciati._ A dì 2 del mese di novembre del detto anno, messer Iacopo della casa de’ Cavalieri di Montepulciano, poco innanzi cacciato della terra perchè ne volea essere signore, avendo cento cavalieri dell’arcivescovo, e accolti altri cavalieri e fanti a piè di sua amistà, corrotto per moneta un notaio da Sanminiato del Tedesco ch’era sopra la guardia, e alcuni di quelle guardie, un venerdì notte spezzò una delle porte, e con tutta sua gente entrò nella terra, e fu in sulla piazza; e levato il romore, messer Niccolò suo consorto cavaliere di grande ardire di presente fu all’arme, e montato a cavallo con pochi compagni, subitamente senza attendere aiuto sì fedì tra costoro, e ravviligli sì forte, che non feciono resistenza, ma volti in fuga, messer Iacopo s’uscì della terra con venticinque cavalieri; gli altri errando per la terra, desto il popolo, furono presi, che furon settantacinque cavalieri, e il notaio colle guardie, de’ quali venticinque ne furono impiccati, col notaio, e gli altri smozzicati. Montepulciano fu libero per questa volta, ma cagione fu appresso della loro suggezione, come seguendo si potrà trovare. CAP. XL. _Come fra Moriale fu assediato, e rendessi al re Luigi._ Era rimaso nel Regno della gente del re d’Ungheria caporale messer fra Moriale solo, il quale teneva la città d’Aversa, e col re dissimulava, non facendo guerra e non rendendoli la terra. Il re vedendo ancora il reame tenero sotto la sua signoria, e il Provenzale baldanzoso, temeva di muovergli guerra; e per essere più forte e meglio ubbidito mandò per messer Malatesta da Rimini con quattrocento cavalieri, e fecelo vicario del Regno; il quale cavalcando per lo reame perseguitava i malfattori, e recava i baroni e’ comuni all’ubbidienza del re, e a tutti faceva pagare la colta, e fare i servigi feudatarii, e tenne per tutto i cammini aperti e sicuri. E tornato a Napoli, fece che il re mandò a fra Moriale che venisse a lui, e scusandosi, messer Malatesta il fece citare più volte dalla corte della vicherìa: e non comparendo, di subito colla sua gente, e con alquanta accolta del Regno, se n’andò ad Aversa, e nella terra se n’entrò senza contasto. Fra Moriale si rinchiuse nel castello colla sua gente, nel quale aveva il suo arnese e il tesoro accolto delle prede e ruberie de’ paesani, e pensavasi essere sicuro, e potere con patti rendere il forte castello al re quando a lui paresse, al modo di messer Currado Lupo: ma trovossi ingannato, che messer Malatesta di presente cinse il castello d’assedio, e appresso in pochi dì l’ebbe cinto di fosso e di steccato per modo, che nè entrare nè uscire vi si potea, e dì e notte il faceva guardare di buona e sollecita guardia, e così il tenne stretto tutto il mese di dicembre. E vedendosi fra Moriale disperato di soccorso, trasse patto di rendere il castello, avendo per suo bisogno stretto solamente mille fiorini d’oro, e salve le persone; e per bonarietà del re così fu fatto; e uscito del castello rassegnò al re il tesoro male guadagnato, e dispettoso se n’andò a Roma, pensando alla vendetta del re e di messer Malatesta, come poi per grande e fellonesco ardire gli venne fatto, come innanzi per li tempi racconteremo. Il castello e la città d’Aversa rimase al re, e l’ubbidienza di tutto il Regno e di catuno barone per operazione di messer Malatesta. CAP. XLI. _Come i Fiorentini fornirono Lozzole._ All’uscita di novembre del detto anno, i Fiorentini, avendo con battifolli stretto il castello di Lozzole per la forza degli Ubaldini nel Podere, mandarono dugento cavalieri e millecinquecento masnadieri col vicario di Mugello nell’alpe, e presono in sul giogo dell’alpe il poggio di Malacoda e quello di Vagliana, e fecionli guardare a’ fanti a piè e a’ cavalieri, e con seicento masnadieri tennero i Prati: e eletti cento buoni masnadieri condussono il fornimento colla salmeria, e rotti quelli del battifolle che voleano contrastare il passo, per forza gli rimisono dentro, e la roba condussono nel castello. Certi villani del paese, pochi e male armati, con trenta femmine ch’aveano con loro saliti in alcuna parte sopra Malacoda, gridavano contro a’ masnadieri ch’erano a quella guardia, e le femmine urlavano sanza arresto; i codardi masnadieri mandarono per soccorso al vicario messer Giovanni degli Alberti, il quale vi mandò cinquanta cavalieri, i quali si rimasono nella piaggia; il castello era fornito, e l’animo della gente codarda era di tornare in Mugello; que’ di Malacoda non vedendo venire soccorso, impauriti delle grida delle femmine abbandonarono il poggio, fuggendo alla china. I fanti degli Ubaldini, ch’erano settanta per novero, gli cominciarono a seguire, e lasciare i palvesi per essere più spediti, e le trenta femmine seguitavano rinforzando le grida: allora tutta l’oste si mosse senza attendere l’uno l’altro dirupandosi e voltolandosi per le ripe. Il vicario fu il primo che portò la novella della rotta alla Scarperia. L’altra parte de’ masnadieri ch’erano a Vagliano, sentendo fuggiti il capitano, e’ cavalieri e’ pedoni de’ Prati e di Malacoda, si diedono a fuggire sanza essere incalciati. I cento fanti ch’aveano fornito il castello, sentendo fuggita l’oste d’ogni parte, vigorosamente stretti insieme, essendo usciti quelli del battifolle contro a loro, per forza gli rimisono nel battifolle, e tornaronsi nel castello, e di nuovo il rifornirono di legne: e poi l’altro dì, bene acconci e avvisati alla loro difesa, se ne tornarono a salvamento. Degli altri rimasono prigioni centoventi cavalieri, e più di trecento pedoni; morti n’ebbe pochi. Questa fu più notabile fortuna che gran fatto. Ha meritato qui d’essere notata per esempio della mala condotta, che spesso i vinti fa vincitori, e i vincitori vinti. Nella nostra città, in questi tempi, di così fatti falli non si tenea ragione, però spesso ricevea vituperoso gastigamento. CAP. XLII. _Maraviglie fatte a Roma per una folgore._ Non senza cagione di singulare ammirazione vegnamo a fare memoria, come a dì 11 del mese di dicembre, già il cielo sgravato da impetuoso caldo solare, che suole nell’aria naturalmente generare folgori e tempeste, una disusata fortuna di venti e di tuoni turbò l’aria, e in quella tempesta una folgore cadde in Roma, e percosse il campanile di san Piero, e abbattè la cupola e parte del campanile, e tutte le grandi e nobili campane ch’erano in quello fece cadere, e trovaronsi quasi tutte fondute in quello punto, come fossono colate nella fornace. Questa pare una favola a raccontare, ma fu manifesto a molti che ’l vidono, da cui ne avemmo chiara e vera testimonianza. E molti il recarono in segno ovvero prodigio della seguente materia. CAP. XLIII. _Come morì papa Clemente sesto, e di sue condizioni._ In questi dì, essendo malato papa Clemente sesto nella città d’Avignone in Provenza d’una continua, ond’era giaciuto sei dì, la notte vegnente la festa di santo Niccola, a dì 5 di dicembre, passò di questa vita, avendo tenuto il papato anni dieci e mesi sette. Costui fu natìo di Francia, e arcivescovo di Rouen, e grande amico e protettore del re Filippo di Francia, e per lui, innanzi al papato e poi che fu papa, assai cose fece; e a papa Giovanni venne per suo ambasciadore, e nella persona del detto re promise e giurò che farebbe il passaggio d’oltre mare. Costui fatto papa non restò di fare quanto il detto re seppe domandare, e molto scopertamente. Nella guerra ch’ebbe col re d’Inghilterra prese la parte del re di Francia, e assai vi consumò del tesoro di santa Chiesa. Larghissimo papa fu di dare i beneficii di santa Chiesa, e tanti ne stribuì a spettanti l’uno appresso l’altro, che non si trovava chi più ne domandasse, sanza il beneficio dell’_Anteferri._ Il suo ostiere tenne alla reale con apparecchiamento di nobili vivande, con grande tinello di cavalieri e scudieri, con molti destrieri nella sua malistalla. Spesso cavalcava a suo diporto, e mantenea grande comitiva di cavalieri e scudieri di sua roba. Molto si dilettò di fare grandi i suoi parenti, e grandi baronaggi comperò loro in Francia. La Chiesa rifornì di più cardinali suoi congiunti, e fecene de’ sì giovani e di sì disonesta vita, che n’uscirono cose di grande abominazione; e certi altri fece a richiesta del re di Francia, fra i quali anche n’ebbe de’ troppo giovani. A quel tempo non s’avea riguardo alla scienza o alle virtù, bastava saziare l’appetito col cappello rosso. Uomo fu di convenevole scienza, molto cavalleresco, poco religioso. Delle femmine assendo arcivescovo non si guardò, ma trapassò il modo de’ secolari giovani baroni: e nel papato non se ne seppe contenere nè occultare, ma alle sue camere andavano le grandi dame come i prelati; e fra l’altre una contessa di Torenna fu tanto in suo piacere, che per lei facea gran parte delle grazie sue. Quando era infermo le dame il servivano e governavano, come congiunte parenti gli altri secolari. Il tesoro della Chiesa stribuì con larga mano. Dell’italiane discordie poco si curò; e l’impresa fatta a sua stanza contro al tiranno di Bologna in sul buono abbandonò, e della vergogna di santa Chiesa non si fece coscienza, ma per i molti danari che l’arcivescovo di Milano largamente sparse ne’ suoi parenti e nel re di Francia ogni cosa gli perdonò, e intitolollo per la Chiesa vicario di Bologna. Vacò la Chiesa tredici dì. La cometa Nigra pronosticò la sua morte, la folgore di san Piero a Roma la sua fama consumata nel vile metallo. CAP. XLIV. _Come fu fatto papa Innocenzio sesto._ Dopo la morte di papa Clemente sesto, i cardinali rinchiusi in conclave sentendo che il re di Francia s’affrettava di venire a Avignone per avere papa a sua volontà, la qual cosa non gli potea mancare, tanti cardinali aveva a sua stanza e di suo reame, ma non ostante che tutto il collegio de’ cardinali fosse stato al servigio del detto re, tuttavia per la riverenza della libertà di santa Chiesa, vollono innanzi avere fatto papa di loro movimento, che a stanza del re di Francia. E però di presente presono accordo tra loro, ed elessono a papa il cardinale d’Ostia nativo di Limogi, il quale era stato vescovo di Chiaramonte, uomo di buona vita, e di non grande scienza, e assai amico del re di Francia; la sua fama infra gli altri era di semplice e buona vita, e antico d’età; e fecesi ne’ papali palagi in Avignone a dì 28 di dicembre, gli anni _Domini_ 1352. Prese l’ammanto di san Piero e la corona del regno, e ne’ suoi principii ragionò d’ammendare la disonestà della corte, e fecene alcune buone costituzioni, e fecesi chiamare papa Innocenzio sesto. CAP. XLV. _Come usciti di prigione i reali del Regno s’arrestarono a Trevigi._ In questo anno del mese di novembre, essendo liberati di prigione messer Ruberto Prenze di Taranto, e messer Luigi di Durazzo dal re d’Ungheria, se ne vennono a Vinegia; e ricevuto onore da quello comune, se n’andarono a Trevigi, e ivi attesono gli altri loro due fratelli messer Filippo di Taranto, e messer Ruberto di Durazzo. Il re d’Ungheria volle che i primi due reali essendo in loro libertà facessono certe obbligazioni, le quali non furono palesi, ma certo fu che a Trevigi vennero a loro ambasciadori del re d’Ungheria, e che da loro presono certe obbligazioni. E per avere questo tenne gli altri due fratelli tanto, che gli ambasciadori furono da Trevigi tornati in Ungheria colle cautele pubbliche di quello ch’elli aveano promesso, e allora furono licenziati messer Filippo di Taranto, e messer Ruberto di Durazzo, e vennonsene a Trevigi agli altri loro fratelli. E partiti di là se ne vennono a Ferrara, e appresso a Forlì, ricevuti in catuna parte a grande onore. E stando in Romagna, mandarono a Firenze per volere valicare nel Regno per la nostra città, e per lo nostro contado, ove si pensavano potere venire confidentemente a grande onore. Certi cittadini potenti, parziali di setta cittadinesca, che allora reggevano il comune, vietarono la loro venuta nella città, e il passo per lo contado, cosa incredibile a narrare, considerato l’antico e incorrotto amore di quella casa reale al nostro comune, e il sangue loro mescolato con quello de’ cittadini di Firenze, sparto nelle nostre battaglie in difensione di quella città, e ora vieta loro il passo per lo suo distretto, uomini usciti di prigione, senza arme e senza comitiva. Io mi vergogno a scrivere che quello che il nostro comune spesso concede a’ nemici fosse vietato a costoro. Se il comune ci avesse fallato, sarebbe detestabile cosa a trovare memoria di cotanta ingratitudine: ma considerata la singolare vilezza delle cittadine sette, figura della sfrenata tirannia, non è cosa maravigliosa. I reali non senza giusta cagione sdegnati presono altra via, e capitarono a Roma. CAP. XLVI. _Di novità state in Sangimignano._ Ricordandoci de’ due fratelli dicollati degli Ardinghelli di Sangimignano, ci occorre come i loro consorti tennono che ’l fatto fosse per operazione de’ Salvucci di quella terra, onde i detti Ardinghelli provveduti d’aiuto di loro parenti e amici, a dì 20 di dicembre del detto anno levarono romore nella terra, e seguitati dalla maggior parte del popolo corsono alle case de’ Salvucci in su la piazza della pieve, e trovandoli sprovveduti alla difesa, senza fare resistenza furono cacciati di Sangimignano, e le loro case rubate e arse, e di tutti i loro seguaci; e la terra ch’era in guardia del comune di Firenze tennono per loro, temendo di non essere puniti del malificio commesso. I Salvucci cacciati co’ loro seguaci il dì della pasqua di Natale se ne vennono a Firenze, domandando l’aiuto del comune, sotto la cui guardia erano rubati e cacciati della loro terra. Dall’altra parte gli Ardinghelli col titolo e coll’autorità del comune mandarono ambasciadori a Firenze, dicendo, ch’aveano cacciati i ghibellini di Sangimignano, e la terra teneano a onore del comune di Firenze e di parte guelfa; e dove il comune l’avea per piccolo tempo, la voleano dare per maggiore, ove delle cose fatte non si facesse alcuna vendetta, e che i loro nimici non fossono rimessi nella terra. Il comune tenne sospeso un pezzo, cercando se modo v’avesse d’accordo, ma continovo cresceva la mala disposizione, diffidandosi gli Ardinghelli e i loro seguaci d’avere remissione di quello ch’aveano commesso, e aveano d’intorno a loro di mali consigliatori; onde per la contumace e per l’impotenza poco appresso ne seguì la suggezione di quella terra, come a suo tempo racconteremo. CAP. XLVII. _Come i comuni di Toscana mandarono solenni ambasciadori a Serezzana a trattare pace._ Avvegnachè ne’ cominciamenti poca fede si prendesse per li Fiorentini e per gli altri comuni di Toscana della pace coll’arcivescovo di Milano, nondimeno avendo trattato prima co’ religiosi, e poi con abboccamento d’altri ambasciadori, e trovandosi convenienza alla pace, si ordinò più solenne ambasciata di tutti i comuni, i quali si convennono a Firenze, e in segreto si conferì la sostanza de’ patti; e il simigliante fece l’arcivescovo co’ suoi e con gli ambasciadori de’ ghibellini d’Italia, che concorrevano alla detta pace. E catuno comune diede libertà a’ suoi ambasciadori di potere fermare la concordia. E poi, il primo dì di gennaio del detto anno, andarono a Serezzana per dare compimento alla detta pace. CAP. XLVIII. _Di grandi tremuoti vennono in Toscana e in altre parti._ A dì 25 di dicembre del detto anno, in sul vespro, furono grandi terremuoti, i quali abbatterono al Borgo a san Sepolcro una parte degli edifici della terra, con danno di bene cinquecento tra uomini e femmine e fanciulli morti. E la rocca d’Elci in su’ confini tra Arezzo e il Borgo subissò con que’ viventi che v’erano a guardarla per l’arcivescovo di Milano. E sollevati i tremuoti alquanti dì, poi a dì 31 del detto mese, la notte, vegnente la mattina di calen di gennaio in sul mattutino, rinnovellarono maggiori terremuoti. E alla detta terra del Borgo furono sì terribili, che quasi tutti gli edifici di quella terra fece rovinare, nel cui scotimento, per la notte e per le ruine d’ogni parte, pochi ne poterono campare, fuggendosi ignudi negli orti e nelle piazze della terra, e quasi la maggiore parte de’ terrazzani e de’ forestieri che v’erano feciono delle case sepoltura a’ lacerati corpi, e molti magagnati e mezzi morti stettono parecchi dì senza aiuto sotto le travi e’ palchi e altre concavità fatte dalla ruina, e assai ne morirono che sarebbono campati se avessono avuto soccorso. Le mura della terra da ogni parte caddono: e di vero gran pietà fu a vedere l’eccidio di cotanti cristiani involti in così aspro giudicio dalla loro morte, che fatto conto, più di duemila uomini d’ogni sesso spirarono sotto quelle rovine. E non è da lasciare senza memoria quello ch’avvenne loro per essere sotto la tirannia, che per paura de’ primi terremuoti erano usciti della terra e stavano a campo, e sarebbono campati, ma per tema della terra messer Piero Sacconi, e Nieri da Faggiuola col vicario dell’arcivescovo vi cavalcarono, e per forza costrinsono i terrazzani e’ soldati a ritornare nella terra. Alcuni favoleggiando dissono, che questo fu singolare sentenza di Dio, perchè costoro furono i primi in Toscana che diedono ricetto alla gente del gran tiranno arcivescovo di Milano, in confusione de’ loro circostanti; e tutte le prede indebitamente tolte a’ loro vicini comperavano per niente, ingrassando e arricchendo di quelle indebitamente, non avendo i detti terremuoti fatto alcuno danno in Toscana. CAP. XLIX. _Come i Sanesi andarono a oste a Montepulciano._ Essendo i signori della casa de’ Cavalieri di Montepulciano divisi e cacciati l’uno l’altro, come addietro è dimostrato, quelli ch’erano rimasi signori teneano l’amistà de’ Perugini, e gli usciti quella de’ Sanesi, onde avvenne che i Sanesi volevano che la terra tornasse al governamento del popolo; e temendo coloro che la reggevano per lo movimento de’ Sanesi, si fortificarono con aiuto di gente d’arme de’ Perugini, e per questo i Sanesi cominciarono a cavalcare sopra loro. E i terrazzani colle masnade de’ Perugini e de’ loro soldati s’aiutavano francamente, facendo vergogna alla cavalleria de’ Sanesi, e per questo presono sdegno contro a’ Perugini. E del comune di Firenze si dolsono, perchè richiesti a questa impresa non vollono contro agli amici loro guelfi dare loro aiuto. E tanto montò l’altezza dello sdegno de’ Sanesi, che si fornirono di gente d’arme a piè e a cavallo, e misonsi all’assedio di Montepulciano, e quello continovarono infino al maggio seguente 1353, e strinsonlo con battifolli; e’ Perugini per non dispiacere a’ Sanesi ne ritrassono la gente loro. I Fiorentini e’ Perugini mandarono gli ambasciadori a trovare modo di pace e di concordia tra ’l comune di Siena e quello di Montepulciano, i quali vi dimorarono lungamente, innanzi che potessono recare le parti a concordia. E perocchè nel detto tempo altre cose occorsono, conviene per dare parte a loro alquanto soggiornare alla presente materia. CAP. L. _Come Gualtieri Ubertini fu decapitato._ In questo medesimo mese di dicembre fu preso in un aguato da’ soldati del comune di Firenze, a Civitella del vescovo d’Arezzo, Gualtieri figliuolo di Bustaccio degli Ubertini, giovane di grande fama, valoroso e pro’, e di grande aspetto e seguito, il quale per comandamento del comune fu menato a Firenze: e credendosi campare, trovandosi il bando generale di tutti quelli della casa degli Ubertini per la loro ribellione, la vigilia di Natale fu dicollato, di cui gli Ubertini riceverono gran danno, perocchè troppo era giovane di buono aspetto. A costui fu tagliata la testa dirimpetto allo spedale di sant’Onofrio; e messo il corpo nella cassa in due pezzi, e portandosi alla chiesa di santa Croce, venuto a piè del campanile di quella chiesa, per spazio d’una saettata di balestro o più il corpo si dibattè, e aperse le giunture della cassa con tanto dicrollamento, che a pena fu ritenuta che non cadde di collo agli uomini che ’l portavano; cosa assai maravigliosa, ma fu vera e manifesta a molti, e noi l’avemmo da coloro che ’l detto corpo nella cassa portarono, uomini degni di fede. CAP. LI. _Come il duca d’Atene assediò Brandizio._ In questi dì, avendo il re Luigi fatta certa richiesta di baroni del Regno, fra gli altri vi venne messer Filippo della Ripa di Brandizio, ricco d’avere e di piccola nazione, da cui il re con finte cagioni intendea di trarre di molti danari. A costui fu rivelata l’intenzione del re, ond’egli senza congio si ritornò in Puglia. Il re fattolo da capo richiedere per contumacia, ebbe cagione di farlo bandire. Il duca d’Atene che colle sue terre gli era vicino, per torgli il suo, e per potere sotto la coverta di costui prendere Brandizio, se n’andò in Puglia; e presa licenza di procacciare di recare al fisco i beni di costui ch’era bandeggiato, raunò gente d’arme, e non sappiendo il re che procedesse per questo modo, fece di suoi Franceschi e d’altri soldati quattrocento cavalieri e millecinquecento pedoni, e andò a oste a Brandizio. I terrazzani vedendosi questa gente addosso improvviso si maravigliarono forte, e conobbono il fatto tirannesco, e di presente s’unirono alla difesa, e non lo lasciarono accostare alla città. Puosesi a campo di fuori, e cominciò a correre e fare preda per lo paese d’intorno. Sentendo questo il re Luigi si maravigliò del duca, che faceva di suo arbitrio quello che non gli era commesso, e incontanente per lettere gli mandò comandando che da Brandizio si dovesse levare: ma poco valsono i suoi comandamenti, che vi s’affermò credendosi occupare quella terra con tirannesca intenzione. Sopravvenne la tornata del Prenze di Taranto, e il re per farli onore, ch’era d’età suo maggiore fratello, sentita la volontà de’ cittadini ch’aveano amore al Prenze, così assediata glie la privilegiò; e i cittadini di concordia l’accettarono per loro signore, e allora il duca se ne levò da assedio. CAP. LII. _Come i Perugini feciono pace co’ Cortonesi._ In questo verno, sentendosi per l’Italia che a certo la pace generale si dovea fare tra i comuni di Toscana, e l’arcivescovo di Milano e’ suoi aderenti ghibellini, i Cortonesi per mostrare più liberalità a’ Perugini, e il comune di Perugia per non obbligarsi al patto della generale pace, di concordia vollono pervenire a quella, e di buona volontà feciono pace tra loro. È vero che innanzi la pace i Cortonesi non fidandosi de’ Perugini domandarono sodamenti, e il comune di Perugia a grande istanza richiese il comune di Firenze, che fosse mallevadore per lui a’ signori e al comune di Cortona di diecimila marchi d’argento, che manterrebbe a’ Cortonesi buona e leale pace. Il nostro comune mosso alle richieste di quello di Perugia, fece sindaco un suo cittadino chiamato Otto Sopiti, e per lui fece il sodamento e l’obbligagione predetta a’ signori e al comune di Cortona liberamente, come i Perugini seppono divisare. CAP. LIII. _Come il popolo di Gaeta uccisono dodici loro cittadini per la carestia ch’aveano._ Ancora lo stato dello sviato Regno non era queto dalla fortuna e in debito reggimento, essendo quest’anno generale carestia in Italia, il minuto popolo di Gaeta, avendo invidia a’ buoni e ricchi cittadini mercatanti di quella città, del mese di dicembre del detto anno si mossono a furore e presono l’arme, e furiosi corsono per la terra, a intenzione d’uccidere quanti trovare potessono di loro maggiori: e in quell’empito uccisono dodici de’ migliori che trovarono senza alcuna misericordia, grandi e onesti e buoni mercatanti; gli altri si fuggirono e rinchiusono in luoghi ove il furore del popolo non si potè stendere. Il re Luigi avendo intesa questa iniquità vi cavalcò in persona con gente d’arme per farne giustizia, e giunto in Gaeta, fece inquisizione di questo fatto; la cosa fu scusata per la furia d’alquanti, e furono presi e giustiziati de’ meno possenti; degli altri si fece composizione di moneta, e chi fu morto s’ebbe il danno, e la corte pervertì; e racquetata la cosa, il re gli ordinò, e tornossene a Napoli. CAP. LIV. _Come il papa volle trattare pace da’ Genovesi a’ Veneziani._ In questo medesimo verno, papa Innocenzio mandò al comune di Genova e a quello di Vinegia che mandassono a lui gli ambasciadori ch’erano stati a papa Clemente a trattare della loro pace, e per la morte sopravvenuta del detto papa se n’erano partiti senza essere d’accordo, perocch’egli intendea di metterli in pace giusta suo podere. I Genovesi non vollono tornare a corte, nè entrare in trattato di pace co’ Veneziani, anzi ordinarono lega e compagnia col re d’Ungheria contro a’ Veneziani. E il detto re avendo promessa compagnia co’ Genovesi mandò a Venezia al comune che gli dovesse restituire Giara, e l’altre città e terre ch’aveano occupate del suo reame nella Schiavonia. I Veneziani feciono agli ambasciadori quella savia risposta che seppono, facendosi tra loro beffe della sua domanda; nondimeno non senza paura, e con molta sollicitudine e con grande spendio fornirono a doppio, oltre all’usato, tutte le terre che teneano in quella marina. CAP. LV. _Come i Fiorentini osteggiaro Sangimignano, e fecionli ubbidire._ Addietro è narrato come quelli che reggeano Sangimignano teneano trattato col comune di Firenze, ma non fidando, non si poteano per lo comune riducere a fermezza, e il comune temendo che in questa vacillazione peggio non ne seguisse, del mese di febbraio del detto anno vi mandò messer Paolo Vaiani di Roma, allora podestà di Firenze, con seicento cavalieri e con grande popolo, i quali giunti intorno alla terra, e non avendo risposta da quelli d’entro, a volontà del nostro comune vi si misono a campo, e cominciarono a dare il guasto; ma però alcuno Sangimignanese o loro gente d’arme non uscirono fuori per fare alcuna resistenza o altra vista, ma dopo il ricevuto danno vennono alla concordia, che il comune di Firenze dovesse fare la pace fra loro e gli usciti, e che d’allora gli usciti avessono i frutti de’ loro beni, ma dovessono stare fuori della terra sei mesi, e fatta la pace tra gli Ardinghelli e’ Salvucci, per lo comune di Firenze detto, e’ potessono tornare nella terra: e che il comune di Firenze oltre al termine de’ tre anni che ne dovea avere la guardia l’avesse anche cinque anni, e che per patto vi tenesse settantacinque cavalieri col capitano della guardia alle loro spese. E fatto il decreto e le cautele per i loro consigli, e ricevuto il capitano colla sua compagnia, l’oste se ne tornò a Firenze. CAP. LVI. _Come in Italia fu generale carestia._ In questo anno fu generale carestia in tutta Italia; in Firenze cominciò di ricolta a valere lo staio del grano soldi quaranta di libbre cinquantadue lo staio, e in questo pregio stette parecchi mesi: poi venne montando tanto, che andò in lire cinque lo staio, i grani cattivi e di mal peso. Le fave lire tre lo staio, e così i mochi e le vecce: il panico soldi quarantacinque in cinquanta, e la saggina soldi trenta in trentacinque. Il vino di vendemmia valse il cogno fiorini sei d’oro del più vile, e otto e dieci il migliore, e montò in fiorini quindici il cogno. La carne del porco senza gabella lire undici il centinaio; il castrone denari ventotto in trenta la libbra tutto l’anno. La vitella di latte montò danari trentadue in quaranta la libbra; l’uovo danari cinque e sei l’uno; l’olio lire cinque e mezzo in sei l’orcio, di libbre ottantacinque. Tutti erbaggi furono in somma carestia; e in que’ tempi valea il fiorino dell’oro lire tre soldi otto di piccioli. Tutti drappi da vestire, di lana, e di lino, e di seta, furono in notabile carestia, e così il calzamento. E benchè abbiamo fatto conto di Firenze, in quest’anno fu tenuto in tutta Italia che Firenze avesse così buono mercato comunalmente come alcuna altra terra. Ed è da notare, che di così grande e disusata carestia il minuto popolo di Firenze non parve che se ne curasse, e così di più altre terre; e questo avvenne perchè tutti erano ricchi de’ loro mestieri: guadagnavano ingordamente, e più erano pronti a comperare e a vivere delle migliori cose, non ostante la carestia, e più ne devano per averle innanzi che i più antichi e ricchi cittadini, cosa sconvenevole e maravigliosa a raccontare, ma di continova veduta ne possiamo fare chiara testimonianza. E quello che a altri tempi innanzi alla generale mortalità sarebbe stato tomulto di popolo incomportabile, in quest’anno continovo improntitudine e calca del minuto popolo fu nella nostra città ad avere le cose innanzi a’ maggiori, e di darne più che gli altri. E così festeggiava, e vestiva e convitava il minuto popolo, come se fossono in somma dovizia e abbondanza d’ogni bene. CAP. LVII. _Come i Romani uccisono colle pietre Bertoldo degli Orsini loro senatore._ Senatori di Roma erano il conte Bertoldo degli Orsini e Stefanello della Colonna, e dal popolo erano infamati d’avere venduta la tratta, e lasciato trarre il grano della loro Maremma, e questo era fatto per loro, non pensando che ’l grano andasse in così alta carestia. In Campidoglio si faceva il mercato a dì 15 di febbraio del detto anno, e la sù abitavano i senatori; e accoltovisi grande popolo per comperare del grano, e trovandone poco e molto caro, corsone a furore al palagio de’ senatori con le pietre in mano. Stefanello ch’era giovane fu accorto, e innanzi che il popolo moltiplicasse al palagio col furore si fuggì per una porta di dietro, e salvò la persona; il conte Bertoldo fu più tardo, e volendosi fuggire, fu sorpreso dal furore di quel popolo, e colle pietre lapidato e morto: e tante glie ne gittarono addosso, acciocchè catuno fosse partecipe a quella vendetta, che bene due braccia s’alzò la mora delle pietre sopra il corpo morto del loro senatore; e fatto questo, il popolo comportò la carestia più dolcemente. CAP. LVIII. _Come fu tagliata la testa a Bordone de’ Bordoni._ In questi dì, del mese di febbraio sopraddetto, essendo podestà di Firenze messer Paolo Vaiani di Roma, uomo aspro e rigido nella giustizia, avendo presa informazione di mala fama contro a Bordone figliuolo che fu di Chele Bordoni, antico e grande e potente popolano di Firenze, essendo questo giovane sopra gli altri leggiadro e di grande pompa, il fece pigliare per ladro, apponendogli molti furti, e tutti per martorio gliel fece confessare. I suoi consorti, ch’erano in grande stato in comune, co’ priori e collegi il difendeano, e non parea loro che il podestà il dovesse condannare a morte; il mormorio del popolo minuto era contro a lui, e ’l podestà non si volea muovere ad alcuno priego de’ signori; onde avvenne, per male consiglio, ch’e’ priori, acciocchè ’l podestà non potesse fare uficio, cassarono tutta la sua famiglia. Costui più inacerbito lasciò la bacchetta della sua podesteria a’ priori, e tornossi al palagio come privato uomo. Il mormorio si levò grande nella città contro a’ priori, e parendo loro avere fatto male, con ogni preghiera cercarono di poterlo ritenere; ma l’astuto Romano, sentendo scommosso il popolo, la notte montò a cavallo e andossene a Siena. Il popolo sentendolo partito, quasi come comunità rotta trassono al palagio de’ priori e a quello della podestà, e doleansi dicendo, che i potenti cittadini che facevano i grandi mali non voleano che fossono puniti, e i piccoli e impotenti cittadini d’ogni piccolo fallo erano impiccati, e smozzicati, e dicollati; e per questa novità fu la città in grande smovimento, operandosi l’animosità delle sette. I signori vedendo la città a cotal condizione, di subito gli mandarono ambasciadori, e con fiorini duemilacinquecento d’oro che gli diedono per suoi interessi fecionlo ritornare: e ritornato, per grazia fece dicollare Bordone, e il popolo fu racquetato. CAP. LIX. _Come si pubblicò la pace dall’arcivescovo a’ comuni di Toscana._ Gli ambasciadori de’ comuni di Toscana che furono mandati a Sarezzana per fermare la pace coll’arcivescovo di Milano, e co’ suoi aderenti ghibellini di Toscana e d’Italia, trovarono la materia sì acconcia, eziandio contro alla speranza, che di presente vi dierono fermezza, del mese di marzo 1352; e appresso, il primo dì d’aprile 1353, si piuvicò in parlamento di tutto il popolo. E quanto che catuno desiderasse pace per cagione di riposo e di fuggire spesa, niuna festa se ne fece, nè niuno rallegramento nel popolo se ne vide, quasi stimando catuno la pace del potente tiranno troppo vicino, essere più nel suo arbitrio sottoposta a inganno che a fermezza di certo riposo. Nella pace in sostanza si contenne, che generale e perpetua pace sia tra l’arcivescovo di Milano, e tutte le sue città e distrettuali, e tutti coloro che con lui furono nella guerra contro a’ Fiorentini, e’ Perugini, e’ Sanesi, e’ loro distrettuali, Pistoiesi, e Aretini, e altri simiglianti, tutti da catuna parte e aderenti loro debbano osservare buona e leale pace; e l’arcivescovo è tenuto di mettere in mano comune la Sambuca e ’l Sambucone: e fatto questo, il comune di Firenze un mese appresso debba disfare la rocca di Montegemmoli, con patto, che disfatta debba riavere le dette castella depositate; e il detto Montegemmoli non si debba per alcuna parte redificare: e che i Fiorentini debbano rendere Lozzole agli Ubaldini, e l’arcivescovo Piteccio e l’altre tenute de’ Pistoiesi; e che il comune di Firenze dee trarre di bando tutti coloro che fossono bandeggiati per quella guerra, e chiunque fosse dichiarato aderente del detto arcivescovo: patto assai pregno, e doppio, e poco accetto, la cui dichiarazione fu commessa a Lotto e a Franceschino Gambacorti di Pisa, mezzani di questa pace. Questo fu assai lieve legame di pace, avvegnachè ci si stipulasse pena fiorini dugentomila d’oro, ma per la grandezza del signore di Milano, e per la potenza de’ tre comuni che non si avvilivano per lui, rimase contenta catuna parte al legame del titolo della pace, senza altra sicurtà dimandare o prendere. CAP. LX. _L’inganno ricevette il comune di Firenze dagli sbanditi._ Il comune di Firenze in questo fatto degli sbanditi fu ingannato da’ suoi medesimi ambasciadori, de’ quali niuno si potè incolpare, ch’erano secolari, e uomini che non sapeano quello ch’e’ titoli de’ giudici portassono, e a loro non se n’aspettava alcuna cosa, ma incolpato ne fu un savio giudice e grande avvocato chiamato messer Niccola Lapi, di lieve nazione, sospetto a parte, ma per la sua scienza il comune gli commise l’ordinazione delle scritture per non essere ingannato. Costui lasciò ne’ patti un capitolo non promesso nè pensato, per lo quale tutti gli sbanditi e rubelli del comune di Firenze poteano essere ribanditi e ristituiti ne’ loro beni, e così degli altri comuni di Toscana. E il pertugio di questo titolo fu, che a’ patti s’aggiunse, che tutti gli aderenti, e parenti e seguaci di messer Carlino Tedici e de’ consorti ribelli di Pistoia, dovessono essere ribanditi, e restituiti ne’ beni di qualunque bando o condannagione ch’avessono dal comune di Pistoia, e questa fu l’intenzione vera: ma arroso fu, e di Firenze, e di Perugia, e di Siena, e dell’altre terre di Toscana, salvo chi avesse avuto bando nel tempo della guerra, essendo all’ubbidienza del comune di Pistoia: bando enorme e non parziale. Qui si comprese la malizia di questo fallo: se per errore fu commesso, grande vergogna fu al savio avvocato, se per malizia, meritò grande pena, perocchè sotto quel titolo messer Carlino faceva suo aderente cui egli voleva; e Franceschino e Lotto gli dichiaravano, e ’l savio consigliava, e ’l notaio ch’era sopra ciò cancellava; e avevane già dichiarati più di duemila, e cancellati da trecento. Ed era una mercatanzia tra tutti di grande guadagno, ma di maggiore danno e vergogna del nostro comune, e molto se ne dolevano i cittadini. Ma gli autori del fatto, con mettere paura di non conturbare la pace, ogni lingua acchetavano, e le borse si empievano. E procedendo a voto il primo fallo, un altro se n’arrose per l’avvocato già detto, contro al beneficio ricorso a utilità della patria, che i dichiaratori da Pisa aveano mandato a Firenze intorno di sedici dichiarazioni fatte nel principio in diversi dì, acciocchè a Firenze fossono per lo notaio diputato sopra ciò cancellati di bando. Le dichiarazioni furono portate al detto messer Niccola Lapi, il quale vide che per l’ordine de’ patti non se ne poteva cancellare per ragione più che quelli ch’erano dichiarati per lo primo dì, e da quel dì innanzi il comune di Firenze era libero della sua promessa. Costui di presente le rimandò a dietro, e scrisse, che non valeano dichiaragioni che facessono separate in diversi dì; e per questo avvenne, che poi quelle che si feciono, e che si mossono a fare in diversi e lunghi tempi, le riducevano a essere fatte nel primo dì che gli cominciarono a dichiarare, commettendo in questo processo frode, e facendo fare le carte false, che furono più di trecento quelle che si recarono a cancellare. Di cotali falli il comune s’avvedeva e doleva, ma le preghiere degli amici non lasciavano al comune fare giustizia in questi tempi. Ma de’ mali principii riesce spesse volte mal frutto, come in parte uscì di questo, secondo che appresso diviseremo, mutando un poco nostro ordine di travalicare il tempo per imporre fine a questa materia. CAP. LXI. _Di questa medesima materia._ Avvenne, valicato l’anno predetto, che di questa corrotta radice procedette una corruzione che terminò la causa e la vita del notaio a ciò diputato, e d’un giudice ch’avea cominciato a pascersi sopra questa carogna. A ser Francesco di ser Rosso notaio di grande autorità, ch’aveva procurato questo uficio, fu portata carta d’una dichiarazione d’uno Ghiandone di Chiovo Machiavelli condannato, uomo infame e di mala condizione; del nome e soprannome di costui erano rimase certe lettere, il mese e l’altre rase, e sottilmente per simiglianti lettere rimesse, e con molta istanzia per alcuno suo consorte, e alcuno amico allora de’ priori, fu stretto ser Francesco a cancellarlo, e messer Corbizzesco giudice da Poggibonizzi a consigliarlo. I quali più volonterosi al servigio che a conoscere la malizia ch’appariva nella carta, benchè tutta paresse una lettera, il savio consigliò, e il notaio cancellò. E sentendosi la diliberazione di costui a Pisa, Franceschino Gambacorti scrisse a’ signori scusandosi, che costui per la sua infamia mai non avea voluto dichiarare. Onde preso il notaio, e appresso il giudice, per il marchese dal Monte valente podestà di Firenze, dopo lunga discettazione e combattimento di cittadini, e d’immunità di privilegio ch’aveva ser Francesco, mercoledì a dì 21 di maggio 1354 avendoli condannati al fuoco, per grazia commutò la pena, e colle mitere in capo li fece dicollare. Per la morte di ser Francesco mancò il potere cancellare; e mancato questo, si rimase il dichiarare, e il comune dimenticò gli altri falli per questa cagione, e per troppa mansuetudine. CAP. LXII. _Come messer Piero Sacconi de’ Tarlati tentò di fare grande preda innanzi che fosse bandita la pace._ Messer Piero Sacconi de’ Tarlati ch’aveva in Bibbiena delle masnade dell’arcivescovo di Milano, sentendo ferma la pace, innanzi ch’ella si bandisse, come volpe vecchia, accolse gente quanta ne potè avere, a piè e a cavallo, e sapendo che i villani del contado d’Arezzo per la novella della pace s’assicuravano colle bestie a’ campi, cavalcò subitamente il contado d’Arezzo infino a Laterina, accogliendo il bestiame, e mettendosi la preda innanzi. I paesani stormeggiando da ogni parte s’avvidono del fatto, e feciono tanto, che per campare le persone i cavalieri e’ masnadieri abbandonarono la preda, e con vergogna tornarono a Bibbiena. E per simil modo in questi medesimi dì i soldati del Biscione ch’erano a Montecarelli con il conte Tano corsono in Mugello per fare preda, innanzi che la pace fosse pubblicata. Il vicario della Scarperia co’ soldati de’ Fiorentini gli cacciarono de’ campi fino a Montecarelli. Queste cavalcate non erano degne di memoria, ma per esempio a’ popoli che non sono offenditori, che almeno si guardino, acciocchè non incorrino nell’antico proverbio, che dice, tra la pace e la triegua guai a chi la lieva. CAP. LXIII. _Come il corpo di messer Lorenzo Acciaiuoli fu recato del Regno a Firenze, e seppellito a Montaguto a Certosa onoratamente._ Togliendone la quiete della pace materia da scrivere, forse alcuna scusa ci fa a raccontare quello ch’ora scriveremo di privata novità. Messer Niccola Acciaiuoli di Firenze grande siniscalco del reame di Sicilia, governatore del re Luigi, aveva un figliuolo primogenito cavaliere e grande barone, appartenendogli la moglie promessa della casa di Sanseverino, giovane provato in arme, adorno di belli costumi, grazioso e di grande aspetto. Costui, come a Dio piacque, innanzi al tempo, all’aspetto degli uomini, rendè l’anima a Dio, e morì nel Regno in assenza del padre. Ed essendogli annunziata la morte a Gaeta di cotanto caro e diletto figliuolo, il magnanimo ristrinse il dolore dentro senza mutare aspetto, e colla molta pazienza, e con abito ornato di grandi virtudi comportò la morte del caro figliuolo, dicendo, io era certo che dovea morire, e che credeva che Iddio avesse eletto il tempo di più salute dell’anima sua. E avendo egli grande devozione al nobile monistero edificato a sua stanza in sul poggio di Montaguto, posto tra la Greve e l’Ema, presso alla città di Firenze, a due miglia, il quale si chiama il monistero di Certosa, quivi mandò con grande comitiva e spesa a seppellire il corpo del figliuolo. E recato prima a Firenze, e fatti gli ornamenti più che militari, e invitati per i consorti tutti i buoni cittadini, a dì 7 d’aprile 1353 fu portato alla sepoltura in una bara cavalleresca, con due grandi destrieri, l’uno dinanzi e l’altro didietro, coperti di zendado coll’arme degli Acciaiuoli, e la bara ov’era la cassa col corpo era coperta con fini drappi e baldacchini di seta e d’oro, e disopr’essi veluto chermisi fine, e in su i cavalli gli scudieri vestiti a nero che guidavano i cavalli con la bara; e innanzi alla bara avea sette scudieri in su sette grandi destrieri, tutti coperti infino a terra, innanzi con l’arme d’argento battuto degli Acciaiuoli: i due primi catuno portava uno cimiere, il terzo portava lo stendale, e gli altri quattro seguenti catuno una grande bandiera tutta di quell’arme con le targhe rilevate nel campo azzurro, e un leone rampante bianco com’è la detta arme, con grande novero di doppieri dinanzi e intorno al corpo, cosa magnifica a ogni barone, eziandio se fosse della casa reale. I grandi e orrevoli cittadini di Firenze accompagnarono il corpo infino alla porta a san Piero Gattolino; poi gran parte montati a cavallo andarono col corpo infino al monistero, e gli altri si tornarono a casa. Abbiamo fatta questa memoria perchè fu nuova e disusata alla nostra città, e magnifica all’autore di quella, che più di cinquemila fiorini d’oro costò la spesa. CAP. LXIV. _Come si fe’ l’accordo da’ Sanesi a Montepulciano._ I Sanesi avendo voglia di vincere Montepulciano, essendovi stati ad assedio lungamente, vi puosono un gran battifolle molto di presso. Nella terra avea buone masnade di cavalieri e di masnadieri, i quali spesso avrebbono danneggiati i Sanesi, se fossono stati lasciati guerreggiare, ma com’è detto addietro, essendo l’una parte e l’altra guelfi e amici de’ Fiorentini e de’ Perugini, essendo con catuno gli ambasciadori de’ detti comuni nel campo e nella terra, e benchè fosse molto malagevole, infine gli recarono a questa concordia: che la terra rimanesse al governamento del popolo, e stesse venti anni nella guardia del comune di Siena, tenendovi un capitano di guardia con quindici cavalieri e con venti fanti, avendo in sua signoria una delle porti della terra e una campana, e che i Sanesi dovessono dare contanti, infra certo termine, a messer Niccolò de’ Cavalieri per ristoro delle spese fatte fiorini seimila, e dovesse stare dieci anni con immunità personale e reale in quella sua terra; e a messer Iacopo de’ Cavalieri che n’era fuori dovessono dare fiorini tremila d’oro, e riavere le rendite de’ suoi beni: per lo quale accordo i due comuni per loro sindacato furono mallevadori. E fatto questo, a dì 2 di maggio del detto anno i Sanesi presono la guardia ordinata, e levarsi da campo; e rifornita la terra, allegri, con bella e buona pace si tornarono a Siena, grati del beneficio ricevuto da’ due comuni, come l’operazioni di corrotta fede appresso dimostreranno. CAP. LXV. _D’una notabile grandine venuta in Lombardia, e d’altro._ A dì 7 del mese di maggio del detto anno, turbato il tempo con ravvolto enfiamento di nuvoli, ristretta la materia umida da’ venti d’ogni parte, con disordinato empito sopra la città e parte del contado di Cremona ruppe, mandando sopra quella pietre sformate di grandine, la quale, cui trovò alla scoperta, uomini e femmine, percotendo li uccise, e la città premette sì forte, che tutte le copriture de’ tetti ruppe e macinò senza rimedio, con grandissimo danno de’ cittadini. E le pietre della grandine ch’erano maggiori si trovarono di libbre otto e once tre, e le minori erano d’una libbra di peso. In questo medesimo tempo l’arcivescovo di Milano mandò per fare redificare le mura e case del Borgo a san Sepolcro, rovinate e guaste per lo tremuoto, trecento maestri. I Borghigiani rimasi in vita erano tutti ricchi sopra modo per l’eredità de’ morti, e per gli sconci guadagni delle prede de’ loro vicini condotte al Borgo, e perchè a’ soldati al continovo aveano venduto caro la loro vittuaglia e gli altri arnesi, e però, venuti i maestri, cominciarono a edificare le case e’ palagi, e a fare troppo più nobili e più belli abituri che prima non aveano: ma poco poterono edificare, che la terra mutò stato, come appresso nel suo tempo racconteremo. CAP. LXVI. _Come sotto le triegue procedettono le cose in Francia._ Essendo alcuno tempo durate le triegue tra il re di Francia e quello d’Inghilterra, infra il detto tempo alquante terre in Brettagna e alcuna in Guascogna che si teneano per lo re di Francia, per ingegno e per malizioso sommovimento s’arrecarono dalla parte del re d’Inghilterra; per la qual cosa turbato il re di Francia, fece bandire la guerra per tutto il suo reame: e a ciò lo indusse non meno certi trattati scoperti contro della sua persona, ch’e’ baratti di quelle terre. E fatto questo, del mese di maggio del detto anno, il cardinale di Bologna, e gli altri prelati e baroni che trattavano la pace si misono al riparo, e tanto operarono, che triegue si rifeciono tra i detti re. E stando le cose di là in successioni di triegue, non accaddono in lungo tempo cose notevoli in que’ paesi. CAP. LXVII. _Come i Genovesi spregiarono la pace de’ Veneziani._ Tornando nostra materia a’ fatti de’ Genovesi e de’ Veneziani, in questo primo tempo del detto anno i Genovesi levarono lo stendale di sessanta galee, le quali incontanente cominciarono ad armare, e per la compagnia ch’aveano fatta col re d’Ungheria contro a’ Veneziani v’aggiunsono l’arme del detto re; e intendeano, che come e’ fossono colla loro armata in mare, che ’l detto re avesse in Ischiavonia i suoi Ungheri a fare guerra per terra a’ Veneziani, come avea promesso. E certe galee ch’aveano allora in concio d’arme mandarono improvviso nel golfo a’ Veneziani, le quali feciono in quello grave danno di rubare molti legni che vi trovarono, traendone l’avere sottile, e profondando i legni in mare; e con due loro galee sottili bene armate valicarono san Niccolò del Lido, ed entrarono nel canale grande, e nella città saettarono molti verrettoni. E tornandosi addietro, le galee della guardia del golfo ch’erano per novero più che le genovesi, potendosi abboccare con loro, non ebbono ardimento, che la paura del re d’Ungheria gl’impacciava forte più che de’ Genovesi, per tema che non traboccasse loro addosso la sua grande potenza. Le galee genovesi non avendo contasto s’uscirono del golfo, e andarono al loro viaggio, avendo fatto gran vergogna a’ Veneziani. CAP. LXVIII. _Come i Veneziani si provvidono._ Il comune di Vinegia sentendo l’armata de’ Genovesi e le minacce del re d’Ungheria, e non volendoli rendere le terre marine della Schiavonia, conobbono che la necessità gli strignea a trovar modo di difendersi per mare e per terra. E però guernite le loro terre per la difesa, con grande e buona provvisione mandarono solenne ambasciata all’imperadore, pregandolo che procacciasse in loro servigio che il re d’Ungheria non movesse loro guerra a stanza de’ Genovesi; e un’altra ambasciata mandarono in Catalogna al re d’Araona a fare lega e compagnia con lui, acciocch’egli armasse con loro contro a’ Genovesi. In catuna parte ebbono prosperamente loro intenzione: che l’imperadore ritenne a sua preghiera il re d’Ungheria dal muovere guerra a’ Veneziani, non senza alcuna speranza d’accordo in processo di tempo; e’ Catalani aontati della sconfitta ricevuta co’ Veneziani da’ Genovesi in Costantinopoli, lievemente si recarono per animo di vendetta a fare la volontà de’ Veneziani; e di presente misono per opera d’armare trenta galee al loro soldo, e venti alle spese del comune di Vinegia, e i Veneziani n’armarono altre venti a Vinegia; e catuna parte sollecitava sua armata per essere prima in mare; i Genovesi per la vittoria avuta sopra loro dispettando e avvilendo i nimici, e’ Catalani e’ Veneziani desiderando la vendetta. E apparecchiandosi catuna parte, innanzi al loro abboccamento ci occorrono altre cose a raccontare, e però al presente soprastaremo alquanto a questa materia. CAP. LXIX. _Come fu guasto il castello di Picchiena, e perchè._ I signori del castello di Picchiena non ostante che si tenessono in amistà col comune di Firenze, furono principali con gli Ardinghelli a commuovere lo stato di Sangimignano quando furono cacciati i Salvucci, essendo la guardia di quella terra nelle mani del comune di Firenze; e di questo fallo non feciono scusa nè ammenda a’ Fiorentini; e però, nel detto mese di giugno del detto anno, il comune di Firenze mandò sue masnade co’ maestri e guastatori a Picchiena, e senza contasto entrarono nella terra. E acciocchè quel castello non fosse più cagione di fare sommuovere ad alcuna ribellione Sangimignano e Colle, a dì 20 del detto mese feciono abbattere le mura e la rocca, senza far loro altro danno. CAP. LXX. _Come Ruberto d’Avellino fu morto dalla duchessa sua moglie._ Vedendosi la sventurata moglie che fu del duca di Durazzo, Maria sirocchia della reina Giovanna di Gerusalemme e di Sicilia, avvilita per lo violente matrimonio contratto con Ruberto figliuolo che fu del conte d’Avellino della casa del Balzo, il quale dopo la morte del padre, come addietro avemo fatta menzione, era rimaso prigione del re Luigi; la donna, non tenendosi vedova nè maritata, pensò che per la morte di costui tornerebbe a certa veduità, e potrebbesi maritare. E assai apparve chiaro che a questo consentì il re e la reina; perocchè essendo Ruberto detto in prigione altrove, fu menato nel castello dell’abitazione reale, e collocato in una camera con certe guardie: e valicati alquanti dì, il re e la reina feciono apparecchiare e andarono a desinare e a cena agli scogli di mare, cosa nuova e disusata alla corona; e in questo dì la detta duchessa Maria rimasa nel castello prese quattro sergenti armati, e andossene alla camera dov’era il marito, e chiamatolo traditore del sangue reale, senza misericordia in sua presenza il fece uccidere; e fattagli tagliare la testa dall’imbusto, non affatto, fece traboccare dal castello in su la marina lo scellerato corpo, condotto a questo per lo malvagio pensiero del suo prosuntuoso padre. Il re e la reina tornati a Napoli si mostrarono turbati molto di questo fatto, usando parole che s’ella non fosse femmina ne farebbono alta vendetta: e il corpo che giacea senza sepoltura feciono sotterrare; e la donna rimase vedova di due mariti tagliati a ghiado in piccolo travalicamento di tempo. CAP. LXXI. _Come furono cacciati i ghibellini del Borgo._ All’entrante del mese di luglio del detto anno, i guelfi del Borgo a san Sepolcro vedendosi sottoposti a quelli della casa de’ Bogognani, caporali ghibellini e traditori di quella terra, la quale aveano sottoposta all’arcivescovo di Milano per trattato di messer Piero Sacconi, e per i patti della pace era rimasa libera sotto il dominio de Bogognani, e non potendosi atare co’ Fiorentini e’ Perugini per non fare contro a’ patti della pace, s’accostarono con Nieri da Faggiuola loro vicino e terrazzano del Borgo, non ostante che fosse ghibellino, perocchè si discordava co’ Tarlati d’Arezzo e co’ Bogognani; il quale avendo fatta sua ragunata, i guelfi del Borgo levarono il romore, e Nieri trasse colla sua gente, e messo nella terra, ne cacciarono i Bogognani e tutti i ghibellini di loro seguito, e rubarono le case degli usciti; e appresso riformarono la terra a comune reggimento di guelfi e di ghibellini, com’era loro usanza, ritenendo Nieri da Faggiuola per alcuno tempo per loro capitano con certa limitata balìa, il quale poi ne trassono, come innanzi si potrà trovare. CAP. LXXII. _Di quattro leoni di macigno posti al palagio de’ priori._ Essendo in questo tempo un uficio di priorato in Firenze, avendo poco ad attendere ad altre cose per la quiete della pace, feciono fare quattro leoni di macigno, e fecionli dorare con gran costo, e fecionli porre in su’ quattro canti del palagio del popolo di Firenze, a ciascuno canto uno. E per fare questo per certa vanagloria al loro tempo, lasciarono di farli scolpiti, e fusi di rame e dorati, che costavano poco più che quelli del macigno, ed erano belli e duranti per lunghi secoli; ma le piccole cose e le grandi continovo si guastano nella nostra città per le spezialità de’ cittadini. CAP. LXXIII. _Come Sangimignano fu recato a contado di Firenze._ Avvegnachè per operazione de’ Fiorentini la terra di Sangimignano fosse riformata in pace, e che dentro vi fossono gli Ardinghelli e’ Salvucci pacificati insieme, nondimeno nell’interiore dentro era tra loro radicata mala volontà; e non sapeano conversare insieme, e teneano intenebrata tutta la terra. I Salvucci vedendo arse e rovinate le loro nobili possessioni non si poteano dare pace, e gli Ardinghelli per l’offesa fatta stavano in paura e non si fidavano non ostante la pace, e il seguito ch’aveano avuto da’ terrazzani a cacciare i Salvucci non rispondea loro in questo nuovo reggimento come prima. Per queste dissensioni i popolani della terra conoscendo il loro male stato, e non trovando rimedio tra loro, stavano sospesi e in mala disposizione; e vedendo gli Ardinghelli il popolo commosso, e che per loro non si potea mettere alcuno consiglio che i Salvucci non si mettessono al contradio, furono consigliati di confortare il popolo, innanzi ch’altri il movesse prima di loro, di darsi liberi al comune di Firenze. E questo potea essere loro scampo, perocch’erano pochi e poveri a petto de’ loro avversari, ch’erano assai e ricchi, e conoscendo il popolo, e vedendolo disposto a volere uscire de’ pericoli, ove le discordie de’ loro maggiori gli conducea, fu agevole a muovere, e del mese di luglio 1353 feciono parlamento generale, nel quale deliberarono con molta concordia di mettersi liberamente nella guardia del comune di Firenze. I Salvucci si misono con loro amici a operare co’ cittadini di Firenze loro amici che il comune non li prendesse, dicendo, che questa era operazione di setta e non volontà del comune; ed ebbono tanto podere, che il comune non li volle prendere, dicendo, che volea l’amore e la buona volontà di tutto il comune, e non la signoria di quella terra in divisione del popolo; per la qual cosa il popolo commosso, d’ogni famiglia mandarono a Firenze più di dugentocinquanta loro terrazzani di maggiore stato e autorità, i quali s’appresentarono dinanzi a’ signori priori dicendo, come la deliberazione del loro comune era vera, e non violenta nè mossa per alcuno ordine di setta, ma di comune movimento e volontà di tutto il popolo, conoscendo non potere vivere sicuri se non sotto la giurisdizione libera e protezione del comune di Firenze, e con viva voce gridarono, e pregarono il comune di Firenze, che ricevere li volesse al loro contado, e se questo non facesse, quel comune era per disfarsi e distruggersi senza alcuno rimedio, in poco onore del comune di Firenze che l’avea a guardia. In fine i signori ne feciono proposta al consiglio del popolo, e tanto favore ebbono i Salvucci, che si metteano al contrario delle preghiere de’ loro amici da Firenze fatte a’ consiglieri, e del popolo, che quello che catuno doveva desiderare per grande e onorevole accrescimento della sua patria, avendo molti contrari al segreto squittino, si vinse solo per una fava nera; vergognomi averlo scritto, con tanto vitupero de’ miei cittadini. Vinto il partito, la terra del nobile castello di Sangimignano, e suo contado e distretto, fu recato a contado del comune di Firenze, e datogli l’estimo come agli altri contadini, e tutti i suoi cittadini e terrazzani furono fatti cittadini e popolani di Firenze a dì 7 d’Agosto del detto anno; e ne’ registri del comune furono notate le cautele e le sommissioni dette; e carta ne fece ser Piero di ser Grifo, notaio delle riformagioni del detto comune. CAP. LXXIV. _D’un segno apparve in cielo._ A dì 11 del mese d’agosto, tramonto il sole nella prima ora, si mosse da mezzo il cielo fuori del zodiaco un vapore grande infocato sfavillante, il quale scorse per diritto di levante in ponente, lasciandosi dietro un vapore cenerognolo traendo allo stagneo, steso per tutto il corpo suo, e durò nell’aria valicato il fuoco lungamente; e poi cominciò a raccogliersi a onde a modo d’una serpe; e il capo grosso stette fermo ove il vapore mosse, simigliante a capo serpentino, e il collo digradava sottile, e nel ventre ingrossava, e poi assottigliava digradando con ragione infino alla punta della coda: e per lunga vista si dimostrò in propria figura di serpe, e poi cominciò a invanire dalla coda e dal collo, e ultimamente il corpo e ’l capo venne meno, dando di se disusata vista a molti popoli. Altro non ne sapemmo di sua influenza scernere che diminuzioni d’acque, perocchè quattro mesi interi stette appresso senza piovere. CAP. LXXV. _Come fu assediata Argenta._ Essendo Francesco de’ marchesi da Este ribellato al marchese Aldobrandino signore di Ferrara e di Modena, figliuolo del marchese Obizzo; questo marchese Obizzo avea acquistato suo figliuolo Aldobrandino d’amore, avendo per moglie la figliuola di Romeo de’ Peppoli di Bologna, della quale non ebbe figliuolo, e morta la detta donna, il marchese fece legittimare questo suo figliuolo, e la madre si prese per moglie. E venendo a morte, lasciò la signoria di Ferrara e di Modena a questo suo figliuolo Aldobrandino, essendo d’illegittimo matrimonio. Il marchese Francesco figliuolo del marchese Bertoldo, a cui parea che di ragione s’appartenesse la signoria, per la qual cosa temette che ’l marchese Aldobrandino per tema della signoria nol facesse morire, e però si parti di Ferrara; ed essendo rubello, trattò con Galeazzo de’ Medici da Ferrara, ch’era potente, e del segreto consigliò del marchese Aldobrandino, e con altri cittadini di Ferrara, e per consiglio di costoro, per avere braccio forte, s’accostò con messer Malatesta da Rimini. E del mese d’agosto del detto anno messer Malatesta in persona, e il detto marchese Francesco, con cinquecento cavalieri e quattromila pedoni valicarono per le terre del signore di Ravenna con sua volontà, e improvviso furono ad Argenta. E stati quivi quattro dì, attendendo risposta da coloro con cui teneano il trattato in Ferrara, e avuto da loro come quello ch’essi credevano poter fare non vedeano venisse loro fatto, però sanza soprastare o fare alcuno danno di presente se ne partirono, dando voce che il signore di Ravenna avea chiuso il passo alla vittuaglia. E Galeazzo e altri che teneano al trattato uscirono di Ferrara, e andaronsene al gran Cane di Verona, CAP. LXXVI. _Come si temette in Toscana di carestia._ Non è da lasciare in silenzio quello ch’avvenne in Toscana in sulla ricolta, che nel contado e distretto di Firenze e d’Arezzo, e nelle più contrade, fu assai ubertosa ricolta, in quello di Siena e di Ravenna fu magra; e nondimeno sotto la vetta valse per tutto soldi quarantadue, e poi montò in soldi cinquanta lo staio fiorentino, di lire tre soldi otto il fiorino dell’oro. Temendo il comune di disordinata carestia mandò in Turchia, e in Provenza e in Borgogna a comperare grano, e molti mercati fece co’ mercatanti, che promisono di recarne di Calavria e d’altre parti del mondo, costando lo staio posto in Firenze l’uno per l’altro da soldi cinquanta in sessanta di piccioli: e se fosse venuto, come si pensava, perdea il comune di Firenze più di centomila fiorini d’oro, perocché ’l popolo mobolato, per paura della carestia passata poco dinanzi, si fornia a calca, e feciono montare il grano nella ricolta, e ristrignere i granai a chi n’avea conserva. Ma sentendosi la grande quantità che ’l comune n’avea procurata d’avere catuno temette di tenerlo, e apersono l’endiche di marzo e d’aprile del detto anno, e davano il buono grano a soldi venticinque lo staio. E venendone al comune dodicimila staia di Provenza venuto di Borgogna, il volle spacciare a soldi venti lo staio, ed essendo buono grano non si potè stribuire; e perdenne il comune fiorini trentamila d’oro, i quali investì male all’ingrato popolo: l’altro che doveva venire di Turchia e le compere fatte, come a Dio piacque, non ebbono effetto per diversi accidenti. Abbianne fatta memoria per ammaestramento di coloro c’hanno a venire, perocchè in cotali casi occorrono diversi gravi accidenti, e spesso contradi l’uno all’altro. Le grandi compere in così fatta carestia fanno pericolo di disordinata perdita, e certezza non si può avere di grano che di pelago si aspetta; ma utilissima cosa è dare larga speranza al popolo, che si fa con essa aprire i serrati granai de’ cittadini, e non con violenza, che la violenza fa il serrato occultare, e la carestia tornare in fame; e di questo per esperienza più volte occorsa nella nostra città in cinquantacinque anni di nostra ricordanza possiamo fare vera fede. CAP. LXXVII. _Come in Messina fu morto il conte Mazzeo de’ Palizzi a furore, e la moglie e due figliuoli._ Lasciando alla testimonianza del consumato regno dell’isola di Cicilia molti micidii, incendii, violenze e prede avvenuti in quello per sette e invidia del reggimento, mancando per debolezza d’età la signoria reale, diremo quello che in questo tempo, del mese d’agosto del detto anno, più notabile avvenne. Essendo il conte Mazzeo de’ Palizzi di Messina capo di setta degl’Italiani di Cicilia, contradio a quella de’ Catalani, per sua grandezza governava il giovane e poco virtuoso figliuolo di don Petro re di Cicilia, il quale per retaggio doveva essere re, e tutta la corte reggeva a contrario de’ Catalani e della loro parte per modo più tirannesco che reale; essendo l’izza e l’invidia parziale cresciuta mortalmente, alla corte mancava l’entrata, e a’ paesani la rendita e le ricchezze, e la guerra del diviso regno richiedeva aiuto di moneta; e non essendovi l’entrata, il detto conte Mazzeo gravava i Messinesi e gli altri sudditi moltiplicando gravezze sopra gravezze. I cittadini si doleano, e vedendosi pure gravare, negavano e fuggivano il pagamento, e odiavano chi guidava il fatto; il conte infocando contro a’ sudditi la sua stracotata superbia, fece decreto, che chi non pagasse fosse bandito, e dicea, che chi non volea pagare, o non poteva, ch’egli era della setta de’ Catalani; e per questo modo abbattea la sua parte, e crescea quella degli avversari. Avvenne che il popolo di Messina s’accostò col conte Arrigo Rosso e col conte Simone di Chiaramente, amendue della setta de’ Palizzi, ma portavano invidia al conte Mazzeo perch’avea troppo usurpata la signoria, e sotto titolo di dire che voleano pace, mossono il lieve popolo a gridare pace: e levato il romore, con furore corsono al palagio del re ov’abitava il conte Mazzeo: e trovandolo nella sala col giovane duca, in sua presenza uccisono lui, e la moglie e due suoi figliuoli, lasciando il duca con gran paura e tremore, e legati i capestri al collo de’ morti li tranarono per la terra vituperosamente, e poi li arsono, e la polvere gittarono al vento. E in questi medesimi dì quelli di Sciacca feciono il simigliante a’ loro maggiori della setta del conte Mazzeo predetto. Il duca, benchè fosse sicurato dal popolo, per la concetta paura prese suo tempo e andossene a Catania, accostandosi alla setta de’ Catalani. Questo repentino caso di cotanto polente usurpatore della repubblica è da notare, per esempio di coloro i quali colla destra della fallace fortuna in futuro monteranno a somiglianti gradi, di non essere ignoranti de’ nascosi aguati che nell’invidia e ne’ furori de’ non fermi stati si racchiudono. CAP. LXXVIII. _Come fu creato nuovo tribuno in Roma._ Egli è da dolersi per coloro c’hanno udito e inteso le magnifiche cose che far solea il popolo di Roma, con le virtù de’ loro nobili principi, in tempo di pace e di guerra, le quali erano specchio e luce chiarissima a tutto l’universo, vedendo a’ nostri tempi a tanta vilezza condotto il detto popolo e’ loro maggiori, che le novità che occorrono in quell’antica madre e donna del mondo non paiono degne di memoria per i lievi e vili movimenti di quella, tuttavia per antica reverenza di quel nome non perdoneremo ora alla nostra penna. Essendo il popolo romano ingrassato dell’albergherie de’ romei, e fatto e disfatto in breve tempo l’uficio de’ loro rettori, i loro principi cominciarono a tencionare del senato, e il popolo lieve e dimestico al giogo, dimenticata l’antica franchigia, seguitava la loro divisione. Faceva parte ovvero setta Luca Savelli con parte degli Orsini e co’ Colonnesi, e gli altri Orsini erano in contradio: e per questo vennero all’arme, e abbarrarono la città, e combatteronsi alle barre tutto il mese d’agosto del detto anno. In fine il popolo abbandonò d’ogni parte la gara de’ loro principi, e fece tribuno del popolo lo Schiavo Baroncelli, il quale era scribasenato, cioè notaio del senatore, uomo di piccola e vile nazione, e di poca scienza. Tuttavia, perch’egli non conosceva molto i Romani e i vizi loro, cominciò con umiltà a recare ad alcuno ordine il reggimento al modo de’ comuni di Toscana; e per partecipare il consiglio de’ popolani, per segreto squittino elesse e insaccò assai buoni uomini cittadini romani di popolo per suoi consiglieri, de’ quali ogni capo di due mesi traeva otto, e con loro deliberava le faccende del comune; e fece camarlinghi dell’entrata del comune, e cominciò a fare giustizia, e levare i popolani del seguito de’ grandi, e molto perseguitava i malfattori: sicchè alcuno sentimento di franchigia cominciò a gustare quel popolo, la quale poi crebbe a maggiori cose, come innanzi al suo tempo racconteremo. CAP. LXXIX. _Come furono sconfitti in mare i Genovesi alla Loiera._ Essendo venuto il tempo che la furiosa superbia de’ Genovesi per far guerra a’ Veneziani e Catalani avea da catuna parte apparecchiate in mare le loro forze, del mese d’agosto del detto anno i Genovesi si trovarono con sessanta galee armate, avendo per loro ammiraglio messer Antonio Grimaldi, nella quale erano tratti di tutte le famiglie la metà de’ più chiari e nobili cittadini di Genova e della Riviera, il quale ammiraglio si trasse con l’armata a Portoveneri, per non lasciare mettere scambio a’ cittadini che ’l procacciavano, dicendo, che col loro aiuto e consiglio sperava d’avere la vittoria de’ loro nimici, e aspettava lingua di loro sollecitamente. I Catalani aveano armate trenta galee tra sottili e grosse e uscieri, e venti galee alle spese de’ Veneziani, con cinquanta galee e tre grandi cocche incastellate, e armate di quattrocento combattitori per cocca, avendo caricati cavalli e cavalieri assai per porli in Sardegna, del detto mese d’agosto si partirono di Catalogna, facendo con prospero tempo la via di Sardegna, ove con l’armata de’ Veneziani si doveano raccozzare. E i Veneziani in questi medesimi dì con venti galee armate di buona gente si dirizzarono alla Sardegna. I Genovesi avuta lingua che catuna armata era in pelago, avvisarono d’abboccarsi con l’una armata innanzi che insieme si congiugnessono. E perocchè le sessanta loro galee non erano pienamente armate, lasciarono otto corpi delle sessanta, e delle ciurme e de’ soprassaglienti fornirono ottimamente le cinquantadue, e con quelle senza arresto, atandosi con le vele e co’ remi, con grande baldanza si dirizzarono alla Sardegna. Ed essendo giunti presso alla Loiera, ebbono lingua che l’armate de’ loro nimici s’erano raccozzate insieme; e passato ch’ebbono una punta scopersono l’armata de’ Veneziani e de’ Catalani, i quali s’erano ristretti insieme, e le sottili galee aveano nascose dietro alle grosse per mostrarsi meno che non erano a’ loro nimici, e ancora s’incatenarono e stavano ferme senza farsi incontro a’ Genovesi, mostrando avvisatamente paura, acciocchè traessono a loro la baldanza de’ Genovesi con loro vantaggio. I Genovesi non ostante ch’avessono perduta la speranza di non aver trovate l’armate partite, e ingannati dalla vista, che pareva loro che le galee de’ loro avversari fossono meno che non erano, e poco più che le loro, baldanzosi della fresca vittoria avuta sopra i detti loro nimici in Romania, si misono ad andare contro a loro vigorosamente. E valicata certa punta di mare, si trovarono sopra la Loiera sì presso a’ loro nimici, ch’elli scorsono ch’elli erano troppo più ch’elli non estimavano, e vidongli acconci e ordinati alla battaglia, e che presso di loro aveano le tre cocche incastellate e armate di molta gente da combattere; per la qual cosa l’animo si cambiò a’ Genovesi, e la furia prese freno di temperanza, e vorrebbono non essere sì presso a’ loro nimici, e tra loro ebbono ripitio di non savia condotta: tuttavia presono cuore e franchezza di mettersi alla battaglia, sentendosi l’aiuto del vento in poppa, e alquanto contrario a’ loro avversari, conoscendo che l’aiuto delle cocche non poteano avere durando quel vento, tuttavia più per temenza che per franchezza legarono e incatenarono la loro armata, lasciando d’ogni banda quattro galee sottili, libere d’assalire e da sovvenire all’altre secondo il bisogno. I Veneziani e’ Catalani avendo a petto i loro nimici, trassono della loro armata sedici galee sottili, e misonne otto libere da catuna parte della loro armata, la quale aveano ordinata e incatenata per essere più interi alla battaglia, ricordandosi che l’essersi sparti in Romania gli avea fatti sconfiggere; e così ordinati l’una gente e l’altra con lento passo si veniano appressando, e le libere galee cominciarono l’assalto molto lentamente, che catuno stava a riguardo per attendere suo vantaggio; e nonostante che i Veneziani e’ Catalani fossono molti più che i Genovesi, tanto gli ridottavano, che non s’ardivano ad afferrare con loro: è vero che il vento alquanto gli noiava, più per non potere avere l’aiuto delle loro cocche, che per altro, e però soprastavano. Dall’altra parte i Genovesi già impediti per lo soperchio de’ loro nimici non s’ardivano a strignersi alla battaglia, e così consumarono il giorno dalla mezza terza alla mezza nona, con lieve badalucco delle loro libere galee. I Genovesi vedendo che i loro nimici più potenti non li ardivano ad assalire, presono più baldanza, e metteronsi in ordine d’andarli ad assalire con più aspra battaglia. Ma colui che è rettore degli eserciti, avendo per lungo tempo sostenuta la sfrenata ambizione de’ Genovesi, per lieve spiramento di piccolo vento abbattè la loro superbia; che stando catuna parte alla lieve battaglia si levò un vento di verso scilocco, il quale empiè le vele delle tre cocche. I Catalani animosi contro a’ Genovesi, vedendosi atare dal vento, apparecchiate loro lance, e dardi e pietre, con ismisurato romore, levate l’ancore del mare, con tutte e tre le cocche si dirizzarono contro all’armata de’ Genovesi, e con l’impeto del corpo delle cocche sì fedirono nelle galee de’ Genovesi, e nella prima percossa ne misono tre in fondo, e seguendo innanzi, alcuna altra ne ruppono: e di sopra gittavano con tanta rabbia pietre lance e dardi sopra i loro nimici, che parea come la sformata grandine pinta da spodestata fortuna d’impetuosi venti, e molti Genovesi n’uccisono in quel subito assalto, e annegaronne assai, e più ne fedirono e magagnarono. L’armata de’ Veneziani e Catalani vedendosi fatta la via a’ loro navilii, con più ardire si misono innanzi strignendosi alla battaglia. I Genovesi, uomini virtuosi e di grande cuore, sostennono francamente il grave assalto delle cocche, atandosi con l’arme e con le balestra, magagnando molti de’ loro nemici, e alle galee rispondeano con sì ardita e folta battaglia, che per vantaggio ch’e’ loro nimici avessono non poteano sperare vittoria. Ma l’ammiraglio de’ Genovesi invilito nell’animo suo di questo primo assalto, fece vista di volere ricoverare la vittoria per maestria di guerra; e sollevata la battaglia, in fretta fece sciogliere undici galee della sua armata, e con quelle aggiunse l’otto sottili ch’erano libere dalle latora dell’armata, e diede voce di volere volgere e girare dalle reni de’ nimici: e per questa novità i Veneziani e’ Catalani ebbono paura, e sollevarono la battaglia, e stettono in riguardo, per vedere quello che le dette galee volessono fare. Ma l’ammiraglio abbandonata la battaglia, e lasciate l’altre galee insieme alla fronte de’ nimici, fece la via di Genova senza tornare all’oste, e già si cominciava a tardare il giorno. Vedendo i Veneziani e’ Catalani che l’ammiraglio de’ Genovesi non avea girato sopra loro, ma era al disteso fuggito con diciannove galee, con certezza di loro vittoria vennono sopra i Genovesi; i quali vedendosi abbandonati dal loro ammiraglio, senza resistenza chi non potè fuggire si renderono prigioni. Così i Veneziani e’ Catalani senza spandimento di loro sangue ebbono de’ Genovesi piena vittoria: ed ebbono trenta corpi di galee e più di tremilacinquecento prigioni, fra i quali furono molti nominati grandi e buoni cittadini di Genova. E morti ne furono e annegati con le ciurme più di duemila. La detta sventurata battaglia per i Genovesi fu il dì di san Giovanni dicollato, a dì 29 d’agosto del detto anno. CAP. LXXX. _Come i Catalani perderono loro terre in Sardegna._ Con piccolo travalicamento di tempo sosterremo alquanto l’altre cose, raccogliendo i fatti che nell’isola di Sardegna avvennono dopo la detta vittoria. I Catalani e’ Veneziani con la loro armata, e con le tre cocche, e con le galee prese de’ Genovesi e co’ prigioni arrivarono in Sardegna, e nella loro giunta avendo messo in terra i loro cavalieri, e gli altri soprassaglienti, e molti delle ciurme, il castello della Loiera, e ’l castello Lione, e il castello Genovese, e Sasseri e più altre terre che teneano i Genovesi s’arrenderono a’ Catalani. Avendo senza fatica fatto l’acquisto delle dette castella, aggiunte alla loro vittoria, pensarono d’acquistare tutto il rimanente dell’isola che si possedea per lo giudice d’Alborea, e con più baldanzosa che provveduta volontà, o buon ordine, se n’andarono verso Arestano, non pensando trovarvi resistenza. Ma il giudice con molta gente d’arme e con molti Sardi, i quali aveva accolti per difendere le sue terre, venne loro incontro del mese di settembre, e abboccatosi con loro, vennono alla battaglia, e furono sconfitti i Catalani; de’ quali tra nella battaglia e nella fuga rimasono morti più di millecinquecento Catalani. E per questa sconfitta, e per la mala guardia che delle terre nuovamente acquistate faceano, e per l’aspra signoria ch’usavano a’ paesani tutte si rubellarono, e ancora l’altre che prima vi teneano, sicchè tutto perderono, fuori che castello di Castro detto Caglieri: e volendole racquistare per forza, feciono maggiore oste, e un’altra volta s’abboccarono co’ Sardi e col giudice d’Alborea; e dopo lunga battaglia, i Catalani ritennono il campo e i Sardi l’abbandonarono, con pochi più morti di loro che de’ loro nimici. Onde i Catalani ebbono poco lieta vittoria, lasciando morti in questa seconda battaglia cinquecento combattitori, benchè più ne fossono morti de’ Sardi, e però non racquistarono alcuna terra: e dopo lunga dimora, del mese di novembre, avendo perduti assai de’ loro prigioni genovesi ch’erano accomandati nella Loiera, si partirono dell’isola, andandosene i Catalani in Catalogna, e i Veneziani a Vinegia a salvamento, vinti i Genovesi loro nimici, e abbassata con piena vittoria la loro superbia. CAP. LXXXI. _Come il prefetto venne a oste a Todi._ In questo tempo, la Chiesa di Roma per racquistare il Patrimonio occupato dal prefetto da Vico avea tenuto gente d’arme a Montefiascone guerreggiando il prefetto; e in questa guerra fra Moriale di Provenza, grande guerriere e nomato soldato, con sue masnade avea servito la Chiesa lungamente, senza potere avere l’intero pagamento de’ suoi soldi, e però s’accostò col prefetto, e andò dalla sua parte con quattrocento cavalieri. E vedendosi il prefetto sicuro dalla forza della Chiesa, avendo in sua compagnia i Chiaravallesi usciti di Todi, con fra Moriale e con altre sue genti d’arme di subito e improvviso se ne venne a Todi, e con lui i Chiaravallesi, i quali si sentivano tanti parenti e amici nella città, che si credeano, come fossono con forte braccio ivi presso, che li vi rimetterebbono dentro o per ingegno o per forza: ma trovaronsi ingannati, perocchè i cittadini temendo della tirannia del prefetto e de’ loro cittadini si misono alla difesa, e il prefetto e i Chiaravallesi ad assedio. Ma avendo i Todini aiuto da’ Perugini e dal comune di Firenze, che catuno vi mandò gente d’arme, il prefetto perdè la speranza d’entrare nella terra; e statovi a campo di settembre e d’ottobre, e dato il guasto intorno alla città, si partì dall’assedio con suo poco onore. CAP. LXXXII. _Come fu presa e lasciata Vicorata._ Di questo mese di settembre del detto anno, il conte Guido da Battifolle avendo accolta gente de’ suoi fedeli e del conte Ruberto, sentendo che Andrea di Filippozzo de’ Bardi signore del contado del Pozzo e di Vicorata era in bando del comune di Firenze per malificio, tenendosi gravato da lui, improvviso di mezza notte venne a Vicorata, e con alcuno trattato il dì seguente entrò in Vicorata, ed ebbe tutto il procinto, e rinchiuso Andrea e alcuni de’ fratelli nella torre, alla quale accostato il conte suoi dificii la faceva tagliare. Il comune di Firenze sentendo i suoi cittadini a quello pericolo, non ostante che fossono in bando, di presente mandarono comandando al conte Guido che lasciasse quell’impresa. Il quale udito il comandamento de’ priori di Firenze, essendo egli medesimo anco in bando del detto comune per simile modo, di presente fu ubbidiente, e non lasciando alcuna cosa torre o rubare se ne partì, e tornossi nel suo contado. La clemenza del nostro comune poco appresso fece l’una parte e l’altra venire a Firenze, e fatto fare pace tra loro, catuno per grazia trasse di bando. CAP. LXXXIII. _Come il conte di Caserta si rubellò dal re Luigi._ Il re Luigi di Gerusalemme e di Sicilia, in questo anno, il dì della Pentecoste, avea fatta solenne festa co’ suoi baroni per l’annuale rinnovellamento di sua coronazione. E in quella festa ordinò cosa nuova e disusata alla corona, ch’egli elesse sessanta tra baroni e cavalieri, i quali giurarono fede e compagnia insieme col detto re, sotto certo ordine di loro vita, e di loro usaggi e vestimenti: e fatto il giuramento, si vestirono d’una cottardita e d’un’assisa e d’un colore tutti quanti, portando nel petto un nodo di Salomone, e chi ebbe l’animo vano più magnificò la cottardita e il nodo d’oro e d’argento, e di pietre preziose di grande costo e di grande apparenza; e fu chiamata la compagnia del nodo. Il Prenze di Taranto fratello del re non v’era, ma sopravvenne, e il re gli aveva fatta fare la cottardita reale, con un nodo di perle grosse di gran valuta, e mandogliele all’ostello: il Prenze non la volle vestire, dicendo che ’l nodo del fraternale amore portava nel cuore, e donolla a suo cavaliere, la qual cosa il re non ebbe a grado. In questo tempo il duca d’Atene avea messo grande odio tra il Prenze di Taranto e ’l conte di Caserta, figliuolo che fu di messer Dego della Ratta Catalano conte camarlingo: e per questo amando il re il detto conte, e avendolo trovato leale e fedele, a instigamento del Prenze convenne che il re contra sua voglia il sbandeggiasse. Il conte si ridusse a Caserta, e tenea il Sesto e Tuliverno, e il Prenze col duca d’Atene gli andò addosso con cento cavalieri, e in persona vi venne il re con trecento e con assai popolo, volendo compiacere al fratello. E un dì stando il re nel castello di Matalona sopra lo sporto che chiamavano Gheffo, la sua gente presono un Unghero soldato del detto conte, e con tanta maraviglia il condussono al re, ch’ogni gente gli traeva dietro come s’elli avessono preso il re degli Unni; e per questa pazzia caricarono sì sconciamente il Gheffo, che gran parte n’andò a terra, ove morirono diciassette uomini, e molti se ne magagnarono. Il re ch’era un poco da parte apprendendosi col Prenze, come a Dio piacque, si ritenne in quello rimanente che del Gheffo non cadde; messer Filippo di Taranto traboccò sopra i caduti e non ebbe male. L’oste stette sopra il conte più tempo senza avere onore di cosa che vi si facesse, e straccata se ne partì. Il conte con sue masnade partita l’oste cominciò a cavalcare per Terra di Lavoro, e rubare le strade e rompere i cammini, e conturbò tutto il paese, cavalcando alcuna volta con trecento cavalieri infino presso a Napoli senza trovar contasto: e vendicata sua onta, si ritenne alle terre sue senza fare più danno o guerra. CAP. LXXXIV. _Come il cardinale legato venne a Firenze._ La Chiesa di Roma veggendo che ’l prefetto da Vico tirannescamente cresciuto aveva occupato il Patrimonio, e che novellamente avea acquistato la città d’Orvieto, il papa con deliberazione de’ cardinali mandò legato in Toscana messer Gilio di Spagna cardinale, il quale era stato al secolo pro’ e valente cavaliere e ammaestrato in guerra, acciocchè con l’aiuto degl’Italiani racquistasse le terre di santa Chiesa occupate nel Patrimonio. E datagli grande legazione il mandò per terra in Lombardia, ove dall’arcivescovo di Milano fu ricevuto a grande onore, facendogli fare per tutto suo distretto le spese con largo apparecchiamento; ma in Bologna non volle ch’egli entrasse, e però tenne la via da Pisa, e a dì 2 d’ottobre del detto anno giunse in Firenze, ove fu ricevuto con grande onore, e con solenne processione e festa, con un ricco palio di seta e d’oro sopra capo portato da nobili popolani, e addestrato al freno e alla sella da gentili cavalieri di Firenze, sonando tutte le campane delle chiese e del comune a Dio laudiamo; e condotto per la città fu albergato in casa gli Alberti, ove fece suo dimoro: e presentato dal comune confetti, e cera e biada abbondantemente, e tre pezze di fini panni scarlatti di grana, e datogli centocinquanta cavalieri in aiuto alla sua guerra, a dì 11 d’ottobre si partì, e andò a suo viaggio. E in questi dì Cetona si rubellò al prefetto, e presela il conte di Sarteano con aiuto ch’ebbe da’ Fiorentini, e poi la rassegnò al legato. CAP. LXXXV. _Rinnovazione del palio di santa Reparata._ In questi dì vacando in pace i Fiorentini, i priori vollono chiarire perchè la chiesa cattedrale di Firenze era dinominata santa Reparata, e perchè per antico costume in cotal dì s’è corso il palio in Firenze; e trovossi per alcune scritture, come Radagasio re de’ Goti, e Svezi e Vandali, avendo assalito l’imperio di Roma, e guaste in Italia molte città e consumati gli abitanti, s’era messo ad assedio alla città di Firenze con dugentomila cavalieri, essendo vescovo di Firenze il venerabile san Zenobio della casa de’ Girolami nostro cittadino, il quale avea seco due santi cappellani; e stando all’assedio, come a Dio piacque, Onorio imperadore di Grecia in Italia venne al soccorso dell’imperio di Roma, e in sua compagnia non avea oltre a tremila cavalieri; e venendo incontro a’ nimici, tanta paura gli occupò, che raccogliendosi dall’assedio, senza provvisione si misono ad entrare tra le circustanti montagne, passando tra Fiesole e Monterinaldi, e rattennonsi nella valle di Mugnone. Credesi, avvegnachè Onorio fosse fedele cristiano, che Iddio facesse questo per le preghiere di san Zenobio e de’ suoi santi cappellani. I barbari essendo rinchiusi da aspre montagne, senza acqua e senza vittuaglia, dalla gente dell’imperadore e da’ fiorentini paesani che sapeano i passi furono ristretti per modo che uscire non ne poteano. Il loro re furandosi dal suo esercito fu in Mugello preso e morto: e morendo i barbari di fame e di sete, sentendo morto il loro re, gittate l’armi s’arrenderono, e per fame e per ferro infine tutti perirono; e questo avvenne il dì della festa della vergine benedetta santa Reparata, per la cui reverenza s’ordinò e fece nuova chiesa cattedrale alla nostra città intitolata del suo nome. E perocchè i nostri antichi non erano in troppa magnificenza in que’ tempi, ordinarono che in cotal dì si corresse un palio di braccia otto d’uno cardinalesco di lieve costo a piede tenendosi al duomo, e movendosi i corridori di fuori della porta di san Piero Gattolino: e per la rinnovazione di questa memoria il comune l’ordinò di braccia dodici di scarlatto fine, e che si corresse a cavallo. CAP. LXXXVI. _Come i Genovesi si misono in servaggio dell’arcivescovo._ Nuova e mirabile cosa seguita a raccontare, in considerazione del gran cambiamento che fortuna fa degli stati del mondo. La nobile città di Genova, e i suoi grandi e potenti cittadini, signori delle nostre marine, e di quelle di Romania, e del Mare maggiore, uomini sopra gli altri destri e sperti, e di gran cuore e ardire nelle battaglie del mare, e per molti tempi pieni di molte vittorie, e signori al continovo di molto navilio, usati sempre di recare alla loro città innumerabili prede delle loro rapine, temuti e ridottati da tutte le nazioni ch’abitavano le ripe del Mar tirreno e degli altri mari che rispondono in quello, ed essendo liberi sopra gli altri popoli e comuni d’Italia, per la sconfitta nuovamente ricevuta in Sardegna da’ Veneziani e Catalani, con non disordinato danno, vennono in tanta discordia e confusione tra loro nella città, e in tanta misera paura, che rotti e inviliti come paurose femmine, il loro superbo ardire mutarono in vilissima codardia, non parendo loro potere atarsi: eziandio avendo il comune di Firenze mandato là suoi ambasciadori a confortarli, e a profferere loro con grande affezione il suo aiuto, e consiglio e favore largamente a mantenere e ricoverare loro franchigia e buono stato, tanto erano con gli animi dissoluti per quella sconfitta e per loro discordie, che non seppono conoscere rimedio al loro scampo, se non di sottomettersi al servaggio del potente tiranno arcivescovo di Milano; e di comune concordia il feciono loro signore, dandogli liberamente la città di Genova e di Savona, e tutta la Riviera di levante e di ponente, e l’altre terre del loro contado e distretto, salvo Monaco e Metone e Roccabruna, le quali tenea messer Carlo Grimaldi, che non le volle dare. E a dì 10 d’ottobre 1353, il conte Pallavicino vicario dell’arcivescovo con settecento cavalieri e con millecinquecento masnadieri entrò in Genova, ricevuto come loro signore; e disposto il doge, e ’l consiglio, e tutti gli altri reggimenti del comune, prese la signoria e il governamento delle dette città e de’ loro distretti, e aperte le strade di Lombardia con sollecitudine, procacciò abbondanza di vittuaglia a’ suoi servi, e prestanza al comune per armare alquante galee in corso, ebbe fornito il prezzo di cotanto acquisto. CAP. LXXXVII. _Come i Pisani feciono confinati._ I Pisani vedendosi il tirannesco fuoco a’ loro confini, temettono de’ loro cittadini animosi di parte ghibellina, che per invidia de’ loro reggenti avrebbono voluto la signoria dell’arcivescovo di Milano. E temendo per questo i Gambacorti e i loro seguaci perdere lo stato, di presente votarono la città d’ogni sospetto, mandando a’ confini de’ loro cittadini, e prendendo buona guardia dentro e di fuori, intendendosi co’ Fiorentini amichevolmente per la comune franchigia. In questi medesimi dì, avendo il tiranno preso sdegno contro a’ Fiorentini per gli ambasciadori ch’aveano mandati a confortare i Genovesi della loro franchigia, mosse loro lite dicendo, ch’aveano rotta la pace, perocchè non avevano disfatto Montegemmoli nell’alpe, avendo egli voluto assegnare la Sambuca e ’l Sambucone, come diceano i patti della pace, a Lotto Gambacorti come amico comune, non ostante che per lui non fosse voluto ricevere, parendogli avere osservato dalla sua parte: per la qual cosa s’accozzarono ambasciadori di catuna parte a Serezzana, e mostrato fu per ragione che per quella offerta e’ non era scusato, nè aveva adempiute le convenenze, e però i Fiorentini non erano in colpa. La cagione che acquetò l’arcivescovo fu, che non gli parve tempo utile a muovere guerra a’ Fiorentini, e però s’acquetò, e consentì alla loro ragione. Poco tempo appresso nel detto verno l’arcivescovo mise cinquecento uomini al lavorio, e fece tutto il cammino per terra da Nizza a Genova, ch’era scropuloso e pieno di molti stretti e mali passi, appianare e allargare, tagliando le pietre per forza di picconi, e facendo fare molti ponti ov’erano i mali valichi, sicchè gli uomini a cavallo due insieme, e le some per tutto il cammino potessono andare, cosa assai utile e notevole se fatto fosse a fine di bene; ma che che l’arcivescovo e’ suoi s’avessono nell’animo, a’ Provenzali n’entrò grande gelosia, e stettonne a Nizza e nell’altre terre in lunga guardia, e poco lasciavano usare quello cammino, temendo della potenza del tiranno. CAP. LXXXVIII. _Come i Sanesi ruppono i patti a Montepulciano._ Potendosi catuno dolere con ragione in se della corrotta fede odiosa a’ popoli, mercatanzia de’ tiranni, cagione nascosa di gravi pericoli, ci muove a dire con vergogna, come reggendosi il comune di Siena sotto il governamento occupato dall’ordine de’ nove, ruppono la fede promessa a’ signori di Montepulciano, essendone stati mezzani i Fiorentini e’ Perugini, e mallevadori alla richiesta di quello comune. E per giustificarsi della corrotta fede, aggiunsono una corrotta dannazione, mettendo il detto messer Niccola senza colpa in bando per traditore, acciocchè non paressono tenuti a dargli fiorini seimila d’oro che promessi gli aveano, quando diede loro la signoria di Montepulciano. Della qual cosa turbato il comune di Firenze e quello di Perugia, mandarono loro ambasciadori a Siena per far loro con preghiere addirizzare questo torto; e avuto sopra ciò più volte udienza, e menati lungamente per parole da’ signori, e straziati da’ loro consigli, insieme mostrando coll’opere la corruzione conceputa contro a’ detti comuni per lo detto ordine de’ nove. Agli ambasciadori di catuno comune fu fatta vergogna, e gittato loro addosso cavalcando per la città vituperoso fastidio, e udendosi dire dietro villane parole: a quelli di Perugia furono gittati de’ sassi, e minacciati di peggio: e così senza altro comiato, con accrescimento d’onta e di disonore, catuni ambasciadori tornarono a’ loro comuni; i quali conoscendo doppiamente essere offesi, per lo migliore dissimularono il fatto, comportando con senno la loro ingiuria. E questo avvenne del mese di febbraio del detto anno. CAP. LXXXIX. _Come si cominciò la gran compagnia nella Marca._ Il friere di san Giovanni fra Moriale, vedendo che il prefetto da Vico, con cui era stato all’assedio di Todi, nol potea sostenere a soldo, avendo l’animo grande alla preda, si propose d’accogliere gente d’arme d’ogni parte d’Italia, e fare una compagnia di pedoni con la quale potesse cavalcare e predare ogni paese e ogni uomo. E qui cominciò il maladetto principio delle compagnie, che poi per lungo tempo turbarono Italia, e la Provenza, e il reame di Francia e molti altri paesi, come leggendo per li tempi si potrà trovare. Questo fra Moriale incontanente co’ suoi messaggi e lettere mosse in Italia gran parte de’ soldati ch’erano in Toscana, e in Romagna e nella Marca senza soldo, a cavallo e a piè, dicendo, che chi venisse a lui sarebbe provveduto delle spese e di buono soldo; e per questo ingegno in breve tempo accolse a se millecinquecento barbute e più di duemila masnadieri, uomini vaghi d’avere loro vita alle spese altrui. E avendo messer Malatesta da Rimini assediata per lungo tempo la città di Fermo e condotta agli ultimi estremi, ed essendo per averla in breve tempo, fra Moriale, ricordandosi del servigio che da lui avea ricevuto quando l’assediò nel castello d’Aversa, avendo movimento da Gentile da Mogliano che tiranneggiava Fermo, e dal capitano di Forlì ch’era nimico di messer Malatesta, fidandosi alle loro promesse e a’ loro stadichi, del mese di novembre con la sua compagnia entrò nella Marca, e costrinse messer Malatesta a levarsi da oste da Fermo, e liberò la città dall’assedio, e rimasesi nel paese. E per lo nome sparto di questo primo cominciamento la compagnia crebbe e fece grandi cose in questo verno, e poi maggiori, come al suo tempo racconteremo, tornando prima all’altre cose che domandono la nostra penna. CAP. XC. _Dice de’ leoni nati in Firenze._ E’ non pare cosa degna di memoria a raccontare la natività de’ leoni, ma due cagioni ci stringono a non tacere: l’una si è, perchè antichi autori raccontano che in Italia non nascono leoni, l’altra, che dicono che i leoni nascono del ventre della madre morti, e che poi sono vivificati dal muggio della madre e del leone fatto sopra loro: e noi avemo da coloro che più volte gli vidono nascere, che il loro nascimento è come degli altri catelli che nascono vivi: all’altra parte è risposto per lo loro nascimento, più e diverse volte avvenuto nella nostra città, e in questo anno, del mese di novembre, ne nacquero in Firenze tre, de’ quali l’uno si donò al duca di Osteric, che per grazia il domandò al nostro comune; e il leone padre vedendosi tolto l’uno de’ suoi leoncini se ne diè tanto dolore, che quattro dì stette che non volle mangiare, e temettesi che non morisse. E perch’elli stavano in luogo stretto ove si batte la moneta del comune, ne furono tratti, e dato loro larghezza di case, e di cortili, e di condotti nelle case che il duca d’Atene avea fatte disfare per incastellarsi, che furono de’ Manieri, dietro al palagio del capitano e dell’esecutore in su la via da casa i Magalotti, ove stanno al largo, e bene. CAP. XCI. _Come i Romani si dierono alla Chiesa di Roma._ Il popolo romano non sappiendosi reggere per li suoi tribuni e per li rettori, sentendo il cardinale di Spagna a Montefiascone legato del papa, valoroso signore nell’arme e di grande autorità, trattò con lui d’accomandarsi alla Chiesa di Roma sotto singolare condizione e patto. E ricevuto in protezione del legato con quello lieve legame, con lui si convenne, e con furia lo mosse a far guerra e danneggiare di guasto i Viterbesi; della qual cosa, cresciuta la forza e ’l numero de’ cavalieri al legato, seguirono poi maggiori cose, come seguendo nostra materia racconteremo. CAP. XCII. _Le novità seguite in Pistoia._ Essendo ordine in Pistoia che balia per li fatti del comune non si potesse dare a’ suoi cittadini, nato da sospetto delle loro sette, trovandosi capitano della guardia per lo comune di Firenze messer Gherardo de’ Bordoni il quale favoreggiava i Cancellieri e la loro parte, era in que’ dì fatto un processo per l’inquisitore de’ paterini contro a certi cittadini di Pistoia, di che tutto il comune si gravava; e a riparare a questo, convenne che balìa si desse a certi cittadini. L’industria de’ Cancellieri, coll’aiuto del capitano, fece tanto, che la balìa fu data a certi uomini tutti della parte de’ Cancellieri, i quali intesono ad abbattere in comune lo stato de’ Panciatichi, e di presente aggiunsono al numero del consiglio del comune, che avea quaranta uomini, della parte de’ Cancellieri; e intendendo di fare più innanzi, i Panciatichi per paura, e per non essere criminati dal capitano se ne vennono a Firenze: gli altri cittadini vedendosi ingannati da quelli della balìa corsono all’arme, e abbarrarono le vie, e catuno s’afforzava per combattere e per difendere. In questo tempo de’ romori di Pistoia, messer Ricciardo Cancellieri fu notificato a Firenze per lo Piovano de’ Cancellieri suo consorto, ch’egli volea fare al comune certo tradimento. E chiamato in giudicio a Firenze l’uno e l’altro, e dato balìa per lo comune al capitano della guardia di Firenze di potere conoscere sopra la causa, furono messi in prigione, e trovato che non era colpevole messer Ricciardo, fu liberato, e ritenuto il Piovano, e mutato in Pistoia nuovo capitano. Il comune di Firenze mandò in Pistoia ambasciadori, e con loro i Panciatichi, e racquetato lo scandalo tra i cittadini, si riposarono in pace. CAP. XCIII. _Come l’arcivescovo richiese di pace i Veneziani._ L’arcivescovo di Milano avendo sottomesso a sua signoria la città di Genova e di Savona, e tutta la Riviera e il loro contado, i cui abitanti erano nimici de’ Veneziani, mandò suoi ambasciadori al doge e al comune di Vinegia, per li quali significò a quello comune come i Genovesi erano suoi uomini, e le loro città e contado erano suo distretto; e tenendosi amico de’ Veneziani, e sapendo che per addietro i Genovesi erano stati loro nimici, intendea, quando al doge piacesse e al comune di Vinegia, che per innanzi fossono fratelli e amici: e intorno a ciò usarono belle e suadevoli ragioni. Il doge e il suo consiglio presono tempo d’avere loro consiglio, e di rispondere la mattina vegnente: e venuto il giorno, di gran concordia risposono la mattina dicendo: che ’l comune di Vinegia si tenea gravato e offeso dall’arcivescovo, il quale avea preso ad aiutare i Genovesi loro capitali nemici, e però non intendeano di volere pace e concordia con lui nè col comune di Genova, ma giusta loro podere tratterebbono lui e i suoi sudditi come loro nemici. E conseguendo al fatto, incontanente feciono accomiatare e bandeggiare di Vinegia, e di Trevigi, e di tutte le loro terre e distretti tutti coloro che fossono sotto la giurisdizione dell’arcivescovo di Milano; e simigliantemente fece nelle sue terre l’arcivescovo de’ Veneziani: e così fu manifesta la guerra tra loro, del mese di novembre del detto anno, per tutta la Lombardia e Toscana. CAP. XCIV. _Come i Veneziani ordinarono lega contro al Biscione._ Incontanente che agli altri signori lombardi fu palese la risposta fatta pe’ Veneziani all’arcivescovo, il gran Cane di Verona, e’ signori di Padova, e que’ di Mantova, e il marchese da Ferrara e i Veneziani, feciono parlamento per loro solenni ambasciadori, ove si propose di fare lega insieme, e taglia di gente d’arme contro all’arcivescovo di Milano, il quale parea loro che fosse troppo montato; e non fidandosi tutti insieme di potere resistere alla grande potenza dell’arcivescovo, s’accordarono di fare passare a loro stanza l’imperadore in Italia. E dopo più parlamenti sopra ciò fatti fermarono compagnia e lega tra loro, e taglia di quattromila cavalieri, e fecionla piuvicare in Lombardia, e con grande istanza per loro segreti ambasciadori richiesono e pregarono il comune di Firenze che si dovesse collegare con loro, prendendo ogni vantaggio che volesse: ma perocchè il detto comune era in pace coll’arcivescovo, per alcuna preghiera o promessa di vantaggio che fatta fosse, non potè essere recato che la pace volesse contaminare. I collegati incontanente mandarono ambasciadori solenni in Alamagna all’imperadore, per inducerlo a passare in Lombardia contro all’arcivescovo di Milano, offerendogli tutta la loro forza, e danari assai in aiuto alle sue spese, acciocchè meglio potesse tenere la sua cavalleria; e per tutto fu divulgata la fama, che in quest’anno l’imperadore passerebbe a istanza della detta lega. Queste cose furono ferme e mosse del mese di dicembre del detto anno. E stando gli allegati in aspetto, non si provvidono di fare la gente della taglia infino al primo tempo, nè d’avere capitano; e però lasceremo al presente questa materia, tanto che ritornerà il suo tempo, e diremo di quelle che ci occorrono al presente a raccontare. CAP. XCV. _Come il conestabile di Francia fu morto._ Era messer Carlo, figliuolo che fu di messer Alfonso di Spagna, accresciuto dall’infanzia in compagnia del re Giovanni di Francia, ed era divenuto cavaliere di gran cuore e ardire, e valoroso in fatti d’arme, pieno di virtù e di cortesia, e adorno del corpo, e di belli costumi, ed era fatto conestabile di Francia, ed il re gli mostrava singolare amore, e innanzi agli altri baroni seguitava il consiglio di costui; e chi volea mal parlare, criminavano il re di disordinato amore in questo giovane: e del grande stato di costui nacque materia di grande invidia, che gli portavano gli altri maggiori baroni. Avvenne che il re Giovanni provvidde il re di Navarra suo congiunto d’una contea in Guascogna, la quale essendo a’ confini delle terre del re d’Inghilterra, era in guerra e in grave spesa per la guardia, più che ’l detto re non avrebbe voluto, e però la rinunziò, e il re poi la diede al conestabile, ch’era franco barone e di gran cuore in fatti d’arme. Il re di Navarra che già avea contro al conestabile conceputo invidia, mostrò di scoprirla, prendendo sdegno perch’egli avea accettata la sua contea, nonostante ch’egli l’avesse rinunciata. Ed essendo genero del re di Francia, con più audace baldanza, in persona, con altri baroni che simigliantemente invidiavano il suo grande stato, una notte andarono a casa sua, e trovandolo dormire in sul letto suo l’uccisono a ghiado; della qual cosa il re di Francia si turbò di cuore con ismisurato dolore, e più di quattro dì stette senza lasciarsi parlare. La cosa fu notabile e abominevole, e molto biasimata per tutto il reame, e fu materia e cagione di gravi scandali che ne seguirono, come seguendo ne’ suoi tempi si potrà trovare. E questo micidio fu fatto in questo verno del detto anno 1353. CAP. XCVI. _Come si cominciò la rocca in Sangimignano, e la via coperta a Prato._ In questo medesimo tempo, il comune di Firenze per volere vivere più sicuro della terra di Sangimignano, e levare ogni cagione a’ terrazzani suoi di male pensare, cominciò a far fare, e senza dimettere il lavorio alle sue spese, e compiè una grande e nobile rocca e forte, la quale pose sopra la pieve dov’era la chiesa de’ frati predicatori, e quella chiesa fece maggiore e più bella redificare dall’altra parte della terra più al basso. E in questo medesimo tempo nella terra di Prato fece fare una larga via coperta, in due alie di grosso muro d’ogni parte, con una volta sopra la detta via, e un corridoio sopra la detta volta, largo e spazioso a difensione; la quale via muove dal castello di Prato fatto anticamente per l’imperatore, e viene fino alla porta; ove si fece crescere e incastellare la torre della porta a modo d’una rocca; e in catuna parte tiene il comune continova guardia di suoi castellani. CAP. XCVII. _Del male stato dell’isola di Sicilia._ Assai ne pare cosa più da dolere che da raccontare, gli assalti, gli aguati, i tradimenti, gl’incendi, le rapine, l’uccisioni senza misericordia, che in questi tempi i Siciliani faceano tra loro per invidia e setta parziale, le quali maladette cose tra gli uomini d’una medesima patria ebbono tanta forza di male aoperare nell’isola, ch’abbandonata la cultura de’ fertili campi, i quali sogliono pascere gli strani popoli, de’ suoi trasse per fame più di diecimila famiglie della detta isola, i quali per non morire d’inopia, si feciono abitatori dell’altrui terre in Sardegna, e in Calabria, e nel Regno di qua dal faro. E in questa tempesta, certi baroni dell’isola contrari alla setta de’ Catalani, che governavano lo sventurato duca che s’attendea a essere re, sentendolo egli e i suoi manifestamente, trattavano di dare la maggiore parte delle buone terre dell’isola al re Luigi suo avversario, e non ebbe per lungo tempo podere d’atarsene, tanto che venne fatto, come nel principio del quarto libro seguendo si potrà trovare. CAP. XCVIII. _Come il legato del papa procedette col prefetto._ In questo verno, il cardinale di Spagna legato del papa avendo tentato il prefetto lentamente con poco prosperevole guerra, cercò con più riprese di trovare pace con lui, e fu la cosa tanto innanzi, che per tutto scorse la fama che la pace era fatta. Ma il prefetto già tiranno senza fede, vedendosi il destro, sotto la speranza della pace tolse al legato due castella, e rotto il trattato, il cominciò a guerreggiare: per la qual cosa il legato seguitò il processo fatto contro a lui, e del mese di febbraio del detto anno pronunziò la sentenza, e per sue lettere il fece scomunicare come eretico per tutta Italia; e fatto questo, conoscendo che altra medecina bisognava a riducere costui alla via diritta, che suono di campane o fummo di candele, saviamente, e senza dimostrare sua intenzione innanzi al fatto, si venne provvedendo d’avere al tempo gente d’arme, da potere fare l’esecuzione contro a lui del suo processo. E in questo mezzo, avendo dugento cavalieri del comune di Firenze e alquanti da se, fece sì continua guerra al tiranno, che poco potea resistere o comparire fuori delle mura. E avendo il prefetto preso sospetto de’ Viterbesi e degli Orvietani, che si doleano perchè la pace non era venuta a perfezione, tirannescamente volle tentare l’animo de’ cittadini di catuna città, e fare cosa da tenerli in paura. E però segretamente accolse fanti di fuori a pochi insieme, e miseli in catuna terra ne’ suoi palagi, e in un medesimo dì fece a certa gente di cui e’ si confidò levare il romore contro a se in catuna città, al quale romore alquanti cittadini in catuna terra presono l’arme, e seguitavano il grido. Il tiranno con quattrocento fanti ch’aveva armati e apparecchiati in Viterbo uscì fuori e corse la terra, uccidendo cui egli volle, e condannò e cacciò a’ confini tutti coloro di cui sospettava. E per simigliante modo fece correre la città d’Orvieto al figliuolo, e uccidere e condannare e mandare a’ confini cui egli volle. E così gli parve per male ingegno aver purgate quelle due città d’ogni sospetto, e avere più ferma la sua signoria, la quale per lo contradio, non avendo da se potenza nè aspettandola d’altrui, per questa mala crudeltà ogni dì venne mancando, come l’opere appresso dimostreranno manifestamente in fatto. CAP. XCIX. _Come si rubellò Verona al Gran Cane per messer Frignano._ Chi potrebbe esplicare le seduzioni, gl’inganni e’ tradimenti che i tiranni posponendo ogni carità, parentado e onore, pensano, ordinano, e fanno per ambizione di signoria? Certo tanti sono i modi quanti i loro pensieri, sicchè ogni penna ne verrebbe meno e stanca. Tuttavia per quello ch’ora ci occorre, cosa strana e notevole, ci sforzeremo a dimostrare l’avviluppata verità di diversi tradimenti e suoi effetti. Narrato avemo poco dinanzi come la lega de’ Veneziani con gli altri signori Lombardi era giurata e ferma contro al signore di Milano, ed essendo il signore di Mantova de’ più avvisati tiranni di Lombardia vicino dell’arcivescovo di Milano, l’arcivescovo con industriose suasioni e con grandi promesse il mosse a farlo trattare di tradire messer Gran Cane signore di Verona e di Vicenza con cui egli era in lega, ed egli per accattare la benivolenza dell’arcivescovo, dimenticato il beneficio ricevuto da quelli della Scala, che l’aveano fatto signore di Mantova, diede opera al fatto, e non senza speranza d’aoperare per se, se la fortuna conducesse la cosa ov’era la sua immaginazione. E però conoscendo egli messer Frignano figliuolo bastardo di messer Mastino, uomo pro’, e ardito d’arme, e di grande animo, accetto nel cospetto del fratello suo signore, e amato dal popolo di Verona e di Vicenza, vago di signoria, trattò con lui di farlo signore di Verona con suo consiglio, e colla sua forza e del signore di Milano. Questo sterpone tornando alla sua natura, senza fede o fraternale carità, di presente intese al tradimento del fratello, e col signore di Mantova ordinarono il modo ch’egli avesse a tenere, e l’aiuto della gente ch’egli avrebbe da lui. In questo tempo avvenne che ’l Gran Cane andò a parlamentare col marchese di Brandimborgo suo suocero per li fatti della lega, e il fratello bastardo era cognato del signore di Castelborgo, ch’era a’ confini del cammino ove il Gran Cane dovea passare; costui avvisato da messer Frignano mise un aguato per uccidere il Gran Cane, ma scoperto l’aguato, passò senza impedimento. Come messer Frignano avea ordinato, a Verona tornarono novelle come il Gran Cane era stato morto; ma innanzi che la novella venisse, messer Frignano avea mandati fuori di Verona tutti i cavalieri soldati, salvo coloro di cui s’era fidato, e che con lui s’intesero al tradimento. Pubblicata la novella in Verona come il Gran Cane loro signore era stato morto, il traditore con gran pianto fece incontanente, a dì 17 di febbraio del detto anno, raunare il popolo, e a uno giudice, cui egli avea informato, fece proporre in parlamento come il loro signore era morto, e che ’l comune di Verona rimanea in gran pericolo senza capo, avendo a vicino così possente signore com’era l’arcivescovo di Milano; e aggiunse, che a lui parea che messer Frignano prendesse il loro governamento. Il traditore ch’era presente, senza attendere ch’altri si levasse a parlamentare, o ch’altra deliberazione si facesse, si levò suso, e disse, che così prendeva e accettava la signoria. E montato a cavallo, colle masnade che v’erano corse la terra, gridando, muoiano le gabelle; e fece ardere i libri e gli atti della corte, e ruppono le prigioni. E di subito il signore di Mantova vi mandò messer Feltrino, e messer Federigo, e messer Guglielmo suoi figliuoli, e messer Ugolino da Gonzaga tutti de’ signori di Mantova con trecento cavalieri. Il signore di Ferrara ingannato del tradimento vi mandò messer Dondaccio con dugento cavalieri; ma innanzi che tutti v’entrassono, il capitano colla maggior parte di loro per contramandato si tornarono indietro scoperto l’inganno. Messer Frignano ricevuta questa gente d’arme, e accolti certi cittadini che ’l seguirono, da capo corse la terra: i cittadini non si mossono, ed egli s’entrò nel palagio dell’abitazione del signore. Messer Azzo da Coreggio ch’era in Verona se n’uscì non con buona fama. Le guardie furono poste alle porte, e la terra s’acquetò, e messer Frignano ne fu signore; la quale signoria il signore di Mantova per ingegno, e quello di Milano per ingegno e forza si credette catuno avere, come seguendo appresso diviseremo. CAP. C. _Come messer Bernabò con duemila barbute si credette entrare in Verona._ Il signore di Mantova avendo in Verona quattro tra figliuoli e congiunti con trecento cavalieri, procacciava di mettervene anche per esservi più forte che messer Frignano, a intenzione di tradire lui, e di recare a se la signoria, ma non gli potè venire fatto, perocchè sentì che l’arcivescovo di Milano, che vegghiava a questo effetto, mandava messer Bernabò cognato del Gran Cane a Verona con duemila cavalieri, temette di se, e non ebbe ardire di sfornire Mantova di cavalieri; e così per la non pensata perdè quello che avea lungamente provveduto. La novella del gran soccorso che venia da Milano, e dell’apparecchiamento di quello di Mantova sentito a Verona, generò sospetto a messer Frignano e a’ cittadini della città, e però presono l’arme, e rafforzarono le guardie, e stettono in più guardia; onde i signori che v’erano di Mantova non vidono modo di fornire loro corrotta intenzione, e però si stettono, mostrandosi fedeli a messer Frignano e alla guardia della città. In questo stante messer Bernabò con duemila barbute e gran popolo giunse a Verona, mostrando di volere ricoverare la signoria di Verona al cognato, credendo con questo trarre a se l’animo de’ cittadini, e credendo che quelli ch’aveano mossa questa novità a stanza dell’arcivescovo l’atassono entrare nella terra, e però si strinse infino alle porte, e domandava l’entrata, la quale gli fu negata; e non vedendo che dentro alcuno gli rispondesse, cominciò a combatterla; ma vedendo il suo assalto tornare invano, e sentendo la tornata di messer Gran Cane d’Alamagna, si partì del paese, e tornossi a Milano mal contento de’ signori di Mantova, ed eglino peggio contenti dell’arcivescovo, ch’aveva sconcio il loro tranello per quella cavalcata, come poco appresso dimostrarono in opera catuna parte, secondo che seguendo dimostreremo. CAP. CI. _Come messer Gran Cane racquistò Verona, e fu morto messer Frignano._ Quando messer Gran Cane cavalcava al marchese di Brandimborgo avea con seco il fratello, e sospicando di novità quando sentì l’aguato del signore di Castelborgo rimandò il fratello addietro, il quale venendo nel paese, sentì come messer Frignano avea rubellata Verona, e però se n’andò in Vicenza. La novella corse a messer Gran Cane, e vennegli essendo egli col marchese; e turbato l’uno e l’altro, il marchese francamente il confortò, offerendoli tutta la sua possa a racquistare Verona: ma perchè l’indugio a cotali cose conobbe pericoloso, di presente il fece montare a cavallo, apparecchiandoli di subito cento barbute delle sue, e colla gente ch’egli aveva da se, senza soggiorno, cavalcando il dì e la notte, se ne venne a Vicenza, e là trovò il fratello, e trovovvi messer Manno Donati di Firenze capitano di dugento cavalieri, che il signore di Padova avea mandati in suo aiuto, e trovovvi della gente del marchese di Ferrara; e sommosso il popolo di Vicenza a cotanto suo bisogno, gran parte ne menò con seco; e la notte medesima, con seicento barbute e col popolo di Vicenza se ne venne a Verona, e in sul mattino lasciò la strada, e attraversando pe’ campi entrò in Campo marzio, che è fuori della città ivi presso, murato intorno, e risponde a una piccola porta della città, la quale meno ch’altra porta si solea guardare. Quivi s’affermò messer Gran Cane, e mandò innanzi un Giovanni dell’Ischia di Firenze la notte, che procacciasse d’entrare in Verona, e facesse sentire a’ confidenti cittadini di messer Gran Cane com’egli era di fuori in Campo marzio, e accompagnollo d’uno confidente Tedesco. Costoro, non avendo altra via, si misono a notare co’ cavalli per l’Adice per venire infra la città ove mancava il muro, e in questo notare, il Tedesco poco destro del servigio dell’acqua vi rimase affogato. Giovanni dell’Ischia entrò nella terra, e andò informando e sommovendo gli amici di messer Gran Cane, avvisando come avessono a venire a quella porta in suo favore; i quali sentendo ivi fuori il loro signore, la mattina vennono con le scuri alla porta, e spezzaronla. Nondimeno le guardie ch’erano sopr’essa con le pietre e con le balestra da alto francamente la difendevano, sicchè non vi lasciarono entrare alcuno. Intanto il traditore messer Frignano essendo in sollecita guardia del fratello, e ancora di messer Bernabò, che il dì dinanzi l’avea assalito co’ suoi cavalieri, cavalcava intorno alla terra, e la mattina era montato in certa parte onde potea vedere di fuori, e guardava se messer Gran Cane venisse, che già non sapeva che fosse così dipresso, e guardando inverso Campo marzio, vide la porta piccola di Verona aperta, e dicendo, noi siamo traditi, francamente trasse con la gente sua inverso quella porta per difendere l’entrata; ma innanzi che vi giugnesse, il Gran Cane s’era tratto innanzi alla porta, e trattasi la barbuta, e fattosi conoscere a coloro che la guardavano, dicendo, io vedrò chi saranno coloro che mi contradiranno l’entrata della mia terra, e conosciuto da loro, incontanente gli feciono reverenza, e lasciarono entrare lui e la sua gente senza contasto. E sopravvenendo messer Frignano, il trovò entrato nella città con la maggior parte della gente, e avvisatolo, che bene il conosceva, nella piazza dentro dalla porta, si dirizzò verso lui colla lancia per fedirlo di posta, e tentare l’ultima fortuna: ma già era cominciato l’assalto tra i cavalieri di catuna parte aspro e forte, sicchè vedendo un cavaliere di quelli di messer Gran Cane mosso messer Frignano colla lancia abbassata verso il suo signore, gli si addirizzò per traverso, e colla lancia il percosse nella guancia dell’elmo per tale forza, come fortuna volle, che l’abbattè del cavallo a terra. Messer Giovanni chiamato Mezza Scala, vedendo messer Frignano abbattuto del destriere, scese del suo cavallo, e disse, che che s’avvegna di Verona tu morrai delle mie mani, e corsegli addosso, e con un coltello gli segò le vene, e lasciollo morto a terra. Ed in quello baratto fu morto con lui messer Paolo della Mirandola, e messer Bonsignore d’Ibra grandi conestabili. E morti costoro, l’altra gente ruppe, e assai ve ne furono morti fuggendo. Le porti della città erano serrate, e i cittadini sentendo il loro signore dentro tutti tennero con lui, e però i forestieri che v’erano furono presi e rassegnati a messer Gran Cane, il quale per la sua sollecita tornata felicemente racquistò Verona e uccise i traditori. Che se al fatto avesse messo indugio, non la racquistava in lungo tempo, o per avventura non mai, sì si venia provvedendo alla difesa lo sterpone. E questo avvenne il dì di carnasciale, a dì 25 di febbraio l’anno 1353. CAP. CII. _Come messer Gran Cane riformò la città di Verona, e fece giustizia de’ traditori._ Messer Gran Cane avendo racquistata Verona avventurosamente si fece appresentare i prigioni, e diligentemente volle investigare la verità, come i cittadini aveano acconsentito al traditore, e udita la sagacità dell’inganno, comportò dolcemente l’errore del popolo. E raddirizzato l’ordine al governamento della città, fece impiccare in sù la piazza di mezzo il mercato di Verona il corpo di messer Frignano, e ventiquattro caporali partefici al tradimento del fratello, tra’ quali fu Giovannino Canovaro di Verona grande cittadino con quattro suoi figliuoli, e Alboino della Scala suo consorto, e messer Alberto di Monfalcone grande conestabile, e Giannotto fratello di madre di messer Frignano, e due figliuoli di Tebaldo da Camino, e due medici de’ signori della Scala, e il notaio della condotta, e altri uficiali infino al numero sopraddetto. A prigione ritenne messer Feltrino da Mantova, e messer Ugolino e messer Guglielmo suoi figliuoli, e messer Federigo suo fratello, e Piero Ervai di Firenze, il quale era fatto podestà di Verona per messer Frignano, il quale si ricomperò per non essere impiccato fiorini diecimila d’oro. Guidetto Guidetti si ricomperò per simile cagione fiorini dodicimila d’oro. Messer Giovanni da Sommariva e Tebaldo da Camino vi rimasono prigioni, e a’ cavalieri soldati tolse l’armi e’ cavalli, e feceli giurare di non essere mai contro a lui, e lasciolli andare. A coloro che più singolarmente l’aiutarono in questo fatto, come fu messer Manno Donati, e que’ dell’Ischia, e quelli di Boccuccio de’ Bueri tutti cittadini di Firenze, ch’adoperarono gran cose in sul fatto, provvide di possessioni de’ traditori, e molti altri ebbono grazia da lui cittadini e forestieri. E rimaso libero signore come di prima, aontato contro al signore di Mantova, avuta gente d’arme dal marchese di Brandimborgo cavalcò sul Mantovano, e ruppe la lega, e dissimulava trattato d’allegarsi con l’arcivescovo di Milano, insino che le cose si ridussono a concordia per sollecita operazione de’ Veneziani, come al suo tempo innanzi racconteremo. CAP. CIII. _Come fu deliberato per la Chiesa l’avvenimento dell’imperadore in Italia._ Avendo l’eletto imperadore prima veduto come i comuni di Toscana l’aveano richiesto per farlo valicare in Italia, e da loro non s’era rotto, e appresso era richiesto dalla lega de’ Lombardi, e con loro tenea benevoglienza e trattato, e ancora l’arcivescovo avea appo lui continovi ambasciadori che gli offeriano il loro aiuto alla sua coronazione, per le quali cose considerò che agevolmente e senza resistenza e’ potea valicare per la corona. E però sostenendo catuna parte in speranza e in amore, mandò a corte di Roma ad Avignone per avere licenza e la benedizione papale, e i legati e ’l sussidio promesso dalla Chiesa per la sua coronazione. Gli ambasciadori furono graziosamente ricevuti dal papa, e udita la domanda dell’eletto debita e giusta, tenuti sopra ciò alquanti consigli e consistori, del mese di febbraio del detto anno, fu deliberato per lo papa e per li cardinali ch’egli avesse la licenza, e la benedizione, e i legati per la sua coronazione; altro sussidio non gli promisono. E partiti gli ambasciadori da corte, tra i cardinali ebbe divisione e tire di coloro ch’avessono la legazione per venire con lui, e per le dette tire, e perchè l’avvenimento non parea presto, si rimase la commessione de’ legati infino al tempo dell’avvenimento suo; onde si raffreddarono i procacciatori, non sentendolo ricco da trarre da lui quello che la loro avarizia prima si pensava. CAP. CIV. _D’un gran fuoco ch’apparve nell’aria._ Il primo dì di marzo, alle sei ore della notte, si mosse uno sformato fuoco nell’aria, il quale corse per gherbino in verso greco, come aveva fatto l’altro che prima era venuto col tremuoto, ma di lume e d’infiammagione non fu molto minore. A questo seguitò grande secco, perocchè infino al giugno non caddono acque che podere avessono di bagnare la terra, per la qual cosa il grano e le biade cresciute il verno e parte della primavera, e in buona speranza di ricolta, a tanto erano condotte per lo secco, che se non fosse la manifesta grazia che Madonna fece alla processione dell’antica tavola della sua effigie di santa Maria in Pineta, come al suo tempo si diviserà, erano i popoli di Toscana fuori di speranza di ricogliere grano, o biada o altri frutti in quest’anno per nutricamento di quattro mesi; e però non ci pare da lasciare in silenzio il caso di questo segno, per ammaestramento de’ tempi avvenire. Seguitò ancora l’avvenimento dell’imperadore in quest’anno in Italia e la sua coronazione, e avvenimento di grandi terremuoti, come appresso racconteremo. CAP. CV. _Di tremuoti che furono._ In questo medesimo dì primo di marzo furono in Romania grandissimi terremuoti, e nella nobile città di Costantinopoli abbatterono molti grandi e nobili edificii e gran parte delle mura della città, con grande uccisione d’uomini, e di femmine, e di fanciulli. E da Boccadone infino a Costantinopoli, su per la marina, non rimase castello nè città che non avesse grandissime rovine delle mura e degli edificii con grande mortalità de’ suoi abitanti; per la qual cosa avvenne, che i Turchi loro vicini sentendo i Greci spaventati, e senza potersi racchiudere e salvare nelle fortezze, corsono sopra loro, e presonne assai, e menaronli in servaggio: e alcuni castelli rifeciono e afforzarono, e misonvi abitatori e guardie di loro Turchi; e appresso accolsono grande esercito di loro gente, e puosonvi assedio per terra a Costantinopoli, ch’era in divisione e in tremore, ma contro a’ Turchi s’unirono alla difesa; sicchè stativi alcuno tempo senza potere acquistare la città, corsono le ville, e rubarono le contrade, e senza avere resistenza fuori delle mura si tornarono in loro paese. CAP. CVI. _De’ fatti del monte._ La fede utile sopra l’altre cose, e gran sussidio a’ bisogni della repubblica, ci dà materia di non lasciare in oblivione quello che seguita. Il nostro comune, per guerra ch’ebbe co’ Pisani per lo fatto di Lucca, si trovò avere accattati da’ suoi cittadini più di seicento migliaia di fiorini d’oro; e non avendo d’onde renderli, purgò il debito, e tornollo a cinquecentoquattro migliaia di fiorini d’oro e centinaia, e fecene un monte, facendo in quattro libri, catuno quartiere per se, scrivere i creditori per alfabeto, e ordinò con certe leggi penali, alla camera del papa obbligate, chi per modo diretto o indiretto venisse contro a privilegio e immunità ch’avessono i danari del monte. E ordinò che in perpetuo ogni mese, catuno creditore dovesse avere e avesse per dono d’anno e interesso uno danaio per lira, e che i danari del monte ad alcuno non si potessono torre per alcuna cagione, o malificio, o bando, o condannagione che alcuno avesse; e che i detti danari non potessono essere staggiti per alcuno debito, nè per alcune dote, nè fare di quelli alcuna esecuzione, e che lecito fosse a catuno poterli vendere e trasmutare, e così a catuno in cui si trovassono trasmutati, que’ privilegi, e quell’immunità, e quello dono avesse il successore che ’l principale. E cominciato questo gli anni di Cristo 1345, sopravvenendo al comune molte gravi fortune e smisurati bisogni, mai questa fede non maculò, onde avvenne che sempre a’ suoi bisogni per la fede servata trovava prestanza da’ suoi cittadini senza alcuno rammaricamento: e molto ci si avanzava sopra il monte, accattandone contanti cento, e facendone finire al monte altri cento, a certo termine n’assegnava dugento sopra le gabelle del comune, sicchè i cittadini il meno guadagnavano col comune a ragione di quindici per centinaio l’anno. Essendo i libri e le ragioni mal guidate per i notai che non gli sapeano correggere, e avevanvi commessi molti errori e falsi dati, si ridussono in mano di scrivani uomini mercatanti che gli correggessono, e corressono molto chiaramente a salvezza del comune e de’ creditori, avendo al continovo uno notaio che facea carta delle trasmutagioni per licenza del vero creditore, e poi gli scrivani gli acconciavano in su’ registri del comune, levando dall’uno e ponendo all’altro. Di questi contratti de’ comperatori si feciono in Firenze l’anno 1353 e 1354 molte questioni, se la compera era lecita senza tenimento di restituzione o nò, eziandio che il comperatore il facesse a fine d’avere l’utile che il comune avea ordinato a’ creditori, e comperando i fiorini cento prestati al comune per lo primo creditore venticinque fiorini d’oro, e più e meno com’era il corso loro, l’opinione de’ teologi e de’ legisti in molte disputazioni furono varie, che l’uno tenea che fusse illecito e tenuto alla restituzione, e l’altro nò, e i religiosi ne predicavano diversamente: que’ dell’ordine di san Domenico diceano che non si potea fare lecitamente, e con loro s’accostavano de’ romitani, e i minori predicavano che si potea fare, e per questo la gente ne stava intenebrata. Era in questi tempi in Firenze copia di maestri in teologia, fra i quali de’ più eccellenti era maestro Piero degli Strozzi de’ frati predicatori, e maestro Francesco da Empoli de’ minori; maestro Piero dicea che non era lecito contratto, e predicavalo senza dimostrarne le ragioni chiare; perchè maestro Francesco de’ minori avendo sopra ciò con grande diligenza avute molte disputazioni con altri maestri in divinità, e con dottori di legge e di decretali, al tutto chiarì, e tenne, e predicò, e scrisse ch’era lecito, e senza tenimento di restituzione a chi il facea, senza fare contro a sua coscienza; e le ragioni perchè scrisse e mandò a tutte le regole, apparecchiato a mantenere quello che predicato e scritto avea. Nondimeno i predicatori e’ loro maestri non si rimossono della loro opinione, predicando che non si potea fare lecitamente e senza restituzione; e della loro opinione non mostrarono ragione, e contro alle scritte per maestro Francesco non contradissono con alcuna ragione; e per questo a molti rimase in dubbio il detto contratto, e molti l’ebbono per chiaro accostandosi alle ragioni del maestro Francesco, e senza riprensione di loro coscienza vendevano e comperavano, facendone traffico come d’un’altra mercatanzia. Se ’l contratto si potea provare usurario, debito era a chi ’l predicava di riprovare quello che si provava in contrario, per trarre la gente d’errore; se lecitamente fare si poteva, considerato che gli uomini sono cupidi a guadagnare, male era a recare loro in sospetto, e contaminare le coscienze di quello che lecito era per non discrete predicazioni. CAP. CVI. _Di certe rivolture di tiranni di Lombardia, e di più cose per lo tradimento di Verona_ Detto abbiamo poco addietro come il Gran Cane della Scala si tenea aver perduta Verona per operazione del signore di Mantova, ed era contro a lui forte inanimato per lo fallo ch’egli avea fatto; essendo con lui nella lega s’era rotto dalla lega degli altri, e trattava d’allegarsi coll’arcivescovo di Milano e col marchese di Brandimborgo per far guerra coll’arcivescovo insieme contro a Mantova, e l’arcivescovo molto vi venia volentieri, e furono le cose tanto innanzi, che per tutto corse la voce ch’ell’era fatta. Il comune di Vinegia conoscendo che questa discordia poteva tornare a grande pericolo del loro comune e degli altri loro collegati lombardi, mandarono di loro assentimento al Gran Cane solenni ambasciadori, per rivocarlo alla lega e compagnia ch’aveano insieme, e far fare al signore di Mantova l’ammenda del suo fallo; e seguendo gli ambasciadori solennemente quello che fu loro commesso, operarono tanto, che ’l signore di Mantova fece l’ammenda come messer Gran Cane volle, e per la stima del danno ricevuto diede trentamila fiorini d’oro a messer Gran Cane, i quali promise, e pagò poi per lui il comune di Vinegia, e il signore di Mantova ne diè loro in guardia tre buone castella: e per questo modo fu fatta la pace, e lasciati di prigione que’ di Mantova, e messer Gran Cane tornò alla lega com’era in prima. Essendo raffermata la lega, ne’ porti di Mantova si trovò in un dì molta mercatanzia di Milanesi e d’altri distrettuali dell’arcivescovo, e perocchè a stanza dell’arcivescovo il signore di Mantova s’era mosso a far quello onde gli era convenuto fare ammenda di fiorini trentamila d’oro, di fatto fece arrestare tutto, e ripresesi sopra i Milanesi e distrettuali dell’arcivescovo di più che non restituì al signore di Verona, la qual cosa l’arcivescovo e’ suoi si recarono a grande onta. CAP. CVII. _Del processo della grande compagnia di fra Moriale della Marca._ Tornando alla nuova tempesta di fra Moriale e di sua compagnia, rimasi nella Marca dopo la partita di messer Malatesta dall’assedio di Fermo, cominciarono a cavalcare il paese e fare in ogni parte preda, e vinsono per forza Mondelfoglio, e le Fratte, e san Vito, e sei altre castelletta nel paese, e scorsono a Iesi, e rubarono i borghi e predarono il paese. Appresso combatterono Feltrino e vinsonlo per forza, e uccisonvi da cinquant’uomini, e perch’era pieno d’ogni bene da vivere vi dimorarono un mese. E in fra questo tempo ebbono Monte di Fano, e Monte di Fiore, e più altre castella d’intorno per paura feciono i loro comandamenti. Per la fama delle grandi prede che faceva la compagnia, molti soldati ch’aveano compiute le loro ferme, senza volere più soldo traevano a fra Moriale, e assai in prova si facevano cassare per essere con lui, ed egli li faceva scrivere, e con ordine dava a catuno certa parte al bottino, e tutte le ruberie e prede ch’erano venali facea vendere, e sicurava i comperatori, e facevali scorgere lealmente, per dare corso alla sua mercatanzia. E ordinò camarlingo che ricevea e pagava, e fece consiglieri e segretari con cui guidava tutto; e da tutti i cavalieri e masnadieri era ubbidito come fosse loro signore, e mantenea ragione tra loro, la quale faceva spedire sommariamente. E così ordinati cavalcarono, e mutavano paese, e vennono a Montelupone, il quale per paura s’arrendè loro, e stettonvi venti dì; e raunata ivi la preda fatta nel paese e la sostanza del castello, ogni cosa ne trassono senza far male agli uomini, e cavalcarono alla marina e presono Umana, e combatterono Orivolo, e non l’ebbono, e da Umana andarono sopra Ancona, e presono la Falconara a patti salve le persone. E in que’ dì ebbono otto castella che s’arrenderono loro in sull’Anconitano, fuggendo le persone, e lasciando le terre e la roba alla compagnia. Appresso tornarono sopra Iesi, e per forza ebbono Alberello ed un altro castello, e tutto recarono in preda, e poi andarono a Castelficardo pieno di molta vittuaglia, e quello combattendo vinsono per forza. E del mese di marzo presono il castello delle Staffole pieno di molto vino, ed il Massaccio e la Penna. E per tutto quel paese il residuo del verno sparsono la loro irreparabile tempesta, rubando e uccidendo, e facendo ogni sconcio male a’ paesani, e singolarmente più a’ sudditi di messer Malatesta, avendo delle sue terre quarantaquattro castella in loro servaggio, e avendo stadico un figliuolo del capitano di Forlì, e Gentile da Mogliano, per li soldi che promessi aveano alla detta compagnia. CAP. CVIII. _Come il legato prese Toscanella._ In quest’anno del mese di marzo, il cardinale di Spagna legato del papa facendo guerra col prefetto di Vico, per trattato gli tolse Toscanella, e questo fu il primo acquisto che il legato facesse contro a lui: dappoi seguitarono le cose a maggiori fatti, come seguendo nostra materia diviseremo. In questi dì, il marchese di Ferrara parendogli essere debole nella nuova signoria, perchè Francesco marchese, il quale si tenea dovere di ragione essere signore, gli s’era rubellato, o che trovasse alcuno trattato nella città contro a se, o ch’egli il contraffacesse, a che si diè più fede, cacciò di Ferrara de’ suoi fratelli e alquanti de’ maggiori cittadini, confinandoli fuori del suo distretto, e cominciò a stare più fornito di gente forestiera, e in maggiore guardia. CAP. CIX. _Come messer Malatesta si ricomperò dalla compagnia._ Essendo la compagnia di fra Moriale cresciuta di cavalieri e di masnadieri, e nutricata il verno sopra le terre che distruggea, messer Malatesta da Rimini, avvisato e provveduto in fatti di guerra, considerando la gente della compagnia, e la loro troppa sicurtà presa per non avere avversario, e il luogo dov’erano e il loro reggimento, pensò, che dove i comuni di Toscana lo volessono atare, ch’egli vincerebbe la detta compagnia; e non parendogli materia da commettere ad ambasciadori, in persona venne a Perugia, e poi a Siena, e appresso a Firenze, e mostrò a ciascun comune il pericolo che potea loro venire di quella compagnia se contra loro non si riparasse, e domandava a catuno comune aiuto di gente d’arme, e dove dato gli fosse, con ottocento barbute di buona gente ch’egli avea da se, e col suo popolo e col vantaggio ch’avea intorno a loro delle sue terre, promettea di rompere e di sbarattare la compagnia in breve tempo; e questo dimostrava per vere e manifeste ragioni; ma catuno comune avendo la tempesta da lungi se ne curava poco. I Perugini che furono prima richiesti, dissono, che in ciò seguiterebbono la volontà de’ Fiorentini, e in questo modo risposono anco i Sanesi. E venuto messer Malatesta colle lettere de’ detti comuni a Firenze, i Fiorentini udita la sua domanda gli diedono dugento cavalieri, i quali menò con seco fino a Perugia. I Perugini e’ Sanesi non vollono attenere la loro promessa, e però i cavalieri de’ Fiorentini si tornarono addietro. Messer Malatesta vedendosi abbandonato dall’aiuto de’ comuni di Toscana, e che tempo era che la compagnia potea procacciare altrove, trattò con loro, e venne a concordia di dare fiorini quarantamila d’oro alla compagnia, parte contanti, e degli altri li sicurò, dando loro per istadico il figliuolo, e si partirono del suo distretto, e promisono di non tornarvi infra certo tempo. E fatto l’accordo, e partita la compagnia, messer Malatesta cassò quasi tutti i suoi soldati, i quali di presente s’aggiunsono alla compagnia; la quale essendo molto cresciuta di baroni, e di conti e di conestabili, si cominciò a chiamare la gran compagnia, e tribolando la Marca, e la Romagna, e il Ducato, innanzi che di là si partissono rifermarono la loro compagnia per certo tempo, e tutti la giurarono nelle mani di messer fra Moriale. E benchè fra loro fossono grandi baroni alamanni, tutti vollono che il titolo della compagnia, e la capitaneria fosse in messer fra Moriale, ma dieronli quattro segretari de’ cavalieri, che l’uno fu il conte di Lando, e un barone di gran seguito ch’avea nome Fenzo di... e il conte Broccardo di.... e messer Amerigo del Canaletto; e de’ masnadieri quattro conestabili italiani. In costoro era la deliberazione dell’imprese e il segreto consiglio, e feciono altri quaranta consiglieri, e un tesoriere a cui venia tutta l’entrata delle loro prede, e questi pagava e prestava a’ comandamenti del capitano. Dato l’ordine, il capitano era ubbidito da tutti come fosse l’imperadore, e facea la notte cavalcare di lungi dal campo venticinque o trenta miglia ov’egli comandava, e il dì tornavano con grandi prede, e ogni cosa fedelmente rassegnavano al bottino. E perocchè quasi quanti conestabili avea in Italia al soldo de’ signori e de’ comuni aveano parte di loro masnade nella compagnia, erano sì baldanzosi, che di niuna gente di soldo temeano, e però tutti i comuni minacciavano se non dessono loro denari di venire sopra loro. E mandarono ambasciadori nel Regno, ed ebbono promissione dal re Luigi di quarantamila fiorini d’oro, i quali non mandò loro, di che cari gli feciono poi costare. Ebbono dal capitano di Forlì e da Gentile da Mogliano trentamila fiorini d’oro, e da messer Malatesta quarantamila. Ed essendo richiesti dall’arcivescovo di Milano di volerli conducere a suo soldo contro alla lega, e da quelli della lega contro all’arcivescovo, catuno teneano in speranza e con niuno si fermavano, e anche teneano trattato col prefetto di Vico contro al legato, e però non si potea sapere che dovessono fare, e molto manteneano bene loro credenza. E in fine del mese di maggio 1354 se ne vennono a Fuligno, e dal vescovo ebbono mercato d’ogni vittuaglia abbondevolmente. Lasceremo ora la gran compagnia che n’è assai detto, e non senza debita scusa, per la grande e pericolosa novità che ne seguì in Italia, e diremo dell’altre cose che prima ci occorrono a raccontare. CAP. CX. _D’un fanciullo mostruoso nato in Firenze._ In questo verno del detto anno nacque in Firenze nel popolo di san Piero Maggiore un fanciullo maschio figliuolo d’uno de’ maggiori popolari di quello popolo, ch’avea tutte le membra umane dal collo a’ piedi, e il viso suo non avea effigie umana; la faccia era tutta piana senza bocca, e avea un foro per lo quale messo lo zezzolo della poppa traeva il latte, e poppava, e nella superficie della testa al diritto, sopra dove doveano essere gli occhi avea due fori: e’ vivette più giorni, e fu battezzato, e seppellito in san Piero Maggiore. E poco appresso una gentile donna moglie d’un cavaliere avendo fatto un fanciullo un mese dinanzi, partorì un’altra materia di carne a modo d’un cuore di bue, di peso di libbre quindici, con alcuni dimostramenti ma non chiari d’effigie umana, senza distinzione di membri, e come questo ebbe partorito, incontanente morì la donna. CAP. CXI. _Come furono cacciati i guelfi di Rieti e da Spoleto._ De mese d’aprile, del detto anno 1354, i guelfi di Rieti avendo il governamento della città, e podestà e capitano dal re Luigi, montati in superbia per animo di parte oltraggiavano i ghibellini di quella terra, e tanto montarono gli oltraggi, ch’e’ guelfi mossono romore per cacciare i ghibellini, e catuna parte fu sotto l’arme, e di cheto senza fare altra novità s’acquetarono a quella volta; e nondimeno catuna parte rimase in gran sospetto e riguardo l’uno con l’altro, e in questo modo erano stati lungamente. Avvenne che i guelfi, avendo a loro stanza gli uficiali della terra, con ordine fatto, una domenica mattina a dì 20 d’aprile subito presono l’arme e corsono alla piazza, gridando: muoiano i ghibellini. I cittadini di quella parte temendo del subito e non pensato romore, francamente s’armarono e corsono alla piazza per difendersi, e quivi cominciò aspra e crudele battaglia, e senza alcuno riguardo uccideva e fediva l’uno l’altro, e durò assai, che niuno perdeva di suo terreno; in fine ghibellini disperati di loro salute ruppono una barra incatenata che gli dividea da’ guelfi, e con grande empito d’amaro cuore assalirono i guelfi per sì fatto modo, che gli ruppono, e senza ritegno gli seguitarono uccidendone quanti giugnere ne poteano. E in questa rotta furono morti venticinque cittadini di nome e assai più degli altri, e molti per campare si gittarono nel fiume, e sommersi annegarono in quello. I ghibellini seguendo loro avventurato caso cacciarono i rettori che v’erano per lo re Luigi, e rimasi signori della città riformarono il reggimento di quella a loro volontà, e per questa novità di Rieti furono cacciati di Spoleto i caporali guelfi che v’erano, ma non con battaglia nè a furore di popolo. LIBRO QUARTO _Comincia il quarto libro, e prima il Prologo._ CAPITOLO PRIMO. Assai si può alcuna volta comprendere per gli effetti delle cose mondane, che il senno aggiunto alla nobiltà dell’animo, all’altezza dello stato, alla ricchezza e potenza reale, operato con piena provvidenza, fornito e apparecchiato di grandissime forze, non puote pervenire nè acquistare, eziandio con sommo studio e con lieve resistenza quelle cose che con giusta causa l’appetito ha richiesto, le quali, volto il tempo pochi anni, e mutato il principe per successione, con certo mancamento di tutte le predette cose, per altre non provvedute vie della variata fortuna, trovarsi lievemente vittorioso in quelle. Onde presumere certa confidenza di se, per senno, o per virtù, o per potenza, alcuna volta con grave turbazione d’animo si trova ingannato; perocchè non è in potestà degli uomini il consiglio e la volontà di Dio. E avendoci già condotta la sua materia al cominciamento del quarto libro, alcuno certo e manifesto esempio alle predette cose in prima ci s’offera a raccontare. CAP. II. _Comparazione dal re Ruberto al re Luigi._ Manifesto fu appresso la morte del re Ruberto di Gerusalemme e di Cicilia, il quale avea regnato trentatrè anni e mesi, il cui pari ne’ suoi tempi tra’ principi de’ cristiani non si trovò di sapienza e d’intelletto, in virtù e in vita onesta, e in adornamento di bellissimi costumi, pieno di ricchezze, fornito di grande e nobile cavalleria di suoi baroni e sudditi, apparecchiato di navili sopra gli altri signori, avendo dirizzato l’animo con sommo studio a racquistare l’isola di Cicilia, la quale di ragione s’apparteneva alla sua signoria come principale membro del suo reame, con continovi trattati, con spessi e diversi assalimenti, con generali armate, guidate dalla sua persona, e dal figliuolo e da altri, di centoventi e di centosessanta galee, con molto altro navilio per volta e di più e di meno, con duemila e più cavalieri per armata alcuna volta e popolo senza numero, per molti anni cercato di racquistare la detta isola, o d’avere alcuna terra o porto in quella per potere alquanto appagare l’animo suo, la qual cosa fatta mai non gli venne con alcuna perfezione; e il re Luigi suo nipote intitolato di quel medesimo regno da santa Chiesa, povero d’avere e di consiglio, e non ubbidito da’ suoi regnicoli, impotente di gente d’arme, mal destro a potere reggere o guardare il suo reame, non che avesse potuto cercare a racquistare suo reame della Cicilia, non sufficiente d’armare dieci galee, nè di reprimere un solo suo barone a quel tempo; ma le divisioni e sette crudeli e mortali de’ baroni dell’isola, Catalani e Italiani, come già è detto, aveano a tanto condotto l’isola, che di gran parte fu fatto signore, come appresso racconteremo. CAP. III. _Come gran parte dell’isola di Cicilia venne all’ubbidienza del re Luigi._ Avendo raccontato addietro molte volte del male stato dell’isola di Cicilia, al presente ci occorre a dire come per la detta cagione don Luigi figliuolo di don Pietro, a cui s’appartenea d’essere signore, avea trattato accordo col re Luigi, ed erano venuti a concordia che si dovesse nominare re di Trinacria, e riconoscere la Cicilia dal re Luigi e fargliene omaggio, e dargliene ogni anno certa somma sopra il censo della Chiesa per suo omaggio; e a questo s’erano accordati, ma non aveano ancora piuvicata la pace nè fatte l’obbligazioni. In questo stante, il conte Simone di Chiaramonte capo della setta degl’Italiani, il quale aveva in sua forza molte città e castella dell’isola, avendo anche lungamente tenuto trattato col re Luigi acciocchè la concordia del re non si facesse, pervenne al suo trattato con l’opere. Ed essendo allora l’isola in gran fame, promise a’ suoi soccorso di vittuaglia e forte braccio alla loro difesa: i popoli per l’inopia gli assentirono, e il re Luigi si fermò con lui. E facendo suo isforzo, mandò messer Niccola Acciaiuoli grande siniscalco, ch’era stato menatore di questo trattato, con cento cavalieri e con quattrocento fanti di soldo in su l’isola, con sei galee e due panfani, e tre legni di carico, e trenta barche grosse cariche di grano e d’altra vittuaglia. Prima fu dato loro il forte castello di Melazzo, ove lasciò cinquanta cavalieri e cento fanti, e appresso con tutto il navilio e col resto della gente dell’arme se n’andò a Palermo, e con gran festa fu ricevuto da’ Palermitani, che per fame più non aveano vita, e prese la signoria della città di Palermo e la guardia del castello con quella gente ch’egli avea, e delle castella e del suo distretto. E incontanente le sette degl’Italiani fece rubellare a don Luigi e alla parte de’ Catalani, e seguirono quelli di Chiaramonte, dandosi al re Luigi la città di Trapani, e quella di Saragozza, Girgenti, la Licata, Mazzara, Marsala, Castro Gianni, e molte altre terre e castella, che in tutto furono tra città e buone terre e castella centododici, alle quali il detto re Luigi per povertà di gente e di danari non potè mandare aiuto d’alcuna forza di gente d’arme oltre a quella ch’era in Palermo e in Melazzo; ma tanta era l’impossibilità dell’altra parte, che la cosa rimase senza movimento di altra gente alcuno tempo. Alla parte del re Luigi rispondeva la Calabria, portando loro vittuaglia ond’elli aveano gran bisogno, e questo gli sostenea in fede col detto re Luigi. È vero che fu biasimato di non avere tenuto fede a don Luigi del trattato ch’avea fatto con lui per pace dell’isola, e la scusa del re fu, dicendo, che non gli avea attenuti i patti. Il vero rimase nel suo luogo, e il fatto seguì come narrato abbiamo. Questa novità fu nell’isola a dì 17 d’aprile 1354. CAP. IV. _Come l’arcivescovo cominciò guerra contro a’ collegati di Lombardia._ Vedendo l’arcivescovo di Milano che il comune di Vinegia avea rannodata e riferma la lega tra i Lombardi, innanzi che fossono forniti di gente d’arme, essendone egli a destro, fece muovere da Parma duemila barbute e gran popolo e scorrere infino a Modena, per tornare addietro e assediare Reggio; e nel Modenese trovarono cavalieri della lega ch’andavano a Reggio i quali tutti presono. E tornati a Reggio, l’assediarono del detto mese d’aprile, e all’assedio stettono poi lungamente con più bastite, e quelli della lega per lungo tempo non ebbono podere di levarlone; ma la città sostennono e difesono, sicchè non l’ebbe. CAP. V. _Come il re d’Ungheria passò con grande esercito contra un re de’ Tartari._ In quest’anno e in questo medesimo tempo, Lodovico re d’Ungheria accolse suo sforzo, e di quello di Pollonia e di quello di Prosclavia suoi uomini, e apparecchiato grande carreggio di vittuaglia, con dugento migliaia di cavalieri andando quindici dì per luoghi diserti con grande travaglio, passò nel reame d’un gran re della gesta de’ Tartari. E giunto nel reame di colui, essendo per cominciare a fare danno nel paese, il re di quello paese, ch’era assai giovane, mandò pregando quello d’Ungheria che gli desse licenza che con poca compagnia potesse venire a lui sicuramente, e impetrata la licenza, venne a lui con cento baroni molto adorni riccamente apparecchiati; e fatta la riverenza, domandò il re d’Ungheria perchè egli era venuto con forza d’arme nel suo reame, e quello ch’e’ volea da lui. Il re gli disse, ch’era venuto sopra lui perchè non era cristiano, e che volea tre cose: la prima, che divenisse cristiano con la sua gente: la seconda, che lo riconoscesse per suo maggiore: la terza, che in segno d’omaggio gli desse ogni anno certo tributo, ed egli sarebbe suo protettore. E il giovane disse: vedi re d’Ungheria, la mia forza è troppo maggiore della tua, solo del mio reame senza l’aiuto de’ miei maggiori; e faccioti certo, che condotto se’ in parte, che s’io volessi gran vittoria potrei averla di te e della tua gente: ma perocch’io ho animo di divenire cristiano, accetto di volere fare le tue domande, e intendo di farle a tempo col tuo aiuto e del papa; e rimasi in concordia, fece grande onore al re d’Ungheria, e accompagnollo fino a’ confini del suo reame. Ma in quello venire, per invidia i grandi baroni d’Ungheria non gli feciono onore, per impedire che il loro re per l’acquisto di costui non divenisse grande di soperchio, e fu materia di grande sconcio del buon volere ch’aveva il re de’ Tartari, e dell’intenzione del re d’Ungheria. CAP. VI. _De’ grilli ch’abbondarono in Barberia e poi in Cipri._ In quest’anno abbondarono in Barberia, a Tunisi e nelle contrade vicine tanta moltitudine di grilli che copersono tutto il paese, e rosono e consumarono tutte l’erbe vive che trovarono sopra la terra, e del puzzo che uscia della loro corruzione si corruppe tanto l’aria del paese, che ne seguitò grande mortalità negli uomini, e gran fame a tutta la provincia. E questa medesima pestilenza di grilli nel seguente anno occupò l’isola di Cipri per sì sconcio modo, che le strade e i campi n’erano pieni, alti da terra un mezzo braccio e più, e guastarono ciò che v’era di verde. E per cessare la pestilenza della loro corruzione il re fece per decreto, che ogni uomo grande e popolare, barone e prelato, cittadino e contadino, ne dovesse rassegnare certa misura agli ufficiali eletti sopra ciò per lo re, i quali feciono fare per campi grandi fosse, ove gli metteano e ricoprivano. E per questa legge i villani si dispuosono a fare loro civanza, e patteggiarono con gli uomini ch’aveano a fare il servigio che comandato e imposto gli era, e aveano della misura certo prezzo, e rassegnavanli per nome di colui che gli avea pagati agli uficiali deputati sopra ciò, i quali teneano il conto di catuno; e durò questa maladizione in quell’isola parecchi anni. Con tutto l’argomento che fu utilissimo ad alleggiare i campi e cessare la corruzione, fu grande noia e confusione a tutto il paese. CAP. VII. _D’una notabile maraviglia della reverenza, della tavola di santa Maria in Pineta._ Essendo per influenza di costellazione e di segni avvenuti in cielo in quest’anno continovato tre mesi o più, nel tempo che le biade hanno maggiore bisogno delle piove, continovato secco, erano quelle già in tutta Toscana aride e in estremi, da sperare sterilità e fame: i Fiorentini temendo di perdere i frutti della terra ricorsone all’aiutorio divino, facendo fare orazioni e continove processioni per la città e per lo contado, e quante più processioni si faceano più diventava il dì e la notte sereno il cielo. I cittadini vedendo che questo non giovava, con grande divozione e speranza ricorsono all’aiuto di nostra Donna, e feciono trarre fuori l’antica figura di nostra Donna dipinta nella tavola di santa Maria in Pineta, e a dì 9 di maggio 1354, fatto apparecchiamento per lo comune di molti doppieri, e mosso il chericato con tutte le religioni, col braccio di messer san Filippo apostolo, e con la venerabile testa di san Zanobi, e con molte altre sante reliquie, quasi tutto il popolo uomini e donne e fanciulli, co’ priori e con tutte le signorie di Firenze, sonando le campane del comune e delle chiese a Dio lodiamo, andarono incontro alla detta tavola infino fuori della porta di san Piero Gattolino: e la detta tavola guardavano e conducevano quelli della casa de’ Buondelmonti padroni della detta pieve reverentemente con gli uomini del piviere. E giunto il vescovo con la processione, e con le reliquie e col popolo alla santa figura, con grande reverenza e solennità la condussono fino a san Giovanni, e di là fu condotta a san Miniato a Monte, e poi riportata nel suo antico luogo a santa Maria in Pineta. Avvenne, che in quella giornata continovando la processione il cielo empiè di nuvoli, e il secondo dì sostenne il nuvolato, che per molte volte prima s’era continovo per la calura consumato, il terzo dì cominciarono a stillare minuto e poco, e il quarto a piovere abbondantemente, e conseguì l’uno dì appresso l’altro sette dì continovi un’acqua minuta e cheta che tutta s’impinguava nella terra, in singolare e manifesto beneficio di quello che bisognava a racquistare le biade e’ frutti; e non fu meno mirabile dono di grazia per l’ordinata e utile piova, che per la piova medesima. Avvenne, che dove si stimava sterilità grande per la ricolta prossima a venire, conseguì ubertosa di tutti i beni che la terra produce. CAP. VIII. _Come il vicario di Bologna mando l’oste sopra Modena con due quartieri di Bologna._ Essendo cominciata la guerra tra l’arcivescovo e la lega de’ Lombardi, messer Giovanni da Oleggio vicario dell’arcivescovo nella città di Bologna, a dì 11 di maggio del detto anno, mandò sopra la città di Modena ottocento cavalieri di soldo, e due quartieri di Bologna, i quali v’andarono sforzati e di mala voglia; e da Parma vi mandò l’arcivescovo duemila barbute; e giunti a Modena corsono il paese, ardendo e guastando il contado, e poi si puosono ad assedio alla città molto di presso. Ed essendovi stati fino all’uscita di maggio, temendo della gran compagnia di fra Moriale ch’era in Toscana, e davano voce d’andare a Bologna, subitamente abbandonarono l’assedio, e sconciamente con alcuno danno tornarono a Bologna e a Parma, avendo a’ Modenesi fatto danno assai. CAP. IX. _Come il legato e i Romani guastarono il contado di Viterbo._ Del detto mese di maggio, del detto anno, vedendo il legato la contumacia e la malizia del prefetto da Vico, e che la sua superbia ogni dì montava in vergogna di santa Chiesa, provvide che contro a lui bisognava altre operazioni che suono di campane e fumo di candele spente. E però accolse gente d’arme, tanto ch’ebbe milletrecento cavalieri di soldo, e richiese il popolo di Roma per fare il guasto sopra la città di Viterbo, i quali Romani per grande animo ch’aveano di fare danno a’ Viterbesi, essendo la gente del legato sopra Viterbo, vi mandarono diecimila uomini, e aggiunti con le masnade del legato, in pochi dì feciono assai gran danno intorno a Viterbo. E saziata in parte la volontà del popolo romano si tornarono a Roma: e il legato abbattuto alcuna parte dell’orgoglio del prefetto, e conturbato l’animo de’ cittadini contro al tiranno, se ne tornò con la sua gente a Montefiascone senza alcuno impedimento. CAP. X. _Come il prefetto s’arrendè al legato liberamente._ Il legato del papa avendo fatto guastare intorno a Viterbo, seguendo d’abbattere il prefetto, sentendolo in Orvieto vi cavalcò con tutta la sua gente d’arme, e pose l’assedio alla città strignendola intorno con più battifolli, facendo correre ogni dì infino alle porti. Il prefetto che v’era dentro mal veduto da’ cittadini, ed avea cercato di volere dare per moglie la figliuola sua al fratello di fra Moriale con gran dote per avere aiuto della sua compagnia, e averne perduta la speranza d’ogni altro soccorso, si pensò per l’odio che i cittadini d’Orvieto e di Viterbo gli portavano che un dì a furore di popolo sarebbe morto o dato preso al legato, e tosto gli sarebbe venuto fatto per la piccola forza che da se avea, e perchè gli Orvietani erano guelfi e uomini di santa Chiesa, e mal volontieri sosteneano l’assedio, per la qual cosa come uomo savio e avveduto de’ casi del mondo, non sapendo vedere altro rimedio a’ fatti suoi, si dispose a volere accordo col legato, e per questo acchetò gli animi de’ cittadini; e incontanente mandò al comune di Perugia che mandassono alcuno ambasciadore al legato, che per le loro mani voleva fare l’accordo con lui. Il comune vi mandò solenni ambasciadori a ciò fare, ma il legato altre volte ingannato da lui e da’ suoi baratti non li volle udire, e con ogni sollecitudine stringeva la terra più l’un dì che l’altro, e a niuno patto si voleva recare col prefetto. E stringendo la paura il prefetto, mandò il figliuolo al legato dicendo, che gli piacesse venire per la città, e ricevere il prefetto senza alcuno patto alla sua misericordia. L’altra mattina venne il legato colla sua gente a Orvieto, e il prefetto a piede con molti cittadini gli venne incontro fuori della città bene un miglio, e giunto a lui, si gittò a’ piedi del cavallo ginocchione domandandogli misericordia, rendendo se e tutte le terre che teneva di santa Chiesa alla sua volontà. Il legato il fece stare alquanto ginocchione, e poi gli comandò che montasse a cavallo, e montato dietro a lui se n’entrarono in Orvieto, ove il legato fu ricevuto con grande festa e allegrezza da’ cittadini. E appresso mandò il legato a Viterbo, e fugli renduta la città e le castella, e così tutte l’altre terre che tenea il prefetto, e il prefetto e ’l figliuolo rimasono appresso del legato col loro patrimonio, e oltre a ciò gli diè il legato per certo tempo la signoria della città di... terra di buona rendita per la pastura delle bestie. CAP. XI. _Come il popolo di Bologna si levò a romore per avere loro libertà, e fu in maggiore servaggio._ Del mese di giugno del detto anno, messer Giovanni da Oleggio vicario di Bologna essendo assicurato de’ fatti della compagnia intendeva di riporre l’oste a Modena, e fece comandamento a due quartieri di Bologna che s’apparecchiassono dell’armi, e a mille uomini di catuno degli altri due quartieri, per andare nell’oste a Modena. I cittadini si gravavano di questo fatto per due cagioni, l’una, perchè parea loro troppo aspro servaggio essere mandati nell’oste a modo di soldati senza soldo, e l’altra, che que’ di Modena erano loro vicini e antichi amici. E però venuto il termine assegnato, il signore fece sollecitare la gente co’ suoi bandi e stormeggiare le campane, ma però niuno s’armava o facea vista di volere andare, e reiterati i bandi con grandi pene, cominciò il popolo a mormorare, e appresso a dolersi l’uno con l’altro nelle vie e nelle piazze. In questo stante cominciarono alcuni a gridare popolo popolo; e udito il romore catuno prese l’arme, e gran parte del popolo trasse a casa i Bianchi. Il dì era venuto da ricoverare loro franchigia: perchè sentendo messer Giovanni da Oleggio il popolo armato contro a se impaurì sì forte, che non sapea che si fare, e racchiusesi nel suo castello. I soldati forestieri non faceano resistenza al popolo armato e commosso, e gran parte avrebbe seguito il popolo per paura di loro; nondimeno per non essere morti nè rubati nella terra, si ridussono e ingrossavano alla fortezza del tiranno, essendo il popolo a casa i Bianchi. Messer Iacopo uomo di grande autorità, pro’ e ardito, capo di quella casa, montato a cavallo armato, e inviato verso la piazza col popolo, ove non avrebbe trovato contasto, che non v’era, e il popolo avrebbe preso ardire, e cacciato il tiranno, e assediatolo nel castello e presolo, che non v’era rimedio, e quella città tornava in libertà, ma non erano ancora puniti i loro peccati. E però avvenne, che andando messer Iacopo de’ Bianchi col popolo infocato verso la piazza, il genero di messer Iacopo gli si fece incontro maliziosamente, ch’era de’ rientrati in Bologna, e amava il tiranno, e con mendaci parole gli mostrò, che l’andare alla piazza era di gran pericolo a lui e al popolo. Il cavaliere invilì dando fede alle parole del genero, e diè la volta, e tornossi a casa, e il popolo perdè e raffreddò il furore, e cominciò catuno ad abbandonare le vie e le piazze ov’erano ragunati per le vicinanze, e tornarsi alle proprie case. Il Bocca de’ Sabatini e altri di nuovo tornati in Bologna per paura de’ loro avversari cittadini presono l’armi, e montarono a cavallo e andarono al tiranno, dicendo, che ’l furore del popolo era tornato in paura, e che avendo le sue masnade a cavallo e a piè correrebbono la terra senza trovare contasto. Il tiranno vedendo questi cittadini prese ardire, e diè loro cavalieri e masnadieri, e rimasesi nel castello in buona guardia. Costoro corsono la terra, gridando, viva il capitano, e in niuna parte trovarono resistenza o contasto, ma vilissimamente i cittadini posono giù l’armi. Il signore ripreso l’ardire sentendo disarmato il popolo, mandò sue genti a casa i Bentivogli capo de’ beccari, ch’erano di gran podere nel popolo, e presine alquanti di loro fece rubare le case, e gli altri si fuggirono. Appresso mandò e fece pigliare messer Iacopo de’ Bianchi e un altro suo consorto, e molti altri grandi cittadini, e senza troppa dilazione o processi fece a messer Iacopo e al consorto tagliare la testa: e questo gli avvenne per voler credere al consiglio del genero più che alla sua apparecchiata salute e del suo popolo; appresso fece decapitare uno de’ Gozzadini valente uomo, e a più de’ Bentivogli e ad altri grandi popolani, che in tutto a questa volta furono trentadue, e molti ne ritenne in prigione, de’ quali parte ne condannò in danari, e un’altra a’ confini come a lui piacque. E avendosi cominciato a involgere nel cittadinesco sangue, divenne crudele e di maggiore furore contro a’ suoi sudditi; onde i cittadini temeano sì forte, che non ardivano a pena nelle loro case a favellare. Nondimeno per lo caso avvenuto, a lui entrò tanta paura in corpo, che molti mesi stette rinchiuso nel castello, e continuava ad accrescere gente, e fare maggiore guardia nella città, e i cittadini tenea sotto più aspro giogo, come leggendo si potrà trovare. CAP. XII. _Come fu tolta l’arme al popolo di Bologna._ Pochi dì appresso il tagliamento de’ cittadini di Bologna, il tiranno mandò per la città che in fra certi dì a venire catuno cittadino di Bologna portasse tutte le sue armi nella chiesa di san Piero, e rassegnassele agli uficiali che sopra ciò avea deputati, sotto certa pena a chi nol facesse: il vile popolo, che l’armi non avea saputo adoperare per sua salute, con tanta fretta le portò alla chiesa, che gli uficiali deputati a riceverle non poteano comportare la calca. E il tiranno conosciuti gli uomini tornati peggio che pecore per la loro codardia gli trattò aspramente, e fece due quartieri di Bologna costringere ad andare alle loro spese nell’oste senz’arme, e là dovessono stare quindici dì, tanto che gli altri due quartieri gli andassono a scambiare, e di presente fu ubbidito, andandovi ogni maniera di gente con le mazze in mano; e quando gli ebbe così mossi, mutò proposito temperando la crudeltà in avarizia, e fece ordine che chi non vi volesse andare pagasse lire tre di bolognini per gita di quindici dì; e costrinse tutta la città con certo ordine penale, che chi non osservasse catuno dovesse manicare pane di gabella, il quale facea fare aspro e forte, nè altro pane non s’osava fare nè cuocere nella terra, ond’egli traeva molti danari. E allora avendo tra di que’ di Bologna e che gli mandò l’arcivescovo duemila cavalieri e popolo assai, da capo ripose l’assedio alla città di Modena, e i Modenesi essendo forniti di cavalieri e di pedoni alla guardia, e d’abbondanza di vittuaglia, si stavano a guardare le mura, attendendo il soccorso di quelli della lega. CAP. XIII. _Come il legato ebbe la città d’Agobbio._ Di questo mese di giugno del detto anno, ragunatisi insieme gli usciti d’Agobbio con loro amistà per andare a guastare il contado d’Agobbio, richiesono il legato d’aiuto; il legato comandò loro che non si movessono senza suo comandamento, dicendo, che non sarebbe onore di santa Chiesa ch’egli assalisse prima la città ch’egli la trovasse in colpa di disubbidienza o di ribellione: e però incontanente fece formare processo contro a Giovanni di Cantuccio il quale tirannescamente avea occupata quella terra, e mandogli comandando che restituisse la città d’Agobbio a santa Chiesa senza dilazione, altrimenti aspettasse la sentenza contro a se, e l’oste sopra la città senza indugio. Giovanni sentendosi povero di danari, e senza gente d’arme da potersi difendere, e odiato da’ cittadini dentro, e senza speranza di soccorso di fuori, e vedendo il legato potente e vittorioso, prese partito, e rispose, ch’era apparecchiato a ubbidire, e così fece; e il legato mandò a prendere la guardia e la signoria della città il conte Carlo da Doadola, e fecevelo suo vicario, il quale con pace fu ricevuto nella città a grande onore. E presa la signoria della terra vi rimise gli usciti senza niuno scandalo, salvo messer Iacopo Gabbrielli come gli fu imposto, perocch’era grande e sentia del tiranno. Giovanni si presentò al legato, e rimase appresso di lui, e messer Iacopo ch’era suo nemico stando fuori d’Agobbio prendea sue civanze nelle rettorie, malcontento di non potere ritornare in Agobbio. La città fu riformata in libertà del popolo al governamento di santa Chiesa, come per antico si solea governare. CAP. XIV. _Come i Perugini non tennono fede a’ Fiorentini e’ Sanesi._ Tornando nostra materia a’ fatti della compagnia di fra Moriale la quale avea vernato nella Marca, temendo i comuni di Toscana ch’ella non si stendesse sopra loro sprovveduti, s’accolsono insieme a parlamento per loro ambasciadori, il comune di Firenze, e di Perugia, e quello di Siena, e feciono e fermarono lega e compagnia contro la detta compagnia, e taglia di tremila cavalieri; e perocch’ell’era più vicina a Perugia, i Fiorentini mandarono la maggior parte de’ cavalieri che toccava loro della taglia, e metteano in concio di mandare loro il rimanente, e così aveano fatto i Sanesi, per riparare ch’ella non entrasse in Toscana. In questo tempo, del mese di giugno del detto anno, la compagnia fu a Fuligno, e senza fare danno, ebbono dal vescovo che n’era signore derrata per danaio, e licenza d’entrare nella città senz’arme chi volea panni, o arnese o armadure comperare, e ivi si rifornirono d’armadure e di molte altre cose di che aveano grande bisogno. E stando ivi, mandarono cautamente per rompere la lega loro ambasciadori a Perugia, dicendo, che gli aveano per amici, e non intendeano di volere da loro se non vittuaglia derrata per danaio, e il passo per lo loro terreno. I Perugini vedendosi potere levare la compagnia da dosso senza loro danno, ruppono la fede della lega promessa a’ Fiorentini e a’ Sanesi, e senza significare loro alcuna cosa, o rimandare addietro i cavalieri a’ detti comuni ch’aveano della taglia, s’accordarono con la compagnia, e diedono il passo e la vittuaglia abbondantemente. Messer fra Moriale vedendosi avere rotta la lega de’ comuni, baldanzosamente venne verso Montepulciano con la sua compagnia, e prese la via per Asciano, ed entrò molto subitamente nel contado di Siena, predando e pigliando uomini e bestiame. I Sanesi vedendo la compagnia sul loro contado non attesono alla lega ch’avessono co’ Fiorentini, nè a domandare loro aiuto o consiglio, ma di presente elessono de’ loro cittadini ch’andassono a fra Moriale e agli altri maggiori della compagnia a prendere accordo con loro, i quali di presente promessono a’ caporali in segreto per le loro persone fiorini tremila d’oro, e in palese per la compagnia ne promisono tredicimila, e la vittuaglia derrata per danaio, e il passo per lo loro terreno. Questa è la fede che ora e molte altre volte il comune di Firenze ha trovata nelle leghe o compagnie c’ha fatto co’ suoi vicini, che trovando loro vantaggio lo s’hanno preso. E dolendosene poi il comune di Firenze a Perugia e a Siena, hanno risposto, che il comune di Firenze non dee guardare a’ loro difetti, ma avere senno e per se e per loro. Siamo contenti di ricordarlo qui e altrove per esempio di quello che ancora ne potrà avvenire. Fornito per lo comune di Siena il pane che domandarono, e dati de’ loro cittadini a conducere la compagnia, presa la via per Monte a san Savino, condussonli in sul contado d’Arezzo. E non trovando con gli Aretini modo d’avere danari, s’accordarono con loro d’avere panno e vestimento, e calzamenti e vino per li loro danari, perocchè n’aveano grande bisogno, e sicurarono il contado, e senz’arme entrarono nella terra per le dette cose; non riguardando però le biade de’ campi per li loro cavalli, nè l’altre cose che potessono giugnere, senza fare gualdane o saccomanno. CAP. XV. _Come procedettono i rettori di Firenze in questa sopravvenuta tempesta della compagnia di fra Moriale._ In questo tempo si trovò fornito il comune di Firenze al priorato d’uomini senza sentimento di virtù, golosi e sopra ogni sconvenevolezza corrotti nel bere, e massimamente de’ nove i sei. Costoro disordinati in se, non sapeano provvedere al soccorso del comune; tuttavia per gli altri collegi fu provveduto in fretta di fare lega e compagnia co’ Pisani, per prendere riparo contro alla compagnia, e dovea il comune di Firenze avere in taglia milledugento cavalieri, e i Pisani ottocento. E fatta la lega, catuno avea quasi il novero de’ suoi cavalieri. La compagnia essendo ad Arezzo avea in animo d’andare al soldo in Lombardia, e per questa cagione mandarono alcuno ambasciadore al comune di Firenze per avere titolo d’essere in accordo col detto comune, e lieve cosa che ’l comune avesse dato loro sarebbono stati contenti per seguire loro viaggio: i priori indiscreti se ne feciono beffe, e però non provvidono come con tanto fatto richiedea. Ma i Valdarnesi per paura della ricolta, non ostante che ancora non fosse in perfetta maturità, s’affrettarono di levarla de’ campi e riducerla nelle castella; e la frontiera del Valdarno fu fornita di cavalieri e di fanti assai bene alla guardia. La compagnia vedendo che i Fiorentini per lieve cosa non si voleano accordare con loro, cambiarono proponimento, e vedendo che il Valdarno era provveduto contra loro, si tornarono a Siena. I Sanesi diedono loro da capo il pane, e il passo e la guida di loro cittadini, e in calen di luglio del detto anno l’ebbono condotta ne’ borghi di Staggia, e ivi si stesono fino alla Badia a Isola sopra l’Elsa. Là si trovarono settemila paglie di cavalieri, che cinquemila o più erano in arme cavalcanti, fra i quali avea grande quantità di conestabili e di gentili uomini diventati di pedoni bene montati e armati, con più di millecinquecento masnadieri italiani, e oltre a costoro più di ventimila ribaldi e femmine di mala condizione seguivano la compagnia per fare male, e pascersi della carogna. E nondimeno per l’ordine dato loro per fra Moriale grande aiuto e servigio n’avea, principalmente i cavalieri e’ masnadieri, e appresso tutto l’esercito. Le femmine lavavano i panni e cocevano il pane, e avendo catuno le macinelle, che fatte avea loro fare di piccole pietre, catuno facea farina, e per questo l’oste si mantenea incredibilmente in abbondanza di farina e di pane, solo per la provvisione e ordine dato per fra Moriale. CAP. XVI. _Come si provvedde a Firenze contra la compagnia._ Essendo la compagnia a Staggia, i Fiorentini richiesono i Pisani della taglia loro per la lega fatta, che doveano essere ottocento cavalieri, e mandarono un loro cittadino con un gran gonfalone con meno d’ottanta barbute; e richiesti ancora i Perugini e’ Sanesi di cavalieri della taglia, o almeno d’alcuna parte d’aiuto, catuno comune rispose ch’erano d’accordo con la compagnia, e non manderebbono gente d’arme contro a quella: e vedendosi il comune da tutti gli amici ingannato, e da non potere resistere alla compagnia, fece suoi ambasciadori e mandolli a Staggia alla compagnia per accordarsi e dare loro danari, ed eglino non entrassono sul contado di Firenze. Giunti gli ambasciadori a fra Moriale e al suo consiglio, furono ricevuti da loro senza avere risposta; e incontanente a dì 4 di luglio si misono in via, e senza arresto furono ne’ borghi di san Casciano, e correndo le contrade d’attorno, facendo preda e ardendo ove a loro piacea senza trovare contasto, e stettono fino a dì 10 del detto mese senza venire ad accordo; allora fatti doni a’ caporali di fiorini tremila d’oro, vennono a composizione di dare alla compagnia venticinquemila fiorini d’oro. Gli ambasciadori pisani, innanzi che la tempesta rompesse sopra loro, al detto luogo di san Casciano s’accordarono con loro di dare fiorini sedicimila d’oro, e a’ caporali feciono doni. E avuta la condotta da’ Fiorentini per la Val di Robbiana, condotti a Leona ebbono il pagamento de’ detti comuni, e fatta la promissione, e le cautele e il saramento di non tornare in sul contado di Firenze nè di Pisa infra due anni, se n’andarono alla Città di Castello, ove stettono tanto ch’ebbono quello che restava a dare loro messer Malatesta da Rimini capitano di Forlì, e Gentile da Mogliano, e partita tra loro la moneta, presono la ferma d’essere con la lega di Lombardia contro al signore di Milano per centocinquantamila fiorini in quattro mesi. E rifermata e giurata da capo sotto i loro capitani s’avviarono in Lombardia, e fra Moriale con licenza degli altri caporali accomandò la compagnia al conte di Lando e fecenelo suo vicario, ed egli se n’andò a Perugia, per provvedere come alla tornata della compagnia e’ potesse in Italia maggior male aoperare, e da’ Perugini fu ricevuto onoratamente, e fatto cittadino di Perugia. CAP. XVII. _Come fu morto messer Lallo._ Per larga sperienza di molti anni si vide, che messer Lallo dell’Aquila, uomo di piccola nazione, per sua industria prima cacciati gli avversari della città dopo la morte del re Ruberto tenne la signoria della terra come un dimestico popolare e compagnevole tiranno, e seppe sì piacevolmente conversare co’ suoi cittadini, che catuno il desiderava a signore, e al tutto aveano dimenticata la signoria reale, ma egli saviamente mantenea il titolo del capitanato della terra alla corona, facendovi venire cui egli volea, nondimeno ciò che occorreva di grave nella città tornava a ser Lallo. E non avendo il re podere nella città più che ser Lallo si volesse, per molti modi in diversi tempi cercò d’abbatterlo, e non gli venne fatto, e però cercò la via de’ beneficii, e fecelo conte di Montorio, e diegli terre in Abruzzi, ed e’ le si prese, e mostrò di volere fare dell’Aquila la volontà del re; ma con astuzia e senno dissimulando col re tenea l’Aquila continovamente al suo segno. E stando le cose in questi termini, messer Filippo di Taranto fratello del re Luigi venne in Abruzzi, e ricettato nell’Aquila da messer Lallo con grande onore, dopo alquanti dì messer Filippo ragionò con messer Lallo, ch’egli farebbe rendere pace a’ figliuoli di messer Todino suoi nimici, i quali erano sbanditi dell’Aquila, e intendea fermare la pace con amore e con parentado, e con grande istanza il pregò che li dovesse ricevere nell’Aquila con buona pace. Messer Lallo sentendosi in grande amore co’ suoi cittadini, mostrò di poco temere i suoi avversari, e di volere servire messer Filippo accettando la pace e la loro tornata nell’Aquila. Messer Filippo semplicemente con alcuni suoi scudieri li facea venire in Aquila, ed essendo già presso alla città, il popolo si levò a romore, e prese l’arme gridando, viva il conte, e corsono alle porte e serraronle. Messer Filippo sentendo il romore temette di sè, ma messer Lallo fu subitamente a lui, confortandolo e scusando sè, che questo non era sua fattura ma del popolo, per tema ch’avea de’ figliuoli di messer Todino se rientrassono in Aquila. Messer Filippo turbato di questo baratto si mise in concio di partire, e la mattina vegnente fu in cammino. Messer Lallo accompagnandolo s’allungò dalla città tre miglia, offerendosi a messer Filippo e scusandosi del caso avvenuto; e volendosi tornare all’Aquila, e prendere congio da messer Filippo, per fargli la reverenza all’usanza reale scese del suo cavallo, e com’era ordinato, parlando messer Filippo con lui, e usando parole di minacce, uno scudiere il fedì d’uno stocco, e un altro appresso, e ivi a’ piè di messer Filippo fu morto messer Lallo per troppa confidanza, perdendo il senno e la malizia tanto tempo usata nel suo reggimento. Messer Filippo non s’arrestò per tema di quel popolo e del suo furore, ma senza alcuno soggiorno tornò a Napoli, e gli Aquilani feciono gran lamento della morte di messer Lallo, ma non essendovi il secondo, ritornarono senza contasto alla consueta signoria reale; e questo avvenne di giugno 1354. CAP. XVIII. _Come il re di Spagna cacciata la non vera moglie coronò la legittima._ In questo tempo del detto anno, avendo il giovane re di Spagna per moglie la figliuola di messer Filippo di Borbona della casa di Francia, lasciandosi vincere e menare al disordinato appetito, avendola già tenuta un anno, corruppe il degno sagramento del matrimonio, e seguitando il modo de’ bestiali saracini con cui conversava, prese per sua moglie e sposò un’altra donna cui egli amava, nata della casa di Padiglia di Castella, chiamata Maria, con la quale si copulò con tanta disordinata concupiscenza carnale, che molte dissolute e sconce cose ne faceva, e la legittima moglie non volea vedere; la quale vedendosi a sconcio partito, prese segretamente sue damigelle e alquanti confidenti di sua famiglia, e senza saputa del re si tornò in Francia, richiamandosi al re, e al padre e agli altri baroni dell’ingiuria ricevuta dal suo marito; e udita in Francia la sconcia novella, il re e tutti i baroni se ne sdegnarono forte, e proposono d’andare in Spagna con forte braccio per gastigare il re della sua follia. I baroni di Spagna e le comuni a cui dispiacea questo fatto, sentendo le novelle di Francia, di concordia se n’andarono al re, e ripresonlo duramente d’avere per sua sconcia volontà d’una privata femmina fatta tanta vergogna alla casa di Francia e alla loro reina, dicendogli, che se non ammendasse il suo fallo, che sarebbono in aiuto al re di Francia per ricoverare il suo onore. Il giovane re riconobbe il suo fallo, e disposesi di presente a seguitare il loro consiglio; e alla non degna moglie, per appagare la legittima, le feciono tagliare i panni per lungo infino alla cintola a loro costuma, e con vergogna la mandarono via, e tornata la moglie, con gran festa feciono coronare lei e pacificare col re, e quella notte giacque con la reina Bianca sua moglie. Ma, o che fosse affatturato, o occupato nella mente del troppo peccato, la mattina per tempo le si levò da lato, e senza fare assapere altrui alcuna cosa cavalcò con piccola compagnia e andossene alla terra dov’era dama Maria di Padiglia, e d’allora innanzi non volle mai vedere la reina Bianca; e perch’ella non si partisse la fece mettere in Briscia suo forte castello, e ivi bene guardare, la quale per grave sdegno, o per dolore, o per malinconia, o per operazione del re, che ne fu sospetto, o per malizia naturale, innanzi tempo nella sua giovanezza finì sua vita, della quale il re ebbe più piacere che doglia, e vilmente la fece seppellire. Avvenne ancora, che vivendo la reina e dama Maria, il detto re Pietro, non senza sentimento della saracinesca consuetudine, innamorato d’una giovane donna vedova di Castella di grande lignaggio, la si prese a moglie; e quando con lei ebbe saziata sua sfrenata libidine, la cacciò via, e ritennesi alla sua dama Maria, della quale ebbe un figliuolo maschio e due femmine, e poi sopra parto si morì, poco appresso della reina, di cui il re si diè grave turbazione, e il corpo suo fece imbalsamare, e portare venticinque giornate di lungi da Sibilia alla sepoltura ch’ella s’avea eletta, e il re, e per amore del re i suoi baroni se ne vestirono a nero. Avemo raccolto qui il processo della moglie e dell’altre femmine del re, per non istendere in più parti del nostro trattato la vile materia. CAP. XIX. _Come i collegati di Lombardia condotta la compagnia mandarono all’imperadore._ Il comune di Vinegia, e il signore di Verona, e quello di Padova, e quello di Mantova, e il marchese di Ferrara, collegati insieme contro l’arcivescovo di Milano, avendo condotta per quattro mesi la compagnia del conte di Lando, la quale era cinquemiladugento paghe, ma non avea oltre a tremilacinquecento cavalieri bene armati, la quale era partita dalla Città di Castello, e cavalcata sul contado di Bologna facendo danno, se n’andarono a Modena, dov’erano le bastite del signore di Milano, le quali non ebbono podere di levare, e lasciatovi l’assedio cavalcarono in sul Bresciano. I collegati vedendosi forniti di gente da potere campeggiare, mandarono ambasciadori, del mese di luglio del detto anno, all’eletto imperadore, con cui avevano fatto accordo per farlo valicare in Lombardia contro all’arcivescovo di Milano, e dove ricusasse la venuta, volevano essere liberi delle loro promesse. In questo tempo l’imperadore era in discordia col marchese di Brandimborgo, e catuno aveva accolto gente d’arme, e con l’eletto era il duca d’Osteric e molti cavalieri del re d’Ungheria, e credettesi si conducessono a battaglia: ma la questione avea lieve cagione di sdegno, sicchè tosto si recò a concordia, e l’eletto imperadore per l’animo ch’avea di valicare in Italia fu più abile alla pace, e ferma, catuna gente d’arme si tornò in suo paese; e senza sospetto de’ fatti d’Alamagna l’eletto si tornò in Boemia, e deliberò per lo modo che a lui piacque di valicare in Lombardia, e con seco ritenne parte degli ambasciadori della lega infino al suo movimento. CAP. XX. _Come i Bordoni furono cacciati di Firenze, e sbanditi per ribelli._ Era avvenuto del mese di Luglio del detto anno in Firenze, che essendo la compagnia di fra Moriale a Sancasciano, i Bordoni, de’ quali era capo messer Gherardo di quella casa, tenendosi essere ingannati da’ Mangioni e da’ Beccanugi loro vicini per lo dicollamento di Bordone loro consorto, e vedendo la città sotto l’arme e in gelosia, con loro gente accolta cominciarono prima con parole e poi con l’arme ad assalire i Mangioni; e rimettendoli per forza nelle case, in quell’assalto la moglie d’Andrea di Lippozzo de’ Mangioni ebbe d’una lancia sopra il ciglio, ond’ella si morì poco appresso. A quello romore corse d’ogni parte il popolo armato, e i priori vi mandarono la loro famiglia, e feciono acquetare la zuffa. Poi partita la compagnia, e ritornata la città al primo governamento, parendo al comune il fallo essere grave in così fatto tempo contro alla repubblica, fu commesso all’esecutore degli ordini della giustizia che ne facesse inquisizione, e punisse i colpevoli; i Beccanugi e’ Mangioni andarono dinanzi e scusaronsi, e furono prosciolti e lasciati, e i Bordoni rimasono contumaci; e a dì 2 d’agosto, nel detto anno, messer Gherardo con quattro suoi consorti e con dodici loro seguaci furono condannati, per avere turbato il buono e pacifico stato del comune di Firenze e per l’omicidio, tutti nell’avere e nelle persone, e uscironsi di Firenze, e i loro beni furono guasti e messi tra i beni de’ rubelli. CAP. XXI. _Come il re d’Araona venne con grande armata a racquistare Sardegna._ Il re d’Araona, che l’anno dinanzi avea perduta tutta la Sardegna salvo che Castello di Castro, come addietro fu narrato, fatta sua armata di centosessanta tra galee e uscieri, cocche e navi armate, con grande cavalleria di suoi Catalani e molti mugaveri a piede, del mese di luglio del detto anno arrivò in Calleri, che altro non v’aveva, e lasciato ivi il navilio grosso, e messi in terra i cavalieri e i mugaveri, fece scorrere il paese e predare dovunque si stendeva, e con le galee sottili per mare e i cavalieri per terra s’addirizzò alla Loiera, nella quale aveva balestrieri genovesi, e masnadieri toscani e lombardi, che il vicario dell’arcivescovo signore di Genova v’avea mandati alla guardia, che francamente la difendevano e guardavano; e continuandovi l’assedio, nondimeno per mare con le galee, e per terra con la gente d’arme, faceano guerra all’altre terre e castella che ubbidivano al giudice d’Alborea, e il giudice fornito de’ suoi Sardi e di cavalieri condotti di Toscana si difendea francamente per modo, che delle sue terre non gli lasciava alcuna acquistare: e aveva in suo aiuto l’aria sardesca e ’l tempo della fervida state, che molto abbattea i Catalani di malattie e di morte; non ostante ciò, il re animoso mantenea l’assedio stretto, e facea tormentare molto i suoi avversari; e bench’egli sapesse che i Genovesi suoi nimici avessono armate trentadue galee, non se ne curava, perchè sapeva che i Veneziani suoi amici contro a loro n’aveano armate trentacinque: e ancora gli rendea molta fidanza la fresca vittoria ch’aveva avuta in quel luogo co’ Veneziani insieme sopra i Genovesi, e però intendea coraggiosamente a fare la sua guerra per terra e per mare. Lasceremo ora l’intrigata guerra di Sardegna che il tempo vegna della sua fine, e seguiremo altre novità che prima ci occorrono a raccontare. CAP. XXII. _Come i Genovesi feciono armata contro a’ Veneziani e’ Catalani._ Avendo sentito i Genovesi l’armata de’ Catalani, e che i Veneziani armavano, avvegnachè per la sconfitta l’anno dinanzi ricevuta alla Loiera molto fossono infieboliti, presono cuore da sdegno per non dare la baldanza del mare al tutto al loro nimico, e però con aiuto di moneta che procacciarono dall’arcivescovo loro signore armarono trentatrè galee sottili, della migliore gente che rimasa fosse in Genova e nella riviera, e fecionne ammiraglio messer Paganino Doria, il quale altra volta avea avuto vittoria sopra i Catalani e’ Veneziani in Romania. Costui sentendo che i Veneziani erano usciti del golfo con trentacinque galee armate, mandò tre galee più sottili, e bene reggenti e armate nel golfo di Vinegia, le quali improvviso a’ paesani giunsono a Parezzo, e misono in terra; e trovando i terrazzani sprovveduti e smarriti per lo subito assalto, s’entrarono nella terra, e senza trovare contasto rubarono e arsono gran parte della città. Ed essendo nel porto tre grossi navilii de’ Veneziani carichi di grande avere, gli presono e rubarono, e ricolti a galee carichi di preda de’ loro nemici, con grande vergogna de’ Veneziani tornarono sani e salvi alla loro armata; la quale avendo lingua de’ Veneziani, prese la via di Romania per abboccarsi con loro a battaglia, se fortuna il concedesse. L’armate cavalcano il mare, e innanzi che insieme si ritrovino ci occorrono altre non piccole cose. CAP. XXIII. _Come il tribuno di Roma fece tagliare la testa a fra Moriale._ Avvegnachè addietro detto sia dell’operazioni di fra Moriale innanzi ch’egli facesse la grande compagnia, e poi quanto male aoperò con quella, sopravvenendo il termine della sua morte, ci dà materia di raccontare la cagione, com’egli essendo semplice friere condusse tanti baroni, e conestabili e cavalieri a collegarsi sotto il suo reggimento in compagnia di predoni. Costui fu in Italia lungo tempo soldato franco cavaliere, e atto singolarmente a ogni fatica cavalleresca, e molto avvisato in fatti d’arme, il quale considerò che tutte le terre e’ signori d’Italia facevano le loro guerre con soldati forestieri, e i paesani poco compariano in arme, e parve a lui che accogliendosi i conestabili per via di compagnia, e partecipando con loro che rimanevano al soldo, che in niuna parte troverebbono contasto in campo: e avendo questo verisimile messo nel capo a molti conestabili, l’uno smovea l’altro, e traevano gente di catuna bandiera che rimaneva al soldo; e con quest’ordine, essendo in loro libertà, si pensavano sottoporre e fare tributaria tutta Italia, e pensavano, se alcuna buona città venisse loro presa, che per forza tutte l’altre converrebbe che sostenessono il giogo; e sotto questo segreto consiglio tutti i conestabili delle masnade tedesche, e’ Borgognoni e altri oltramontani promisono e giurarono da capo la compagnia e ubbidienza a messer fra Moriale, e per passare il verno all’altrui spese presono il soldo della lega de’ Lombardi, e messer fra Moriale, sotto titolo di mostrare d’avere a ordinare suoi propri fatti, rimase in Toscana: ma nel segreto fu, che provvederebbe del luogo dove dovessono tornare al primo tempo. Costui baldanzoso con poca compagnia, come detto abbiamo, se n’andò a Perugia, e di là mandò i fratelli con certe masnade di suoi cavalieri al tribuno, ch’era di nuovo ritornato in Roma, per atarlo; essendo stato prima cacciato da’ Romani e tenuto in esilio, e’ fu prigione dell’eletto imperadore lungo tempo, e poi per lo male stato de’ Romani di volontà del papa e del popolo fu richiamato; e rendutagli la signoria, con più baldanza che di prima, non ostante che predetto gli fosse, o per revelazione di spirito immondo o per altro modo, che a romore di popolo sarebbe morto, e’ faceva rigida e aspra signoria, e reprimendo la baldanza de’ principi di Roma, onde fu opinione di molti che i Colonnesi s’intendessono contro a lui con fra Moriale per abbatterlo della signoria del tribunato: ma come che si fosse, poco appresso la mandata de’ fratelli fra Moriale andò a Roma, e il tribuno il fece chiamare a sè, ed egli senza alcuno sospetto andò a lui; e giuntogli innanzi, senza altro parlamento il tribuno gli mise in mano un processo di tradimento che fare dovea contro a lui, e come pubblico principe di ladroni, il quale aveva assalite le città della Marca e di Romagna, e la città di Firenze, di Siena e d’Arezzo in Toscana; e fatte arsioni, e violenze e ruberie senza cagione in catuna parte, e molte uccisioni d’uomini innocenti, delle quali cose disse che di presente si scusasse. E non avendo scusa contro alla verità del libello, senza voler più attendere, a dì 29 d’agosto del detto anno gli fece levare la testa dall’imbusto: e così finì il malvagio friere, cagione di molto male passato e di maggiore avvenire, per l’aoperazione della maladetta compagnia; per la qual cosa s’aggiugnerebbe memoria degna di gran lodi al tribuno se per movimento di chiara giustizia l’avesse fatto, ma perocchè egli prese i fratelli, e’ beni di fra Moriale e’ loro e pubblicolli a sè, parve che d’ingratitudine de’ servigi ricevuti e d’avarizia maculasse la sua fama: e abbianne più detto che forse non si conveniva, ma per lo malo esempio dato a’ soldati, e per la giusta vendetta della sua morte, ne crediamo avere alcuna scusa. CAP. XXIV. _D’una sformata grandine venuta a Mompelieri, e della scurazione del sole._ A dì 12 di settembre 1354 cadde sopra Mompelieri e nelle circustanze una grandine sformata di grossezza di più d’una comune melarancia, e fece a’ frutti e agli uomini gravissimi danni, e le bestie che trovò ne’ campi alla scoperta uccise, e guastò molto le copriture delle case. E poi, a dì 17 del detto mese, fu scurazione del sole, e durò a Firenze una terza ora, coperto nella maggiore parte il corpo solare. Di sua influenza poco potemmo vedere e comprendere, salvo che asciutto e freddo seguitò tutto il verno singolarmente. CAP. XXV. _Come morì l’arcivescovo di Milano._ Messer Giovanni de’ Visconti arcivescovo di Milano potentissimo tiranno in Italia, avendo dilatata la fama della sua potenza in grande altezza, e vivuto al mondo lungo tempo in dissoluta vita secondo prelato, vedendosi avere vinta sua punga, e soperchiata nel temporale la Chiesa di Roma, e riconciliatosi a quella co’ suoi sformati doni, e che tutta Italia il temeva, e l’eletto imperadore non avea ardire, eziandio sollecitato dalla forza e’ danari della lega di Lombardia, pigliare arme contro a lui, vaneggiante nel colmo della sua gloria, uno venerdì sera, a dì 3 d’ottobre 1354, gli apparve nella fronte sopra il ciglio un piccolo carbonchiello, del quale poco si curava, e il sabato sera a dì 4 del detto mese il fece tagliare, e come fu tagliato, cadde morto l’arcivescovo senza potere fare testamento, o alcuna provvisione dell’anima sua o della successione de’ suoi nipoti nella signoria; i quali feciono al corpo solenne esequie, e senza questione con molta concordia si ristrinsono insieme, facendo grande onore l’uno all’altro; per la qual cosa i Milanesi e tutti i loro sudditi stettono in obbedienza de’ nuovi signori, tanto che poi con nuova suggezione di tutti i popoli si feciono dichiarare signori, come appresso racconteremo, rendendo prima il nostro debito alla sprovveduta e violente morte del tribuno di Roma, e allo strano avvenimento dell’eletto imperadore in Italia. CAP. XXVI. _Come il tribuno di Roma fu morto a furia di popolo._ Il primo tribuno romano dopo la sua cacciata tornato in Roma con comune assentimento dell’incostante popolo, e ordinati statuti a franchigia e a fortificagione del popolo, e certe entrate al comune per fortificare la signoria, procacciava di fornirsi di cavalieri e di masnadieri di soldo, per potere meglio raffrenare i potenti cittadini, i quali sapea ch’erano contro al suo tribunato: e come uomo ch’avea grande animo, credeva col favore del fallace popolo fare gran cose, e cominciato avea, ma non bene, perocchè essendo in Roma uno valente e savio uomo Pandolfo de’ Pandolfucci antico cittadino, e di grande autorità nel cospetto del popolo, e temendo il tribuno di lui, solo perchè gli pareva atto a potere muovere il popolo per la sua autorità e per la sua eloquenza, tirannescamente e senza colpa il fece decapitare; e per questo, e per la morte di fra Moriale, i principi di Roma, massimamente i Colonnesi e’ Savelli, temeano forte, e procacciavano di farlo cacciare o morire. E sparta già l’infamia della morte di Pandolfo tra il popolo, fu più leggiere a’ Colonnesi e a Luca Savelli venire alla loro intenzione, e con lieve movimento alquanti amici de’ Colonnesi e’ Savelli della riva del Tevere, a loro stanza cominciarono a levare romore contro il tribuno e corsono all’arme; e con l’aiuto de’ Colonnesi e de’ Savelli, e di certi Romani offesi per la morte di Pandolfo, dimenticando la franchigia del popolo, a dì 8 d’ottobre del detto anno in su la nona corsono al Campidoglio, dicendo, muoia il tribuno. Il tribuno sprovveduto di questo subito e non pensato furore del popolo francamente provvide come necessità l’ammaestrava, e di presente s’armò e prese il gonfalone del popolo, e con esso in mano si fece alle finestre, e trattolo fuori, cominciò a gridare ad alta voce, viva il popolo, pensando che il popolo dovesse trarre al suo aiuto: ma trovossi ingannato, che il popolo il saettava, e gridava la sua morte: e avendo egli sostenuto con parole e con difesa l’assalto fino al vespero, e vedendo il popolo più acerbo e più infocato contro a sè da sezzo che da prima, e che soccorso da niuna parte aspettava, pensò di campare per ingegno; e tramutato l’abito suo in abito di ribaldo, fece aprire le porte del palagio alla sua famiglia al popolo perchè intendesse a rubare, come solea essere loro usanza; e mostrandosi nella ruberia come uno di loro, avea preso un fascio d’una materassa con altri panni dal letto, e scendendo la prima e la seconda scala senza essere conosciuto, dicea agli altri, su a rubare, che v’ha roba assai; ed era già quasi al sommo di scampare la morte, quando uno cui egli avea offeso così col fascio in collo il conobbe, e gridando, questi è il tribuno, il fedì: e l’uno dopo l’altro trattolo fuori dell’uscio del palazzo tutto lo stamparono co’ ferri, e tagliarongli le mani e sventraronlo, e misongli un capestro al collo e tranaronlo fino a casa i Colonnesi; e fatto quivi uno paio di forche v’appiccarono lo sventurato corpo, ove più dì il tennero appeso senza sepoltura. E questa fu la fine del tribuno, dal quale il popolo romano sperava potere riprendere sua libertà. CAP. XXVII. _Come l’imperadore Carlo venne in Lombardia._ Messer Carlo di Luzimborgo re di Boemia e re de’ Romani, eletto imperadore, avendo accettata la profferta del comune di Vinegia, e del Gran Cane di Verona, e degli altri allegati di Lombardia contro all’arcivescovo di Milano, considerò che per la sua non grande facoltà d’avere e di potenza il fascio di cotanta impresa gli era troppo grave, e avvisossi con grande discrezione, che a volere venire in Italia per la corona del ferro, e appresso per l’imperiale, che gli convenia per forza vincere i signori, e le città, e’ popoli d’Italia che gli fossono avversi, o con senno o con amore recare a sè gli animi loro: ricordandosi che l’imperadore Arrigo suo avolo, avendo seco tutto il favore de’ ghibellini, e mosso con più di diecimila cavalieri tedeschi gente eletta, guidata da grandi baroni e nobili cavalieri, credendosi per forza sottomettere parte guelfa in Italia avendo seco tutta la forza de’ ghibellini, passò in Italia; e non potuto per sua forza domare gli avversari nè avere la corona, com’è la costuma, nella basilica di san Pietro, e consumate le sue forze senza essere ubbidito, rendè a Buonconvento il debito della carne alla terra, e l’anima a Dio. Per lo cui esempio l’avvisato eletto Carlo imperadore abbandonato ogni pensiero di sua potenza, e di quella che promesso gli era, fidanza prese nel suo temperato proponimento; e non volendo a’ collegati negare la promessa della sua venuta, nè mostrare che contro a’ signori di Milano si movesse, veduto il tempo atto al suo proponimento, mosse d’Alamagna con trecento cavalieri in sua compagnia venendo in Aquilea; e giunto a Udine, a dì 14 d’ottobre del detto anno, s’accompagnò il patriarca suo fratello con poca gente senz’arme, e cavalcando a buone giornate giunsono in Padova a dì 4 di novembre, ove fu ricevuto a grande onore; e fatti alquanti cavalieri de’ signori e di loro prossimani della casa da Carrara, e lasciati i signori suoi vicarii nella signoria della città, a dì 7 di novembre prese suo cammino: e temendosi messer Gran Cane che non entrasse in Vicenza nè in Verona il fece con lieve onore conducere per lo contado alla città di Mantova, e ivi ricevuto come signore, prese a fare suo dimoro per trattare se tra i Lombardi potesse mettere accordo, e ivi attendea s’e’ comuni e’ popoli e’ signori di Toscana gli mandassono ambasciadori per potersi meglio provvedere alla sua coronazione. Lasceremo ora alquanto questa materia, tanto che alcuna cosa degna di memoria occorra di ciò al nostro proponimento, e diremo dell’altre che prima addomandano il debito alla nostra penna. CAP. XXVIII. _Come i tre fratelli de’ Visconti di Milano furono fatti signori, e loro divise._ Tornando a’ fatti de’ Visconti di Milano, dopo la morte dell’arcivescovo messer Maffiolo, e messer Bernabò, e messer Galeazzo, figliuoli che furono di messer Stefano nipote dell’arcivescovo, essendo forniti di molti cavalieri e masnadieri per difendersi e abbattere giusto loro podere la forza degli altri Lombardi collegati contro a loro, e da resistere all’imperadore se muover si volesse contro a loro, stare facevano tutte le loro città e castella in buona guardia e sollecita; ed essendo tutti e tre in Milano, si feciono eleggere signori indifferentemente a dì 12 d’ottobre, e appresso si feciono fare a tutte le città del loro distretto il simigliante; ed essendo da tutti confermati nella signoria, si partirono tra loro il reggimento in questo modo: che Milano fosse comune a tutti, e dell’altre città feciono di concordia tre parti, salvo la città di Genova, che vollono che rimanesse comune in fra loro come Milano, e gittarono le sorte, per le quali a messer Maffiolo, ch’era il maggiore, toccò Parma, Piacenza, Bologna, e Lodi: a messer Bernabò Cremona, Brescia, e Bergamo: e a messer Galeazzo Como, Novara, Vercelli, Asti, Tortona, e Alessandria, con tre altre terre di Piemonte; e nondimeno a comune ne’ cominciamenti manteneano la spesa de’ soldati, e molto onorava l’uno l’altro, e di gran concordia faceano le loro imprese. A messer Maffiolo, perch’era di più tempo e di minor virtù, rendeano onore di metterlo innanzi ne’ titoli e ne’ consigli. I fatti della cavalleria e dell’arme erano contenti che guidasse messer Bernabò che n’era più sperto, e messer Galeazzo ne prendea alcuna volta parte come a lui piacea. Essendo questi signori di Milano così ordinati tra loro, sopravvenuto l’eletto imperadore in Mantova, stavano apparecchiati in loro senza fare altro movimento di guerra contra a’ loro avversari, e gli allegati anche stavano a vedere che l’imperadore facesse senza muovere la loro gente a far guerra. CAP. XXIX. _Come l’imperadore stando a Mantova trattava la pace de’ Lombardi._ L’imperatore avendosi avvisatamente condotto in Lombardia di verno, e sapendo la gran forza di gente ch’aveano i signori di Milano, e la potenza del loro tesoro e delle loro entrate, fece venire a se in Mantova gli ambasciadori del comune di Vinegia e di tutti i signori collegati, e con loro insieme vide che la sua forza e la loro in que’ tempi non era sufficiente a tanto fatto quanto volevano imprendere. Ancora considerò che stando egli a Mantova niuno signore o comune d’Italia, salvo che i collegati, era venuto o avea mandato a lui contro a’ signori di Milano, e però gli parve che le cose fossono assai bene disposte al suo proponimento col quale s’era messo a farsi trattatore di pace, per accattare da ogni parte benevolenza, e non prendere nimicizia con alcuno, e però cominciò a trattare della pace; e parendogli che catuno si disponesse a volerla, acciocchè quelli della lega non portassono la gravezza del soldo della gran compagnia, la fece licenziare a dì 8 di novembre, e quelli della compagnia ne furono contenti: ed essendo in sul Bresciano, parte ne condussono i signori di Milano, e parte la lega, e il rimanente si ritenne in compagnia col conte di Lando. L’imperadore seguiva con sellecitudine che la pace si facesse, e in lungo processo di trattato più volte corse la voce che la pace era fatta. Ma nascendo ora dall’una parte ora dall’altra cagione di tirare, la pace non veniva a perfezione, e in questo soprastare, vennono accidenti che non la lasciarono venire a perfezione, i quali diviseremo nel tempo ch’avvennono secondo l’ordine del nostro trattato. CAP. XXX. _Come furono presi i legni ch’andavano a Palermo._ Del mese d’ottobre del detto anno, il re Luigi sentendo la città di Palermo in gran bisogno di vittuaglia e di gente d’arme per la difesa contro a’ nimici, fece armare tre galee, e uno panfano, e dodici legnetti e una nave, e tutte le fece caricare di grano e d’altra vittuaglia, e fece ammiraglio il conte di Bellante Potarzio d’Ischia, e comandogli che le conducesse in Palermo; ed essendo nel mare di Calabria si vidono contra galee di Messinesi, che stavano alla guardia per procacciare di vittuaglia, di che aveano gran bisogno, le quali vedendo quelle del Regno con legni armati, e conoscendo la loro poca virtù, s’addirizzarono verso loro. Il conte vedendole venire, come codardo non prese alcuna difesa, ma la sua propria galea abbandonò perch’avea del grano in corpo, e montato su un legno armato, innanzi che i nemici s’appressassono si fuggì. Le galee de’ Messinesi giugnendo a quelle del Regno le trovaron senza capitano e senza difesa, e però le si presono col carico e colla gente, e con gran festa e gazzarra questa utile preda al bisogno della loro città misono in Messina, ove furono ricevuti a grande onore, più per loro bisogno che per la piccola vittoria. CAP. XXXI. _Come si cominciò guerra in Puglia tra loro._ Messer Luigi di Durazzo cugino carnale del re Luigi, vedendo che il detto re avea dato al prenze di Taranto e a messer Filippo suoi fratelli carnali grandi baronaggi in Puglia e nel Regno, nè a lui nè a messer Ruberto non avea data nulla cosa, con giusto sdegno, vedendosi in povero stato, si tenea dal re e dalla reina malcontento: e il conte di Minerbino tenendosi anche male del re e della reina s’accostò con messer Luigi, e propuosono di volere fare guerra nel paese di Puglia. Per questa tema il re e la reina andarono in Puglia cercando riconciliarli con parole, e mandaronli pregando che venissono a loro; e consigliati insieme, ordinarono che il conte v’andasse, avendo prima per sua sicurtà per stadichi il vescovo di Bari e messer Giannotto dello Stendardo in Minerbino, e così fu fatto. E stando col re e con la reina non si trovò modo d’accordo, nè che messer Luigi si volesse assicurare di andare a loro. In questo stante, gente d’arme acconcia a far male percossono alla strada, e presono settanta muli che tornavano da Barletta con poca roba, e menargli via in vergogna della corona, essendo la persona del re nel paese. E tornandosi il re e la reina a Napoli, messer Luigi e il Paladino presono ardire di più aperta rubellione, e accolsono gente d’arme, e correano per lo paese. Ma sentendosi di piccola possanza, entrarono in trattato col conte di Lando, che dovesse conducere la compagnia nel Regno. Soprastaremo alquanto al presente a questa materia, parandocisi innanzi più notevole avvenimento di grave fortuna. CAP. XXXII. _Come i Genovesi sconfissono i Veneziani a Portolungo in Romania._ Avendo la non domata rabbia del comune di Genova e di quello di Vinegia condotto le loro armate in Romania, essendo messer Paganino Doria di trentatre galee genovesi ammiraglio, e messer Niccolò da ca Pisani ammiraglio di trentacinque galee de’ Veneziani, e tre panfani e un legno armato, e venti tra saettie e barche, e cinque navi di carico tutte armate e incastellate, e navicando l’una armata e l’altra per lo mare di Romania a fine d’abboccarsi insieme, non vi si poterono trovare: l’ammiraglio de’ Veneziani con tutte le galee e gli altri navilii della sua armata si ridusse nel porto di Sapienza nella Romania bassa, e ivi s’ordinò, avendo lingua de’ suoi nemici ch’erano nel mare di Romania, in questo modo: che le navi mise nella bocca del porto incatenate insieme, e con esse venti galee alla guardia, e molto le fece bene armare e acconciare alla difesa della bocca del porto, e con queste rimase il loro ammiraglio; l’altre quindici galee co’ legni armati e con le saettie accomandò a uno da ca Morosini di Vinegia, e misele dentro nel Portolungo, acciocchè stessono più salve, e potessono contastare a’ nemici dinanzi e l’ammiraglio di dietro, se caso venisse che l’armata de’ Genovesi si mettesse nel porto. L’ammiraglio de’ Genovesi avendo in Romania sentito lingua dell’armata de’ Veneziani, e com’erano più galee e assai legni di carico incastellati più di loro, e che fatto aveano la via di Portolungo di Sapienza nella Romania bassa, come uomo di gran cuore e ardire, avvilendo i suoi nemici che non aveano cercato d’abboccarsi con lui, ma piuttosto fatto vista di schifarlo, di presente s’addirizzò con la sua armata verso il porto di Sapienza per richiedere i Veneziani di battaglia; e come giunto fu sopra il porto di Sapienza, vide come i Veneziani co’ loro navilii incastellati e incatenati e con le galee s’erano afforzati alla bocca del porto, e parvegli segno che non volessono combattere; nondimeno per mostrarsi a’ nemici senza paura, non credendosi venire a battaglia, stando aringati sopra il porto, mandò a richiedere l’ammiraglio de’ Veneziani di battaglia, dicendo, come l’attendea fuori del porto, per porre fine a’ travagli e alle tribulazioni che gli altri navicanti e tutto il mare portava della loro guerra. L’ammiraglio de’ Veneziani rispose, ch’era in casa sua, e non intendea combattere a richiesta de’ suoi nemici, ma quando a lui paresse prenderebbe la battaglia. I Genovesi più inanimati, veggendo ricusavano la battaglia, da capo la dimandarono, vituperando i loro avversari, sonando e risonando trombe e nacchere, e vedendo che niuno segno si facea pe’ Veneziani di muoversi, ad alcuno atto, presono un folle ardimento, se i Veneziani avessono aoperato come poteano l’armi, perocchè Giovanni Doria nipote dell’ammiraglio mattamente si mise con una galea ad entrare nel porto, e appresso di lui il figliuolo dell’ammiraglio con la sua, entrando sotto la guardia delle navi e delle galee. I Veneziani vedendoli entrare, follemente li lasciarono entrare, sperando rinchiuderli nel porto e averli tutti a man salva; e così senza contasto per atare i giovani che s’erano messi a quello pericolo v’entrarono tredici galee di Genovesi l’una dopo l’altra, senza essere impedite o combattute dall’ammiraglio o dalla sua armata ch’era alla guardia della bocca del porto; e trovandosi nel porto, si dirizzarono con ordine e con grande ardimento a combattere le quindici galee de’ Veneziani e’ legni armati ch’erano nel porto, le quali aveano le prode a terra per loro agiamento, ed erano più atte alla difesa. I Genovesi l’assalirono con aspra battaglia, ma quale che fosse la cagione, o per sdegno preso contro all’ammiraglio che non avea impedito la loro entrata, e non s’era mosso alla loro difesa, o per molta codardia, a quel punto feciono piccola difesa, e però nel primo assalto furono assai de’ Veneziani fediti e morti: e pignendo i Genovesi, con piccola resistenza de’ loro avversari montarono in sulle galee, e in poca d’ora tutti gli ebbono presi e sbarattati, ne’ quali molti più annegarono gittandosi in mare per fuggire, che quelli che morirono di ferro. Avendo queste tredici galee avuta piena vittoria delle quindici del porto, feciono segno al loro ammiraglio e all’altre galee ch’erano fuori del porto della loro vittoria, le quali con grande baldanza e ardire si misono innanzi, per volere combattere le venti galee e le navi ch’erano alla guardia della bocca del porto, e le tredici vittoriose vennono dall’altra parte, avendo due corpi di galee veneziane affocate per metterle loro addosso. Strignendosi d’ogni parte la battaglia, l’ammiraglio veneziano ingannato per molta viltà del primo suo avviso, e sbigottito delle quindici galee perdute, e della battaglia che d’ogni parte si vedea apparecchiare, s’arrendè alla misericordia de’ Genovesi, e da quel punto innanzi più non v’ebbe morto o fedito alcuno Veneziano; tutti furono prigioni, perocchè in porto e tutto in mare di lungi dalla terra ferma niuno dell’armata de’ Veneziani campò che non fosse preso o morto, e i prigioni furono per novero cinquemilaottocentosettanta, i quali con tutte le galee, e altri legni e navilii, con grande vittoria quasi senza loro danno menarono a Genova, lasciati nel porto e nella marina di Sapienza quattromila o più corpi di Veneziani morti e annegati in quella battaglia, la quale fu a dì 3 di novembre 1354. Della quale vittoria i Genovesi ripresono cuore e ardire di loro stato, e i Veneziani molto ne dibassarono; e questo fece la mala provvedenza del loro ammiraglio, che avendo guardata la bocca del porto come potea, le galee de’ Genovesi non v’entravano, e l’entrate se l’avesse volute combattere di dietro con parte delle sue galee, come poteva, avrebbe vinti i Genovesi, come i Genovesi vinsono lui. Ma la guerra è di questa natura, che commesso il fallo seguita la penitenza senza rimedio le più volte. CAP. XXXIII. _Come Gentile da Mogliano diede Fermo al legato._ Innanzi che noi procediamo ad altri effetti della detta sconfitta, Gentile da Mogliano signore della città di Fermo nella Marca ci ritiene alquanto, perocchè essendo tirannello oppressato da messer Malatesta da Rimini maggiore tiranno, per cui s’era messo a soldare la compagnia per liberare Fermo dall’assedio, come già è detto, rimase povero d’avere e d’aiuto, conobbesi impotente da difendersi dal nimico suo, non che dal legato, che per riavere la Marca occupata a santa Chiesa s’apparecchiava di venire a oste alla sua occupata città di Fermo, e però si pensò di riconciliar col legato e d’abbattere messer Malatesta suo nimico, e andossene in persona al legato ch’era a Fuligno, e promiseli di renderli la città di Fermo, e d’essere fedele al servigio di santa Chiesa e del legato. Il legato ebbe tanto a grado la venuta e l’offerta di Gentile, che di presente il ricevette con grande allegrezza, e per onorarlo e fargli bene, comunicatosi insieme con lui alla messa, il fece gonfaloniere di santa Chiesa, e promisegli que’ danari che volle a certo termine, dicendogli ch’era contento tenesse la rocca di Fermo infino che fosse pagato. Il legato mandò della sua gente da cavallo e da piè, e furono ricevuti da’ Fermani con grande allegrezza e festa, pensando che uscivano di pericoloso servaggio, che Gentile era bisognoso e gravavagli troppo, e non gli poteva difendere nè aiutare. E il legato pensava fare in Fermo sua frontiera al primo tempo, perocch’era vicino alle città della Marca occupate per messer Malatesta, e avendo fatto contro a lui e contro agli altri tiranni di Romagna gravi processi, pensava volere fare l’esecuzione con altro che col suono delle campane e con le candele spente, ma da’ baratti e da’ tradimenti de’ Romagnuoli e de’ Marchigiani non si potè guardare, come innanzi racconteremo. CAP. XXXIV. _Come il re di Araona ebbe la Loiera, e fece accordo col giudice._ Tornando a’ fatti di Sardegna, il re di Araona con la sua cavalleria e con l’armata delle sue galee avendo mantenuto assedio alla Loiera dal luglio al novembre, e fatto continova guerra al giudice d’Alborea con piccolo acquisto, essendo la Loiera a grande stretta, e non vedendo d’essere soccorsa, trattavano col re, e similmente il giudice d’Alborea rincrescendogli la guerra. Il re si teneva duro, e voleva maggiori cose che offerte non gli erano. In questo stante sopravvenne la sconfitta de’ Veneziani ricevuta da’ Genovesi, la novella della quale fu in segreto molto tosto a Vinegia. Il doge e ’l consiglio che questo seppono, tennono la cosa celata per modo, che i loro cittadini non poterono alcuna cosa sentire, e di presente armarono un legno sottile, e mandarono significando al re d’Araona il loro fortunoso caso, e avvisandolo che innanzi che la novella si spargesse sapesse pigliare suo vantaggio, e guardare la sua armata. Il legno portò volando la mala novella al re d’Araona, ed egli con maestrevole avviso con molta festa manifestò la novella per lo contradio, facendo assapere al giudice e agli assediati che i Veneziani aveano sconfitti i Genovesi. Per questo i Genovesi ch’erano a guardia della Loiera perderono ogni ardire, e procacciavano l’accordo, e il giudice si dichinò più che fatto non avrebbe, e il re mostrandosi di buona aria più che non solea, di presente venne alla concordia della pace, e fu fatta in questo modo: che il re avesse la Loiera andandosene sani e salvi i Genovesi e gli altri forestieri che la guardavano, e il giudice d’Alborea riconobbe ritenere tutte le terre dal detto re, e feceli il saramento, e promiseli dare ogni anno certa moneta per l’omaggio delle dette terre; e fatta la pace, e fornita la Loiera di sua gente d’arme, per lo beneficio dell’affrettata novella, e per lo savio consiglio del re, si tornò in Catalogna, con acquisto, e con pace, e con onore. Ove se la novella fosse sentita prima da’ suoi avversari, con danno e con vergogna senza nullo acquisto gli convenia partire dell’isola vituperosamente: e però si verifica qui l’antico proverbio contrario alla vile pigrizia, che dice; il buono studio vince ria fortuna. CAP. XXXV. _Come i Pisani si diliberarono di mandare all’imperatore._ Soprastando l’eletto imperadore a Mantova per volere trarre a fine la pace tra’ Lombardi, i Pisani i quali erano a quel tempo in grande e buono stato sotto il reggimento de’ Gambacorti, ch’erano i maggiori, e con loro gli Agliati e seguaci e Bergolini, i quali manteneano pace e onore co’ Fiorentini, e non ostante che fossono amici de’ guelfi, sentendo il popolo minuto tutto imperiale, per provvedersi di conservare loro stato diliberarono di mandare di loro medesimi ambasciadori con pleno mandato del detto comune al detto eletto, e nel loro segreto fu, che procacciassono d’avere promessione e fede dall’eletto, che gli conserverebbe nello stato senza far nella città mutazione degli ufici, e che non vi rimetterebbe gli usciti ribelli, e che manterrebbe al comune di Pisa la signoria di Lucca, e non la recherebbe in libertà nè ad altro stato. Gli ambasciadori con grande compagnia e molto adorni giunsono a Mantova, dov’era l’eletto imperadore, e ricevuti da lui con grande onore, e fatta la riverenza, spuosono l’ambasciata del loro comune, ove liberamente gli offersono la città e gli uomini di quella alla sua ubbidienza, pregando divotamente per bene, e per pace e buono stato del detto comune, che gli dovesse piacere di promettere per la sua fede, e appresso dell’imperiale corona le sopraddette cose utili e necessarie al buono stato di que’ cittadini, e l’eletto con grande allegrezza e festa li ricevette, e promise nella sua fede liberamente ciò che per loro era domandato. Allora gli ambasciadori gli promisono trentamila fiorini d’oro in aiuto alla spesa della sua coronazione, e altri trentamila per lo consentimento della città di Lucca, il quale consentimento non onorevole alla maestà imperiale, comprese sotto la ragione del padre suo re Giovanni, quando la città di Lucca gli fu data. Della quale promessa i grandi mercanti, e gli altri usciti di Lucca, che si pensavano tornare in libertà per la venuta dell’imperadore, si tennono mal contenti: e così fu fatta la concordia dall’eletto imperadore a’ Pisani, della quale i cittadini feciono in Pisa per molti giorni singulare e grande festa, ignoranti del futuro avvenimento della loro ruina. CAP. XXXVI. _Rottura della pace del re di Francia e d’Inghilterra._ Essendo per lungo tempo trattato per lo cardinale di Bologna e per altri prelati di volere fare accordo tra il re di Francia e quello d’Inghilterra, e sotto questa speranza più volte prolungate le triegue tra l’uno re e l’altro; e non potendo trarlo a fine, provvidono di comune consiglio quelli che menavano il trattato, che abboccandosi i due re insieme nella presenza del papa, o i loro più confidenti baroni, che pace ne dovesse seguire; e per seguire questo consiglio il re di Francia vi mandò il duca di Borbona suo consorto, e il conestabile di Francia: e il re d’Inghilterra vi mandò il duca di Lancastro suo cugino, e il vescovo di Vervic, e catuno giunse a corte del mese di dicembre: e abboccatisi insieme per più riprese nella presenza del papa, tanto volea catuno mantenere l’onore del titolo del suo signore, che mezzo non seppono trovare di recarli in pace. Il papa, o per soperchia arroganza che trovasse in loro, o per poco ardire ch’avesse di sforzare gli animi de’ signori, non vi s’interpose come avrebbe potuto la sua autorità, con la quale poteva catuno sostenere con suo onore, e trovare mezzo di recarli a concordia e pace; nol fece, che forse non erano ancora puniti i peccati de’ Franceschi: e però del mese di gennaio del detto anno, catuna parte in discordia con poco onore del santo padre e de’ suoi cardinali si tornò al suo signore. CAP. XXXVII. _Come un gatto uccise un fanciullo in Firenze._ Avvegnachè assai paia cosa strana e non degna di memoria quello che seguita, perocchè fu inaudito caso, non l’abbiamo saputo tacere. In Firenze era da san Gregorio un lasagnaio con una sua moglie, aveano un piccolo loro fanciullo di tre mesi, e avendolo la madre governato e rimessolo nella culla al modo usato, una gatta accresciuta e nutricata in quella casa se n’andò al fanciullo, e cominciolli a rodere la testa, e trassegli gli occhi e manicosseli, e poi rodendo la testa se n’andò fino al cervello; e avendo lungamente pianto il fanciullo, il padre e la madre soccorsono tardi, non pensando che cotale caso fosse, e trovarono il fanciullo storpiato, e la gatta sopr’esso ancora vivo, ma incontanente morì; e sparata la maladetta gatta le trovarono gli occhi del fanciullo in corpo. Questa è quasi cosa incredibile, ma per esperienza del vero di questo fatto si dee alle donne e alle balie accrescere sollecitudine e accrescimento di buona guardia a’ piccoli fanciulli. Avvenne questo inopinato caso a dì 6 di dicembre 1354. CAP. XXXVIII. _Come l’imperadore fe’ fare triegua da’ Lombardi a’ signori di Milano._ Avendo fino a qui dimostrato i trattati tenuti per l’eletto imperadore e la sua venuta a Mantova, al presente ci strigne il tempo a venire dimostrando i cominciamenti in fatti delle sue proprie operazioni. Costui secondo il suo supremo titolo, conoscendo se medesimo e il suo piccolo podere, e abbattendo nell’animo suo ogni elezione, provvide che per astuta e dissimulata suggezione gli convenia procedere per venire all’ottato fine della sua coronazione, e per questo in fatto prese abito, forma, e operazione umile, e sommissione incredibile all’imperiale nome in fondamento de’ suoi principii: e venuto a Mantova senz’arme, e fattosi trattatore della pace da’ signori di Milano a’ legati lombardi, avendo seguito il fatto dall’entrata di novembre al Natale senza frutto, essendo montata la superbia de’ Genovesi e de’ loro signori, per la vittoria avuta in mare sopra i Veneziani, per la quale mutando in prima i patti li voleano più larghi per loro in vergogna degli allegati, ed eglino sdegnosi non acconsentivano, l’imperadore, ch’avea l’animo più a’ suo’ fatti propri, si doleva di perdere il tempo invano, e conoscendo la potenza de’ Visconti di Milano maggiore che della lega, e non vedendosi da’ comuni di Toscana fuori che da’ Pisani dimostramento d’alcuno favore, comprese che a’ collegati non faceva utile, e a se faceva impedimento grande per la coronazione della corona del ferro, ch’era nella potenza de’ signori di Milano, e però non dimostrando d’abbandonare il trattato, ma di volerlo conducere a fine di pace, facea fare triegua tra’ Lombardi fino al maggio prossimo vegnente; e fatta la triegua, incontanente trattò per se accordo co’ signori di Milano, sottomettendo la sua persona, e ’l suo onore, e la dignità imperiale oltre al debito modo nell’arbitrio e potenza de’ tiranni, prendendo confidenza di quelli, o da purità di mente, o da matto consiglio, non però di certo e di chiaro giudicio; e il patto fu, che li darebbono abilità d’avere sotto le loro braccia la corona a Moncia, ed egli senza entrare in Milano gli lascerebbe suoi vicari in tutta la loro giurisdizione; ed egli avuta promissione da loro, che alla sua coronazione a Roma gli donerebbono per aiuto alle spese fiorini cinquantamila d’oro, senza alcuna gente d’arme come privato uomo si sottomise nella loro signoria, vincendo gli animi fieri e l’usata fallacia tirannesca colla sua persona creduta nelle loro mani liberamente, come appresso diviseremo. CAP. XXXIX. _Come l’imperadore andò a Moncia per la corona del ferro._ L’eletto imperadore avendo fatto la sua concordia co’ signori di Milano, più della pace de’ Lombardi non si travagliò, ma di presente fatta la festa della natività di Cristo a Mantova, si mise a cammino verso Milano con meno di trecento cavalieri, i più senz’arme, e i signori di Milano ordinarono, che per tutto loro distretto all’eletto e alla sua compagnia fosse apparecchiato per loro e per li loro cavalli ogni cosa da vivere senza torre alcuno danaio: e giugnendo a Lodi, messer Galeazzo gli venne incontro con millecinquecento cavalieri armati, e giunto a lui, gli fece la reverenza, e accompagnollo fino dentro alla città di Lodi, e ivi il collocò onoratamente nelle case de’ signori, facendo nondimeno serrare le porti della città, e guardarla dì e notte colla gente armata. E albergato in Lodi una notte, la mattina appresso mosso il re de’ Romani, messer Galeazzo colla sua gente armata l’accompagnò, avendo ordinata la desinea alla grande badia di Chiaravalle: e appressandosi a Chiaravalle, messer Bernabò con molti cavalieri armati gli si fece incontro, e fattagli la reverenza, gli presentò da parte de’ fratelli e cavalli e palafreni covertati di velluto, e di scarlatto e di drappi di seta, guerniti di ricchi paramenti di selle e di freni: e fattogli alla badia nobile desinare, messer Bernabò il richiese da parte de’ suoi fratelli e da sua che gli dovesse piacere d’entrare nella città di Milano; l’eletto rispose, che per niuno modo intendea venire contro a quello che promesso avea loro; messer Bernabò gli disse, che questo gli fu domandato pensando che la gente della lega il dovesse accompagnare, ma per la sua persona non era fatto: e tanto il costrinsono, ed egli e messer Galeazzo, liberandolo per loro e per messer Maffiolo dalla promessa, che con loro n’andò in Milano; e entrato nella città, fu ricevuto con maggior tumulto che festa, non potendo quasi vedere altro che cavalieri e masnadieri armati: e i suoni delle trombe, e trombette, e nacchere, e cornamuse, e tamburi erano tanti, che non si sarebbono potuti udire grandi tuoni; e come fu in Milano, così furono le porti serrate, e così rinchiuso il condussono a’ palazzi della loro abitazione, e assegnateli sale e camere fornite nobilissimamente di letta e di ricchi apparecchiamenti, messer Maffiolo e gli altri fratelli da capo andarono a fargli la reverenza, dicendogli con belle parole come tutto ciò che possedevano riconoscevano avere dal santo imperio, e al suo servigio intendevano di tenerlo. Il dì appresso feciono fare generale mostra di tutta la gente d’arme a cavallo e a piè ch’aveano accolta in Milano, e oltre a ciò feciono armare quanti cittadini ebbono che montare potessono a cavallo, tutti sforzati di coverte e d’altri paramenti e d’avvistate sopravveste, e feciono stare l’imperadore alle finestre sopra la piazza a vedere; e passando con gran tumulto di stromenti, feciono intendere all’eletto ch’erano seimila cavalieri e diecimila pedoni di soldo: e passata la mostra, dissono: signore nostro, questi cavalieri e masnadieri, e le nostre persone, sono al vostro servigio e a’ vostri comandamenti; dicendo che oltre a questi aveano fornite tutte le loro città terre e castella di cavalieri e di masnadieri per la guardia di quelle. E così magnificarono la gran potenza del loro stato nell’imperiale presenza, tenendo il dì e la notte le porte serrate e la gente armata per la città, non senza sospetto e temenza dell’eletto imperadore, il quale vedendosi in tanta noia di sollecita guardia, fu ora che innanzi vorrebbe essere stato altrove con minore onore, e in tutto fu in servaggio l’animo imperiale alla volontà de’ tiranni, e l’aquila sottoposta alla vipera, verificandosi la pronosticazione detta per previsione d’astrologia, negli anni _Domini_ 1351, per messer frate Ugo vescovo di...... grande astrologo al suo tempo, il quale predisse il cadimento del prefetto da Vico, e la soggezione futura dell’aquila imperiale in questi versi: _Aquila flava ruet post parum vipera fortis._ _Moenia subintrat Lombardi prima sophiae_ _Anno quadrato minori decimonono._ _Aquila succumbet pro stupri crimine foedo_ _Nigra revolabit sublimi cardine Romam._ ma egli come savio comportò con chiara e allegra faccia la sua cortese prigione; e con molta liberalità vinse quello che acquistare non avrebbe potuto per forza. Dopo alquanti dì, come a’ signori tiranni piacque, il condussono con la loro gente armata a Moncia, e ivi il dì della santa Epifania, a dì 6 del mese di gennaio di detto anno, fu coronato della seconda corona del ferro, con quella solennità e festa che i signori Visconti li vollono fare; e tornato a Milano sotto continova guardia, fattivi certi cavalieri, ed egli per tornare in libertà sollecitando la sua partita, fu accompagnato di terra in terra dalle masnade armate de’ signori, facendo serrare la città e castella dov’entrava, e il dì e la notte tenerle in continova guardia: ed egli avacciando il suo cammino, non come imperadore, ma come mercatante ch’andasse in fretta alla fiera, si fece conducere fuori del distretto de’ tiranni: e ivi rimaso libero della loro guardia, con quattrocento compagni, i più a ronzini senz’arme, si dirizzò alla città di Pisa per esservi prima che non avea loro promesso, e così li venne fatto. CAP. XL. _Come il conte di Lando venne di Lombardia in Romagna con la gran compagnia._ In questi dì all’entrata di gennaio, il conte di Lando capitano del residuo della gran compagnia, avendo un dì lungamente parlamentato a solo coll’eletto imperadore, con duemilacinquecento barbute se ne venne a Ravenna, e con lui due fratelli della bella contessa, che l’anno del generale perdono andando a Roma capitò in Ravenna, e ritenuta dal tiranno per conducerla o per amore o per forza a consentire alla sua sfrenata libidine, la valente donna vedendo non potere mantenere la sua castità contro alla forza dello scellerato tiranno se non per via di morte, trovò il modo di finire sua vita innanzi che volesse corrompere la sua castità; questi cavalieri credendosi potere vendicare dell’onta della loro sirocchia contro al tiranno, s’accostarono con la compagnia, e furono singolare cagione di menarla in sul Ravennese, ove stette lungamente ardendo, e predando, e guastando il paese; e dopo la detta stanza e guasto dato, essendosi tenuto alle mura della città il conte, gli domandò trentamila fiorini d’oro se volea si partissono di suo terreno, e avendo il tiranno bargagnato, s’era recato il conte a dodicimila fiorini d’oro. Allora disse il tiranno, che gli darebbe i detti danari, se ’l conte il volesse sicurare di non partirsi con la compagnia per spazio d’un anno continovo del contado di Ravenna: e a’ suoi cittadini fece stimare il danno ricevuto delle loro possessioni, tenendoli in speranza di pagare loro la restituzione del danno; onde il conte e la sua compagnia frustrata del loro intendimento si partì di là, e andossene nella Marca. Lasceremo ora de’ fatti della gran compagnia, e torneremo alle cose che per l’avvenimento dell’imperadore occorsono in Toscana. CAP. XLI. _Come i Fiorentini per la venuta dell’imperadore a Pisa si provvidono._ Sentendo i Fiorentini l’avvenimento dell’eletto imperadore a Pisa, non avendo alcuna cosa provveduto dinanzi quando era a Mantova, ove ciò che avessono voluto da lui avrebbono di suo buon grado impetrato, stavano in consiglio se dovessono ubbidire o contradiare: ed essendone la città tutta in vari e indeterminati consigli, presono di fare dodici uficiali ch’andassono per tutto il contado con ordinata balìa, di fare riducere tutta la vittuaglia nelle terre murate e nelle castella forti, e ogni altra cosa di valuta, e diedono voce di volere prendere difesa, e non con accettare l’imperadore, per non sottomettere la franchigia del comune ad alcuna signoria; e quanto che in fatto questa provvigione avesse poco effetto, pure fu utilmente provveduto, per non mostrare viltà o paura, e per dare intendere all’eletto imperadore e al suo consiglio che il comune di Firenze s’apparecchiava alla sua difesa; e nondimeno elessono sei cittadini per mandarli a lui come fosse riposato in Pisa, per trattare accordo con lui, se rimanendo in libertà il potessono trovare. E questo fu ordinato e fatto in Firenze a dì 11 di gennaio del detto anno. CAP. XLII. _Come il legato prese Recanati._ In questo mese di gennaio, il legato del papa avendo la città di Fermo, e seguitando suo processo contro a messer Malatesta da Rimini per le città ch’egli occupava a santa Chiesa, nondimeno come signore avvisato e pratico ne’ fatti della guerra, non stava solo a’ processi nè al suono delle campane, anzi cercava trattati, e co’ suoi cavalieri sollecitava gli avversari di continova guerra: e in questi dì per trattato mise la sua cavalleria in Recanati, e racquistò la città alla Chiesa di Roma; e in quella, perch’era povera d’abitanti, mise gente assai a cavallo e a piè per far guerra a messer Malatesta, e per guardare la città più sicuramente. CAP. XLIII. _Come il capitano di Forlì venne in Firenze._ Quello che al presente ci muove non è per lo fatto della propria persona degno di memoria, ma all’indiscreto movimento de’ rettori di Firenze a quel tempo, non senza ammirazione ci muove a ricordare come nel nostro contado venne messer Luigi marito della reina Giovanna figliuola del re Ruberto, ed egli figliuolo del prenze di Taranto fratello carnale del detto re Ruberto, stati sempre protettori del nostro comune, e il detto prenze capitano e conducitore delle nostre osti, avendo il loro reale sangue e la vita, nelle persone di messer Carlo loro fratello e di messer Piero figliuolo del detto re, sparto nelle nostre guerre, non dimenticata la memoria di cotanti servigi, gli fu vietato non tanto il venire nella nostra città senz’arme e senza compagnia di gente d’arme, ma lo stare nel nostro contado gli fu vietato; e i fratelli carnali e’ cugini tornando di prigione d’Ungheria, e domandando di volere fare loro diritto cammino per la nostra città, e per lo nostro contado a tornare nel Regno, fu loro vietato e contradetto il passo, ove si doveva con singulare festa e onore fargli ricevere e accompagnare: ma tanto fu il podere d’alquanti cittadini che allora governavano il comune, fortificandosi con non giusti nè veri sospetti, che contro al piacere degli altri cittadini ebbono podere di così fare. Il capitano di Forlì antico tiranno, sempre stato nemico di santa Chiesa e del nostro comune, caporale in Romagna di parte ghibellina, scomunicato e dannato da santa Chiesa, volendo andare a Pisa all’imperadore con grande compagnia di gente d’arme, fu nella nostra città ricevuto con disordinato e sobrabbondante onore, e convitato da’ signori e da altri cittadini stette in festa alcuni dì di suo soggiorno: poi volendo essere nella presenza dell’eletto imperadore a Pisa, non gli fu conceduto eziandio entrare in quella città, perch’era in indegnazione di santa Chiesa. Non è l’onore alcuna volta fatto al nemico da biasimare, ma molto pare cosa detestabile in luogo del debito onore a fidatissimi amici imporre sospetto e fare vergogna; alla matta ignoranza del vario reggimento della nostra città fu lecito di così fare a questa volta. CAP. XLIV. _Come l’imperadore Carlo giunse a Pisa._ L’eletto imperadore diliberato delle mani de’ tiranni di Milano, avendo in sua compagnia il fratello naturale patriarca d’Aquilea, giunse alla città di Pisa domenica a dì 18 di gennaio, gli anni _Domini_ 1354 dalla sua incarnazione, in su l’ora della nona. Ed essendo i Pisani provveduti a fargli onore, gli andarono incontro con la processione del loro arcivescovo e di tutto il chericato, e con allegra festa i giovani vestiti a compagnie di nuove assise andavano armeggiando, e i rettori del comune con gli altri più maturi cittadini, e co’ soldati senz’arme gli si feciono incontro fuori della terra facendogli somma riverenza, e così tutto l’altro popolo a piè pieno d’allegrezza gli si fece incontro; e addestrato da’ loro cavalieri con ricco palio sopra capo, gridando il popolo viva l’imperadore, il condussono nella città. L’imperadore, vestito molto onestamente d’uno paonazzo bruno senza alcuno ornamento d’oro, o d’argento o di pietre preziose, andava con molta umilità salutando i grandi e’ piccoli, pigliando gli animi di molti forestieri che l’erano a vedere col suo benigno aspetto e umile portamento, e condotto alla chiesa cattedrale, reverentemente inginocchiato all’altare fece sue orazioni; e rimontato a cavallo, con grande allegrezza e festa fu condotto a’ nobili abituri de’ Gambacorti, ov’era il famoso giardino, e apparecchiato da’ detti Gambacorti le camere e le letta di nobilissimi adornamenti, e apparecchiate le vivande per la cena, e gli ostieri attorno per tutta la sua compagnia, fu con somma letizia consumata la prima giornata, verificandosi l’antico proverbio, che dice: gli stremi dell’allegrezza occupa il pianto, come seguendo appresso in questo processo dell’imperadore si potrà trovare. CAP. XLV. _Come l’imperadore bandì parlamento in Pisa, e quello n’avvenne._ Lunedì vegnente a dì 19 di gennaio, volendo l’imperadore fare ragunare i cittadini a parlamento per ricevere il saramento della loro ubbidienza, mandò il bando da sua parte che tutti si ragunassono al duomo per la detta cagione, ed egli s’apparecchiò d’andare là. Il popolo mosso per lo bando si ragunava al duomo. Erano in questo tempo in Pisa due sette, l’una reggea lo stato del comune, della quale i Gambacorti e Cecco Agliati erano caporali, e costoro erano chiamati Bergolini, l’altra si chiamava la setta de’ Matraversi, e non erano confidenti al reggimento del comune, ed essendo venuto di Lombardia appresso all’eletto imperadore uno Paffetta della casa de’ Conti, il quale era de’ caporali della setta de’ Matraversi, costui con certi altri di quella setta disposti a rimuovere il reggimento della città, il quale l’eletto imperadore aveva a Mantova promesso di conservare e di mantenere, essendo egli già mosso per andare al parlamento, e valicato il ponte alla Spina, cominciato fu con gran romore per li Matraversi a dire, viva l’imperadore e la libertà, e muoia il conservadore. Udendosi nel romore la novità del conservadore, i grandi e’ piccoli cominciarono a sospettare per tema, e altri per mala industria, cominciò il popolo a correre all’arme. L’eletto sentendo questa novità, incontanente diede la volta, e avendo seco Franceschino Gambacorti, il quale era sindaco del comune a fargli il saramento, e con lui i soldati del comune, se ne venne al palagio degli anziani, e di là mandò bandi per la terra, e fece a’ cittadini porre giù l’arme, e racchetare il popolo; e lasciati i soldati del comune alcuna parte armati in segno di guardia, in quel giorno non si fece altra novità, e prolungossi il saramento che fare si dovea all’eletto imperadore. CAP. XLVI. _Come l’imperadore di Costantinopoli racquistò l’imperio._ Del detto mese di gennaio, un’altro giovane Calogianni Paleologo imperadore di Costantinopoli, essendo, come addietro è narrato, dal suo suocero Mega Domestico balio dell’imperio per lui cacciato di quello, ed usurpato a se la signoria del detto imperio, aveva lui lungamente tenuto in esilio nel reame di Salonicco: il quale giovane imperadore avendo tenuto lungo trattato con certi de’ suoi baroni, i quali gli dicevano che procurasse di comparire a Costantinopoli, ed essendovi l’ubbidirebbono, costui povero d’avere e di gente, non trovando altro aiuto, si fece ad amico un gentile uomo di Genova ch’era ricco in quel paese, il quale co’ suoi danari e con l’industria della sua persona segretamente il condusse in Costantinopoli; ed essendo nella città, fu manifestato a’ baroni con cui era in trattato, i quali di presente gli feciono braccio forte, e sommossono il popolo, che il desiderava come loro diritto imperadore; e presa l’arme, combattendo il castello della signoria, Mega Domestico usurpatore dell’imperio, male provveduto di questo caso, come Iddio volle si fuggì di Costantinopoli, e il giovane a cui si dovea l’imperio di ragione rimase imperadore, e il suocero per paura si rendè calogo cioè eremita. E stando in quello stato da non prender guardia di lui, trattava col figliuolo e co’ suoi amici d’abbattere l’imperadore, e scoperto il trattato si fuggì, e cambiato abito, accolse gente, e cominciò a guerreggiare in alcuna parte l’imperio, con lieve aiuto di sbanditi e di ribelli. L’imperadore per rimunerare il servigio ricevuto dal Genovese, ch’aveva nome messer ... li diede l’isola di Metelino, e la sirocchia per moglie, ed ebbelo continovo al suo consiglio. CAP. XLVII. _Come i Matraversi di Pisa feciono muovere l’imperadore._ Tornando alla materia de’ Pisani, il martedì a dì 20 di gennaio del detto anno si ragunarono in Pisa col Paffetta assai della setta de’ Matraversi, e con loro gran parte d’un’altra nuova setta che si diceano i Malcontenti, e in compagnia s’appresentarono dinanzi all’eletto imperadore, e con grande istanza il richiesono e pregarono, che per bene e contentamento del comune dovesse prendere a se il saramento de’ loro soldati, che i cittadini erano malcontenti che i suoi soldati fossono all’ubbidienza di due privati cittadini, ciò era Franceschino Gambacorti e Cecco Agliati: e Cecco Agliati per alcuna invidia presa, vedendo che a’ bisogni i soldati andavano più a Franceschino che a lui, sentendo questo movimento andò all’imperadore, e disse, che dicevano bene, e che per se era contento che così si facesse. L’eletto imperadore vedendo che il movimento di costoro s’accostava alla sua volontà, quanto che ciò fosse contro a’ patti promessi, sott’ombra di volere racquetare la contenzione del comune, e levare materia agli scandali già mossi, andò al palagio degli anziani, e ivi fatti ragunare i soldati del comune a cavallo e a piè, prese il saramento da loro, e cominciò a venir meno allo stato che reggeva della sua promessa, e a dare baldanza a’ suoi avversari; ma per non dimostrare che così tosto avesse loro rotti i patti, argomentò, e fecene capitani Franceschino Gambacorti e Cecco Agliati alla sua volontà. La cosa era già condotta in termini che dire non s’osava contro a cosa che facesse, nè ricordare i patti promessi, ma catuno dimostrava essere contento a ciò che facesse per accattare la sua benivolenza. CAP. XLVIII. _Come procedettono i fatti in Pisa._ Avvedendosi i Gambacorti e i loro seguaci che l’eletto assentiva di grado le novità che moveano i loro avversari, e non vi volea mettere riparo, conobbono che il loro stato si veniva abbattendo, e non vi poteano riparare con alcuno salutevole consiglio. E però vedendosi a mal partito, strignendosi insieme, per lo meno reo presono di volere essere motori, innanzi che fatto venisse alla setta contraria a loro di dare la libera signoria del comune all’imperadore, pensando che per i patti egli era loro obbligato, e per questa libertà sarebbe più: e così deliberati furono all’eletto, e con belle e riverenti parole dissono, ch’aveano provveduto, per levare gli scandali della città di Pisa e del suo contado e distretto, darli la signoria; l’imperadore che per via indiretta cercava questo, si mostrò molto contento, e di presente prese la signoria, e levò le guardie dalle porte che v’avevano i Pisani e mise vi la sua gente, e il dì e la notte faceva guardare la terra alla sua cavalleria tanto che vi fosse più forte, e l’entrate del comune recò a sua stribuizione, e mandò bando da sua parte, che chi si sentisse offeso del tempo passato, o per l’avvenire, andasse per giustizia a lui e alla sua corte, dicendo, che intendea che l’agnello pascesse allato al lupo senza lesione o paura. Tutto questo processo per la fretta delle sette e per la volontà dell’imperadore, sotto ombra di volere conservare il comune in pacifico stato, fu aoperato di fatto, senza deliberazione di comune consentimento. CAP. XLIX. _Come gli ambasciadori del comune di Firenze andaro all’imperadore._ Il comune di Firenze avendo lungamente praticato con quello di Siena e di Perugia per la comune libertà del reggimento delle dette città, e trovato che i Perugini si poteano diliberare dalla suggezione dell’imperio, sotto titolo d’essere uomini di santa Chiesa, nondimeno di loro consiglio s’unirono insieme co’ Sanesi a dovere seguitare uno sì e uno nò nel cospetto dell’imperadore a mantenere loro stato e la franchigia de’ loro comuni; e avendo presa questa concordia, i Fiorentini ch’aveano eletti sei cittadini d’autorità a questo servigio, gl’informarono della volontà del loro comune, dicendo, che i Sanesi seguirebbono quello medesimo, secondo la promessa ch’aveano dall’ordine de’ nove, che governava e reggeva quello comune; ed avendo i capitoli scritti della loro commissione, a dì 22 di gennaio si partirono di Firenze vestiti d’un’assisa tutti di doppi vestimenti, l’uno di fine scarlatto, l’altro di fine mescolato di borsella, con ricchi adornamenti, e con otto famigli a cavallo per uno tutti vestiti d’un’assisa, e nel cammino attesono più giorni gli ambasciadori perugini e’ sanesi per comparire tutti insieme nella presenza dell’imperadore, come ordinato era, sperando dovere impetrare ogni loro domanda con la benevolenza del signore, ove i Sanesi tenessono la fede promessa a’ Fiorentini e a’ Perugini, la qual cosa venne mancata per la corrotta intenzione de’ Sanesi, come poco appresso racconteremo. CAP. L. _Di novità stata in Montepulciano._ Mercoledì notte a dì 21 di gennaio, messer Niccolò de’ Cavalieri uscito di Montepulciano, avendo trattato co’ suoi amici ch’erano nel castello, accolti dugento cavalieri e cinquecento fanti, essendogli aperta una porta, entrò nel castello; i Sanesi ch’aveano la rocca e la guardia di Montepulciano, sentendo messer Niccolò e la sua gente entrati dentro, francamente con certi terrazzani che non erano nel trattato abbarrarono la terra, e intendevano alla difesa, ma poco sarebbe loro valuto, se non che per caso avvenne, che per altra cagione in Montefollonico ivi vicino erano venute masnade di Sanesi, i quali sentendo lo stormo di Montepulciano di presente furono là al soccorso de’ loro; e aiutato sostenere la battaglia e difendere la terra infino al vespero, vedendo messer Niccolò e i terrazzani ch’erano con lui che non poteano rompere gli avversari, e che il giorno declinava verso la notte, temette che nel soprastare maggior gente de’ Sanesi non li sorprendesse, presono partito d’ardere la terra, e andarsene: e mettendo prima catuno fuoco nella sua casa, e appresso nell’altre, e affocato ogni cosa, abbandonarono la terra: e intrigati que’ d’entro a riparare al fuoco non li poterono seguire, e però si ricolsono a salvamento; e per l’abbondanza del fuoco messo in molte parti, senza potersi riparare arse dalla rocca del sasso in giù tutta quanta, con gran danno de’ terrazzani. CAP. LI. _Come le sette di Pisa si pacificarono insieme._ A’ 23 di gennaio 1354, avendo l’imperadore recato a se la guardia e la libera signoria di Pisa, e messi i Tedeschi in luogo de’ cittadini alla guardia, e già cominciando a prendere per loro, e volere per loro alberghi le case de’ buoni cittadini di Pisa e le loro masserizie, per paura di peggio catuna setta si ragunò a casa degli anziani: e vedendosi insieme, catuno dicea, che per le loro discordie e disordinati movimenti l’imperadore avea presa la guardia e la signoria di Pisa contro a’ patti, e senza la deliberazione del comune, e dimostrarono in quello consiglio quanto male poteva seguire alla patria per le loro discordie; e ivi gli animi avvelenati da catuna parte cominciarono a dissimulare, e mostrare di volere tra loro concordia, e gli anziani in quello stante elessono dodici cittadini di catuna parte, i quali ragunati insieme, senza contasto terminarono che ogni dissensione tornasse a unità e concordia. E avuto consiglio con molti cittadini, feciono fare pace a coloro ch’aveano briga insieme, e quelli che discordavano per cagione di sette si mostrarono a quella volta d’uno volere, e di concordia elessono ventiquattro, dodici di catuna parte, che riformassono la terra degli ufici e’ reggimenti a volontà dell’imperadore; e così ferma la concordia fra loro andarono insieme all’imperadore, il quale avea già cassi i soldati borgognoni e italiani del comune di Pisa, e in loro luoghi condotti de’ suoi tedeschi, e fattili giurare a se. Venuti i Pisani nella presenza dell’imperadore, con belle e savie parole li feciono intendere la loro pace e la loro concordia. L’imperadore, nonostante quello ch’avea inteso da’ dicitori, fece domandare il popolo se così era di loro volere, e tutti gridando risposono di sì; allora l’imperadore scusò se, dicendo, che quello ch’avea fatto non era stato di suo movimento nè per sua volontà, ma le discordie e i romori mossi e fatti nel suo cospetto l’aveano fatto temere del suo onore e del pericolo della città, e però avea presa la guardia; ora molto allegro della loro pace e concordia restituiva la guardia della città al comune e gli ufici a’ cittadini; e di presente colla sua autorità confermò i ventiquattro eletti a riformare la terra, pregando e comandando loro che facessono buona e comune elezione agli ufici de’ loro cittadini, sicchè alcuno non si potesse con ragione rammaricare: ma le chiavi delle porte della città non volle però rendere agli anziani. E chi bene riguarderà questo processo, troverà per astuto ingegno abbattuto lo stato di coloro che reggevano, e forse darà fede a una fama che corse, che tutto ciò ch’è avvenuto fosse ordinato con l’imperadore per lo Paffetta capo de’ Matraversi fino in Lombardia. CAP. LII. _Come Gentile da Mogliano si ritolse la città di Fermo._ Tornando nella fontana de’ tradimenti nella Romagna e nella Marca, ci occorre Gentile da Mogliano, il quale per dare più certa fede de’ suoi futuri tradimenti, s’era comunicato col cardinale all’altare del corpo di Cristo quando rendè la città di Fermo a santa Chiesa, e fu fatto gonfaloniere per lo detto legato contra i nemici di santa Chiesa di Roma, e capitano della gente della Chiesa contro a messer Malatesta da Rimini ch’era suo nemico capitale, e mandò il legato, com’era in convegna con Gentile, gente d’arme a cavallo e a piè per ricevere la tenuta della rocca e fornirla, e mandò per loro contanti fiorini d’oro ottomila per dare a Gentile, come gli avea promessi quando consegnasse la rocca. In questi medesimi dì, innanzi che le cose avessono il suo effetto, messer Malatesta s’avvisò non potere resistere contro al legato avendo seco Gentile da Mogliano e la città di Fermo; e ’l capitano di Forlì, quanto che fosse nemico di messer Malatesta, s’accorse, che acquistando la Chiesa sopra messer Malatesta, la piena verrebbe poi sopra lui, e però incontanente fece sapere a messer Malatesta, che volea dimenticare l’ingiurie ricevute, ed essere suo amico, e senza attendere risposta, con molta confidanza se n’andò a lui, il quale veggendo la liberalità del capitano il ricevette amichevolemente; e ragionando insieme, conobbono il pericolo del loro stato, e che rimedio non avea se non della loro concordia e di Gentile da Mugliano: e presa fede da messer Malatesta che farebbe pace con Gentile, e che gli renderebbe il porto di Fermo, di presente mandò messer Lodovico suo figliuolo cognato di Gentile a ordinare che tradisse il legato e santa Chiesa: e perocchè la natura di que’ tiranni è molto conforme a’ tradimenti, con poca fatica recò Gentile al fatto; e udita la promessa di messer Malatesta, e vedendosi acconcio a potere tradire, tutto l’onore ricevuto dal legato, e la speranza di quelli che gli si apparecchiavano, e ’l saramento prestato nella comunione a santa Chiesa mise per niente, e fu tanto sfacciato, ch’essendo già venute in Fermo le some de’ soldati del legato con parte della gente, fece cercare se i danari vi fossono che il legato mandava per la rocca, e per avventura erano ancora fuori della terra; e temendo de’ cittadini, che volentieri erano usciti della sua tirannia, mostrando di volere fare ciò ch’avea promesso, occultamente racchiuse nella rocca messer Lodovico con dugento cavalieri, e del mese di gennaio, essendo molti cittadini fuori della terra a una certa festa, scesono improvviso della rocca nella città gridando, viva Gentile da Mogliano, e muoia la parte della Chiesa, e corsono a serrare le porti, e i soldati che dentro v’erano per la Chiesa mandarono fuori. La gente del legato uscita di Fermo, e l’altra ch’era fuori, temendo per lo subito e non pensato tradimento, si ricolsono a Recanati: e fornito Gentile il suo tradimento, e fatto pace con messer Malatesta, e riavuto il porto di Fermo, tutti e tre i tiranni ribelli a santa Chiesa si collegarono insieme contro al legato, ma egli con grande animo per questo non si smagò, ma prese cuore d’abbatterli, come infine fatto gli venne. CAP. LIII. _Come gli ambasciadori de’ Fiorentini e’ Sanesi furono ricevuti dall’imperadore._ A dì 29 di gennaio detto, gli ambasciadori del comune di Firenze, in compagnia con gli ambasciadori di Siena, entrarono in Pisa, e andarono a fare la riverenza all’imperadore, e con loro furono ancora gli ambasciadori del comune d’Arezzo: (quelli del comune di Perugia, perocchè si voleano appresentare come uomini di santa Chiesa, non vollono andare con loro): e come giunsono all’imperadore, trovarono accolti con lui tutti i suoi baroni, ed entrando gli ambasciadori de detti comuni, i baroni avvallarono i cappucci, e l’imperadore e’ suoi li ricevettono con molta festa e allegrezza: e volendo baciare i piedi all’imperadore, nol sofferse: e ricevuta la riverenza da tutti, con singolare dimostramento d’amore prese per mano degli ambasciadori di Firenze, e feceseli tutti sedere allato, e tale fu ch’egli abbracciò e baciò in bocca per mostrare che contro a lui non avesse preso sdegno, sapendo ch’altra volta tornato a Firenze dalla Magna avea sparlato contro a lui; e festeggiando con tutti allegramente, domandarono giornata per sporre la loro ambasciata, e fu data loro per lo seguente giorno. CAP. LIV. _Come i Sanesi scopriro la loro corrotta fede contro a’ Fiorentini._ L’altro dì vegnente, a dì 30 di gennaio detto, gli ambasciadori del comune di Firenze vestiti di scarlatto foderato di vaio con adorni paramenti, con gli ambasciadori de’ Sanesi insieme, ch’erano de’ maggiori cittadini di quella città, s’appresentarono alla presenza dell’imperadore e del suo consiglio: e avendo voluto i Fiorentini che con loro insieme fossono gli ambasciadori d’Arezzo, i Sanesi ch’avevano la mente corrotta contro a’ Fiorentini nol vollono acconsentire, perchè i Fiorentini a quel parlamento non avessono chi li seguisse. E cominciando gli ambasciadori fiorentini a sporre l’ambasciata com’era loro imposto, per dimostrare più franchezza del loro comune, usarono parole di debita reverenza alla maestà imperiale, dicendo _santa corona_, e poi conseguendo _serenissimo principe_, senza ricordarlo imperadore, o dimostrargli alcuna riverenza di suggezione, domandando che il comune di Firenze volea, essendogli ubbidiente, le cotali e cotali franchigie per mantenere il suo popolo nell’usata libertà, e avendo tutto detto come fu loro commesso, conchiusono la loro reverenza con poco onore della maestà imperiale, della qual cosa seguitò poco onore a’ rettori di Firenze da cui mosse quello consiglio. Di questo nacque tra i baroni e’ consiglieri dell’imperadore, e massimamente tra coloro che per animo di parte erano contradi al comune di Firenze, sdegno e baldanza di parlare contro al nostro comune, e se l’imperadore, e il patriarca, e il vececancelliere non avessono avuta più temperanza che gli altri del consiglio, i fatti con la consequenza de’ Sanesi, che in quello consiglio ingannarono il comune di Firenze, andavano a rovescio con molto sdegno da catuna parte, ma il savio signore con temperanza conobbe quanto pericolo al suo stato portava a non rimanere in concordia col comune di Firenze, e però sostenne, magnificando quel comune, e mostrando verso quello volere fare quanto onestamente potesse fare, non guardando troppo all’onore imperiale: e ordinò di tornare con più diligenza altra volta a trattare co’ detti ambasciadori, e il suo consiglio ripremette d’ogni oltraggioso parlamento quivi fatto. Dopo questo, gli ambasciadori sanesi, ch’aveano altro in cuore che non aveano promesso a’ Fiorentini, lieti della poca riverenza fatta all’imperadore per gli ambasciadori fiorentini, parendo loro venuto il tempo che i loro rettori con coperta malavoglienza lungamente aveano aspettato, credendosi col loro tradimento abbattere e disfare il comune di Firenze, partendosi da quello che in fede aveano promesso al nostro comune, cominciarono a sporre innanzi all’imperadore, e al suo consiglio, e agli ambasciadori del comune di Firenze la loro ambasciata, magnificando con ornato sermone la serenità della maestà imperiale, chiamandolo loro signore, e senza alcuno patto offersono quello comune liberamente alla sua signoria, con le più magnifiche lode che pronunziare si possono, e con le più libere offerte, pensando di questo rimanere esaltati e grandi, e aver messo in fondo il comune di Firenze. Onde l’imperadore graziosamente e con lieto volto ricevette e accettò l’offerte di quello comune, e gli ambasciadori commendò molto del loro onorevole parlare, in onesta riprensione di coloro che con meno reverenza aveano parlato all’imperiale maestà. Ma perocchè l’intenzione dell’ordine de’ nove di Siena infino a quello punto era stata occulta a molti grandi cittadini di Siena e al comune di Firenze, cominciata a palesare ne’ fatti, ebbe ravvolgimenti, e seguironne cose assai notevoli, come al suo tempo innanzi racconteremo: ricordando qui, che come a Dio piacque, l’ordine de’ nove, che questo tradimento ordinarono, ne fu abbattuto e disfatto, e il comune di Firenze n’è esaltato in maggiore e migliore stato. CAP. LV. _De’ falli commessi per lo comune di Firenze, e degl’inganni ricevuti da’ suoi vicini._ Avvegnachè quello che seguita non sia cosa notevole, concedesi al nostro trattato per ammaestramento delle cose a venire. I rettori del comune di Firenze sentendo passato in Italia l’imperadore e coronato a Moncia, per loro non si fe’ alcuna provvisione in utilità o beneficio del nostro comune; stando egli lungamente a Mantova nel lieve stato che v’era, se il nostro comune v’avesse mandato a dargli conforto, ciò che avessono voluto avrebbono di grazia impetrato da lui, ove poi con pericolo e con gran costo s’accordarono con lui, come seguendo si potrà trovare. E ancora lasciarono per matta ignoranza a provvedere d’arrecare alla loro volontà e disposizione tutte le città e castella e terre vicine, le quali lievemente con alquanta provvedenza arebbono recato a dire e a fare quello che il comune di Firenze avesse voluto, ove in sul fatto catuna terra e castello senza richiesta del comune di Firenze prese suo vantaggio, non senza pericolo del nostro comune; la diligenza e la sollecitudine de’ nostri rettori fu abbandonata al corso della fortuna, come per antico vizio degli uomini del nostro comune è consueto, perocchè non è chi si curi di patrocinare lo stato e la provvedenza del nostro comune: e i rettori, c’hanno poco a fare all’uficio, intendono più alle loro private cose che a’ beneficii del comune, e però più lo conduce fortuna che provvedimento, ma molto l’aiuta Iddio, e gli ordini dati alla grande massa del comune per i nostri antichi maggiori. E in questo tempo per questa cagione avvenne, che i Sanesi non si curarono di rompere in sul fatto la fede a’ Fiorentini: e i Volterrani, sentendo l’offerte fatte pe’ Sanesi, anch’eglino si diedono liberamente all’imperadore contro al volere de’ Fiorentini; e i Pistoiesi contro al volere de’ Fiorentini, e senza con loro conferirne vi mandarono ambasciadori per darlisi: ma sentendo che il comune di Firenze si turbava contro a loro, si rattennono della libera profferta, e soprastettono più per paura che per amore: e’ Samminiatesi cominciarono segretamente, coprendosi a’ Fiorentini, di darsi liberamente all’imperadore, e trovando tra loro concordia, prima l’ebbono fatto ch’e’ Fiorentini vi potessono riparare; e se non fosse che i rettori d’Arezzo temeano forte de’ Tarlati loro usciti e de’ ghibellini d’entro, avendosi veduti a stanza de’ Sanesi abbandonare da’ Fiorentini nella presenza dell’imperadore, si sarebbono dati come gli altri, non curandosi del Comune di Firenze, ma per loro medesimi sostennono la libertà di quello comune, essendo forte impugnati da’ Tarlati Pazzi e Ubertini loro ribelli ch’erano con l’imperadore. E avvedutisi gli ambasciadori fiorentini dell’inganno de’ Sanesi, e di quello ch’aveano fatto i Samminiatesi e’ Volterrani, cominciarono a parlare per gli Aretini e per i Pistoiesi; l’imperadore per sua industria non li sostenne, ma disse la parola del Vangelo: _aetatem habent ipsi, de se loquantur_, e non lasciò dar loro audacia o favore; e così per difetto di mala provvedenza, i Fiorentini de’ loro propri fatti, e di quelli che s’appartengono alla guardia de’ loro vicini, furono più e più giorni a pericoloso partito, e in grande ripitio degli altri cittadini. CAP. LVI. _Di molti Alamanni venuti alla coronazione dell’imperadore._ Stando l’imperadore a Pisa ne’ trattati colle città e comuni di Toscana, come detto è, innanzi che i sindachi fossono venuti a fermare le suggezioni, la novella della sua coronazione da Moncia, e dell’avvenimento da Pisa, era sparta in Alamagna e nel suo reame di Boemia, e come le città d’Italia erano senza guerra acconce alla sua ubbidienza: e per questo l’imperatrice si mosse con mille cavalieri di buona gente d’arme e molti baroni a sua compagnia per venire a Pisa, e per simile modo molti prelati e grandi signori della Magna di diverse provincie si mossono, catuno con grande compagnia, per venire in Italia per essere alla sua coronazione a Roma, e in breve tempo giunsono a Pisa l’imperatrice e più di quattromila cavalieri della più bella e ricca baronia del mondo, bene montati, e con nobili paramenti, e molti arnesi, ma con lieve armadura, e molti ne vennono per la nostra città, albergandone seicento e settecento per notte, ove con cortese e buona guardia onorevolmente furono veduti e albergati. L’imperatrice volea di grazia venire per Firenze, ma perocchè ancora per lo nostro comune non era presa fermezza d’accordo con l’imperadore, temendo che l’ignorante e indiscreto popolo minuto non movesse parole villane contro a’ forestieri essendo l’imperadrice nella città, o contro i rettori del nostro comune, per lo meno reo e più sicuro fu diliberato e preso, che con grande compagnia o piccola ella non venisse nella città di Firenze. CAP. LVII. _Di novità della Marca per Recanati._ Messer Malatesta da Rimini, e il capitano di Forlì, e Gentile da Mogliano, collegati insieme contro al legato, sentendo che i signori di Milano aveano tregua con gli allegati Lombardi, e catuno stava sospeso per cagione dell’imperadore, aveano cassi cento bandiere di soldati, e perchè non tornassono loro addosso per via di compagnie non li lasciavano partire del loro distretto se non per la via della Magna: e per questo li ritennono a manicare sopra la pelle più d’un mese, e molti se ne tornarono nella Magna, perocch’erano tutti Tedeschi, e quando gli ebbono assottigliati, concedettono al resto la via per la Lombardia, i quali senza arresto improvviso giunsono in Romagna: e arrestati quivi senza far danno da millecinquecento barbute, i tiranni sopraddetti romagnuoli s’accolsono con loro, e fatto loro alcuno aiuto di loro danari, e promesse d’una buona terra dove potrebbono vernare ad agio, li condussono a Recanati, pensando per forza poterla vincere e racquistare. Il legato ammaestrato de’ fatti della guerra e de’ baratti de’ suoi avversari, avendo per suo capitano di guerra messer Ridolfo da Camerino, pro’ e valente cavaliere, avea fatta guernire di gente d’arme da cavallo e da piè la città di Recanati: sicchè sopravvenendo i tiranni con quella cavalleria, e sforzandosi di combatterla, la trovarono sì guernita alla difesa, che ne perderono tosto ogni speranza: e non potendovi soprastare, con vergogna se ne partirono tornandosi addietro. CAP. LVIII. _Come la gran compagnia del conte di Lando entrò nel Regno._ Essendo per l’avvenimento dell’imperadore in triegua i fatti di Lombardia, la gran compagnia del conte di Lando era tornata nella Marca: e ricordandosi che l’anno dinanzi il re Luigi non avea mandato loro quarantamila fiorini d’oro ch’egli avea promessi, e sentendo che il duca di Durazzo e il conte Paladino erano in rubellione della corona, ed erano contenti che la compagnia entrasse nel Regno, nondimeno il conte di Lando, perchè il re non si provvedesse contro a loro, tenea trattato d’accordarsi al soldo della Chiesa: ma non gli era bisogno, che ’l traccurato re era stato assai dinanzi avvisato dall’imperadore e da più altri che si provvedesse, che di certo la grande compagnia dovea entrare nel Regno, e la provvigione che di ciò fatta era, era di stare continovo in danzare e in festa colle donne: e però la detta compagnia facendo la via della marina d’Abruzzi, senza trovare contasto o riparo entrò nel Regno: e nella prima entrata presono Pescara, e Villafranca, e san Fabiano, e trovandoli pieni di vittuaglia e d’arnesi si dimorarono in essi fino al marzo, recando in preda ciò che venne loro alle mani, scorrendo le contrade d’intorno. E d’altra parte il conte Paladino, con trecento cavalieri e molti masnadieri, in questo medesimo tempo correva predando le terre di Puglia, facendo noia e danno assai a’ paesani; e avvegnachè messer Luigi di Durazzo non si scoprisse in questi fatti, tutto si riputava che fosse di suo consentimento e volontà. Il re facea fortificare le terre alla difesa contro alla compagnia, e confortavali che si guardassono bene per non cadere nelle mani de’ predoni: altro aiuto non dava loro, che non n’era provveduto nè fornito di poterlo fare. CAP. LIX. _Come l’imperadore andò a Lucca._ Essendo stato l’imperadore in Pisa, e lasciato fare a’ cittadini le novità che narrate avemo, stimando che quelle divisioni fossono favorevoli alla sua signoria, e in iscusa a’ patti rotti, intra’ quali era la suggezione di Lucca, già immaginandone alcuna cosa a sua utilità, volle andare a vedere la città, e a dì 13 di febbraio anno detto si mosse con piccola compagnia di gente d’arme, e stettevi quel dì e l’altro, e prendendo la riverenza da’ cittadini, il pregavano della loro libertà. Il savio e avveduto imperadore, volendo compiacere a’ Pisani e mostrare di volere mantenere i patti, quanto che altro avesse nell’animo, disse, com’e’ sapeva che i cittadini di Lucca erano stati per lungo tempo ribelli all’imperio, e però li reputava degni di quello ch’avevano ricevuto: e confortandoli disse, che comportassono con pazienza quello che sosteneano per penitenza del peccato commesso, tanto che meritassono la liberazione: e nell’agosto lasciò que’ medesimi cittadini che i Pisani v’aveano deputati alla guardia, e non rimosse uficiali nell’ordine di quel reggimento in alcuna parte, e l’altro dì se ne tornò a Pisa. CAP. LX. _Come al Galluzzo nacque un fanciullo mostruoso._ In questo mese di febbraio nacque presso a Firenze in un luogo che si chiama il Galluzzo, a uno barbiere, un fanciullo mostruoso e diminuto, che ’l viso era come di vitello con gli occhi bovini, e dove doveano essere i bracci, dagli omeri delle spalle uscivano due branche quasi come d’una botta, da ogni parte la sua, e avea il corpo e la natura umana senza coscie: ma dove le coscie dall’imbusto doveano discendere, uscivano due branche da catuno lato una, ravvolte che non aveano comparazione: e’ vivette parecchie ore, e appresso morì, lasciando ammirazione di se. Ma di questo e degli altri corpi umani nati mostruosi nella nostra città non potemmo comprendere che fosse vestigio o pronosticatori d’alcuni accidenti, come credeano gli antichi, ma gli sconci e disonesti peccati spesso sono cagione di mostruosi nascimenti, e alcuna volta l’empito delle costellazioni. CAP. LXI. _De’ fatti di Siena con l’imperadore._ Era per lunghi tempi governato il reggimento della città di Siena per l’ordine de’ nove, il quale era ristretto in meno di novanta cittadini sotto certo industrioso inganno: perocchè quando il tempo veniva di fare i loro generali squittini, acciocchè ogni degno cittadino popolare entrasse nell’ordine de’ nove, coloro ch’aveano già usurpati gli ufici si ragunavano segretamente in una chiesa, e ivi disponevano d’alcuni cui voleano che rimanessono nell’ordine, fermandoli tra loro per saramento, e prometteano tutti dare a’ detti le loro boci co’ lupini neri, e tutti gli altri ch’andavano allo squittino, ch’erano molti buoni e degni cittadini, li riprovavano co’ lupini bianchi, sicchè l’ordine non crescea più che volessono, nè alcuno v’entrava che tra loro prima non fosse deliberato: per la qual cosa erano in odio a tutti gli altri popolani, e a gran parte de’ nobili con cui non s’intendeano. Eranvi certi che manteneano questa setta, e guidavano il comune com’e’ voleano; costoro furono quelli che con loro tradimento credettono abbattere il comune di Firenze, e disfare sua franchigia e reggimento con la forza dell’imperadore, ed esaltare loro, sottomettendo la libertà del loro comune alla libera signoria dell’imperio, come poco addietro abbiamo narrato: avvenne, che manifestata in Siena l’intenzione de’ loro rettori, strana all’intenzione de’ Fiorentini e della maggior parte de’ loro cittadini grandi e popolani, essendo mandato per gli ambasciadori al comune di Siena che facessono il sindaco a fare la sommissione, la cosa cominciò a intorbidare gli animi de’ cittadini, e a impedirsi il sindacato con grandi ripitii de’ loro rettori e dell’ordine de’ nove che questo aveano fatto, e fu la città in grave sospetto di ravvolgimento e di romore, e tutte le case de’ grandi feciono ragunata di gente d’arme. L’imperadore in Pisa volea che gli ambasciadori sanesi facessono la sommessione ch’aveano promessa di fare, e per questa cagione avea fatto bandire il parlamento. Allora uno degli ambasciadori ch’era della casa de’ Tolomei disse a’ compagni, che non intendea senza nuovo sindacato palese a’ suoi cittadini fare quella sommessione: e per questo traendosene catuno addietro, la cosa soprastette, e rimandarono a Siena: di che l’imperadore ebbe malinconia e gran sospetto, e tutti i dì di questo aspetto stette rinchiuso senza dare alcuna udienza o mostrarsi ad alcuno. I grandi cittadini di Siena conoscendo il gran pericolo che occorrere poteva al loro comune ribellandosi della promessa fatta all’imperadore, e avendo fatto conoscere all’ordine de’ nove e al popolo, che senza loro volontà non aveano podere di darsi all’imperadore, a dì 26 di febbraio ragunato il parlamento, per volere piacere non meno al minuto popolo, ch’era imperiale, che all’ordine e alla setta de’ nove, feciono fare il sindacato pieno a darsi liberamente all’imperadore. Avvenne per questo, che l’imperadore conobbe e seppe che le case de’ grandi di Siena ebbono la signoria di fare della città a loro senno, e da loro principalmente conobbe la soggezione di quella; e venuto il nuovo sindacato agli ambasciadori detti, domenica, a dì primo di marzo del detto anno, raunato il parlamento, i detti ambasciadori con pieno sindacato del loro comune, feciono al detto eletto imperadore per se e pe’ suoi successori ricevere libera suggezione del misto e mero dominio di quella città e contado, e de’ loro uomini alla signoria dell’imperio, non riserbandosi alcuna franchigia dell’antica libertà di quello comune: e di questo li feciono fare reverenza, e prestarono il saramento, ed egli l’accettò e ricevette per se e pe’ suoi successori in futuro in presenza di tutto il parlamento, con grande allegrezza e festa del popolo pisano ch’era presente; e accecati dalla coperta invidia che portavano al comune di Firenze, avvisandosi per questo abbattere la libertà de’ Fiorentini, mattamente sommisono la loro. CAP. LXII. _Di più imbasciate ghibelline state in presenza dell’imperadore._ Non ci parve da lasciare in silenzio quello che al presente seguita. Messer Piero Sacconi, e il vescovo d’Arezzo degli Ubertini, e Neri da Faggiuola, co’ loro consorti e co’ Pazzi di Valdarno, feciono loro sforzo accattando sopra loro possessioni, e vendendone, per mettersi a comperare belli cavalli, e armi orrevoli, e robe e ricchi paramenti, per comparire magnifici nella presenza e servigio dell’imperadore, credendosi essere esaltati da lui sopra gli altri Toscani: ed essendo gli ambasciadori d’Arezzo per trovare accordo con l’imperadore, i loro caporali nominati s’appresentarono nell’udienza imperiale, e in quella addomandarono baldanzosamente d’essere rimessi nella loro città d’Arezzo, e che a loro fossono rendute le terre e le possessioni. Gli ambasciadori francamente li ripugnavano. L’imperadore, ch’avea l’animo a’ fatti suoi e non a quelli della parte ghibellina, li si levò dinanzi, dando loro uditori ch’avessono a riferire a lui: e nella presenza degli uditori messer Piero montò in tanta arroganza, che con aspre minacce e villanie domandava di volere essere restituito nella capitaneria d’Arezzo e del contado. Gli ambasciadori savi e coraggiosi rimproveravano la sua abbominevole tirannia, e il proprio acquisto fatto per violente rapina, e per manifesta ruberia fatta a’ meno possenti sotto il titolo del capitanato, conchiudendo, ch’egli era degno di ricevere dall’imperio gravi pene, avendo convertita la capitaneria di quella città in incomportabile tirannia: e che quella città che gli era accomandata per la santa memoria dell’imperadore Arrigo, egli per malizia e per somma avarizia l’avea sottoposta e venduta a’ Fiorentini per quarantamila fiorini d’oro, in vergogna e detrimento del santo imperio: e grande vergogna gli era ora con sfrenata baldanza avere fatto manifesto all’imperiale maestà cotanti suoi difetti. Ancora il detto messer Piero avea nella presenza degli uditori e degli ambasciadori infamato Neri da Faggiuola, ch’avea per amistà de’ Perugini fatta la terra del Borgo, ch’era per lui acquistata a’ ghibellini, venire in parte guelfa; per Neri gli fu altamente risposto, mostrando come tutto era avvenuto per la sua malizia, e per le sue violenze quando v’avea stato: e anche avvenne che il vescovo d’Arezzo si lamentò di messer Piero di gravi ingiurie; e così l’uno disse improvviso contro all’altro per modo, che tutti impetrarono grazia nel cospetto dell’imperadore e del suo consiglio di gravi abbominazioni, senza altro acquisto di frutto; e d’allora innanzi gli ambasciadori del comune d’Arezzo ebbono graziosa udienza dall’imperadore per l’accordo di quello comune. CAP. LXIII. _Come i Volterrani si diedero all’imperadore._ Avvegnachè innanzi sia fatta alcuna narrazione della sommissione di Volterra e di Samminiato, qui si torna al termine del fatto. I Volterrani sapendo che i Sanesi senza patto erano sottomessi all’imperadore, avendo poco amore e meno confidanza al comune di Firenze, perocchè si reggevano sotto la tirannia de’ figliuoli di messer Ottaviano de’ Belforti, i quali quanto che fossono guelfi di nazione, per la tirannia dichinavano ad animo ghibellino come mettesse loro bene, e non amavano il comune di Firenze nè i Fiorentini per la tirannia, ch’era contradia alla libertà del nostro comune, e però senza volere seguire il consiglio de’ Fiorentini di domandare patti, feciono sindachi i loro ambasciadori con pieno mandato e mandarli a Pisa, i quali in pubblico parlamento, a dì 4 di marzo del detto anno, si sottomisono liberamente alla signoria dell’imperatore e de’ suoi successori, e feciono l’omaggio e la reverenza per lo detto comune, e il saramento come i Sanesi aveano fatto. CAP. LXIV. _Come i Samminiatesi si diedero all’imperadore._ I Samminiatesi, che soleano essere più all’ubbidienza del comune di Firenze che i Volterrani, avendo vedute le sopraddette città di parte guelfa già sottomesse all’imperio, e che il comune di Firenze trattava per se d’accordarsi con lui, essendo tra loro divisi per setta per la maggioranza delle due famiglie Malpigli e Mangiadori, temendo l’una parte che l’altra non pigliasse vantaggio, s’accostarono insieme dopo l’aspetto di più giorni: e celandosi da’ Fiorentini perchè non movessono alcuna delle dette case, e veduto loro tempo convenevole, di concordia feciono loro ambasciadori con pieno mandato e sindacato del comune a darsi liberamente all’imperadore; e mandatili a Pisa, a dì 8 di marzo in parlamento si sottomisono liberamente alla signoria dell’imperadore; e fatto il saramento, e volendo fare l’omaggio e baciare i piedi all’imperadore, li levò di terra, e ricevetteli _ad osculum pacis_, cosa che non avea fatta a’ sindachi di niuna altra città: la cagione si stimò che fosse per l’affezione che l’imperio per antico avea a quello castello, ove solea essere la residenza degl’imperadori e de’ loro vicari, perchè è uno mezzo tra le grandi e buone città di Toscana. Questo fu prima fatto che il comune di Firenze ne sentisse alcuna cosa, e quando il seppono, più gravò nell’animo de’ cittadini di Firenze che la sommissione di Siena e di Volterra, per la vicinanza che ’l detto castello ha con la nostra città e con l’altre di Toscana: ma gran cagione ne fu la poca provvedenza già detta de’ rettori del nostro comune. CAP. LXV. _Di disusato tempo stato nel verno._ Non ci pare da lasciare in silenzio quello che fu singolare alla memoria de’ più antichi, la cagione si credette che venisse da influenza di costellazioni: il fatto fu, che dal novembre al marzo il tempo fu di dì e di notte il più sereno, cheto e bello che per addietro si ricordasse, essendo il freddo senza venti continovo e grande: e le nevi ch’erano cadute dal principio si mantennono ghiacciate nel contado di Firenze, e in molte parti bastò nella città più di tre mesi: il mare fu tranquillo e dolce a navicare oltre alla credenza degli uomini; tutti i gran fiumi stettono serrati di ghiaccio lungamente per modo che niuno si poteva navicare, e il nostro fiume d’Arno, che è corrente come uno fossato, stette fermo e serrato di ghiaccio, che lungamente senza pericolo in ogni parte si poteva sopra il ghiaccio valicare: e a dì 8 di marzo cominciarono a rompere le piove dolci e utili a tutte le sementa della terra. CAP. LXVI. _Come il segreto giurato in Firenze fu manifestato all’imperadore._ Seguendo gli ambasciadori di Firenze il trattato della concordia con l’imperadore, e avendo il mandato di profferirgli per lo comune cinquanta migliaia di fiorini d’oro, avendo da lui i patti privilegiati che per parte del comune gli si dimandavano, l’imperadore, avvisato e malizioso, della moneta, dov’egli avea l’animo, non mostrava di curarsi, ma ne’ patti si mostrava strano e tenace per vendere più cara la sua mercatanzia. Avvedendosi di questo gli ambasciadori, e avendone alcuno segreto accennamento di fuori da lui, due degli ambasciadori per comune consiglio degli altri tornarono in Firenze per informare a bocca i rettori, e avvisarli di quello che a loro pareva dell’intenzione del signore. Vedendo i rettori che l’imperadore s’addurava, e che le terre vicine s’era no date liberamente alla sua signoria, aveano cagione di più temere: e tennono più consigli segreti ove si raccontavano de’ falli dell’eletto: come manifesto appariva che non avea tenuto fede a’ Gambacorti, nè allo stato di coloro che reggevano la città di Pisa, dilettandosi de’ romori e della divisione de’ cittadini, e tenea con loro che più erano pronti a movere le novità nella terra per averne più libera signoria, e come si mostrava bisognoso e cupido di trarre a se moneta: e avendo per più riprese praticato sopra i fatti dell’imperadore e sopra quelli del nostro comune, infine d’un animo presono partito per lo meno reo, che non si guardasse a costo di moneta infino in fiorini centomila d’oro, dandoli all’imperadore, dove la nostra città di Firenze rimanesse libera in sua giurisdizione, con altri singolari patti. E commettendo la pratica di queste cose ne’ detti ambasciadori, avendoli informati che si tenessono forti a cinquantamila fiorini, e che non mostrassono nè paura nè viltà in domandare e sostenere il vantaggio del comune nella quantità della moneta e negli altri patti, ma innanzi si rompessono da lui aveano di darli i detti fiorini centomila d’oro. Questo consiglio fu ristretto ne’ priori e ne’ loro collegi con piccolo numero d’arroti, e fu comandata a tutti la credenza, e giurata solennemente: e rimandati i due ambasciadori a Pisa, essendo con l’imperadore, e sostenendo francamente quello ch’era stato loro imposto, l’imperadore cominciò a sorridere contro a loro, e manifestò ciò ch’era loro commesso, e la deliberazione del loro comune, dicendo, che per scrittura tutto gli era manifesto. Gli ambasciadori di presente senza procedere più innanzi significarono all’uficio de’ priori ciò ch’aveano di bocca dell’imperadore della revelazione del loro segreto consiglio, che per questa cagione, avvegnachè per loro non li fosse acconsentita alcuna cosa, il trovavano più duro e più turbato che prima, dicendo, come non era traditore de’ Gambacorti, nè che non era cupido di moneta più del suo onore, nè si dilettava nella commozione de’ cittadini. Come questa novella fu divolgata nella nostra città, l’infamia de’ signori, e de’ collegi, e degli arroti, in cui era la credenza, fu molto grande: ma però non trovò il comune chi alcuna cosa ne facesse allora per purgare la comune infamia, temendo per la tenerezza dello stato, avendo così dipresso l’imperadore, che maggiore pericolo non ne seguisse. Il consiglio non fu reo, se rifermato lo stato del comune con la pace dell’imperadore se ne fosse fatta debita inquisizione e giustizia. CAP. LXVII. _Come l’imperadore mandò aiuto di gente al legato._ Essendo i tiranni di Romagna accozzati insieme, e accolta gente d’arme assai venuta di Lombardia per reprimere la forza del legato, ch’era piccola, il legato mandò a richiedere l’imperadore d’aiuto. L’imperadore immantinente, per mostrarsi zeloso e divoto a’ servigi di santa Chiesa, vi mandò di presente de’ suoi Tedeschi cinquecento barbute, e feciono la via per Siena, veduti e onorati da’ Sanesi graziosamente: e giunti al legato con l’insegna del loro signore, rifrenarono la forza e la volontà de’ tiranni. Questo non era per l’andata di cinquecento barbute cosa da farne memoria, ma consentesi al nostro trattato perchè fu la prima e l’ultima che l’imperadore facesse in Italia in fatti d’arme. CAP. LXVIII. _Trattati dell’imperadore ai Fiorentini._ Essendo gli ambasciadori del comune di Firenze quasi ogni dì con l’imperadore per trattare la concordia, ed egli avendo scoperto il segreto del comune, e crescendogli ogni dì forza grandissima di baroni e di cavalieri della Magna, non gli parea volere di meno, e però si tenea forte a non condiscendere alla volontà de’ Fiorentini: e nondimeno temperava per non rompersi da loro, con tutto l’attizzamento de’ caporali ghibellini d’Italia ch’erano appresso di lui, che al continovo l’infestavano, perchè si rompesse dai trattato della concordia de’ Fiorentini, mostrandogli che avendo egli Pisa e Siena, Volterra e Samminiato, e l’aiuto de’ ghibellini ch’erano ivi a fare i suoi comandamenti, e la gran forza della sua baronia, senza dubbio di presente ne sarebbe signore a cheto, e abbatterebbe la loro arrogante superbia con grande onore e magnificenza dell’imperio. Il savio signore conoscea quanto pericolo gli potea incorrere, potendo con suo onore e vantaggio avere pace, cercare guerra: e conosceva, che quando il comune di Firenze, ch’era potentissimo, si facesse capo della guerra contro a lui, che tosto gli si scoprirebbono molti nemici: e conoscea il servigio che avrebbe dalla gente tedesca, se con larga mano non li provvedesse, e quanto erano fallaci le suggestioni de’ ghibellini d’Italia: e però serbava il consiglio e la diliberazione nel suo petto, e forte si temea che nascesse cagione per la quale i Fiorentini si rompessono dal trattato; e però avendo trattato con loro per modo che pareano assai di presso, l’imperadore disse, che facessono d’avere il sindacato pieno dal loro comune come la materia richiedeva: e allora diliberarono che tre degli ambasciadori tornassono a Firenze a fare che il sindacato si facesse. CAP. LXIX. _Raccolti falli de’ governatori del comune in Firenze._ Perocchè gli antichi moderati e virtudiosi che soleano reggere e governare lo stato della repubblica in grande libertà, e con maturi movimenti e con diligente provvidenza governavano quella in tempo di pace e di guerra, e non perdonando i falli che si faceano contro la patria, nè lasciando senza merito l’operazioni che si facevano virtudiose in accrescimento e onore del comune, onde al nostro tempo è da maravigliare come la cittadinanza si mantiene, essendo strana da quelle virtù, e dalla provvisione di quel reggimento: e in luogo di quelli antichi amatori della patria, spregiatori de’ loro propri comodi per accrescere quelli del comune, si trovano usurpatori de’ reggimenti con indebiti e disonesti procacci e argomenti, uomini avveniticci, senza senno e senza virtù, e di niuna autorità nella maggiore parte, i quali abbracciato il reggimento del comune intendono a’ loro propri vantaggi e de’ loro amici con tanta sollecitudine e fede, che in tutto dimenticano la provvisione salutevole al nostro comune: e non è chi per lui pensi, nè per la sua libertà, nè per lo suo esaltamento, nè onore, nè per riparare al pericolo che sopravvenire gli può, se non nella strema giornata o in sul fatto; e per questo spesso occorrono gravi casi al nostro comune, e niuno prende vergogna, o aspetta, per avere mal fatto al comune, alcuna pena: e però non è senza pensiero di grande ammirazione come il nostro comune non cade in grandi pericoli di suo disfacimento. Ma i discreti del nostro tempo tengono che questo sia singolare grazia e operazione di Dio, perocchè in così gran fascio di cittadini e di religiosi, benchè molti ne sieno de’ rei, assai v’ha de’ virtuosi e de’ buoni, le cui preghiere conservano la città da molti pericoli, e alquanto è la gente cattolica e limosiniera, perchè Iddio la conserva; e oltre a ciò gli ordini dati alla massa del comune per li nostri antichi, e ’l reggimento che ha preso il corso alla comune giustizia per le conservate leggi, è grande braccio al conservamene del comune stato. E benchè gli usurpatori del non degno uficio sieno molti, e male disposti al comune bene, e solleciti e provveduti a’ loro propri vantaggi, e occupino la civile libertà, il tempo di due mesi ordinato al reggimento del sommo uficio del priorato per li nostri provveduti antichi è sì breve, che fa grande resistenza alla propria arroganza: e ancora la riprieme non poco la compagnia di nove priori e de’ loro collegi. Ma non possono ammendare il continovo fallo dell’abbandonata provvedenza: onde avviene, che come fortuna guida le cose, infino al pubblico destamento del popolo si pena a provvedere, non il migliore consiglio, che nol concede il trapassamento delle debite provvedenze, ma il meno reo. E questo avviene continovo in tutte grandi e pericolose cose e accidenti ovvero imprese che accaggiono al nostro comune. CAP. LXX. _Come a Firenze si fece il sindacato per l’accordo con l’imperadore._ Avendo narrato il modo del reggimento del comune di Firenze e de’ suoi rettori, si può dire con verità del fatto, manifestato più volte in pieno consiglio per la bocca dell’imperadore, che avendo mandati il comune di Firenze a Mantova suoi ambasciadori a profferirgli l’aiuto del comune, e confortarlo della sua coronazione, non avrebbono domandati que’ patti, che largamente senza niuna promessa di moneta non avesse liberamente fatti; ma la provvedenza era, ed è per lunghi tempi stata in contumace del nostro comune: e però tornati a Firenze i tre ambasciadori per far fare il sindacato, sperando la concordia con l’imperadore, a dì 12 di marzo del detto anno, ragunato il consiglio del popolo secondo l’ordine del nostro comune, che prima s’ha a deliberare in quello, poi in quella del comune, avvenne che il notaio delle riformagioni, ch’era natio da..... leggendo i patti che s’intendeano d’avere con l’imperadore, per mostrare grande tenerezza al popolo della libertà pura del comune, non ostante che in quelle scritture se ne contenesse assai già deliberate pe’ signori e pe’ collegi, si ruppe a piagnere per modo, che la proposta non si potè leggere; e gli animi de’ consiglieri a quelle lagrime si commossono dal loro proponimento, e però si rimase il consiglio e il sindacato per quella giornata, e convenne che di nuovo si rifacessono altri privati consigli, ne’ quali il movimento del notaio non fu riputato fatto con movimento di ragionevole carità, ma piuttosto per adulazione per accattare benivoglienza dal popolo. E pertanto tutti i privati consigli fermarono l’intenzione a fare quello s’addomandava dagli ambasciadori, e da capo a dì 13 del detto mese si mosse la proposta al consiglio del popolo, e sette volte l’una dopo l’altra si perdè: all’ultimo levati molti cittadini d’autorità a dire, e a mostrare il beneficio che di questo seguitava al comune, e il pericolo che venia del contrario, si vinse, e fu dato la balìa di pieno sindacato a tutti e sei gli ambasciadori del comune, a potere promettere per lo comune ciò ch’era trattato o di nuovo si trattasse: e appresso l’altro dì, a dì 14 del mese, con minore fatica si rifermò nel consiglio del comune, e gli ambasciadori col mandato pieno si tornarono a Fisa. CAP. LXXI. _Quello si fe’ per alcuno cardinale per la coronazione dell’imperadore._ In questi dì il cardinale d’Ostia, a cui s’appartiene la coronazione dell’imperadore, giunse in Pisa, ricevuto dall’eletto a grande onore. Era consuetudine di santa Chiesa di mandare tre cardinali alla coronazione degl’imperadori, quello d’Ostia, c’ha l’uficio d’andare a coronare l’imperadore alle sue spese e alla sua provvisione, gli altri due debbono andare alle spese di santa Chiesa: ma a questa volta essendone fatto gran procaccio in corte, e per questo avuto la grazia il cardinale di Pelagorga, e quello di Bologna in su ’l mare, ch’erano di maggiore legnaggio, il papa e gli altri cardinali non acconsentirono che la Chiesa facesse loro le spese, dicendo, se voleano andare ch’aveano la benedizione, ma altro non aspettassono. I cardinali considerarono la spesa grande, e l’imperadore povero di moneta e stretto d’animo, e però con poco loro onore per lo procaccio fatto si rimasono di quella legazione, e il papa per non accrescere loro vergogna non ve ne mandò alcuno altro: e di questo non si turbò l’imperadore per non avere a stendere in loro il suo onore. CAP. LXXII. _Come si fermò l’accordo e’ patti dall’imperadore al comune di Firenze._ Sentendo l’imperadore tornati gli ambasciadori del comune di Firenze con pieno mandato e sindacato da fare l’accordo con lui, e come a’ Fiorentini era paruto malagevole, e conosciuto ch’egli avea recati gli ambasciadori a promettergli centomila fiorini d’oro, più per la revelazione ch’egli avea fatta loro del segreto del comune che per altro piacere, e trovando che i Pisani per mala suggestione già gli aveano domandato che li dovesse liberare della franchigia ch’e’ Fiorentini aveano in Pisa per li patti della pace, ed egli sostenea dicendo, che il loro movimento non era buono; e vedendo che il suo consiglio era insuperbito per la gente alamanna che crescea al suo servigio tutto dì, e per la forte inzicagione che i ghibellini italiani faceano loro, temette del suo consiglio, e poi volle gli ambasciadori avere in camera seco col patriarca e col vececancelliere soli: e cominciando a chiarire i patti, l’imperadore vi s’allargò molto più che infino allora non avea fatto, per tema che discordia non rinascesse, e per non avere a riferire la sua volontà col suo consiglio. Nondimeno quando vennero al saramento per fermezza delle cose che si trattavano, gli ambasciadori al tutto voleano il salvo manifesto e palese fermato col detto saramento; l’imperadore si fermò a non volerlo fare: ma volea la sommissione libera, e da parte privilegiare i patti, e che nel saramento de’ sindachi non fosse eccezione. Gli ambasciadori, in questa parte alquanto indiscreti, potendolo fare a salvezza del comune, lungamente lo tennono sospeso non senza sua turbazione, e poi il feciono, e già era molto infra la notte. Appresso vennono a dire, che il saramento della sommissione non voleano che si stendesse a’ successori dell’imperio, altro che alla sua corona; a questo, disse l’imperadore, che non credea che vi si stendesse, perocchè questo si dovea fare nominatamente alla sua persona, ma dove a’ successori andasse, in niuna maniera intendea a derogare le loro ragioni. Appresso domandarono, che tutte le leggi e statuti fatte e fatti, o che per innanzi si facessono per lo comune di Firenze, in quanto le comuni leggi nominatamente non le repugnassono, le dovesse per suoi privilegi confermare. Questa gli parve sconvenevole domanda, e non la volea consentire: e parendo questo agli ambasciadori dubbioso, tre ore o più di piena notte tennono la contesa con lui, e infine l’imperadore infellonito gittò la bacchetta ch’avea in mano per terra, e mostrandosi forte crucciato, giurò in alta voce per più riprese, che se innanzi ch’egli uscisse di quella camera questo non si consentisse per i sindachi, che con la sua forza e de’ signori di Milano e degli altri ghibellini d’Italia distruggerebbe la città di Firenze, dicendo, che troppa era l’altezza della superbia d’uno comune a volere suppeditare l’imperio. Gli ambasciadori vedendolo così forte turbato dissono, che troverebbono modo di venire a fare di ciò la sua volontà: e perocchè l’ora era fuori di modo tarda, presono licenza per andarsi a posare, e per questa cagione ogni cosa rimase imperfetta in quella notte, e in quell’ora significarono il fatto gli ambasciadori a’ signori di Firenze, per avere il dì vegnente da risposta a buon’ora. L’imperadore sentendo che gli ambasciadori aveano scritto al comune di Firenze significando le sue parole, temette forte che i Fiorentini non si rompessono dalla concordia, e però la mattina per tempo, non attendendo che gli ambasciadori avessono risposta, mandò per loro, e usate molte savie parole intorno al movimento tedioso della notte, con dimostramento di grande amore verso il comune di Firenze, largamente acconsentì ciò che gli ambasciadori aveano domandato: e oltre a ciò per sua liberalità, ove gli ambasciadori gli aveano promesso d’essergli stadichi per attendere la promessa del comune, poco appresso fatta la concordia disse, ch’alla fede del comune intendea di stare di questo e d’ogni gran cosa, e licenziò gli stadichi, e raffermata tutta la concordia, innanzi che da Firenze venisse la risposta: nondimeno il comune avea risposto, che per le dette cose non volea che la concordia rimanesse: e questo fu a dì 20 di marzo del detto anno. CAP. LXXIII. _Come i Fiorentini per mala provvedenza errarono a loro danno._ Avvegnachè molto sia detto de’ falli del nostro comune, uno singolare non ci si lascia passare senza fare in questo luogo memoria di lui. Fatta e ferma la concordia con l’imperadore di dargli fiorini d’oro centomila per avere fine e remissione da lui delle condannagioni e pene, in che ’l nostro comune era incorso per decreti dell’imperadore Arrigo e degli altri suoi antecessori, si ritrovò il saramento fatto per lo detto eletto a papa Clemente sesto e alla Chiesa di Roma, quando fu promosso per operazione del detto papa e di santa Chiesa all’elezione dell’imperio, ch’egli libererebbe i comuni di Toscana d’ogni condannagione fatta per i suoi antecessori, e d’ogni debito a che si trovassono obbligati per addietro all’imperio, massimamente il comune di Firenze, il quale per l’imperadore Arrigo era stato condannato con i suoi cittadini in loro singolarità, la qual cosa era manifesta a santa Chiesa. E ancora giurò, che i detti comuni non graverebbe, nè farebbe contro alcuno di quelli muovere guerra, nè sottometterebbe la loro libertà. Grande ignoranza fu trattare presso a due mesi con l’imperadore, e non avere memoria di cotanto fatto. Io reputo essere stata degna compensagione, avendo così fatta ignoranza compensata con prezzo di cento migliaia di fiorini d’oro, i quali il comune pagò per avere con fatica e con paura quello che aver potea senza costo, per la benigna provvedenza di santa Chiesa: e quello che pagò per debito in piccola parte, potea in luogo di servigio e di grazia compensare. Vergognomi ancora di scrivere la seguente arrota: avendo nella fama dell’avvenimento in Italia dell’imperadore, mandato a corte al papa e a’ cardinali per avere aiuto e favore da santa Chiesa, le lettere furono impetrate piene e graziose e favorevoli per lo nostro comune all’imperadore, ove il papa e’ cardinali gli ricordavano la promessa fatta sotto il suo saramento; le lettere stettono in cancelleria per spazio di tre mesi, innanzi che modo si trovasse di pagare fiorini trenta d’oro per le comuni spese della cancelleria: e per questo, poco appresso che la sommissione del comune e la promessa della moneta fu fatta, giunsono le lettere bollate al nostro comune, con grande ripitio e vergogna de’ nostri rettori. CAP. LXXIV. _Della statura e continenza dell’imperadore._ Secondo che noi comprendiamo da coloro che conversano intorno all’imperadore, la sua persona era di mezzana statura, ma piccolo secondo gli Alamanni, gobbetto, premendo il collo e ’l viso innanzi non disordinatamente: di pelo nero, il viso larghetto, gli occhi grossi, e le gote rilevate in colmo, la barba nera, e ’l capo calvo dinanzi. Vestiva panni onesti e chiusi continovamente, senza niuno adornamento, ma corti presso al ginocchio: poco spendea, e con molta industria ragunava pecunia, e non provvedeva bene chi lo serviva in arme. Suo costume era eziandio stando a udienza di tenere verghette di salcio in mano e uno coltellino, e tagliare a suo diletto minutamente, e oltre al lavorio delle mani, avendo gli uomini ginocchioni innanzi a sporre le loro petizioni, movea gli occhi intorno a’ circostanti per modo, che a coloro che gli parlavano parea che non dovesse attendere a loro udienza, e nondimeno intendea e udiva nobilemente, e con poche parole piene di sustanzia rispondenti alle domande, secondo sua volontà, e senza altra deliberazione di tempo o di consiglio faceva pienamente savie risposte. E però furono in lui in uno stante tre atti senza offendere o variare l’intelletto, il vario riguardo degli occhi, il lavorare con le mani, e con pieno intendimento dare l’udienze e fare le premeditate risposte; cosa mirabile, e assai notevole in uno signore. La sua gente, avendo in un’ora in Pisa più di quattromila cavalieri tedeschi, faceva mantenere onestamente, eziandio astenere dalle taverne e dalle disoneste cose per modo, che innanzi alla sua coronazione in Pisa non ebbe zuffa nè riotte tra’ forestieri e’ cittadini d’alcuna cosa. Il suo consiglio ristrignea con pochi suoi baroni e del suo patriarca, ma la deliberazione era più sua che del suo consiglio: perocché ’l suo senno con sottile e temperata industria valicava il consiglio degli altri; e molto si guardò di muoversi alla stigazione e conforto de’ ghibellini d’Italia, usati d’incendere e d’infocare l’imprese all’appetito parziale, più che al singolare onore dell’imperiale corona, i cui vizi nobilemente conoscea. CAP. LXXV. _Come si bandì in Firenze l’accordo con l’imperadore._ Sabato mattina, a dì 21 di marzo del detto anno, l’imperadore provvedutamente fece ragunare tutti i forestieri ch’erano in Pisa e’ Pisani a parlamento nel duomo di Pisa, e con dimostramento di singolare allegrezza fece venire dinanzi da se tutti e sei gli ambasciadori e sindachi del comune di Firenze: i quali giunti nel parlamento furono guardati da tutti con ammirazione grande, perocchè alla memoria di coloro ch’erano vivi, nè di molto tempo innanzi, si trovava che il comune di Firenze fosse stato altro che nemico all’imperadore, e ora vedeano che con pace aveano dall’imperadore que’ patti ch’aveano saputi dimandare: e da loro ricevette l’omaggio e il saramento della fede che promisero all’imperadore, sotto la condizione de’ patti e convenienze che ferme aveano con lui per lo comune di Firenze, le quali su brevità appresso in sostanza diviseremo: e l’eletto imperadore come re de’ Romani ne fece a loro privilegi reali, e promise ricevuta l’imperiale corona di farli imperiali. E a dì 23 del detto mese, lunedì sera, si pubblicò in Firenze la concordia presa con l’imperadore, sonando le campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo. Poca gente, a rispetto del nostro comune, si ragunò al parlamento, e senza alcuna vista d’allegrezza ogni uomo si tornò a casa. Il comune fece in sulle torri e in su i palagi festa e luminaria: ma nella città pe’ cittadini non si fece falò per segno d’alcuna allegrezza, conoscendo quanto costava caro al comune l’ignoranza de’ loro cittadini governatori per l’abbandonata provvedenza. CAP. LXXVI. _I patti e le convenienze da’ Fiorentini all’imperadore._ Questi furono i patti che messer Carlo re di Boemia eletto imperadore impromise al comune di Firenze, e co’ suoi reali privilegi confermò. In prima cassò e annullò ogni sentenza e condannagione le quali per addietro fossono fatte contro alla città, e’ cittadini e comune di Firenze e’ suoi contadini, e contra i conti da Battifolle, e da Doadola, e da Mangona, e Nerone d’Alvernia per gl’imperadori romani ovvero re de’ Romani suoi antecessori: e tutti e catuno integrò e restituì ne’ suoi onorie giurisdizioni e dominii personali e reali. E concedette che il comune e popolo, e la città e contado e distretto di Firenze si reggesse secondo gli statuti e le leggi municipali e ordinamenti consueti del detto comune: e di singolare grazia confermò al detto comune per suoi privilegi quello che più gli parve grave, cioè, la confermazione delle leggi dette e statuti fatti, e che per innanzi si facessono, approvandoli e confermandoli in quanto le comuni leggi nominatamente non le riprovassono: dicendo, la moltitudine delle leggi è tanta, che se a questo non hanno provveduto, io a’ Fiorentini nol vo’ negare. Ancora, che i priori dell’arti e il gonfaloniere della giustizia, che sono e che per li tempi saranno all’uficio del priorato, sieno irrevocabili suoi vicari tutto il tempo della sua vita. E il detto imperadore graziosamente, avendo affezione a volere mantenere il pacifico stato e tranquillo riposo del comune di Firenze, acciocchè per lo suo avvenimento in quella città non nascesse tumulto o mutazione, promise e concedette di grazia speziale di non volere entrare nella città di Firenze nè in alcuna sua terra murata. I sindachi predetti a vice e a nome del comune di sopra detto feciono a lui in pubblico la sommessione e l’ubbidienza, e giurarono liberamente riconoscendolo per vero eletto e futuro imperadore: e la reverenza li feciono in segno del debito omaggio; e promisongli in nome del comune di Firenze per satisfazione intera di ciò, che obbligati fossono per lo tempo passato infino al presente dì, a lui e a tutti i suoi antecessori, per qualunque ragione o cagione dire o nominare si potesse, e ancora per tutte le terre che ’l detto comune tiene, e ha tenute in suo contado e in suo distretto, fiorini centomila d’oro in quattro paghe in cinque mesi, finendo per tutto il mese d’agosto del detto anno 1355: e per lo tempo avvenire promisono di dare ogni anno del mese di marzo al detto imperadore Carlo, alla sua vita solamente, fiorini quattromila d’oro per compensagione di censo, in quanto le città di Toscana fossono tenute di ragione all’imperio, e oltre a ciò, per tutte e singule quelle cose le quali il detto comune per se e per lo suo contado e distretto dire si potesse ch’all’imperio fossono per alcuna cosa obbligati; e di tutti i detti patti e convenienze, oltre a’ privilegi reali, fu contento l’imperadore futuro che ser Agnolo di ser Andrea di messer Rinaldo da Barberino, notaio pubblico imperiale, ne facesse carta e pubblico istrumento al detto comune. Aggiugnesi qui, benchè quello che seguita avvenisse dopo la sua coronazione, acciocchè insieme si trovi la memoria de’ patti e de’ privilegi imperiali, e dell’arrota della graziosa libertà del detto imperadore inverso il nostro comune. E a dì 3 di maggio 1355 nella città di Siena, tornando l’imperadore dalla sua coronazione, tutte le dette convenienze e promesse fatte rinnovò, e comandò che si dessono al nostro comune sotto la fermezza de’ suoi privilegi imperiali roborati delle bolle dell’oro. E avendo nel processo del tempo il detto imperadore trovato il comune di Firenze in molta fede e dirittura delle sue promesse, non ostante che i Pisani, e’ Sanesi e gli altri Toscani l’avessono tradito e messo in grave caso di fortuna, essendo ridotto a Pietrasanta per partirsi d’Italia, e avendogli i Fiorentini con gran pericolo mandato là il compimento de’ centomila fiorini promessi, avendolo egli molto a grado, e commendando l’amore e la fede del comune, in vituperio degli altri comuni ch’aveano mostrato la libera suggezione all’imperio, e poi l’aveano tradito, s’offerse singolarmente a’ Fiorentini, e di suo proprio movimento privilegiò al nostro comune generalmente ciò che tenea in suo distretto, e mandonne i suoi privilegi imperiali bollati d’oro al nostro comune, fatti in Pietrasanta a dì 3 di giugno 1355. In questo tempo il comune di Firenze tenea in suo distretto la Valdinievole, il Valdarno di sotto, Pistoia, e ’l castello di Serravalle, e tutta la montagna di sotto, e Colle, e Laterina, e Montegemmoli, e la terra di Barga con più castella di Garfagnana, e Castel san Niccolò col suo contado, e la montagna fiorentina, e molte altre terre e castella che qui per brevità non si nominano, e la nobile terra di Sangimignano e di Prato, avvegnachè già, come è detto, erano ridotte a contado di Firenze. CAP. LXXVII. _Come fu offesa la libertà del popolo di Roma da’ Toscani._ Vedendo i falli commessi per li comuni di Toscana, che liberamente sottomisono la loro libertà al nuovo imperadore, ci dà materia di ricordare per esempio del tempo avvenire, come col popolo romano i comuni d’Italia, e massimamente i Toscani, sotto il loro principato parteciparono la cittadinanza e la libertà di quello popolo, la cui autorità creava gl’imperadori: e questo medesimo popolo, non da se, ma la Chiesa per lui, in certo sussidio de’ fedeli cristiani, concedette l’elezione degl’imperadori a sette principi della Magna. Per la qual cosa è manifesto, avvegnachè assai più antiche storie il manifestino, che ’l popolo predetto faceva gl’imperadori, e per la loro reità alcuna volta gli abbattea, e la libertà del popolo romano non era in alcun modo sottoposta alla libertà dell’imperio, nè tributaria come l’altre nazioni, le quali erano sottoposte al popolo, e al senato e al comune di Roma, e per lo detto comune al loro imperadore: e mantenendo a’ nostri comuni di Toscana l’antica libertà a loro succeduta dalla civiltà del popolo romano, è assai manifesto, che la maestà di quel popolo per la libera sommessione fatta all’imperadore per lo comune di Pisa, e di Siena, e di Volterra, e di Samminiato fu da loro offesa, e dirogata la franchigia de’ Toscani vilmente, per l’invidia ch’avea l’uno comune dell’altro, più che per altra debita cagione. CAP. LXXVIII. _Di quello medesimo._ Seguitiamo ancora a dire le cagioni per le quali, oltre a ciò ch’è detto nel precedente capitolo, a’ comuni italiani, senza offesa del sommo impero, è loro lecito anzi debito il patteggiare con gl’imperadori. L’Italia tutta è divisa mistamente in due parti, l’una, che seguita ne’ fatti del mondo la santa Chiesa, secondo il principato che ha da Dio e dal santo imperio in quello, e questi sono dinominati Guelfi, cioè guardatori di fè: e l’altra parte seguitano l’imperio, o fedele o infedele che sia delle cose del mondo o santa Chiesa, e chiamansi Ghibellini, quasi guida belli, cioè guidatori di battaglie, e seguitano il fatto, che per lo titolo imperiale sopra gli altri sono superbi, e motori di lite e di guerra. E perocchè queste due sette sono molto grandi, ciascuna vuole tenere il principato, ma non potendosi fare, ove signoreggia l’una, e ove l’altra, quanto che tutti si solessono reggere in libertà di comuni e di popoli. Ma scendendo in Italia gl’imperadori alamanni, hanno più usato favoreggiare i ghibellini ch’e’ guelfi, e per questo hanno lasciato nelle loro città vicari imperiali con le loro masnade: i quali continovando la signoria, e morti gl’imperadori di cui erano vicari, sono rimasi tiranni, e levata la libertà a’ popoli, e fattisi potenti signori, e nemici della parte fedele a santa Chiesa e alla loro libertà. E questa non è piccola cagione a guardarsi di sottomettersi senza patti a’ detti imperadori. Appresso è da considerare, che la lingua latina, e’ costumi e’ movimenti della lingua tedesca sono come barbari, e divisati e strani agl’Italiani, la cui lingua e le cui leggi, e’ costumi, e’ gravi e moderati movimenti, diedono ammaestramento a tutto l’universo, e a loro la monarchia del mondo. E però venendo gl’imperadori della Magna col supremo titolo, e volendo col senno e con la forza della Magna reggere gl’Italiani, non lo sanno, e non lo possono fare: e per questo, essendo con pace ricevuti nelle città d’Italia, generano tumulti e commozioni di popoli, e in quelli si dilettano, per essere per contraversia quello ch’essere non possono nè sanno per virtù, o per ragione d’intendimento di costumi e di vita. E per queste vive e vere ragioni, le città e’ popoli che liberamente gli ricevono conviene che mutino stato, o di venire a tirannia, o di guastare il loro usato reggimento, in confusione del pacifico e tranquillo stato di quella città, o di quello popolo che liberamente il riceve. Onde volendo riparare a’ detti pericoli, la necessità stringe le città e’ popoli, che le loro franchigie e stato vogliono mantenere e conservare, e non essere ribelli agl’imperadori alamanni, di provvedersi e patteggiarsi con loro: e innanzi rimanere in contumacie con gl’imperadori, che senza gran sicurtà li mettano nelle loro città. Quello che di ciò abbiamo qui di sopra fatto memoria, a beneficio e ammaestramento della libertà de’ comuni d’Italia, si prova per gli antichi esempi, chi li vorrà ricercare, e per li nuovi, chi li vorrà ricercare e appresso leggere il nostro trattato. CAP. LXXIX. _Come la gran compagnia rubò il Guasto in Puglia._ Il conte di Lando con la gran compagnia avendo soggiornato in Abruzzi infino all’entrata di marzo, si mosse da Pescara e da san Fabiano, e andò verso il Guasto. Que’ della terra male provveduti da loro, e peggio dal re loro signore, trattarono con la compagnia, e fidaronsi mattamente nelle loro promesse, che non li ruberebbono, e che torrebbono della roba derrata per danaio, li misono nella terra; ma come furono entrati dentro, i predoni usarono crudelmente la loro rapina uccidendo e rubando tutta la terra, e appresso con fuoco n’arsone gran parte: per lo cui esempio tutte l’altre terre di Puglia si disposero a ogni pericolo per difendersi da loro, e afforzaronsi francamente per modo, che quanto ch’elli stessono lungamente a campo senza potere più acquistare città o castella. Appresso valicarono a san Siverno in Puglia, e ivi s’accamparono e stettono lungamente, scorrendo e predando e facendo danno assai a’ paesani: e dall’altra parte il Paladino aggiuntosi gente della compagnia tribolava la marina della Puglia, ed era palese a’ regnicoli che messer Luigi di Durazzo favoreggiava la compagnia. CAP. LXXX. _Come l’imperadore richiese di lega i Fiorentini, e non l’ebbe._ Avendo l’imperadore compiuto e fermo l’accordo co’ Fiorentini, mandò a Firenze suoi ambasciadori a richiedere il comune di Firenze con grande stanza, che piacesse loro per bene e stato di tutte le città di Toscana, e per levare ogni pericolo che venire potesse loro addosso per la forza de’ tiranni e della gran compagnia, per vivere i detti comuni insieme in unità e in pace, di fare lega insieme, e quella gente per via di taglia che a’ Fiorentini piacesse, e offerendo l’aiuto suo ove che fosse a ogni loro bisogno molto largamente, dicendo, che presa la corona intendea d’andare in Lombardia o nella Magna, ove il comune di Firenze consigliasse. I Fiorentini in più consigli privati e palesi praticarono se questa lega fosse da fare o no: e infine considerato il pericolo dell’imprese, e temendo di non correre ad essere indotti a rompere la pace a’ signori di Milano, e che la gente d’arme raunata sotto un capitano dato dall’imperadore non potesse essere cagione di novità contro alla libertà del comune, al tutto deliberare che la lega per lo nostro comune non si facesse, e con belle e oneste e legittime cagioni si diliberarono di quella richiesta. L’imperadore essendo in movimento per andare a vicitare le città e le terre che gli s’erano date, e andare per la corona, soprastette senza accettare la scusa, e domandò che il nostro comune apparecchiasse dugento cavalieri che l’accompagnassono a Roma: e da Pisa si partì a dì 23 di marzo e andossene a Volterra, ove fu ricevuto secondo la loro possa assai onoratamente; e albergatovi una notte, l’altro dì venne a Samminiato, e da loro fu ricevuto come signore; e a dì 23 di marzo giunse a Siena la sera, ove fu ricevuto con singolar festa e onore. CAP. LXXXI. _Come si mutò lo stato de’ nove di Siena._ E’ pare degna cosa, che coloro i quali ingannano in comune i loro cittadini, e rompono la fede a’ loro amici, che alcuna volta per quella medesima sieno puniti, e portino pena de’ peccati commessi. L’ordine de’ nove di Siena, avendo per lungo tempo ingannati e detratti dagli ufici del comune con malo ingegno i loro cittadini, come già abbiamo narrato, e tradito il comune di Firenze nel cospetto dell’imperadore, seguitando la rea intenzione della setta di Giovanni d’Agnolino Bottoni loro caporale, quando liberamente si dierono all’imperadore, credendo per quello essere esaltati, e avere abbattuto lo stato e la libertà del comune di Firenze; il comune di Firenze per la sua costanza e savia provvisione rimase grande nel cospetto dell’imperadore e privilegiato da lui, e mantenea accrescendo suo stato, la sua libertà e il suo onore. Entrato l’imperadore in Siena il martedì sera, il mercoledì vegnente, il dì dell’Annunziazione di nostra Donna, gli _anni Domini_ 1355 a dì 25 di marzo, Tolomei, Malavolti, Piccolomini, Saracini, e alcuno de’ Salimbeni, contrari a Giovanni d’Agnolino Bottoni loro consorto, con seguito del minuto popolo levarono il romore nella città, dicendo: Viva l’imperadore, e muoiano i nove e le gabelle: e in questa furia furono morti due cittadini: e corsi alle case del capitano della guardia, e trovandolo gravemente malato in sul letto, rubarono tutto l’ostiere e ciò che aveva la famiglia, e l’arme e’ cavalli, e lasciato il capitano in sulla paglia in terra, in poch’ore appresso morì: e di là corsono al palagio de’ nove, e cacciatine in furia i nove e la loro famiglia vi misono l’imperadore, e feciono mandare per la cassa dov’erano insaccati i cittadini dell’ordine de’ nove e gli altri loro uficiali, e usando la loro besseria, con grande dirisione la feciono tranare per la terra, andandola scopando, e poi impetrato il comandamento dall’imperadore l’arsono con gran romore in sul campo, e appresso tutti gli atti e ordini de’ nove, e tutti gli ufici della città; e le persone di coloro ch’aveano avuti gli ufici furono in persecuzione e in pericolo grande nella cittadinanza, come leggendo si potrà trovare. CAP. LXXXII. _Di quello medesimo._ Avendo veduto l’eletto imperadore il romore e le novità fatte nella città di Siena con dimostrazione d’esserne stato contento, con poco onore dell’imperiale fama, il seguente dì fece ragunare tutti i cittadini a parlamento; e quando gli ebbe ragunati, fece separare i grandi dal popolo, e i popolani maggiori dal minuto popolo, e a catuno per se fece fare un sindaco con pieno mandato a sottomettersi da capo liberamente senza alcuno eccetto, e da capo si diedono all’imperadore, sottomettendo all’imperiale signoria il comune, il popolo, e la città, e il contado, e il distretto e la giurisdizione di Siena, dandogli in tutto il misto e mero imperio di quella città, contado e distretto: e incontanente licenziati tutti gli uficiali e rettori della terra ne fece suo vicario l’arcivescovo di Praga: e fatta pigliare la tenuta e la guardia di tutte le loro terre e castella, per decreto cassò, e annullò, e vietò in perpetuo l’uficio e ordine de’ nove. Coloro ch’erano stati di quell’ordine, villaneggiati da’ cittadini, veggendosi a pericolo stando nella terra, chi se n’andò in una parte e chi in un’altra partendosi della città; ed essendo dalle loro vicinanze con giusta infamia guardati come traditori della propria patria e de’ loro vicini, con grande vituperio traevano la loro vita nell’altrui terre. CAP. LXXXIII. _Il modo trovò il comune di Firenze per avere danari._ E’ non sarebbe da fare memoria di quello che seguita, se il modo col quale il comune di Firenze ebbe i danari con agevolezza non ce ne sforzasse, per buono esempio delle cose avvenire. Incontanente che l’imperadore fu riposato in Siena, i Fiorentini non aspettando il termine della prima paga, gli mandarono contanti a Siena fiorini trentamila d’oro, i quali si pagarono a dì 27 di marzo 1355; della qual cosa l’imperadore si tenne molto contento, perocchè li vennono a gran bisogno, perchè era in su l’andare da Roma, e avea necessità di provvedere a’ suoi baroni per aiuto alle spese. Il comune di Firenze per avere questi danari e gli altri, ordinò nella città a’ suoi cittadini un estimo che si chiamò la sega, che fu posto a’ cittadini per casa certi danari il dì: e fatta la sega, si fece pagare soldi quindici per ogni danaio, e catuno pagava questa piccola somma a colta. Nondimeno, perchè i meno possenti parevano troppo gravati a rispetto degli altri, il comune elesse d’ogni gonfalone certi uomini, e commise loro ch’abbattessono il quarto di quello che montava la loro sega sgravandone gl’impotenti; e questo si fece subito e comunalmente bene: e però appresso la detta paga si raccolse un’altra volta a soldi trenta il danaio per modo, che in termine di due mesi, o in meno, ebbono contanti i fiorini centomila che si diedono all’imperadore, senza andare alcuni esattori per la città, o essere alcuno gravato per forza. È vero che leggi s’ordinarono per lo comune, che chi non pagasse la sega per se o altri per lui non potesse avere uficio di comune, nè dovesse essere udito in alcuno uficio in suo beneficio: e ordinò il comune, che catuno che prestasse danari di questa sega, fosse in certo tempo assegnato in su le sue gabelle con provvisione a dieci per centinaio l’anno: e per questo molti cittadini mobolati pagavano per chiunque volea dar loro alcuno vantaggio, e così gl’impotenti per piccola cosa che si cavavano di borsa trovavano chi pagava per loro e prendevano l’assegnamento. Il comune mantenne la fede di pagare a’ termini ch’avea promesso, e però a molti cittadini era grande guadagno, e agli altri non era gravezza; e per questo, quanti danari fossono bisognati al comune avea senza alcuna fatica, e il merito che pagava tornava nelle mani de’ suoi cittadini, non però senza alcuna invidia. Abbianne fatta questa memoria per li tempi avvenire, a dimostrare quanto è utile al soccorso della repubblica mantenere il comune la fede a’ suoi cittadini, e quanto bene seguita al comune l’ordine di restituire le prestanze: perocchè nella nostra ricordanza è di veduta, che il comune soleva fare libbre ed imposte le quali generavano molte mortali nimicizie tra’ cittadini, perocchè si facevano disordinatamente sconce, e se pure ventimila fiorini imponeva il comune, più di cento case se n’abbattevano in Firenze, e recavansi i beni tra quelli de’ rubelli per cessanti delle fazioni del comune, e i cittadini erano pegnorati o presi, e molti s’uscivano in bando per le dette cagioni, e gli esattori e’ messi se n’andavano per loro col quarto dell’imposta, in grave confusione della cittadinanza. CAP. LXXXIV. _L’ordine diede l’imperadore agli Aretini._ Gli ambasciadori del comune d’Arezzo avendo sostenuto molte battaglie in giudicio da’ Tarlati e dagli Ubertini nell’udienza dell’imperadore e del suo consiglio, che domandavano di volere tornare nella loro città d’Arezzo, e avendoli gli ambasciadori convinti con ragione come non erano degni di tornare cittadini in quella città, dov’avevano per loro sfrenata potenza usate le tirannie manifeste e l’ingiuste operazioni, per le quali aveano per più riprese fatto manifesto all’imperadore e al suo consiglio, che quello comune sosterrebbe innanzi ogni altro pericolo di fortuna, che coloro consentissono di rimettere nella città sotto alcun patto. L’imperadore avendo assai sostenuto a riceverli in servigio de’ Tarlati e degli Ubertini, vedendo la giusta costanza degli ambasciadori, diliberò che tutti i cittadini non ribelli di quello comune raccomunassono gli ufici, e che tanti vi fossono de’ ghibellini quanto de’ guelfi; ma che le due castella della città si guardassono solo per i guelfi, com’erano usate di guardare, per più fermezza dello stato della città; e che catuno dovesse avere il frutto de’ suoi propri beni, e non potessono domandare altro a quello comune. Gli ambasciadori col sindacato del loro comune gli feciono la sommessione di quello comune e l’omaggio, promettendoli ogni anno per censo fiorini quattrocento d’oro del mese di marzo: e oltre a ciò gli donarono per aiuto alla sua coronazione fiorini cinquemila d’oro, e l’imperadore futuro per suoi privilegi reali privilegiò loro tutto il contado: e questo fu fatto nella città di Siena all’uscita del mese di marzo 1355. CAP. LXXXV. _Come fu preso Montepulciano dalla casa de’ Cavalieri._ Essendo per lunga esperienza certificati messer Niccolò e messer Iacopo de’ Cavalieri di Montepulciano, che la loro discordia gli avea abbattuti della signoria, e cacciati in esilio della loro terra e della città di Siena, si ridussono a pace e a concordia; e innanzi che il bollore del popolo sanese s’acchetasse in fermo stato, messer Niccolò di volontà di messer Iacopo suo consorto tornò in Montepulciano, ricevuto da’ terrazzani che dentro v’erano con allegra faccia, perocchè volentieri tornavano al loro antico reggimento: nondimeno la rocca ch’era in mano e in guardia de’ Sanesi non potè avere. La novella venne a Siena di presente dov’era l’imperadore, e messer Iacopo de’ Cavalieri ch’era di ciò avvisato, avendo in sua compagnia alquanti grandi uomini di Siena, incontanente fu in presenza dell’imperadore, e informollo pienamente del manifesto torto che il popolo di Siena avea fatto loro, non attenendo i patti nè le convenienze ch’aveano promesse per la corrotta fede de’ nove; e que’ grandi cittadini ch’erano con lui feciono chiaro l’imperadore che quello che diceva era in fatto vero: e però in quello stante, quanto ch’e’ s’avesse altro in cuore, disse ch’era contento che tenessono la terra di Montepulciano come suoi vicari; e il terzo dì appresso, cavalcando l’eletto verso Roma, volle andare a desinare nella terra. I signori allegramente gli apparecchiarono la desinea; e com’ebbe mangiato ne menò seco a Roma l’uno e l’altro, e nella terra mise altra gente alla guardia: ed essendo in Roma, e sentendo alcuna cosa contro a messer Niccolò, o che per sospetto si movesse, il fece citare, ed egli ingelosito per sospetto della sua persona si partì di Roma, senza comparire e senza prendere comiato. CAP. LXXXVI. _Come il papa riprese in concistoro certi dissoluti cardinali._ Il cardinale di Pelagorga di Guascogna baldanzoso e superbo, non meno per la potenza dei suo legnaggio che per lo cappello rosso, oltre a molte grandi e sconce cose fatte per la sua arroganza, singolari nella corte di Roma, in questi dì del mese di marzo, nella santa Quaresima, essendo per loro bisogne venuti a corte nella città d’Avignone alquanti cavalieri guasconi, disordinati, della setta sua e di suo lignaggio, senz’altra singolare cagione ne fece uccidere tre, che niuna guardia si pensavano avere a fare, non guardando alla reverenza de’ pastori di santa Chiesa, nè a’ santi giorni quaresimali. E altri giovani fatti cardinali per papa Clemente erano stati, e in questi dì erano in tanta disonesta e dissoluta vita, che niuni giovani dissoluti tiranni gli avanzavano: e intra l’altre cose (con vergogna il dico) facevano nella città a’ loro scudieri rapire le giovani donne a’ loro mariti manifestamente, e senza vergogna le teneano palesi nelle loro livree; e molte cose violenti usavano in vituperio di santa Chiesa. Onde papa Innocenzio sesto udendo molta infamia nella corte di questi cardinali, facendo dell’edima santa singolare consistoro per questa cosa, li riprese in pubblico aspramente, dicendo: Voi vi portate sì dissolutamente in vituperio di santa Chiesa, che mi conducerete a essere in parte, ch’io farò abbassare la vostra superbia; minacciandoli di tornare la corte in Italia: ma poco se n’ammendarono; e il tempo non era ancora ordinato da Dio di tornare alla sedia apostolica di Roma i suoi pontefici per l’antico peccato de’ prelati italiani, che ancora non si mostravano soperchiati dagli oltramontani. CAP. LXXXVII. _Di alcuna novità di Pisa per gelosia._ Essendo l’imperadore a Siena, era in Pisa rimaso un suo vicario con seicento cavalieri tedeschi: i Pisani per le divisioni e per l’invidia delle loro sette mormoravano l’uno contro l’altro, e catuno contro all’imperadore. Il vicario per reprimere la volontà de’ malcontenti, e per accrescersi favore del minuto popolo ch’era tutto imperiale, a dì 29 di marzo 1355 fece improvviso a’ Pisani di subito armare tutte le sue masnade tedesche, e con loro insieme corse tutta la città gridando, viva l’imperadore, e il popolo rispondea per tutte le contrade, viva l’imperadore; e senza alcuna altra novità fare s’acquetarono: e tornati a’ loro alberghi puosono giuso l’armi, e a’ Pisani delle sette crebbe il mal volere contro all’imperadore. CAP. LXXXVIII. _Della gente che i Fiorentini mandarono con l’imperadore._ L’eletto imperadore volendo andare a prendere la corona a san Piero a Roma, si pensò, che non ostante la sua copiosa compagnia, grande sicurtà gli sarebbe per tutto ad avere in sua condotta l’insegna del comune di Firenze, e alla guardia della sua persona de’ suoi cittadini con parte della loro gente d’arme; e però richiese i Fiorentini che gli mandassono de’ loro cavalieri dugento con l’insegna del comune, e con alcuni cittadini alla sua compagnia. Il comune elesse di presente due cittadini, uno grande e uno popolare, ambedue cavalieri, e dugento barbute di gente eletta molto bene montati e armati nobilemente, e bene guerniti di robe e d’arnesi, e diedono l’insegna del popolo, il giglio e il rastrello, senza alcuna aguglia: e giunti a Siena, l’imperadore li ricevette graziosamente, e costituilli alla guardia del suo corpo, perocchè gran confidanza avea de’ Fiorentini, e tra tutta sua gente non avea altrettanti cavalieri sì bene a cavallo nè sì bene armati: e in sua compagnia andarono, e stettono, e tornarono da Roma infino alla città di Siena, e ivi licenziati dall’imperadore si tornarono a Firenze. Abbiamo di questa lieve cosa fatta memoria, non tanto per lo fatto, quanto che fu cosa disusata e strana per lunghi tempi passati, vedere l’insegna del comune di Firenze a guardia dell’imperadore. CAP. LXXXIX. _Come l’imperadore si partì da Siena._ Avendo l’imperadore veduto la subita revoluzione fatta per i cittadini di Siena, d’avere disfatto e abbattuto il loro antico reggimento e l’ordine de’ nove, avendo di presente ad essere a Roma il dì della Pasqua della santa Resurrezione a dì 5 d’aprile, prese sospetto di lasciarla in libertà, e lasciovvi l’arcivescovo di Praga cui n’avea fatto vicario, prelato di grande autorità, e sperto delle cose del mondo, e pro’ e ardito in fatti d’arme, e in sua compagnia e per suo consiglio lasciò il signore di Cortona, e i Tarlati d’Arezzo, e’ conti da Santafiore, e più altri caporali di parte ghibellina, mostrando più confidanza in loro che nelle case guelfe di Siena, che liberamente gli aveano data la signoria di quella città: per la qual cosa i gentili uomini di quella terra e i popolani grassi molto si turbarono e rimasono malcontenti, benchè in apparenza allora non ne feciono dimostrazione; e a dì 28 di marzo 1355 l’eletto si partì da Siena, e seguitò a gran giornate il suo viaggio, e infino alla sua tornata i Sanesi vivettono senza niuno loro ordine sotto il volontario reggimento del vicario. CAP. XC. _Della gran compagnia ch’era in Puglia._ In questo tempo, all’entrare d’aprile del detto anno, la compagnia del conte di Lando era cresciuta nel Regno in quattromila barbute, e in molti masnadieri, e in grande popolo di bordaglia, e tenendo loro campi sopra Nocera e sopra Foggia correvano la Puglia piana predando e pigliando uomini e femmine, e bestiame e roba ovunque ne poteano giungnere, e strignevano per paura i casali e le ville a portare vittuaglia al campo. Nel paese faceano danno assai; ma niuna terra murata poterono acquistare, perocchè non aveano argomenti da vincerle per battaglia, e per la fede ch’aveano rotta a quelli del Guasto quando si dierono loro, niuna terra si volea più confidare alle loro promesse, ma tutte s’erano armate e afforzate alla difesa. Stando la compagnia per questo modo in Puglia, il re Luigi poco mostrava che si curasse della compagnia, e meno del danno de’ suoi sudditi, con mancamento di suo onore, perocchè nè aiuto nè consiglio dava loro: ma in questi dì mandò messer Niccola Acciaiuoli di Firenze suo grande siniscalco al legato, per trattare pace da lui a messer Malatesta da Rimini, e ambasciadore all’imperadore, e appresso al comune di Firenze, per avere da catuno aiuto di gente contro alla compagnia, e per sentire la volontà e ’l processo dell’imperadore: ma da se nel Regno niuna provvisione fece, fuori che festeggiare e danzare con le donne, in detrimento della sua fama. CAP. XCI. _Come il gran siniscalco cambiò sua fama in Firenze._ Noi avremmo volontieri trapassato quello che seguita senza memoria, se senza potere essere incolpato d’adulazione per tacere l’avessimo potuto fare. Il grande siniscalco del re Luigi partitosi dalle mollizie del suo signore, e inviscato da quelle, venne al legato in Romagna, e cercato secondo la commissione a lui fatta dal re Luigi di tentare la pace dal legato a messer Malatesta da Rimini, non ebbe autorità di poterla in alcuno atto disporla: e partitosi dal legato, venne a Siena all’imperadore, e spuosegli la sua ambasciata, dal quale fu ricevuto graziosamente per amore del re, e ancora della sua persona, perocch’era cittadino popolare di Firenze, e vedevalo montato in cotanta dignità, e a Roma il menò con seco, e fu alla sua coronazione: e tornato a Siena con lui senza avere impetrata alcuna cosa di sua domanda, se ne venne a Firenze del mese d’aprile del detto anno, con grande comitiva di baroni e di cavalieri napoletani, giovani ornati di diverse e strane portature, e abiti di loro robe, con maravigliosi paramenti d’oro e d’argento, e di pietre preziose e di perle, e in Firenze cominciò a fare molti conviti, e continovolli lungamente in città e in contado, avendo le giovani donne le quali faceva invitare con grande istanza sera e mattina a’ suoi corredi, e tutto dì le tenea in danza e in festa co’ suoi cavalieri; le quali femminili mollizie molto nella patria indebolirono la sua fama; e considerando i cittadini il tempo nel quale la compagnia tribolava il Regno, e le novità dell’imperadore, e le mutazioni degli stati delle città e delle terre di Toscana, e la nuova gravezza, e sollecita provvedenza e guardia ch’avea il suo comune di Firenze, facevano manifesto che allora bisognavano cose virtuose e virili, e non disoneste mollezze di donne. Crediamo che il male esempio del suo signore, e la vanità che ’l movea a accattare benevolenza de’ giovani e vani baroni e cavalieri ch’erano con lui gli feciono dimenticare le sue usate virtù, e la fortezza del suo animo. E per merito di questo, avendo domandato al suo comune per parte del re alcuno sussidio di gente d’arme contro alla compagnia, cosa che altra volta si sarebbe fatta senza domandare, per più riprese gli fu negata; potendo conoscere che poco onore della sua città riportò al re suo signore contra l’usato modo: e dove la sua persona era per addietro nominatissima in altezza d’animo e in molte virtù, per la vana mollezza femminile, a questa volta nella sua patria recò in memoria de’ suoi cittadini la detestabile vita di Sardanapalo. CAP. XCII. _Come l’imperadore giunse a Roma._ Carlo nominato nel battesimo Vincislao, figliuolo del re Giovanni, figliuolo dell’imperadore Arrigo di Luzimborgo re di Boemia, eletto imperadore, giunto a Roma il giovedì santo, entrò nella città sconosciuto, e a modo di romeo vestito di panno bruno con molti suoi baroni, e andò il venerdì e il sabato santo a vicitare le principali chiese di Roma in forma di pellegrino, e per modo che da niuno forestiero o paesano potea essere conosciuto chi fosse l’imperadore: e la mattina innanzi dì, vegnente la Resurrezione, uscì di Roma con la maggiore parte della sua gente, per entrare la mattina della santa Pasqua palesemente in Roma, per venire alla sua coronazione manifestamente. Il popolo di Roma per ordine de’ loro Rioni, co’ suoi principi e con tutto il chericato con solenne processione gli uscirono incontro fuori della città, e trovaronlo apparecchiato; e fattogli la debita salutazione e reverenza, con somma allegrezza e festa, e con grande moltitudine di cavalieri romani e paesani e strani, oltre alla sua cavalleria, condussono lui innanzi e l’imperatrice appresso nella città di Roma, e menaronlo alla Basilica del principe degli Apostoli san Piero, la mattina innanzi la messa, e là smontati. Qui si faccia fine al nostro quarto libro, per fare cominciamento al quinto della sua coronazione. TAVOLA DEI CAPITOLI _Qui comincia il terzo libro della Cronica di Matteo Villani; e prima il Prologo_ Pag. 5 _CAP. II. La potenza dell’arcivescovo di Milano, e il procaccio fece a corte per la sua liberazione_ 6 _CAP. III. Come papa Clemente sesto propose tre cose a’ comuni di Toscana, perchè pigliassono l’una_ 9 _CAP. IV. Come il papa e’ cardinali annullarono i processi contro all’arcivescovo_ 10 _CAP. V. Come gli ambasciadori de’ Toscani si partirono di corte mal contenti_ 11 _CAP. VI. Come i tre comuni di Toscana s’accordarono a far passare l’imperadore_ 12 _CAP. VII. Quali furono i patti dall’imperadore a’ tre comuni_ 13 _CAP. VIII. Come il re Luigi e la reina Giovanna furono coronati per la Chiesa_ 15 _CAP. IX. Commendazione in laude di messer Niccola Acciaiuoli_ 17 _CAP. X. Come fu cacciato messer Iacopo Cavalieri di Montepulciano._ 20 _CAP. XI. Come si die’ il guasto a Bibbiena, e sconfitti i Tarlati da’ Fiorentini_ 21 _CAP. XII. Come si rubellò a’ Fiorentini Coriglia e Sorana_ 23 _CAP. XIII. Come i tre comuni di Toscana mandarono ambasciadori in Boemia a far muovere l’imperadore_ 24 _CAP. XIV. Di disusati tempi stati_ 25 _CAP. XV. Dell’inganno ricevette il comune di Firenze del braccio di santa Reparata_ 27 _CAP. XVI. Di quello medesimo_ 28 _CAP. XVII Come la gente del Biscione cavalcarono i Perugini_ 29 _CAP. XVIII. Come i Romani andarono per guastare Viterbo_ 31 _CAP. XIX. Come il re Luigi ebbe Nocera_ 32 _CAP. XX. Come fu sconfitto il conte di Caserta_ 33 _CAP. XXI. La novità in Casole di Volterra_ 34 _CAP. XXII. Come furono decapitati degli Ardinghelli di Sangimignano_ 34 _CAP. XXIII. Come gente del re di Francia fu sconfitta a Guinisi_ 35 _CAP. XXIV. Come i Perugini assediarono Bettona_ 37 _CAP. XXV. Come fu liberato Montecchio dall’assedio per soccorrere Bettona_ 38 _CAP. XXVI. Come i Perugini ebbono Bettona e arsonla, e disfeciono affatto_ 39 _CAP. XXVII. Come la città d’Agobbio s’accordò co’ Perugini_ 41 _CAP. XXVIII. Come ser Lallo s’accordò con il re Luigi dell’Aquila_ 41 _CAP. XXIX. Come i Perugini e’ Fiorentini tornarono a guastare Cortona_ 42 _CAP. XXX. Come gli ambasciadori de’ tre comuni di Toscana tornarono dall’imperadore senza accordo_ 43 _CAP. XXXI. Come l’arcivescovo cercava pace co’ Toscani_ 44 _CAP. XXXII. Come il prefetto da Vico fu fatto signore d’Orvieto_ 45 _CAP. XXXIII. Novità state a Roma_ 46 _CAP. XXXIV. Come la gente del Biscione assediarono la Città di Castello_ 47 _CAP. XXXV. Come i Fiorentini soccorsono Barga e sconfissono i Castracani_ 47 _CAP. XXXVI. Come si difese il borgo d’Arezzo per i Fiorentini_ 48 _CAP. XXXVII. D’un segno mirabile ch’apparve_ 49 _CAP. XXXVIII. Come i Tarlati arsono il borgo di Figghine_ 50 _CAP. XXXIX. Come gli usciti di Montepulciano venuti alla terra ne furono poi cacciati_ 52 _CAP. XL. Come fra Moriale fu assediato, e rendessi al re Luigi_ 53 _CAP. XLI. Come i Fiorentini fornirono Lozzole_ 54 _CAP. XLII. Maraviglie fatte a Roma per una folgore_ 56 _CAP. XLIII. Come morì papa Clemente sesto, e di sue condizioni_ 57 _CAP. XLIV. Come fu fatto papa Innocenzio sesto_ 59 _CAP. XLV. Come usciti di prigione i reali del Regno s’arrestarono a Trevigi_ 60 _CAP. XLVI. Di novità state in Sangimignano_ 61 _CAP. XLVII. Come i comuni di Toscana mandarono solenni ambasciadori a Serezzana a trattare pace_ 63 _CAP. XLVIII. Di grandi tremuoti vennono in Toscana e in altre parti_ 63 _CAP. XLIX. Come i Sanesi andarono a oste a Montepulciano_ 65 _CAP. L. Come Gualtieri Ubertini fu decapitato_ 66 _CAP. LI. Come il duca d’Atene assediò Brandizio_ 67 _CAP. LII. Come i Perugini feciono pace co’ Cortonesi_ 68 _CAP. LIII. Come il popolo di Gaeta uccisono dodici loro cittadini per la carestia ch’aveano_ 69 _CAP. LIV. Come il papa volle trattare pace da’ Genovesi a’ Veneziani_ 70 _CAP. LV. Come i Fiorentini osteggiaro Sangimignano, e fecionli ubbidire_ 71 _CAP. LVI. Come in Italia fu generale carestia_ 72 _CAP. LVII. Come i Romani uccisono colle pietre Bertoldo degli Orsini loro senatore_ 73 _CAP. LVIII. Come fu tagliata la testa a Bordone de’ Bordoni_ 74 _CAP. LIX. Come si pubblicò la pace dall’arcivescovo a’ comuni di Toscana_ 75 _CAP. LX. L’inganno ricevette il comune di Firenze dagli sbanditi_ 77 _CAP. LXI. Di questa medesima materia_ 79 _CAP. LXII. Come messer Piero Sacconi de’ Tarlati tentò di fare grande preda innanzi che fosse bandita la pace_ 80 _CAP. LXIII. Come il corpo di messer Lorenzo Acciaiuoli fu recato del Regno a Firenze, e seppellito a Montaguto a Certosa onoratamente_ 81 _CAP. LXIV. Come si fe’ l’accordo da’ Sanesi a Montepulciano_ 83 _CAP. LXV. D’una notabile grandine venuta in Lombardia, e d’altro_ 84 _CAP. LXVI. Come sotto le triegue procedettono le cose in Francia_ 85 _CAP. LXVII. Come i Genovesi spregiarono la pace de’ Veneziani_ 86 _CAP. LXVIII. Come i Veneziani si provvidono_ 87 _CAP. LXIX. Come fu guasto il castello di Picchiena, e perchè_ 88 _CAP. LXX. Come Ruberto d’Avellino fu morto dalla duchessa sua moglie_ 89 _CAP. LXXI. Come furono cacciati i ghibellini del Borgo_ 90 _CAP. LXXII. Di quattro leoni di macigno posti al palagio de’ priori_ 91 _CAP. LXXIII. Come Sangimignano fu recato a contado di Firenze_ 91 _CAP. LXXIV. D’un segno apparve in cielo_ 94 _CAP. LXXV. Come fu assediata Argenta_ 94 _CAP. LXXVI. Come si temette in Toscana di carestia_ 96 _CAP. LXXVII. Come in Messina fu morto il conte Mazzeo de’ Palizzi a furore, e la moglie e due figliuoli_ 97 _CAP. LXXVIII. Come fu creato nuovo tribuno in Roma_ 99 _CAP. LXXIX. Come furono sconfitti in mare i Genovesi alla Loiera_ 101 _CAP. LXXX. Come i Catalani perderono loro terre in Sardegna_ 106 _CAP. LXXXI. Come il prefetto venne a oste a Todi_ 107 _CAP. LXXXII. Come fu presa e lasciata Vicorata_ 108 _CAP. LXXXIII. Come il conte di Caserta si rubellò dal re Luigi_ 109 _CAP. LXXXIV. Come il cardinale legato venne a Firenze_ 111 _CAP. LXXXV. Rinnovazione del palio di santa Reparata_ 112 _CAP. LXXXVI. Come i Genovesi si misono in servaggio dell’arcivescovo_ 114 _CAP. LXXXVII. Come i Pisani feciono confinati_ 115 _CAP. LXXXVIII. Come i Sanesi ruppono i patti a Montepulciano_ 117 _CAP. LXXXIX. Come si cominciò la gran compagnia nella Marca_ 118 _CAP. XC. Dice de’ leoni nati in Firenze_ 119 _CAP. XCI. Come i Romani si dierono alla Chiesa di Roma_ 120 _CAP. XCII. Le novità seguite in Pistoia_ 121 _CAP. XCIII. Come l’arcivescovo richiese di pace i Veneziani_ 122 _CAP. XCIV. Come i Veneziani ordinarono lega contro al Biscione_ 123 _CAP. XCV. Come il conestabile di Francia fu morto_ 124 _CAP. XCVI. Come si cominciò la rocca in Sangimignano, e la via coperta a Prato_ 126 _CAP. XCVII. Del male stato dell’isola di Sicilia_ 126 _CAP. XCVIII. Come il legato del papa procedette col prefetto_ 127 _CAP. XCIX. Come si rubellò Verona al Gran Cane per messer Frignano_ 129 _CAP. C. Come messer Bernabò con duemila barbute si credette entrare in Verona_ 132 _CAP. CI. Come messer Gran Cane racquistò Verona, e fu morto messer Frignano_ 136 _CAP. CII. Come messer Gran Cane riformò la città di Verona, e fece giustizia de’ traditori_ 136 _CAP. CIII. Come fu deliberato per la Chiesa l’avvenimento dell’imperadore in Italia_ 138 _CAP. CIV. D’un gran fuoco ch’apparve nell’aria_ 139 _CAP. CV. Di tremuoti che furono_ 140 _CAP. CVI. De’ fatti del monte_ 141 _CAP. CVI. Di certe rivolture di tiranni di Lombardia, e di più cose per lo tradimento di Verona_ 144 _CAP. CVII. Del processo della grande compagnia di fra Moriale della Marca_ 145 _CAP. CVIII. Come il legato prese Toscanella_ 147 _CAP. CIX. Come messer Malatesta si ricomperò dalla compagnia_ 148 _CAP. CX. D’un fanciullo mostruoso nato in Firenze_ 151 _CAP. CXI. Come furono cacciati i guelfi di Rieti e da Spoleto_ 151 LIBRO QUARTO _CAP. I. Comincia il quarto libro, e prima il Prologo_ 153 _CAP. II. Comparazione dal re Ruberto al re Luigi_ 154 _CAP. III. Come gran parte dell’isola di Cicilia venne all’ubbidienza del re Luigi_ 155 _CAP. IV. Come l’arcivescovo cominciò guerra contro a’ collegati di Lombardia_ 157 _CAP. V. Come il re d’Ungheria passò con grande esercito contra un re de’ Tartari_ 157 _CAP. VI. De’ grilli ch’abbondarono in Barberia e poi in Cipri_ 159 _CAP. VII. D’una notabile maraviglia della reverenza della tavola di santa Maria in Pineta_ 160 _CAP. VIII. Come il vicario di Bologna mandò l’oste sopra Modena con due quartieri di Bologna_ 162 _CAP. IX. Come il legato e i Romani guastarono il contada di Viterbo._ 162 _CAP. X. Come il prefetto s’arrendè al legato liberamente_ 163 _CAP. XI. Come il popolo di Bologna si levò a romore per avere loro libertà, e fu in maggiore servaggio._ 165 _CAP. XII. Come fu tolta l’arme al popolo di Bologna_ 168 _CAP. XIII. Come il legato ebbe la città d’Agobbio_ 169 _CAP. XIV. Come i Perugini non tennono fede a’ Fiorentini e’ Sanesi_ 170 _CAP. XV. Come procedettono i rettori di Firenze in questa sopravvenuta tempesta della compagnia di fra Moriale_ 173 _CAP. XVI. Come si provvedde a Firenze contra la compagnia_ 175 _CAP. XVII. Come fu morto messer Lallo_ 176 _CAP. XVIII. Come il re di Spagna cacciata la non vera moglie coronò la legittima_ 178 _CAP. XIX. Come i collegati di Lombardia condotta la compagnia mandarono all’imperadore_ 181 _CAP. XX. Come i Bordoni furono cacciati di Firenze, e sbanditi per ribelli_ 182 _CAP. XXI. Come il re d’Araona venne con grande armata a racquistare Sardegna_ 183 _CAP. XXII. Come i Genovesi feciono armata contro a’ Veneziani e Catalani_ 184 _CAP. XXIII. Come il tribuno di Roma fece tagliare la testa a fra Moriale_ 186 _CAP. XXIV. D’una sformata grandine venuta a Mompelieri, e della scurazione del sole_ 188 _CAP. XXV. Come morì l’arcivescovo di Milano_ 189 _CAP. XXVI. Come il tribuno di Roma fu morto a furia di popolo_ 190 _CAP. XXVII. Come l’imperadore Carlo venne in Lombardia_ 192 _CAP. XXVIII. Come i tre fratelli de’ Visconti di Milano furono fatti signori, e loro divise_ 194 _CAP. XXIX. Come l’imperadore stando a Mantova trattava la pace de’ Lombardi_ 195 _CAP. XXX. Come furono presi i legni ch’andavano a Palermo_ 197 _CAP. XXXI. Come si cominciò guerra il Puglia tra loro._ 198 _CAP. XXXII. Come i Genovesi sconfissono i Veneziani a Portolungone in Romania_ 199 _CAP. XXXIII. Come Gentile da Mogliano diede fermo al legato_ 203 _CAP.XXXIV. Come il re d’Araona ebbe la Loiera, e fece accordo col giudice_ 204 _CAP. XXXV. Come i Pisani si diliberarono di mandare all’imperatore_ 206 _CAP. XXXVI. Rottura della pace del re di Francia e d’Inghilterra_ 207 _CAP. XXXVII. Come un gatto uccise un fanciullo in Firenze_ 208 _CAP. XXXVIII. Come l’imperadore fe’ fare triegua da’ Lombardi a’ signori di Milano_ 209 _CAP. XXXIX. Come l’imperadore andò a Moncia per la corona del ferro_ 211 _CAP. XL. Come il conte di Lando venne di Lombardia in Romagna con la gran compagnia_ 214 _CAP. XLI. Come i Fiorentini per la venuta dell’imperadore a Pisa si provvidono_ 215 _CAP. XLII. Come il legato prese Recanati_ 217 _CAP. XLIII. Come il capitano di Forlì venne in Firenze_ 218 _CAP. XLIV. Come l’imperadore Carlo giunse a Pisa_ 219 _CAP. XLV. Come l’imperadore bandì parlamento in Pisa, e quello n’avvenne_ 220 _CAP. XLVI. Come l’imperadore di Costantinopoli racquistò l’imperio_ 221 _CAP. XLVII. Come i Matraversi di Pisa feciono muovere l’imperadore_ 223 _CAP. XLVIII. Come procedettono i fatti in Pisa_ 224 _CAP. XLIX. Come gli ambasciadori del comune di Firenze andaro all’imperadore_ 225 _CAP. L. Di novità stata in Montepulciano_ 226 _CAP. LI. Come le sette di Pisa si pacificarono insieme_ 227 _CAP. LII. Come Gentile da Mogliano si ritolse la città di Fermo_ 229 _CAP. LIII. Come gli ambasciadori de’ Fiorentini e’ Sanesi furono ricevuti dall’imperadore_ 231 _CAP. LIV. Come i Sanesi scopriro la loro corrotta fede contro a’ Fiorentini_ 232 _CAP. LV. De’ falli commessi per lo comune di Firenze, e degl’inganni ricevuti da’ suoi vicini_ 235 _CAP. LVI. Di molti Alamanni venuti alla coronazione dell’imperadore_ 237 _CAP. LVII. Di novità della Marca per Recanati_ 238 _CAP. LVIII. Come la gran compagnia del conte di Lando entrò nel Regno_ 239 _CAP. LIX. Come l’imperadore andò a Lucca_ 240 _CAP. LX. Come al Galluzzo nacque un fanciullo mostruoso_ 241 _CAP. LXI. De’ fatti di Siena con l’imperadore_ 242 _CAP. LXII. Di più imbasciate ghibelline state in presenza dell’imperadore_ 245 _CAP. LXIII. Come i Volterrani si dierono all’imperadore_ 247 _CAP. LXIV. Come i Samminiatesi si dierono all’imperadore_ 248 _CAP. LXV. Di disusato tempo stato nel verno_ 249 _CAP. LXVI. Come il segreto giurato in Firenze fu manifestato all’imperadore_ 250 _CAP. LXVII. Come l’imperadore mandò aiuto di gente al legato_ 252 _CAP. LXVIII. Trattati dall’imperadore a’ Fiorentini_ 253 _CAP. LXIX. Raccolti falli de’ governatori del comune di Firenze_ 254 _CAP. LXX. Come a Firenze si fece il sindacato per l’accordo con l’imperadore_ 256 _CAP. LXXI. Quello si fe’ per alcuno cardinale per la coronazione dell’imperadore_ 258 _CAP. LXXII. Come si fermò l’accordo e’ patti dall’imperadore al comune di Firenze_ 259 _CAP. LXXIII. Come i Fiorentini per mala provvedenza errarono a loro danno_ 262 _CAP. LXXIV. Della statura e continenza dell’imperadore_ 263 _CAP. LXXV. Come si bandì in Firenze l’accordo con l’imperadore_ 265 _CAP. LXXVI. I patti e le convenienze da’ Fiorentini all’imperadore_ 266 _CAP. LXXVII. Come fu offesa la libertà del popolo di Roma da’ Toscani_ 260 _CAP. LXXVIII. Di quello medesimo_ 270 _CAP. LXXIX. Come la gran compagnia rubò il Guasto in Puglia_ 272 _CAP. LXXX. Come l’imperadore richiese di lega i Fiorentini, e non l’ebbe_ 273 _CAP. LXXXI. Come si mutò lo stato de’ nove di Siena_ 275 _CAP. LXXXII. Di quello medesimo_ 276 _CAP. LXXXIII. Il modo trovò il comune di Firenze per avere danari_ 277 _CAP. LXXXIV. L’ordine diede l’imperadore agli Aretini_ 279 _CAP. LXXXV. Come fu preso Montepulciano dalla casa de’ Cavalieri_ 281 _CAP. LXXXVI. Come il papa riprese in concistoro certi dissoluti cardinali_ 282 _CAP. LXXXVII. Di alcuna novità di Pisa per gelosia_ 283 _CAP.LXXXVIII. Della gente che i Fiorentini mandarono con l’imperadore_ 284 _CAP. LXXXIX. Come l’imperadore si partì da Siena_ 285 _CAP. XC. Della gran compagnia ch’era in Puglia_ 286 _CAP. XCI. Come il gran siniscalco cambiò sua fama in Firenze_ 287 _CAP.XCII. Come l’imperadore giunse a Roma_ 289 ERRORI CORREZIONI TOMO SECONDO p. 36 v. 15 sbarrattati sbarattati — 48 — 17 a’ prigioni a prigioni — 121 — 19 uomini della uomini, della — 125 — 10 Avenne Avvenne — 175 — 27 d’oro gli d’oro. Gli — 254 — 19 ehe si che si Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in fine libro sono state riportate nel testo. *** End of this LibraryBlog Digital Book "Cronica di Matteo Villani, vol. II: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna" *** Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.