Home
  By Author [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Title [ A  B  C  D  E  F  G  H  I  J  K  L  M  N  O  P  Q  R  S  T  U  V  W  X  Y  Z |  Other Symbols ]
  By Language
all Classics books content using ISYS

Download this book: [ ASCII ]

Look for this book on Amazon


We have new books nearly every day.
If you would like a news letter once a week or once a month
fill out this form and we will give you a summary of the books for that week or month by email.

Title: Cronica di Matteo Villani, vol. III: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna
Author: Villani, Matteo
Language: Italian
As this book started as an ASCII text book there are no pictures available.


*** Start of this LibraryBlog Digital Book "Cronica di Matteo Villani, vol. III: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna" ***
VOL. III ***


                                CRONICA

                                   DI

                                 MATTEO
                                VILLANI


                       A MIGLIOR LEZIONE RIDOTTA
                               COLL’AIUTO
                           DE’ TESTI A PENNA

                               TOMO III.



                                FIRENZE
                             PER IL MAGHERI
                                 1825.



LIBRO QUINTO

_Qui comincia il quinto libro della Cronica di Matteo Villani; e prima
il Prologo._


CAPITOLO PRIMO.

Chiunque considera con spedita e libera mente il pervenire a’ magnifici
e supremi titoli degli onori mondani, troverà che più paiono mirabili
innanzi al fatto e di lungi da quello, che nella presenza della
desiderata ambizione e gloria: e questo avviene, perchè il sommo stato
delle cose mobili e mortali, venuto al termine dell’ottato fine,
invilisce, perocchè non può empiere la mente dell’animo immortale;
ancora si fa più vile, se con somma virtù non si governa e regge; ma
quando s’aggiugne a’ vizi, l’ottata signoria diventa incomportabile
tirannia, e muta il glorioso titolo in ispaventevole tremore de’
sudditi popoli. Ma perocchè ogni signoria procede ed è data da Dio in
questo mondo, assai è manifesto, che per i peccati de’ popoli regna
l’iniquo. L’imperial nome sormonta gli altri per somma magnificenza,
al qual solea ubbidire tutte le nazioni dell’universo, ma a’ nostri
tempi gl’infedeli hanno quello in dispregio, e nella parte posseduta
per i cristiani tanti sono i potenti re, signori, e tiranni, comuni,
e popoli che non l’ubbidiscono, che piccolissima parte ne rimane alla
sua suggezione; la qual cosa estimano ch’avvenga principalmente dalla
divina disposizione, il cui provvedimento e consiglio non è nella
podestà dell’intelletto umano. Ancora n’è forse cagione non piccola
l’imperiale elezione trasportata ai sette principi d’Alamagna, i
quali hanno continovato lungamente a eleggere e promuovere all’imperio
signori di loro lingua, i quali colla forza teutonica, e col consiglio
indiscreto e movimento furioso di quella gente barbara hanno voluto
reggere e governare il romano imperio; la qual cosa è strana da quel
popolo italiano che a tutto l’universo diede le sue leggi, e’ buoni
costumi e la disciplina militare: e mancando a’ Tedeschi le principali
parti che si richieggono all’imperiale governamento, non è maraviglia
perchè mancata sia la somma signoria di quello. E stringendone l’usata
materia a fare principio al quinto libro, la coronazione di Carlo di
Luzimborgo, e quanto di quella seguitò in brevissimo tempo, sieno in
parte esempio di quello che narrato avemo nella presente rubrica.


CAP. II.

_Come messer Carlo di Luzimborgo fu coronato imperadore de’ Romani._

Domenica mattina a dì 5 del mese d’aprile, gli anni Domini 1355 dalla
sua salutevole incarnazione, il dì della Resurrezione di Cristo,
essendo il cardinale d’Ostia legato del papa a fare la consecrazione
dell’imperadore con molti prelati nella basilica di san Pietro,
l’eletto Carlo sopraddetto giugnendo a san Pietro co’ Romani, e colla
grande cavalleria e moltitudine di popolo che l’aveano accompagnato,
scavalcato colla sua donna, furono ricevuti nella chiesa con grande
tumulto di stromenti, e allegrezza e festa di catuna gente. E
incontanente ch’egli fu in san Pietro, com’egli avea ordinato, molti
cavalieri armati tramezzarono tra la sua persona e della donna con
alquanti più confidenti prelati ch’erano all’uficio dell’altare, e
l’altro popolo riempierono sì il mezzo della grande basilica che niuno
potea valicare verso l’altare, o vedere la sua consacrazione, salvo
i prelati e coloro ch’erano in compagnia con l’eletto. E celebrato
l’uficio della solenne messa, spogliato l’eletto de’ suoi primi
vestimenti, e stando a piè dell’altare, ricevuta la sagra unzione, e
confessata la sua cattolica fede, con quelle cerimonie che l’usanza
richiede, fu vestito dell’imperiali vestimenta, e consecrato dal
cardinale; per lo prefetto di Vico, in chi sta l’uficio d’incoronare,
gli fu messo la corona dell’oro imperiale, ed egli incoronò
l’imperatrice. E fatta la solennità della sua coronazione, l’imperadore
nella maestà imperiale montò in su uno grande e nobile destriere,
portando nella mano destra un bastone d’oro, e nella sinistra una palla
d’oro ivi suso una crocetta di sopra, e sotto nobilissimi palii d’oro
e di seta, addestrato da’ principi romani e da altri nobili signori
alla sella e al freno e d’intorno, e appresso a lui l’imperadrice,
con grande allegrezza e festa furono condotti per la città di Roma a
san Giovanni Laterano, ov’era fatto l’apparecchiamento per desinare;
e ivi smontati, con grande reverenza andarono a vicitare l’altare: e
già valicata l’ora di nona, si posono a mangiare: e fatta la desinea,
l’imperadore e l’imperadrice, con poca compagnia di loro gente, mutato
l’abito dell’imperiale maestà, montarono a cavallo, e andarono ad
albergare fuori della città di Roma a san Lorenzo tra le vigne: e
questo fece per ubbidire al comandamento a lui fatto dal santo padre,
che coronato che fosse, non dovesse albergare in Roma. A questa
coronazione si trovarono cinquemila tra baroni e cavalieri alamanni,
i più Boemi, e più di diecimila Italiani vi furono a cavallo, tutti al
servigio e a fare onore all’imperadore. E niuno contrario o sospetto a
lui si trovò in Italia, per l’umile venuta e savia pratica che tenne,
di non essere partefice e di non seguire il consiglio de’ ghibellini
come i suoi antecessori, cosa maravigliosa e non udita, addietro per
molti tempi. E partito l’imperadore da san Lorenzo con minore compagnia
se n’andò a Tivoli per osservare alcuna ceremonia debita a’ novelli
imperadori; incontanente tutta la cavalleria si cominciò a partire da
Roma, e venire verso Siena e Pisa, e chi a ritrarsi verso la Magna.
Lasceremo alquanto l’imperadore e la sua cavalleria al cammino, e
seguiremo d’altre novità strane, che in questi giorni s’apparecchiano
alla nostra materia.


CAP. III.

_Come messer Ruberto di Durazzo prese per furto il Balzo in Provenza._

Quello che seguita essendo molto strano dalla schiatta reale, ci
fa manifesto, che dove la necessità regna, rade volte s’aggiugne la
ragione. Messer Ruberto, figliuolo che fu di messer Gianni duca di
Durazzo, nipote del re Ruberto, tornato di prigione d’Ungheria, e male
provveduto dal re Luigi suo cugino, se n’andò in Francia; e servendo
il re alle sue spese, non essendo provveduto da lui tornò in Provenza;
e ivi, per mantenersi a onore, gravati gli amici e’ parenti, consumò
ciò ch’egli avea: e venuto a tanto che non potea mantenere quattro
scudieri, si pensò di fare male; e non avendo da se la forza, s’accostò
col sire della Guardia, a cui manifestò il suo pensiero, e richieselo
d’aiuto. Costui, ch’era uomo atto alla guerra più ch’al riposo, disse
di seguirlo volentieri, e accolsono ottanta cavalieri, e provvidonsi
di scale; e una notte, a dì 6 d’aprile del detto anno, essendo il forte
castello del Balzo in Provenza senza alcuno sospetto, e ’l signore del
Balzo nel Regno in cortese guardia del re, messer Ruberto vi s’entrò
dentro, e senza contasto prese il castello e la rocca inespugnabile.
Sentendosi la novella in corte, il papa e’ cardinali se ne turbarono
forte, salvo il cardinale di Pelagorga ch’era suo zio, il quale con
seguito di certi cardinali di sua setta lo scusavano in concestoro,
e segretamente l’atavano per modo, che in pochi dì ebbe nel Balzo
trecento cavalieri e cinquecento fanti armati, e cominciò a correre il
paese e fare preda fin presso Avignone, non senza sospetto del papa, e
de’ cardinali, e di tutta la Provenza.


CAP. IV.

_Come i Provenzali s’accolsono per porre l’assedio al Balzo._

Essendo questa cosa divolgata per la Provenza, i baroni del paese
ch’amavano la casa del Balzo, e temeano delle loro castella per lo
male esempio, senza essere richiesti da altro signore fece catuno suo
sforzo, e trassero con cavalieri e fanti che poterono fare al Balzo,
e in pochi giorni vi si trovarono ottocento cavalieri e gran popolo:
e dato ordine tra loro, tennono assediato il castello e la gente che
dentro v’era. La novella andò di subito a Napoli al conte d’Avellino
signore del Balzo, il quale di presente il disse al re; ond’egli
si turbò forte, e incontanente licenziò il conte, e rimandollo in
Provenza, profferendogli il suo aiuto: il conte si mise in fretta al
suo viaggio. Il papa e’ cardinali erano in turbazione colla setta
di quelli di Pelagorga, la qual cosa conturbava non poco la corte
e tutta la Provenza. Lasceremo al presente la materia del Balzo, e
trapasseremo alle novità che occorsono in Italia innanzi che il Balzo
si racquistasse.


CAP. V.

_Come si comincio l’izza da messer Galeazzo Visconti a messer Giovanni
da Oleggio._

Messer Giovanni da Oleggio vicario di Bologna per messer Maffiolo de’
Visconti di Milano, innanzi che l’arcivescovo avesse presa Bologna
era provveduto dal detto arcivescovo, del quale si credea che fosse
figliuolo, tra altre utili possessioni d’un castello grande e nobile
chiamato...., del quale messer Giovanni avea buona rendita: il castello
vicinava con certe terre di messer Galeazzo Visconti. Avvenne, che
messer Giovanni s’intendea in Milano d’amore con alcuna donna la quale
nel segreto era al servigio di messer Galeazzo, il quale accorgendosi
di messer Giovanni, l’ebbe a sdegno, e senza altro dimostramento
della cagione prese izza contro a lui, e messer Giovanni sforzandosi
di fargli onore nol potea contentare: infine gli tolse il castello,
più per fargli dispetto che per altra cagione. Della qual cosa messer
Giovanni non s’osò rammaricare nè dolere, ma di questo nacque poi
maggiore novità quando messer Giovanni si rubellò alla casa de’
Visconti, come leggendo appresso si potrà trovare.


CAP. VI.

_Come il capitano di Forlì sconfisse gente della Chiesa._

Del mese d’aprile del detto anno, il capitano di Forlì cavalcava
nella Marca, e avea in sua compagnia dugento cavalieri i più gentili
uomini giovani, i quali erano con lui per amore a sua provvisione. Il
capitano della gente d’arme della Chiesa seppe l’andata del capitano
di Forlì, e di notte gli si fece incontro, e misegli un aguato di
quattrocento cavalieri. Il capitano di Forlì, innanzi che fosse al
passo dell’aguato, per sue spie seppe come i nemici in quantità di
quattrocento cavalieri l’attendeano di presso; egli era in parte
ch’el si poteva tornare addietro salvamente, ma pensando che ciò gli
tornerebbe a vergogna, avendo l’animo grande, e giovani cavalieri con
seco pro’ e arditi, diliberò con loro d’andare ad assalire i nemici,
non ostante che gran vantaggio avessono del numero della gente e del
terreno; fece cento feditori ch’andassono innanzi a cominciare la
zuffa, i quali si mossono in un fiotto, e dirizzaronsi al cammino
verso l’aguato, a modo come se ’l capitano fosse tra loro. I nemici
pensandogli raccogliere a mansalva uscirono loro addosso, credendo
che vi fosse il capitano di Forlì. I cento cavalieri, vedendo venire
verso loro tutto l’aguato, strettamente con grande ardire, sì fedirono
tra loro sì virtuosamente, che gli feciono invilire; e vedendo come
francamente sosteneano contro a loro, temettono che il capitano con
maggior forza non venisse loro addosso; e vedendo dalla lunga apparire
gente al loro soccorso, e che questi cento cavalieri tanto francamente
si sosteneano, innanzi che il capitano giugnesse ruppono; e giugnendo
il capitano di Forlì al soccorso de’ suoi, trovò rotti i nemici, e
perseguitandoli, prese dugento cavalieri e più di quell’aguato, e
raccolta la preda, vittoriosamente fornì il suo viaggio.


CAP. VII.

_Come messer Filippo di Taranto prese per moglie la figliuola del duca
di Calavria._

Essendo dama Maria, sirocchia della reina Giovanna figliuola del duca
di Calavria, rimasa vedova di due mariti tagliati a ghiado, che l’uno
fu il duca di Durazzo, l’altro Ruberto figliuolo del conte d’Avellino,
de’ quali innanzi è fatta menzione, essendo così vedova, del mese
d’aprile, ella e messer Filippo di Taranto fratello carnale del re
Luigi senza moglie, non ostante ch’ella fosse figliuola di suo cugino
carnale e stata moglie del duca suo cugino, senza alcuna dispensazione,
con volontà e consiglio del detto re e della reina Giovanna sua
sirocchia, per nome di matrimonio si congiunsono insieme; e dopo la
loro congiunzione e maritaggio, il detto messer Filippo andò a corte
di Roma a Avignone al papa per avere la dispensagione. Il papa ebbe
questa cosa molto a grave, e il collegio de’ cardinali, e fu da loro
messer Filippo mal veduto, e dimorò in corte e in Provenza lungamente,
adoperando cose da piacere al papa per potere avere la dispensazione
a lui più volte negata. Infine dopo lungo dimoro, caricato il papa dal
re e dalla reina, che questa vergogna non rimanesse nella casa reale,
infine per lo meno male, e per ricoprire quello vituperio, concedette
la detta dispensagione.


CAP. VIII.

_Come Massa e Montepulciano non ricevettono i vicari del patriarca._

In questi dì, essendo l’imperadore a Roma, i Massetani, e’
Montepulcianesi, e que’ di Grosseto, che soleano ubbidire al comune
di Siena, avendo sentiti i romori della città, e l’abbattimento
dell’ordine de’ nove e di tutti gli ufici del comune mandandovi il
vicario dell’imperadore per riprendere la signoria di quelle terre,
catuna si ritenne senza volere ricevere la signoria del vicario,
volendo prima vedere come la città di Siena si dovea riposare. E di
questa novità il minuto popolo e gli artefici ch’aveano abbattuto
l’ordine de’ nove, che di ciò erano contenti, furono turbati assai,
e presono cagione d’intendersi insieme, onde poi seguirono gravi
revoluzioni, come al suo tempo appresso racconteremo.


CAP. IX.

_Come i Visconti tolsono a messer Giovanni da Oleggio il suo castello._

Essendo messer Giovanni de’ Peppoli che vendè Bologna molto confidente
a messer Galeazzo Visconti, per accattare benivolenza a’ suoi amici da
Bologna da messer Giovanni da Oleggio che n’era vicario operò tanto,
che messer Galeazzo gli rendè la grazia sua, e il castello, che per
sdegno gli avea tolto; la qual cosa fu a messer Giovanni da Oleggio a
grado, e di presente si provvide di ricchi doni, e mandolli a messer
Galeazzo, il quale gli ricevette graziosamente. Messer Maffiolo vedendo
che messer Giovanni era tornato nella grazia di messer Galeazzo,
incominciò a prendere sconfidanza di lui, e inanimossi di rimuoverlo
del vicariato di Bologna, e il suo proprio castello ch’avea riavuto
da messer Galeazzo recò cortesemente al suo governamento, e certa
provvisione ch’egli era usato di fare ogni anno a messer Giovanni per
i servigi che ricevea da lui cominciò a sostenere con dissimulazioni.
E parendogli che messer Giovanni ubbidisse più gli altri suoi fratelli
che se, avendo intendimento di mutarlo e trarlo di Bologna, copria il
suo intendimento con povero consiglio, che non sapea più; ma colui con
cui egli avea a fare era uomo astuto e avvisato, e però il fine andò
tutto per altro modo che messer Maffiolo e’ fratelli non pensarono,
come leggendo innanzi si potrà vedere.


CAP. X.

_Andamenti della gran compagnia._

Essendo lungamente stata in Puglia la compagnia del conte di Lando,
favoreggiata dal duca di Durazzo e dal conte Paladino in vergogna della
corona, perchè dal re erano stati mal trattati, del mese di maggio
la condussono in Terra di Lavoro, e misonsi a Serni e a Matalona,
facendo per lo paese danni di ruberie e di prede quanto più poteano,
senza trovare fuori delle mura delle terre alcuno contasto: e appresso
feciono più parti di loro, e sparsonsi per lo paese facendo danni
assai, come per i tempi innanzi si racconteranno.


CAP. XI.

_Come il re di Tunisi fu morto._

Innanzi ch’e’ Genovesi prendessono Tripoli di Barberia, il re di Tunisi
avendo assai figliuoli di diverse donne, com’è usanza de’ saracini,
i quali figliuoli male ordinati, non volendo che la successione del
regno venisse a quel loro fratello a cui il re intendea di lasciare la
reale signoria, trattarono e misono ad esecuzione la violente morte del
re loro padre; e rimanendo il reame in vacazione, i baroni occuparono
chi in un paese e chi in un altro le possessioni e ragioni del reame;
e nondimeno alcuni de’ piccoli figliuoli del re che non era partefice
al patricidio feciono re, il quale possedea Tunisi e parte del reame,
ma non l’occupava. In quel tempo avvenne, ch’un figliuolo d’un fabbro
saracino, essendo sperto, e ben parlante, e di grand’animo, ebbe cuore,
trovandosi in Tunisi, d’occupare la città con tirannia; ed essendovi
grande per la sua eloquenza, per la sua industria se ne fece signore,
e reggea e governava quel popolo e quell’antica città a suo volere,
senza lasciarli ritornare alla debita signoria del re di Tunisi; e per
lo male stato di quello reame non era chi lo repugnasse. Per la qual
cosa avvenne, che certi Genovesi ch’aveano veduto il reggimento di
quel tiranno, e sentito com’egli era in odio al re di Tunisi e a’ suoi
baroni, da cui non avrebbe soccorso, e il gran tesoro ch’era in quel
popolo, si pensarono di prendere per ingegno e per forza quella città,
come poi venne loro fatto, secondo che appresso leggendo si potrà
trovare.


CAP. XII.

_Come messer Giovanni da Oleggio rubellò Bologna._

Noi abbiamo poco addietro narrato come messer Maffiolo de’ Visconti
di Milano, nella cui parte era venuta la città di Bologna, avea preso
sospetto di messer Giovanni da Oleggio suo vicario, e provvedeasi
segretamente a rimuoverlo; e parendogli tempo, mandò a Bologna messer
Galeazzo de’ Pigli da Modena con certa famiglia, acciocchè prendesse
da messer Giovanni la signoria, e rimanesse suo vicario in Bologna, e
a messer Giovanni scrisse, ch’assegnato ch’avesse al nuovo vicario la
tenuta e la signoria, che se ne tornasse a Milano, facendogli assai
larghe offerte. E giunto in Bologna messer Galeazzo, fu da messer
Giovanni ricevuto graziosamente nella prima apparenza, e per mostrarsi
fedele e ubbidiente al suo signore, di presente fece assegnare la rocca
e la guardia della porta di verso Modena a uno Milanese, di cui messer
Maffiolo n’avea fatto castellano. Questo si crede che facesse piuttosto
per poter meglio trattare l’altre cose che gli bollivano nell’animo,
che per semplice disposizione d’ubbidienza. E vedendosi egli allo
stremo partito, lavorava dentro con grande angoscia dell’animo, e non
avea con cui confidentemente potersi consigliare; e dall’una parte il
premea la fede promessa alla casa de’ Visconti di cui e’ si tenea per
nazione, ma più per i grandi onori e per lo stato ov’era pervenuto di
piccolo grande, per i beneficii ricevuti da’ suoi signori; e dall’altro
lato tempellava la mente l’ambizione della signoria che gli convenia
lasciare, e lo sdegno che già sentiva preso per messer Maffiolo gli
generava paura che lasciata la signoria e’ non fosse mal trattato, e
però, ma più l’appetito della signoria, il fece diliberare di mettersi
innanzi a ogni pericolo di sua fortuna, che di lasciare così grande
signoria com’egli avea tra le mani, e ogni fede promessa, e tutte
l’altre ragioni di sua natura, e d’onori e di beneficii ricevuti mise
addietro per niente. E avendo in se medesimo così diliberato, ebbe a
se messer Galeazzo nuovo vicario, e fecegli vedere con belle ragioni,
come la subita revoluzione della signoria di Bologna era di gran
pericolo, e maggiormente perchè sapea che ’l marchese di Ferrara avea
accolto gente d’arme, e manifesto era per l’aspre cose ch’egli avea
fatte a’ Bolognesi ch’elli erano mal contenti; e però consigliava,
ch’egli prima andasse a prendere le tenute delle castella di fuori, e
quelle rifornisse e provvedesse di buona guardia, e fatto questo, senza
pericolo potea sicuramente ricevere la signoria. Costui ignorante del
baratto seguitò il consiglio di messer Giovanni, e prese le masnade
ch’avea in Bologna a cavallo e a piè, e’ nuovi castellani e le lettere
del comandamento, ch’e’ castellani e l’altre masnade dovessono ubbidire
al nuovo vicario; e messolo fuori della città di Bologna, incontanente
messer Giovanni mandò pe’ rettori e per tutti gli uficiali ch’erano
in Bologna, catuno per se, e come veniano a lui, gli facea mettere
in certa camera del suo palagio in salva guardia: e com’ebbe raccolti
tutti i rettori, e uficiali in quella sera, mandò per tutti i maggiori
cittadini di Bologna grandi e popolani, e per coloro cui egli avea più
serviti e meno gravati, e raunatili insieme nel suo palagio, essendo
già assai infra la notte, disse, com’egli col loro aiuto intendea di
volere torre la signoria di Bologna a messer Maffiolo e agli altri suoi
fratelli signori di Milano, e voleala tenere per se, promettendo di
trattare benignamente grandi e popolani, e d’alleggiare i cittadini dal
disordinato giogo, che a petizione di que’ tiranni era stato costretto
di tenere loro addosso contro a sua volontà; scusando se, che come
sottoposto al duro comandamento avea fatte assai aspre e crudeli cose
a que’ cittadini, facendole contro alla sua natura e all’animo suo per
ubbidire a’ crudeli tiranni, a cui non avea potuto fare resistenza, ma
da quinci innanzi intendea trattarli come fratelli, e ne daria loro un
segnale, mettendo il governamento della cittadinanza nelle loro mani.
I cittadini paurosi per l’usata tirannia, temendo che ’l parlare di
messer Giovanni non fosse per tentarli della loro fedeltà, dimostrarono
e rispuosono di concordia, ch’elli erano apparecchiati a mantenere
a lui e a’ suoi signori la fede promessa. Messer Giovanni vedendo la
ferma risposta de’ cittadini, e temendo il pericolo della brevità del
tempo, con aspre parole cominciò a minacciare i cittadini, dicendo,
che parlava aperto e non per tentarli, e che poteano bene comprendere,
che in questo punto a lui convenia prendere o lasciare la signoria,
ed egli per suo vantaggio, e per trarre loro del servaggio, volea
fare con loro consentimento quello ch’avea loro proposto e ragionato:
ma poichè vedea tanta follia nelle cieche menti di que’ cittadini,
disse, che contro a loro e contro agli altri che non v’erano farebbe
aspre e dure cose infino alla morte di catuno, e la città arderebbe
e lascerebbe desolata. E questo dimostrava con tanto infocamento
d’animo, che manifesto fu a tutti ch’e’ parlava da dovero e non per
alcuna tentazione. Allora presono tra loro consiglio, e dissono:
Signor nostro, che aiuto vi possiamo noi fare, essendo senz’arme?
messer Giovanni disse, che volea ch’eglino il chiamassono signore, e
in quella notte farebbe a catuno rendere l’armi: ed eglino il feciono,
e l’armi furono rendute in quella notte a chi le volle. La mattina
messer Giovanni mandò per i conestabili de’ soldati da cavallo e da
piè, e disse, che volea il saramento da loro a se come signore di
Bologna, e chi fare nol volesse di presente si partisse di Bologna, e
del contado e del suo distretto, a pena della testa; giurarono a lui
le due parti, e gli altri si partirono, e di presente uscirono del
paese: e tutti gli uficiali ch’egli avea rinchiusi rimutò de’ loro
ufici, e misevi de’ nuovi che giurarono a lui, e quelli fece partire
della città. Il nuovo castellano, ch’avea messo nella rocca della porta
verso Modena, avendo messer Giovanni mandato per lui, non v’era voluto
andare, ma per mattia n’avea mandato il figliuolo, il quale messer
Giovanni ritenne: e in quella mattina con gran fretta mandò a tutti
i castellani di fuori, che non si dovessono rimuovere, nè ricevere in
loro castella messer Galeazzo de’ Pigli per lettere o per comandamento
ch’e’ portasse da sua parte, e di ciò fu bene ubbidito. Il castellano
della città sopraddetto, sentendo la ribellione di messer Giovanni,
non volea rendergli la rocca. Messer Giovanni, dal venerdì mattina
fino alla domenica sera, con molta sollecitudine intese a ordinare
e a rifermare il reggimento della città e della guardia dentro:
e in questo tempo il marchese di Ferrara, cui egli avea richiesto
d’aiuto, gli mandò dugentocinquanta cavalieri. Il lunedì mattina, non
volendo il castellano milanese rendere la rocca della porta, messer
Giovanni vi mandò gente d’arme per mostrare di volerla combattere, e
per fare impiccare il figliuolo nel cospetto del padre; la battaglia
fu ordinata, e le forche ritte, e ’l figliuolo menatovi a piè per
impiccare. Il padre doloroso, vedendosi senza soccorso da non potere
resistere, e ’l figliuolo per essere impiccato, rendè la tenuta, e fu
libero egli e ’l figliuolo: e messer Giovanni rimase libero signore
della città di Bologna, levatala dalla signoria de’ signori di Milano,
per cui l’avea governata e retta in cruda tirannia infino a dì 20 del
mese d’aprile 1355 che se ne fece signore ed ebbe la detta rocca, e
in Bologna prese tutti i Milanesi che v’erano e le loro mercatanzie,
de’ quali trasse molti danari per riscatto delle persone e della
mercatanzia. E nelle castella di fuori non ebbe podere d’entrare messer
Galeazzo, salvo che in Luco, e ivi si ritenne, sentendo la ribellione
di messer Giovanni, aspettando la volontà de’ suoi signori. Messer
Giovanni mettendosi alla fortuna rimase signore; quegli che segue
rifrenandola per senno, ovvero per mattia, ne perdè la vita, come
appresso diviseremo.


CAP. XIII.

_Come il doge di Vinegia fu decapitato._

Messer Marino Faliere doge di Vinegia, uomo di gran virtù e senno,
reggendo l’uficio di cotanta dignità, e senza sospetto e in grazia
de’ suoi cittadini, avendo l’animo grande si contentava male, non
parendogli potere fare a sua volontà com’avrebbe voluto, strignendolo
la loro antica legge di non potere passare la deliberazione del
consiglio a lui diputato per lo comune; e però avea preso sdegno contro
a’ gentili uomini che più lo repugnavano presontuosamente. E intanto
avvenne, che certi popolani furono da alquanti de’ grandi di parole e
di fatti oltraggiati villanamente; e crescendo lo sdegno del doge per
la disordinata baldanza de’ gentili uomini, prese sicurtà di scoprire
agli oltraggiati popolani l’animo suo ch’avea contro la riverenza de’
gentili uomini, che tutti erano del consiglio; e di questo seguitò,
che il doge concedette segretamente licenza a’ popolari ingiuriati che
si procacciassono di confidenti amici, e d’arme e di gente acconcia
al servigio, e una notte ordinata fossono su la piazza di san Marco,
e sonassono le campane a stormo, e dessono voce che le galee de’
Genovesi fossono nel golfo; e per usanza in cotali novità i gentili
uomini di consiglio soleano venire al palazzo al doge per provvedere
e consigliare quello che fosse da fare, e in quella venuta i popolani
armati li doveano uccidere, ovvero radunati in palagio metterli alle
spade; e questo fatto, doveano correre la città gridando, viva il
popolo, e fare il doge signore, e annullare l’ordine del consiglio
e de’ gentili uomini, e fare tutti gli uficiali popolari. Ed essendo
con molta credenza la cosa condotta sino alla sera che la notte dovea
seguire, il fatto come a Dio piacque per lo minore male, il doge
in questa sera mandò per un suo confidente popolare amico, uomo di
grande ricchezza, a cui rivelò il trattato, e come in quella notte si
dovea fare il fatto: costui turbato nella mente, con savie parole gli
biasimò l’impresa e impaurì il doge, e non ostante che la cosa fosse
recata molto agli stremi del tempo, disse, che là dove piacesse al
doge, che metterebbe subito consiglio che la cosa non procederebbe.
Il doge invilito nell’animo al consiglio di questo suo amico, gli
diè mattamente parola ch’egli ordinasse segretamente che il fatto si
rimanesse; e acciocchè dato gli fosse fede, gli diè un suo segreto
suggello. Questi andò di presente ai caporali a cui il doge il mandò
ch’aveano accolta la loro compagnia, e disse loro da parte del doge,
che si dovessono ritrarre dall’impresa, e mostrò loro il segno del suo
suggello. A’ popolari ch’erano apparecchiati parve essere traditi,
e non ardirono di procedere più innanzi, sentendo la mutazione del
doge. Uno pellicciere ch’era degl’invitati, sentendo che la cosa non
procedea, per paura d’essere incolpato se n’andò a uno gentile uomo
di consiglio, e manifestogli quello che sapea del fatto, che non sapea
però tutto. Costui menò il pellicciere al doge, il quale, non sapendo
che il doge sentisse di questo fatto, gli narrò ciò che ne sapea, e
nominogli i caporali. Il doge annullò molto il fatto, dicendo, che per
alcuno sentimento che n’avea avuto avea fatto spiare, e trovato avea
che la cosa era nulla. Il savio consigliere disse al doge, che volea
che questa cosa sentisse il consiglio; e contradiandolo il doge, costui
perseverò tanto in questo, che il savio doge divenuto per viltà fuori
del senno promise farlo raunare; commettendo fallo capitale della sua
testa, che lieve gli era ritenere costoro, e fare eseguire quello che
ordinato era, o stringerli e giudicarli a suo volere segretamente. La
mattina raunato il consiglio, e divolgata la novella, furono mandati a
prendere i caporali, e venuti dinanzi al doge e al consiglio, il doge
li chiamò traditori per dimostrarsi strano dal trattato, ma vennegli
fallato, perocchè in faccia gli dissono, che ogni cosa che ordinata era
s’era mossa da lui e proceduta dal suo consiglio. Il doge nol seppe
negare. Il consiglio incontanente il fece guardare nel suo palagio
per loro medesimi. In prima impesono quattro de’ caporali alle colonne
del palagio del doge, e il dì seguente confiscarono tutti i beni del
doge, ch’era grande ricco uomo, al comune, salvo che per grazia gli
concedettono che di duemila fiorini potesse testare a sua volontà;
e menatolo in sulla scala dov’egli avea fatto il saramento quando il
misono nella signoria, gli feciono tagliare la testa, e vilissimamente
il suo corpo messo in una barca fu mandato a seppellire a’ frati;
e l’amico suo che sturbò il patricidio de’ grandi cittadini, e il
rivolgimento dello stato di quella città, ebbe per merito condannagione
grande pecuniale, e perpetuo esilio, rilegato nell’isola di Creti.


CAP. XIV.

_Come l’imperadore tornò coronato a Siena._

L’imperadore Carlo ricevuta la corona in Roma, come detto abbiamo, se
ne tornò verso Siena, e soggiornato a Montalcino, e appresso venuto a
Montepulciano; e in catuno luogo lasciati suoi vicari con alcuna gente,
domenica a dì 19 d’aprile in sul vespero giunse alla città di Siena;
e innanzi che entrasse nella città, fattoglisi incontro i cittadini
con gran festa in sull’ora del vespero, in quest’abboccamento otto
cittadini pomposi e avari per cessare la debita spesa alla cavalleria
si feciono a lui fare cavalieri, e appresso entrato nella città glie
n’accorreano molti senza ordine o provvisione, ed egli avvisato del
vano e lieve movimento di quella gente, commise al patriarca che in suo
nome gli facesse. Il patriarca non potea resistere a farne tanti quanti
nella via glie n’erano appresentati: e vedendone così gran mercato,
assai se ne feciono che innanzi a quell’ora niuno pensiere aveano
avuto a farsi cavalieri, nè provveduto quello che richiede a volere
ricevere la cavalleria, ma con lieve movimento si faceano portare sopra
le braccia a coloro ch’erano intorno al patriarca, e quand’erano a lui
nella via il levavano alto, e traevangli il cappuccio usato, e ricevuta
la guanciata usata in segno di cavalleria gli mettevano un cappuccio
accattato col fregio dell’oro, e traevanlo della pressa, ed era fatto
cavaliere; e per questo modo se ne feciono trentaquattro in quella
sera tra grandi e popolari. E condotto l’imperadore al suo ostiere,
fu fatto sera, e catuno si tornò a casa; e’ cavalieri novelli senza
niuno apparecchiamento o spesa con la loro famiglia celebrarono quella
notte la festa della loro cavalleria. Chi considera con la mente non
sottoposta alla vile avarizia l’avvenimento d’un novello imperadore
in cotanto famosa città, e tanti nobili e ricchi cittadini promossi
all’onore della cavalleria nella patria loro, uomini di natura pomposi,
non avere fatto alcuna solennità in comune o in diviso a onore della
cavalleria, può giudicare quella gente poco essere degna del ricevuto
onore.


CAP. XV.

_Come il legato parlamentò a Siena con l’imperadore._

Messer Gilio cardinale di Spagna, a cui il papa e’ cardinali aveano
commesso il procaccio e la legazione di riacquistare la Marca, e ’l
Ducato, e la Romagna occupata per messer Malatesta da Rimini e per
gli altri tiranni Romagnuoli, avendo molto premuto e dirotto messer
Malatesta, l’avea condotto in parte, ch’e’ tentava di volere accordarsi
col cardinale per le mani dell’imperadore, e avea detto di venire
a Siena per questa cagione all’imperadore; e ’l legato per questo
fatto, e per vicitare l’imperadore, si mosse della Marca, e a Siena
giunse a dì primo di Maggio; e ivi, con l’altro cardinale d’Ostia
ch’avea coronato l’imperadore, furono a parlamentare con lui de’ fatti
d’Italia ch’apparteneano a santa Chiesa, attendendo messer Malatesta
per pigliare accordo con lui: ma il tiranno mutato consiglio, non vi
volle andare. In questo attendere, l’imperadore trattò con loro de’
fatti di Perugia, che a lui aveano proposto ch’erano immediate sotto
la giurisdizione di santa Chiesa, come del ducato di Spuleto, per
liberarsi da lui, e al legato non rispondeano in alcuna ubbidienza per
nome di santa Chiesa; e per questa cagione deliberarono tra loro, che
l’imperadore senza offendere santa Chiesa potea trattare con loro, come
con l’altre città d’Italia, e così si pensava l’imperadore di fare, ma
sopravvenendogli altre novitadi, come noi diviseremo appresso, feciono
dimenticare i fatti di Perugia, e partire il legato in animo forte
adirato contro a messer Malatesta, da cui si tenea deluso a questa
volta.


CAP. XVI.

_Come l’imperadore ebbe la seconda paga da’ Fiorentini._

Essendo l’imperadore in Siena, obbligato a molti baroni e cavalieri da
cui avea ricevuto servigio, mostrandosi povero di moneta, li nutricava
di promesse, e rimandavali nella Magna mal contenti: e volendogli i
Fiorentini fare la seconda paga, mandò a dire a’ signori di Firenze,
che glie la mandassimo segretamente. I Fiorentini innanzi al termine
promesso, all’uscita d’aprile gli mandarone contanti trentamila
fiorini: e fattogli in segreto sentire come i danari erano venuti, di
presente fece uscire dall’ostiere tutta sua famiglia, e rinchiusosi in
una camera, in sua presenza li fece contare al patriarca; e trovato
che uno di sua famiglia stava a vedere al buco dell’uscio, il punì
gravemente, temendo ch’e’ suoi baroni nol sentissono, perocchè più
amava di tenersi i danari in borsa, che l’amore de’ suoi baroni o il
loro contentamento.


CAP. XVII.

_Come il nuovo tiranno di Bologna mandò a Firenze ambasciadori a
richiedere i Fiorentini._

Messer Giovanni da Oleggio avendo novellamente tolto e rubato la
città di Bologna a’ suoi signori de’ Visconti, e trovandosi povero
d’aiuto a sostenere il fascio di quella città e de’ potenti avversari,
incontanente mandò lettere per suoi messaggi, e appresso solenni
ambasciadori al comune di Firenze, offerendo di volere essere singulare
amico de’ Fiorentini, e di governare e reggere quella città alla
volontà e piacere del comune di Firenze. E i detti ambasciadori con
molte suasioni e larghe promesse da parte di messer Giovanni pregarono,
ch’almeno in privato, se non volesse in palese, il nostro comune
il dovesse consigliare, acciocchè potesse quella città mantenere in
amore e in fratellanza, come anticamente era costumata d’essere co’
Fiorentini, e difenderla da’ tiranni di Milano, originali nemici del
comune di Firenze. I Fiorentini conobbono chiaramente, ch’essendo
Bologna in loro amistà e lega, sarebbe a modo che forte muro alla
difesa del nostro comune contro a ogni potenza tirannesca di Lombardia;
ma per osservare lealmente la promessa pace a’ Visconti signori di
Milano, per niuno vantaggio che conoscessono, o per promesse che fatte
fossono loro, poterono essere recati a fare in segreto o in palese
cosa, che sospetto potesse essere alla pace promessa a’ Visconti. E
avendo gli ambasciadori trovata ferma costanza nel comune a mantenere
sua fede, si tornarono mal contenti al loro signore a Bologna a dì 4
mese di maggio del detto anno; e questo fu chiaramente manifesto a’
signori di Milano, che molto l’ebbono a bene, e offersonsi largamente
al comune di Firenze.


CAP. XVIII.

_Come fu sconfitto, e preso messer Galeotto da Rimini da’ cavalieri del
legato._

Avendo poco addietro narrato come messer Malatesta da Rimini avea
cambiato l’animo dell’accordo con messer lo cardinale legato, seguitò,
che la sua gente d’arme capitanata e guidata per messer Galeotto suo
fratello, perocchè in pochi giorni due volte avea rotti i cavalieri
della Chiesa, avviliva tanto quella gente che poco se ne curava. E
però avendo per assedio e per forza preso un castello di Recanati,
con più di seicento barbute e gran popolo s’era posto ad assedio a un
altro, e nondimeno per buona provvidenza di guerra avea fortificato
il campo con un muro per modo, ch’entrare nè uscire per lo piano non
si potea se non per una sola entrata; e per questo stavano baldanzosi
all’assedio con minore guardia, non temendo per gente che il legato
avesse, per la qual cosa prima ebbono addosso la cavalleria del legato,
che di loro si fossono provveduti. Messer Ridolfo da Camerino capitano
della gente della Chiesa, con più d’ottocento cavalieri e con assai
buoni masnadieri, avendogli condotti al campo de’ nemici, gli fece
assalire agramente, e per due volte tolse loro l’entrata del campo,
e quelli di messer Galeotto combattendo virtuosamente catuna volta lo
racquistarono per forza d’arme. Infine avvedendosi il capitano della
Chiesa che un piccolo poggetto si guardava per lo popolo d’Ancona
ch’era sopra il campo, mosse i cavalieri e’ balestrieri contro a loro,
i quali francamente gli assalirono: e non potendo avere soccorso dal
campo, ch’erano combattuti dall’altra parte, per forza furono rotti:
e di quel poggetto senza riparo di muro cacciando e uccidendo i
nemici per forza entrarono nel campo, e l’altra parte di loro presono
l’entrata del campo e misonsi dentro. Messer Galeazzo si ristrinse
co’ suoi combattendo co’ nemici, dinanzi e di dietro assaliti, molto
vigorosamente a modo di valenti cavalieri, e per più riprese si
percosse tra’ nemici, e due volte preso fu riscosso dà suoi cavalieri.
Infine vincendo quelli della Chiesa, a messer Galeotto fu morto il
destriere sotto, e ricoverato un piccolo cavallo, volendosi salvare,
fu fedito di più fedite; e ritenuto prigione, e tutta sua gente rotta,
presa e sbarattata e morta; e liberato il castello, messer Ridolfo
detto con piena vittoria si tornò al legato: e questa fu la cagione
perchè poi messer Malatesta non potè fare retta contro al legato, come
appresso si potrà trovare.


CAP. XIX.

_Come la fama della liberazione di Lucca si sparse._

Avvenne in questi dì, all’entrante del mese di maggio del detto anno,
essendo l’imperadore libero signore di Pisa, di Lucca, di Siena, di
Sangimignano e di Volterra, e dell’altre terre loro sottoposte, e in
amore e pace co’ Fiorentini e’ Perugini, Pistoiesi e Aretini, senza
alcuno avversario in Italia, onde che la cosa muovesse, una fama corse
per tutta Italia ch’egli avea fatto accordo con gli usciti di Lucca, i
quali si dicea che gli doveano far dare in Francia centoventimigliaia
di fiorini d’oro quand’egli liberasse la città di Lucca della signoria
de’ Pisani; e questo si dicea ch’avea promesso di fare finito il
termine ch’e’ Pisani aveano promesso di liberarla; e doveala lasciare
in libertà al reggimento del popolo e rimettervi tutti gli usciti,
la quale suggezione de’ Pisani dovea seguire il secondo anno. Il
divolgamento di questa fama non si trovò ch’avesse fondamento da
trattato fatto dall’imperadore, o se fatto fu, altrove che in Toscana e
per altri che per la persona dell’imperadore ebbe movimento. Trovossi
bene, che grandi ricchi mercatanti usciti di Lucca intendeano a fare
colta di moneta. Ma come che la cosa si fosse o si spirasse, a tutti
parve che così dovesse essere, e in segno di ciò furono revoluzioni e
gravi novità ch’appresso ne seguitarono, come leggendo nostro trattato
si potrà trovare.


CAP. XX.

_Come l’imperadore diede Siena al patriarca._

Nel soggiorno che l’imperadore facea a Siena trattò di volere che
il patriarca suo fratello fosse libero signore di quella città, e’
Sanesi avendosi condotti nel reggimento non però fermo dell’ignorante
popolo vacillante nello stato, per volere accattare la benivolenza
dell’imperadore consentirono d’avere il patriarca per loro signore,
e di volontà dell’imperadore di nuovo feciono la suggezione e ’l
saramento al patriarca, e a lui furono assegnate tutte le terre e
castella della loro giurisdizione, nelle quali confermò suoi castellani
e vicari, cosa strana all’antico governamento della loro libertà, e
di matto consentimento: e l’imperadore per la sua autorità e pe’ suoi
privilegi gli confermò la libera signoria di quella terra, e del suo
contado e distretto. Il patriarca volendo confermare la sua signoria
s’accostò col minuto popolo, e di quelli fece uficiali a’ reggimenti
comuni dentro nella città, e per lo loro consiglio si reggea, essendosi
accorto che per lo favore di quella minuta gente era venuto alla
signoria, e per questo avea schiusi gli altri maggiori popolani, e
abbattuto in tutto la setta dell’ordine de’ nove per modo, che non
ardivano in palese a comparire tra gli altri cittadini,


CAP. XXI.

_Come i capi de’ ghibellini d’Italia si dolsono all’imperadore._

In questi medesimi dì, all’entrante di maggio, i caporali di
parte ghibellina ch’erano venuti alla coronazione dell’imperadore,
aspettandone la loro esaltazione e l’abbassamento di parte guelfa in
Toscana, e vedendo per opera il contradio, si raunarono insieme in
una chiesa di Siena, e ivi ricordarono tra loro tutte le persecuzioni
ricevute da’ guelfi per cagione dell’imperio, e le infamazioni de’
comuni di Toscana, e spezialmente del comune di Firenze, per le
resistenze fatte agl’imperadori; e avendo raccolta loro materia da
dire, feciono quelle cose pronunziare nel cospetto dell’imperadore
al prefetto di Vico; il quale saviamente in prima raccontò la fede,
l’amore, i servigi che i ghibellini d’Italia aveano portato e fatto
per i tempi passati di quanto avere si potea memoria agl’imperadori
alamanni, e in singularità all’imperadore Arrigo suo avolo, e come
i guelfi d’Italia aveano sempre fatto grave resistenza all’imperio,
e tra gli altri comuni più singolarmente e con maggior forza il
comune di Firenze; e come per operazione di quel comune l’imperadore
Arrigo suo avolo era morto, e le imperiali forze recate al niente;
e’ ghibellini sentendo l’avvenimento della sua signoria tutti erano
venuti in grande speranza, aspettando per lui essere esaltati, e
vedere la struzione de’ guelfi, e singolarmente del comune di Firenze
sempre ribello all’imperadore; e vedendo che per danari egli s’era
acconcio con quel comune, e a’ suoi fedeli ghibellini per sua venuta
non era seguito vendetta delle loro oppressioni e de’ danni ricevuti,
e le loro terre e castella perdute non erano racquistate, nè per suo
procaccio loro restituite, essendo perdute per volere mantenere la
parte imperiale, si maravigliavano forte, e molto più conoscendo che
il tempo era venuto che col loro aiuto, e delle città e castella di
Toscana tornate all’imperiale suggezione, e colla sua grande potenza,
e’ potea essere signore della città e de’ danari de’ Fiorentini, e per
un poco di danari avea fatto accordo con quel comune in poco onore
della maestà imperiale. L’imperadore, udite le dette cose, senza
ristrignersi ad altro consiglio o fare risponditore alcuno altro,
come signore facondioso d’intendimento e d’eloquenza, coll’animo
quieto parlando soavemente, disse: Noi sappiamo bene l’amore e la fede
ch’avete portata all’imperio, e’ servigi fatti al nostro avolo per voi
non possiamo dimenticare, perocchè scritti sono ne’ suoi annali. Appo
i nostri registri troviamo noi, che i mali consigli de’ ghibellini
d’Italia, avendo più rispetto al proprio esaltamento, e a fare le loro
proprie vendette, che all’onore e grandezza dell’imperadore Arrigo mio
avolo, il feciono male capitare, e non il comune di Firenze, nè alcuna
operazione di quel comune; e però non intendo in ciò seguitare vostro
consiglio: e frustrati della loro corrotta intenzione, mal contenti e
poco avanzati si tornarono in loro paese.


CAP. XXII.

_Come l’imperadore si partì da Siena e andò a Samminiato._

L’imperadore raccomandata la signoria e ’l reggimento della città di
Siena al patriarca, a dì 5 di maggio del detto anno si partì della
città, e vennesene da Staggia e da Poggibonizzi senza entrare nella
terra; e fatta ivi di fuori sua lieve desinea, si mise a cammino, e la
sera giunse a Samminiato del Tedesco, e da’ Samminiatesi fu ricevuto
a onore come loro signore. E com’egli prese la via di là per andare
a Pisa, molti de’ suoi baroni con grande comitiva de’ loro cavalieri
si partirono da lui, e vennonsene a Firenze per seguire loro cammino
tornandosi in Alamagna. In Firenze furono ricevuti cortesemente,
rassegnandosi i caporali per nome, e dando il numero della loro gente
al conservadore: e questo valico fu più giorni, avendo il dì e la
notte da seicento in ottocento o più cavalieri tedeschi ad albergare
in Firenze, e però niuno sospetto o movimento si fece o si prese nella
città, salvo che un pennone per gonfalone guardava la notte senza
andare la gente attorno.


CAP. XXIII.

_Come il cardinale d’Ostia fu ricevuto a Firenze._

Il cardinale d’Ostia ch’avea coronato l’imperadore, avendo volontà
di venire a Firenze per vedere la città e per procacciare alcuna cosa
dal comune, venne a Firenze a dì 6 di maggio del detto anno, ricevuto
da’ cittadini con grande onore, andandogli incontro la generale
processione, e messo sotto un ricco palio d’oro e di seta, addestrato
da’ cavalieri di Firenze e da’ maggiori popolari, sonando tutte le
campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo mentre ch’e’ penò ad
essere albergato, con grande riverenza per onore di santa Chiesa fu
collocato nelle case degli Alberti; e fattogli per lo comune ricchi
presenti, domandatosi per lui a’ priori cose indiscretamente che non
gli poteano fare, delle quali iscusatisi onestamente, non contento
da loro per la sua ambizione, a dì 8 di maggio del detto anno, mal
contento del nostro comune per suo disonesto sdegno se ne ritornò
a Pisa, dimenticato l’onore ricevuto per lo corrotto appetito della
sconcia domanda.


CAP. XXIV.

_Come la gente del legato presono quattro castella di Malatesta._

Dopo la sconfitta e la presura di messer Galeotto narrata poco
addietro, messer Malatesta andò a Pisa all’imperadore, perchè
l’acconciasse in pace col legato e con la Chiesa; nondimeno avea alle
frontiere della gente e delle terre della Chiesa tutta la forza della
sua gente d’arme a cavallo e a piè ragunata quivi, avvisando che là
si facesse la guerra, e così dimostrava di volere fare il capitano
della gente della Chiesa; ma come uomo avvisato ne’ fatti della guerra,
avendo condotto certo trattato per le mani del conticino da Ghiaggiuolo
il quale era de’ Malatesti, ma nimico di messer Malatesta e de’ suoi
per la morte di suo padre, questi avendo ordinato il suo trattato,
fece col capitano della Chiesa che subito mandò della Marca in Romagna
cinquecento cavalieri e altrettanti e più masnadieri, i quali furono
prima in su le porte di Rimini ch’e’ terrazzani sprovveduti senza
avere gente d’arme alla guardia se n’avvedessono, e funne la città
in gran pericolo; e per questo subito avvenimento, non essendo gente
nella terra da potere soccorrere di fuori nè riparare al trattato
del conticino, presono e rubellarono a’ Malatesti il castello di
sant’Arcagnolo, e ’l Verrucchio, e due altre castella intorno e di
presso alla città di Rimini, le quali fornirono di gente da cavallo e
da piè che faceano guerra a Rimini e nel paese, ed erano come bastite
che teneano assediata la terra. Di questa cosa si conturbò tutta la
Romagna, e fu cagione di recare i Malatesti più tosto a rendersi alla
volontà del legato, come al suo tempo appresso racconteremo; e questo
fu del mese di maggio del detto anno.


CAP. XXV.

_Come morì il duca di Pollonia._

Il duca Stefano di Pollonia cugino dell’imperadore, giovane virtudioso
e di grande autorità, avendo vaghezza di venire a Firenze per suo
diporto, e lasciato l’imperadore a Pisa, venne con sua compagnia di
giovani baroni a Firenze, ove fu ricevuto a grande onore; ed essendo il
gran siniscalco del Regno messer Niccola Acciaiuoli a Firenze, gli fece
compagnia festeggiando per la città. E avendo ricevuto onore di corredi
da’ signori e dal gran siniscalco, e compiaciutosi molto co’ cavalieri
e gentili uomini, e nella cittadinanza de’ Fiorentini e a più feste,
tornato a Pisa all’imperadore si lodò molto de’ Fiorentini, e magnificò
il nome della nostra città in molte cose, e dopo pochi dì cadde malato
in Pisa, e d’una continua febbre in sette dì passò di questa vita.
Dissesi ch’avea mangiato in Pisa d’un’anguilla, e che immantinente
ammalò, ma la continua più ch’altro il trasse a fine; della cui morte
fu gran danno, perocch’era barone di grande aspetto. Della morte di
costui molto si dolse l’imperadore, ma l’imperadrice vedendolo morire
così brevemente impaurì molto, e stimolava l’imperadore di ritornare
nella Magna, e molti baroni e cavalieri per la morte del duca Stefano
abbandonarono l’imperadore e tornaronsi in Alamagna, e lasciaronlo
con poca gente. E ’l sire della Lippa, uno dei maggiori signori di
Boemia, essendo malato a Pisa si fece conducere a Firenze, e giunto
nella città, e venuto a notizia de’ signori, di presente il feciono
albergare nel vescovado con tutta sua famiglia, che non v’era il
vescovo, e fornironlo di buone letta e di tutto ciò che a bene stare
gli bisognava, e ordinarongli i migliori medici della città alla
provvisione e consiglio della sua sanità, e continovo sera e mattina
gli faceano apparecchiare delle loro dilicate vivande e de’ loro fini
vini. E tanta fede aggiunta col suo piacere ebbe il nostro comune,
che di lunga malattia e quasi incurabile, non pensando potere campare
altrove, come fu piacere di Dio prese perfetta sanità nella città
di Firenze, e guarito, fu onorato di doni e d’altre cose dal nostro
comune. Per le quali cose fatto singulare amico del nostro comune e
de’ suoi cittadini, soggiornò nella città a suo diletto infino alla...,
tanto che fu tornato nella sua fortezza: poi ebbe dal comune i danari
che i Fiorentini gli aveano promessi per l’imperadore, come innanzi
racconteremo.


CAP. XXVI.

_Come fu coronato poeta maestro Zanobi da Strada._

Era in questi dì in Pisa il maestro Zanobi, nato del maestro Giovanni
da Strada del contado di Firenze; il padre insegnò grammatica a’
giovani di Firenze e a questo suo figliuolo, il quale fu di tanto
virtuoso ingegno, che morto il padre, e rimaso egli in età di
vent’anni, ritenne in suo capo la scuola del padre; e venne in tanta
fecondità di scienza, che senza udire altro dottore ammendò e passò
in grammatica la scienza del padre, e alla sua aggiunse chiara e
speculativa rettorica; e dilettandosi negli autori ne venne tanto
copioso, che in breve tempo d’anni esercitando la sua nobile industria
divenne tanto eccellente in poesia, che mosso l’imperadore alla gran
fama della sua virtù, e da messer Niccola Acciaiuoli di Firenze gran
siniscalco del reame di Cicilia, alla cui compagnia il detto maestro
Zanobi era venuto, vedute e intese delle sue magnifiche opere fatte
come grande poeta, volle che alla virtù dell’uomo s’aggiugnesse l’onore
della dignità, e pubblicandolo in chiaro poeta in pubblico parlamento,
con solenne festa il coronò dell’ottato alloro; e fu poeta coronato
e approvato dall’imperiale maestà del mese di maggio del detto anno
nella città di Pisa; e così coronato, accompagnato da tutti i baroni
dell’imperadore e da molti altri della città di Pisa, con grand’onore
celebrò la festa della sua coronazione. E nota, che in questi tempi
erano due eccellenti poeti coronati cittadini di Firenze, amendue di
fresca età; e l’altro ch’avea nome messer Francesco di ser Petraccolo,
onorevole e antico cittadino di Firenze, il cui nome e la cui fama
coronato nella città di Roma era di maggiore eccellenza, e maggiori e
più alte materie compose, e più, perocch’e’ vivette più lungamente, e
cominciò prima; ma le loro cose nella loro vita a pochi erano note, e
quanto ch’elle fossono dilettevoli a udire, le virtù teologhe a’ nostri
dì le fanno riputare a vili nel cospetto de’ savi.


CAP. XXVII.

_Come fu morto messer Francesco Castracani da’ figliuoli di Castruccio._

Sentendo i Pisani che messer Francesco Castracani di Lucca facea
venire gente delle sue terre di Garfagnana in favore della setta de’
raspanti di Pisa per muovere novità nella città, il feciono assapere
all’imperadore. L’imperadore gli mandò comandando che di presente si
dovesse partire della città di Pisa. E sostenuti più comandamenti senza
ubbidire, sentendo che ’l maliscalco colle masnade s’armavano contro a
lui, si partì tenendo la via verso Lucca; e partito lui, fu comandato
il simile a’ figliuoli di Castruccio Castracani, i quali dolendosi di
quello ch’avvenne a loro per messer Francesco, si partirono cavalcando
per quella medesima via, e la sera si trovarono ad albergo insieme, e
ivi mostrandosi di buona voglia albergarono insieme, e dormirono in uno
letto. La mattina seguendo loro viaggio vennono a uno maniero, il quale
Castruccio essendo signore di Lucca avea fatto edificare e acconciare
a suo diletto molto nobilemente, e di pochi dì innanzi l’imperadore
l’avea restituito a’ figliuoli di Castruccio; e trovandovisi presso,
pregarono messer Francesco che con loro insieme andasse a vicitare
il luogo, e risposto di farlo volentieri, uscirono di strada, e
andarono al maniero, e giunti là, i famigli si dierono attorno per i
giardini a loro diletto. Messer Arrigo e messer Valeriano di Castruccio
rimasono con messer Francesco, e col figliuolo e con un suo genero,
ed entrarono ne’ palagi per vedere l’edificio, il quale era bello, ma
molto guasto, perchè diciassette anni era stato disabitato; e sedendo
costoro in sulla sala del palagio, messer Arrigo s’accostò al fratello,
e dissegli: Ora abbiamo tempo; e andando messer Francesco guardando
l’edificio, messer Arrigo, essendogli poco addietro, di subito trasse
la spada, e non avvedendosene messer Francesco, gli diede nella gamba
un colpo grave e pericoloso. Messer Francesco sentendosi fedito,
volendosi rivolgere, chiamando traditore messer Arrigo, non potendosi
sostenere cadde, e messere Arrigo gli diè sù la testa un altro colpo
della spada che non lo lasciò rilevare: e morto messer Francesco, i due
fratelli corsono addosso al genero, e ivi senza arresto l’uccisono, e
’l figliuolo di messer Francesco lasciarono per morto; e rimontati a
cavallo seguirono loro viaggio, e tornaronsi in Lombardia; e questo
fu a dì 18 di maggio del detto anno: cosa detestabile per lo grande
tradimento mosso da invidia; ma per divino giudicio spesso avviene che
le tirannie prendono termine e fine per simiglianti modi.


CAP. XXVIII.

_Come i Fiorentini mandarono tre cittadini all’imperadore a sua
richiesta._

L’imperadore trovando l’animo de’ Pisani male contento per la voce
corsa, come detto è, ch’egli trattava di liberare Lucca, e avvedendosi
delle novità che cominciavano ad apparire in Pisa e in Siena, cominciò
a sospettare, e avendo fidanza nel comune di Firenze, il richiese
che gli mandasse tre confidenti suoi cittadini per averli al suo
consiglio. Il comune di presente gliel mandò, e da lui furono ricevuti
graziosamente. Ma poco si potè intendere o consigliare con loro, tante
sfrenate novità occorsono l’una appresso l’altra, che voleano più
operazione subita che consiglio, come seguendo appresso diviseremo.


CAP. XXIX.

_Come i Sanesi ebbono novità._

Il popolo minuto di Siena già avea cominciato a sperare nella signoria,
e per l’appetito di quella dall’una parte, e per paura e gelosia
dall’altra non potea acquetare; e già impaziente del loro signore, a
cui di tanta concordia s’erano sottoposti, a dì 18 di maggio del detto
anno levarono la città a romore, e presono l’arme, e serrarono le porte
della terra. Il patriarca maravigliandosi di questo subito movimento,
senza muoversi ad altra novità domandò quello che ’l popolo volea: e
risposto gli fu, che rivoleano le catene usate nella città a ogni canto
delle vie, ch’erano state levate all’avvenimento dell’imperadore. Il
patriarca l’acconsentì, e fecele rendere loro. E appresso domandarono
di volere dodici uficiali sopra il governamento del comune di due in
due mesi al modo che soleano essere i nove, e che da loro parte andasse
il bando: e domandarono di volere avere un gonfalone del popolo, e che
la misura del loro staio si crescesse. Il patriarca vedendosi male
apparecchiato a potere resistere al popolo commosso e armato, ogni
cosa concedette alla loro volontà. I loro grandi in questo fatto non
si armarono, e non si dimostrarono in favore del minuto popolo nè in
contrario; e se questo movimento ebbe ordine da loro non si scoperse:
ma ’l popolo osò di dire che questo movimento avea fatto temendo che
l’ordine dell’uficio de’ nove non si rifacesse; che sentivano che per
forza di danari si cercava di rifare. E stato il popolo tre dì armato,
e impetrata la loro intenzione si racquetò: e poste giù l’armi, rimase
arrogante e superbo per la vittoria del loro primo cominciamento. E
di presente ebbono fatto i dodici di loro minuti mestieri e messili
nell’uficio, e fatto un gonfalone e datolo a uno loro vile artefice,
con ordine che tutti dovessono accompagnare e seguire il loro
gonfalone. E questo fu il principio del loro reggimento, del quale poi
seguirono maggiori cose come seguendo il tempo racconteremo.


CAP. XXX.

_Come i Pisani per gelosia furono in arme._

Essendo venuta la novella della morte di messer Francesco Castracani
a Pisa, la setta de’ raspanti cui e’ favoreggiava si cominciarono a
dolere fortemente, e dire che questa era stata operazione della parte
de’ Gambacorti, ma ciò non era vero; nondimeno l’imperadore se ne fece
grande maraviglia, e tutta la città ne prese conturbazione, e crebbene
l’izza delle loro sette. E stando la città in questo bollimento, a dì
20 del detto mese di maggio improvviso s’apprese fuoco nel palagio del
comune ove abitava l’imperadore, e senza potervi mettere rimedio arse
tutta la camera dell’arme del comune ch’era in quel palagio, ove arsono
tutte le buone belestra, tende, e trabacche, e padiglioni, e l’altre
armadure che v’erano, che niuna ne potè campare. E per questa cagione
convenne che l’imperadore andasse ad abitare al duomo, e ’l popolo
tutto sotto l’arme tra per l’una cagione e per l’altra stava in gelosia
e in sospetto, e per questo modo stette armato il dì e la notte. La
mattina vegnente rassicurata la gente lasciarono l’arme quetamente, e
catuno intese a’ suoi mestieri. E in quella mattina ebbe l’imperadore
novelle della novità di Siena, che gli dierono assai malinconia e
pensiero, e più perchè si trovava fortuneggiare in Pisa, e mal fornito
di gente d’arme da potere provvedere e riparare alle fortune che si
vedea apparecchiare. Allora cominciò a potere conoscere che l’avarizia
era nimica d’ogni buona provvisione.


CAP. XXXI.

_Ancora gran novità di Pisa._

Quello che seguita è grande assalto d’avversa fortuna: e per esprimere
meglio la verità del fatto, ci conviene alquanto ritornare a dietro
la nostra materia avvolta in diversi e vari intendimenti, i quali
per lungo spazio di tempo cercammo discretamente, per lasciare di
tanto inopinato caso la verità del fatto nel nostro trattato. Egli
è manifesto che i Gambacorti di Pisa aveano lungamente in grande
prosperità governata e retta la città di Pisa, e quella magnificata con
pace in grandi ricchezze de’ suoi cittadini. L’invidia delle loro buone
operazioni avea creato una setta contro a loro chiamati i Raspanti,
e la loro si chiamava de’ Bergolini. I Gambacorti furono coloro che
ricevettono in pace l’imperadore, e che gli diedono la signoria di
Pisa, benchè ciò facessono secondo la volontà del popolo. A costoro
promise l’imperadore di mantenere e accrescere nella città di Pisa il
governamento del comune e il loro buono stato, e ne’ cominciamenti
appo l’imperadore erano i maggiori, e molto fedelmente si portavano
al servigio dell’imperio. I raspanti, uomini astuti e vegghianti, per
abbassare i Gambacorti aveano più volte messo novità e romori nella
terra, e’ Gambacorti con loro seguito, per riparare con dolcezza
alla loro malizia, aveano acconsentito di raccomunarsi insieme nella
cittadinanza e negli ufici, e fatta pace con loro, e acconsentito
all’imperadore la derogazione de’ patti promessi, stretti dalla
necessità più che dalla ferma fede dell’imperadore il feciono. È vero
ch’e’ Gambacorti con la loro parte, e i raspanti e tutti i cittadini
di Pisa si doleano d’uno modo della voce corsa che l’imperadore
avesse l’animo di liberare Lucca, e questo parlavano pubblicamente.
L’imperadore dicea di non liberarla, e nondimeno avea presa la guardia
del castello dell’Agosta con la sua gente e trattine i Pisani, e a’
Pisani parea ch’egli attendesse il termine che compieva la sommissione
di quella città, che venia il giugno seguente, e nel vero si sapea
ch’e’ Lucchesi accoglievano moneta per la detta speranza: e trovammo
nel vero che tutti i buoni cittadini di Pisa di catuna setta s’erano
consigliati insieme per riparare che Lucca non si liberasse d’uno animo
e d’una volontà, e di questo s’era fatto capo il Paffetta de’ conti di
Montescudaio; e quelli della Rocca caporali della setta de’ raspanti, e
a questo comune consiglio acconsentirono i Gambacorti; delle quali cose
seguitò la loro morte, come appresso diviseremo.


CAP. XXXII.

_Come furono in Pisa presi i Gambacorti._

Dopo la novità dell’arsione sopraddetta e della morte di messer
Francesco Castracane, essendo il popolo insollito, e malcontento e
sospettoso de’ fatti di Lucca, sopravvenne, che le some degli arnesi
e dell’armadure de’ loro cittadini ch’erano stati alla guardia
dell’Agosta in Lucca tornavano, avendo rassegnata la guardia di quella
alla gente dell’imperadore. I Pisani della setta de’ raspanti, per
le cui contrade le some passavano, facendosene capo il Paffetta,
cominciarono a levare il romore contro all’imperadore, e ogni uomo
s’andò ad armare; la gente dell’imperadore veggendo questa novità
s’armarono, e montarono a cavallo in diverse contrade com’erano
albergati, e tutti traevano al duomo dov’era il loro signore. I
cittadini gli lanciavano, e assalivano, e uccidevano per le vie
come fossono loro nemici, e in questo primo romore in più contrade
furono morti più di centocinquanta cavalieri tedeschi di quelli
dell’imperadore. L’imperadore vedendosi a questo pericolo, e mal
fornito a fare resistenza al furore del commosso popolo, s’era armato
e diliberato di volersi partire con la sua gente ch’avea raccolta
al duomo. De’ Gambacorti, ciò era Franceschino e Lotto, quand’era
questo romore si trovarono in casa l’imperadore con certi altri
cittadini senz’arme; e Bartolommeo e Piero, maravigliandosi di questo
subito romore, si racchiusono in casa il cardinale d’Ostia legato
del papa. I grandi e i buoni cittadini che non sapeano la cagione
del romore traevano a casa i Gambacorti; e nel vero, se alcuno di
loro fosse uscito fuori di casa armato, non ne dubito, che tanto e
tale era il seguito de’ buoni cittadini, che la città di Pisa avrebbe
preso quel partito ch’e’ Gambacorti avessono voluto, ma la loro mala
provvedenza coperta da semplice ignoranza li condusse alla loro ruina,
e la sagace malizia de’ loro avversari li fece signori. Il conte
Paffetta e messer Lodovico della Rocca, ch’erano stati i movitori
di questo romore, avvedendosi che la maggior forza de’ cittadini
traevano a casa i Gambacorti, e che quelli della casa per folle
consiglio non comparivano a farsi capo de’ cittadini, s’avvisarono
d’abbatterli per malizia in quello furore, coll’aiuto della paura
che sentivano ch’avea l’imperadore che cercava di volersi partire;
e per fornire loro intendimento, acciocchè ’l romore mosso per loro
non tornasse in loro confusione, cambiarono la voce, e mostrandosi
aiutatori dell’imperadore, con gran compagnia di loro seguito armati
s’appresentarono dinanzi dall’imperadore, e dissono: Signor nostro,
voi siete tradito da’ Gambacorti e dalla loro setta, perchè non pare
loro essere signori di Pisa come e’ solieno, e per questa cagione hanno
fatto levare questo romore e uccidere la vostra gente, e alle loro case
hanno raccolto in arme la maggior forza de’ cittadini; dicendoli, che
se per lui a questo punto non si mettesse riparo, egli e sua gente era
in grave pericolo a campare del loro furore, ed eglino medesimi co’
loro seguaci erano in grave pericolo di morte e d’essere cacciati di
Pisa: e detto questo, s’offersono all’imperadore, e dissono; Se voi ci
volete dare l’aiuto del vostro maliscalco e parte di vostre masnade,
recheremo tosto al niente la parte de’ Gambacorti, e voi faremo libero
signore di Pisa. L’imperadore avendo il suo senno intenebrato, e
sviato da se per la via della paura, indiscretamente diede fede alla
manifesta iniquità di costoro, e non volle la cosa ricercare con alcuna
ragione o verità del fatto; ma in quello stante prese parte, e fecesi
nemico de’ suoi fedeli e innocenti amici, e amico di coloro che gli
erano stati avversari, e diede le sue masnade e il suo maliscalco a
seguitare messer Paffetta, e messer Lodovico e la loro setta contro a’
Gambacorti, i quali senz’arme avea ne’ suoi palagi e in casa ignoranti
di questo fatto, e per suo comandamento fece ritenere Franceschino
e Lotto ch’avea in casa, e al legato mandò per gli altri ch’erano
là fuggiti udendo il romore sotto le sue braccia, e fu di tanta vile
condizione, che di presente glie le mandò, in gran disonore e infamia
del suo cappello e della libertà di santa Chiesa; e così fece di più
altri cittadini, che a lui erano fuggiti per tema del romore.


CAP. XXXIII.

_Come fur arse le case de’ Gambacorti._

Il conte Paffetta e messer Lodovico della Rocca avendo accolto loro
seguito, e la gente e l’insegna dell’imperadore, i quali il dì aveano
perseguitati e morti, ora per loro sagace industria li traevano
alla morte de’ loro cittadini, e gridando viva l’imperadore, molta
gente di loro seguito ragunata contro a lui rivolsono contro a’
Gambacorti, e contro a’ buoni cittadini ch’erano tratti senza loro
saputa o procaccio alle loro case. E venendo a valicare i ponti
dell’Arno, trovarono alcuna lieve resistenza di gente ignorante del
fatto, e tra loro non era alcuno de’ Gambacorti, in manifesto segno
che quel dì era terminato alla loro ruina; perocchè se alcuno di
quella casa fosse comparito in arme, tanti e tali erano i cittadini
tratti per difenderli, ch’avrebbono ributtati i loro avversari e la
gente dell’imperadore al Ponte vecchio e al Ponte della spina; ma non
apparendo alcuno de’ Gambacorti, il Paffetta e messer Lodovico colla
cavalleria dell’imperadore furono lasciati passare, e addirizzaronsi
verso casa i Gambacorti, e trovandole senza alcuna difesa, le feciono
rubare e appresso ardere; e per questo inopinato furore presi i non
colpevoli Gambacorti con certi altri loro amici, e arse le case,
diedono per quella giornata, a dì 21 di maggio del detto anno, riposo
al furore dello scommosso popolo. I presi furono Franceschino, Lotto,
Bartolommeo, Piero e Gherardo de’ Gambacorti; e gli altri cittadini di
loro seguito furono ser Benincasa Giunterelli notaio della condotta,
Cecco Cinquini, ser Piero dell’Abate, ser Nieri Papa, Neruccio
Mestondine, Neri di Lando da Faggiuola, Ugo di Guitto, e Giovanni
delle Brache, messer Guelfo de’ Lanfranchi, e messer Piero Baglia
de’ Gualandi, messer Rosso de’ Sismondi e Francesco di Rossello. E
avvegnachè tutti questi fossono in questo dì presi, nondimeno non però
tutti furono giudicati dall’imperadore, come appresso diviseremo nei dì
della loro condannazione.


CAP. XXXIV.

_Di novità seguite a Lucca._

In questo avviluppato furore della commozione di Pisa fu di subito
la novella a Lucca; e a’ Lucchesi parendo che fosse venuto il tempo
di potere uscire del grave giogo e servaggio de’ Pisani, incontanente
a dì 22 del detto maggio sommossono i loro contadini che venissono a
liberare la città, che da loro erano impotenti a ciò fare, perocchè
erano pochi e male in arme da potere muovere tanto fatto. I contadini
caporali nemici de’ Pisani per l’animo della parte e per le gravi
oppressioni, trassono subitamente d’ogni parte alla città, e i
cittadini mossono il romore dentro, e presono l’arme contro alle
guardie delle porti, che di quelli dell’Agosta non temeano, perocch’era
in mano della gente dell’imperadore, e non si travagliavano di
difendere la città a’ Pisani; e avendo già presa alcuna porta, misono
dentro parte de’ loro contadini, e col loro aiuto ripresono tutte le
fortezze della città e tutte le porti, fuori che quella del castello
e quella del prato; essendo già liberi signori del corpo della terra,
e potendovi mettere i contadini e fortificarsi alla difesa della
loro libertà, e poteano avere subito aiuto di gente d’arme da’ loro
vicini, e’ Pisani non erano in istato da contradiarli, e l’imperadore
tradito da’ Pisani non li avrebbe atati, assai chiaro era tornata la
libertà nelle loro mani, ma forse non compiuto ancora il termine de’
loro peccati; e però avvenne, che certi popolani ch’erano meno male
trattati da’ Pisani che gli altri, e alquanti degl’Interminelli, per
tema che la tirannia già passata di Castruccio non tornasse loro a
male, tradirono i loro cittadini, e dissono ch’aveano da’ Pisani ogni
patto che sapessono dimandare, e che con buona pace sarebbono liberi.
Il popolo vile, nutricato lungamente in servaggio, lievemente si lasciò
ingannare, e lasciarono accomiatare i contadini e restituire la guardia
delle porti a’ Pisani; i quali per riprendere con più asprezza la
signoria, fattisi forti nella città arsono molte case de’ cittadini, e
i più franchi e chi avea alcuno polso cacciarono fuori della terra, e
i miseri che dentro vi lasciarono strinsono sotto gravi servaggi della
loro vita, e tolsono loro ogni ferramento d’arme, e in Pisa tenendo
in sospetto l’imperadore si feciono rendere la guardia dell’Agosta, e
voleano che privilegiasse loro la signoria di Lucca: di questo li tenne
sospesi a questa volta, ed eglino riavendo l’Agosta si contentarono.


CAP. XXXV.

_Come nuovo romore si levò in Siena._

Essendo i cittadini di Siena male disposti tra loro, avvedendosi che ’l
minuto popolo cercava la libera signoria, questo spiacea agli altri: e
vedendo che ’l patriarca a dì 22 di maggio del detto anno avea ricevuto
il saramento di nuovo, e però non ostante ch’egli avesse acconsentito
al popolo l’uficio de’ dodici e ’l gonfalone si recava in dubbio quello
uficio; nondimeno gli artefici e il minuto popolo esercitavano gli
ufici loro sforzatamente, e aveano commessa la guardia della città a
certi caporali i quali andavano alla cerca con grande compagnia di loro
artefici per la terra, oggi l’uno e domani l’altro. In questo avvenne,
che certi fanti da Casole di Volterra che veniano a petizione di certi
gentili uomini, la guardia degli artefici gli presono, e di fatto li
voleano fare impiccare. I grandi cittadini e ’l popolo grasso vedendo
lo sfrenato furore del minuto popolo cominciarono a fare romore contro
a loro, e tutta la città fu sotto l’arme, e l’esecuzione de’ presi si
rimase. Allora il minuto popolo che reggea mandò all’imperadore a Pisa
che mandasse loro aiuto. L’imperadore vedendosi in Pisa in cotanta
briga e tempesta, e conoscendo l’incostanza del popolo, e vedendo le
nuove cose che ogni dì nascevano in Siena, mandò a dire a’ Sanesi che
gli rimandassono il patriarca suo fratello salvo, e facessono di quello
reggimento come a loro piacesse, che tra loro non volea prendere parte.


CAP. XXXVI.

_Come i Sanesi feciono rinunziare la signoria al patriarca._

Avuti ch’ebbono i dodici nuovi ufiziali di Siena, a dì 26 di maggio
detto, la risposta dall’imperadore, feciono loro generale consiglio,
nel quale il minuto popolo e gli artefici furono per comune, ma non
così gli altri cittadini, e nella loro presenza feciono venire il
patriarca, il quale come loro signore venne colla bacchetta in mano;
ed essendo nel consiglio, disonestamente gli feciono rendere la
bacchetta, e rinunziare alla singulare signoria che data gli aveano
a richiesta dell’imperadore, e fecionne trarre pubblichi istromenti a
più notai. E fatto questo, parendo al patriarca essere in vergognoso
e non sicuro partito tra le mani dello scondito popolazzo cui egli
mattamente avea esaltato, domandò di potersene andare all’imperadore
con sicuro condotto; fugli risposto, che tanto gli conveniva stare
che le loro castella fossono restituite nella guardia del comune:
avendo con suo mandato e colle sue lettere mandato gente a prenderle,
nondimeno gli convenne contro a sua voglia due dì attendere: poi
a dì 27 di maggio del detto anno in fretta si mise a cammino per
ritornarsi all’imperadore. I Massetani e quelli di Montepulciano
lasciarono partire la gente dell’imperadore, e però non accettarono
la signoria de’ Sanesi a quella volta. Per queste rivolture di Pisa e
di Siena in così pochi giorni dopo la coronazione dell’imperadore si
può comprendere, come altre volte abbiamo contato, che il reggimento
della gente tedesca è strano agl’Italiani, e non si sanno reggere nè
provvedere; e però è poco savio chi si sottomette alla loro suggezione,
che non tengono fede a mantenere lo stato che trovano, e da loro non
sanno governare i popoli, e però di necessità seguitano pericolose
rivoluzioni de’ liberi comuni, e quello ch’è detto, e quello che
seguita, sono manifesti esempi del nostro consiglio.


CAP. XXXVII.

_Come furono decapitati i Gambacorti._

Avendo l’imperadore presi i Gambacorti e gli altri nominati cittadini,
e fattili contradi alla maestà imperiale ov’erano fedeli, e rubelli
ov’erano amici, a suggestione del conte Paffetta e di messer Lodovico
della Rocca, come detto è, essendo racquetato il tumulto del popolo, e
l’imperadore nell’animo quieto per coprire il notorio fallo, e perchè
dimostrare si potesse più certo, volendo giustificare la sua inconsulta
impresa, essendo dal cominciamento della loro presura ciascuno
racchiuso di per se senza sapere l’uno dell’altro, li fece disaminare
a un giudice d’Arezzo, acciocchè potesse formare l’inquisizione
contro a loro per poterli giudicare colpevoli. E avendoli disaminati
senza martorio, e appresso con tormento, ciascuno disse per forza di
tormento ciò che ’l giudice volle che dicessono, acciocchè li potesse
condannare colpevoli, come sapea la volontà del signore; e nondimeno
pubblicato il processo si trovò, che l’uno non avea detto come l’altro,
ma diversamente: l’uno, come avea trattato col comune di Firenze, e
che dovea mandare la sua cavalleria in Valdarno, e non conchiudea;
e l’altro nominò che ’l trattato era con tre cittadini di Firenze,
e nominolli per nome, e non sapea dire il modo; e l’altro si trovò
ch’avea detto per un altro modo: e così esaminati tutti, non era nel
processo convenienza salvo che in una cosa, che tutti, vedendo che a
diritto o a torto convenia loro morire, per non essere più tormentati,
confessarono a volontà del giudice ch’aveano voluto tradire e uccidere
l’imperadore e la sua gente. Il furore del romore mosso in Pisa
era sì manifesto che non fu di loro operazione, che ’l processo nol
potea contenere. I tre cittadini di Firenze nominati per Franceschino
erano tali, che niuno sospetto ne cadde nel cospetto dell’imperadore:
nondimeno non lasciò trarre del processo i loro nomi, anzi convenne che
si appresentassono in giudicio in Samminiato del Tedesco, allora terra
libera dell’imperadore, e per sentenza imperiale furono dichiarati non
colpevoli e prosciolti. E allora veduto pe’ savi tutto il processo,
fu manifesto che i presi per ragione non doveano esser giudicati
colpevoli; ma gli sventurati Gambacorti, ch’aveano tanto tempo retta la
città di Pisa in singolare buono stato, e onorato l’imperadore sopra
gli altri cittadini, in parlamento fatto a dì 26 di maggio predetto
furono giudicati traditori dell’imperiale maestà, Franceschino Lotto e
Bartolommeo Gambacorti fratelli carnali, e Cecco Cinquini e ser Nieri
Papa, Ugo di Guitto e Giovanni delle Brache, tutti grandi popolani di
Pisa: e armato il maliscalco con cinquecento cavalieri tedeschi furono
menati in camicia cinti di strambe e di cinghie, e a modo di vilissimi
ladroni tirati e tratti da’ ragazzi, furono così vilmente condotti dal
duomo di Pisa alla piazza degli anziani, scusandosi fino alla morte non
colpevoli, e scusando il comune di Firenze e i tre cittadini nominati;
e ivi involti nel fastidio della piazza e nel sangue l’uno dell’altro
furono decapitati, e gli sventurati corpi maculati dalla bruttura
del sangue per comandamento dell’imperadore stettono tre dì in sulla
piazza senza essere coperti o sepolti: la cui morte, in vituperio del
cardinale legato del papa, e in abbassamento della gloria imperiale,
diede ammaestramento a’ popoli che voleano vivere in libertà e a’
rettori di quelli, di non doversi potere fidare alle promesse imperiali
nello stato delle loro signorie, nè nel grande stato cittadinesco
alcuno singulare onorato cittadino, perocchè l’invidia spesso per non
provvedute vie è cagione di grandi ruine. Per la morte di costoro, e
per la paura conceputa nel petto dell’imperadore, messer Paffetta e
messer Lodovico della Rocca rimasono i maggiori governatori di Pisa, ma
tosto sentì messer Paffetta la volta della fallace fortuna, come al suo
tempo appresso racconteremo.


CAP. XXXVIII.

_Dello stato de’ Gambacorti passato._

Avvegnachè quello ch’è narrato de’ Gambacorti dovesse bastare, tuttavia
per dare esempio agli altri cittadini di temperanza ne’ fallaci
stati del comune ricordiamo, che costoro essendo mercatanti e antichi
cittadini di Pisa, cacciati i Conti e quelli della Rocca ch’aveano
retto un tempo, costoro senza usurpare il reggimento accostati e tratti
innanzi da’ buoni cittadini di Pisa, per loro operazioni pacifiche
e virtuose divennono i maggiori, e per loro consiglio si mantenea
giustizia, e s’aumentava la pace de’ loro vicini; e per questo, e
per la frequenza delle mercatanzie e del loro porto molto accrebbono
le ricchezze a’ cittadini, e ’l comune uscì in piccol tempo di gran
debito. Questi fratelli montarono in tanta autorità, che poterono
fare la pace dall’arcivescovo di Milano al comune di Firenze e agli
altri comuni di Toscana, e rimanere arbitri tra le parti: e venendo
l’imperadore in Italia, e’ furono in podere di non riceverlo in Pisa
s’avessono voluto, ma per loro consiglio si ricevette, con promissione
d’essere da lui conservati nel loro stato. Costoro l’albergarono nelle
loro case, facendoli grande onore e ricchi doni del loro e di quello
del comune, e portandosi nelle rivoluzioni ch’avvennono sempre in fede
e in purità verso il signore, e comportando pazientemente la loro
detrazione mossa dalla loro avversaria setta. Ma che vale la troppa
ricchezza, e gli onori e ’l magnifico stato della cittadinanza contro
alla rodente invidia de’ suoi cittadini? nella quale si racchiude
gli aguati della fortuna e della mortale inimicizia, alla quale manca
l’umana provvisione, e spesso genera inestimabili cadimenti e ruine;
e per questo e molti altri esempi assai è più senno vivere civilmente,
che prendere il reggimento del comune più che la comune sorte gli dea,
e quella innanzi ristrignere e mancare, che crescere o allargare per
ambizione; perocchè i popoli naturalmente sono ingrati, e tra loro le
virtù e la troppa alterezza come è temuta e riverita, così in occulto
è odiata, e l’invidia conceputa genera pericolosi traboccamenti; e
la furiosa e matta baldanza più muove e guida il popolo, che virtù o
giustizia non può sostenere o riparare.


CAP. XXXIX.

_Come l’imperadore prese in guardia Pietrasanta e Serezzana._

Parendo all’imperadore non stare sicuro in Pisa per le novità
sopravvenute, domandò a’ Pisani di volere la libera guardia di
Pietrasanta e di Serezzana, e’ Pisani glie la diedono, e incontanente
vi mandò l’imperadrice con parte della sua gente, e fece pigliare la
tenuta delle terre e la guardia della rocca di Pietrasanta; e quando
ebbe novella che le castella erano in sua guardia gli parve essere
più al sicuro, sentendo ch’e’ cittadini si cominciavano a rammaricare
de’ Gambacorti e degli altri cittadini decapitati, e rivoleano i
presi; l’imperadore di presente si sarebbe partito, e abbandonato
ogni cosa per grande paura che gli martellava la mente non senza
gravezza di coscienza delle cose novellamente fatte, ma temeva forte
del patriarca per le novità mosse in Siena, e grande pericolo gli
pareva lasciarlovi addietro; e però attendeva con grande affezione,
e ogni dì gli parea del soggiorno un anno aspettando. A’ caporali
pisani nuovamente esaltati parea rimanere male partendosi l’imperadore,
perocchè ancora erano troppo grandi i loro avversari; e per tanto
furono all’imperadore, e domandarongli che vi lasciasse suo vicario;
l’imperadore contento della loro domanda ordinò suo vicario un valente
prelato, uomo sperto in arme e di gran consiglio, chiamato messer
Antorgo Maraialdo vescovo d’Augusta, con trecento cavalieri, ma non
determinatoli questo numero nè altro per l’avvenire, con salario della
sua persona e della sua gente di fiorini dodicimila d’oro il mese; e
così prese l’uficio e ’l titolo del vicariato.


CAP. XL.

_Come l’imperadore si partì da Pisa._

Avendo l’imperadore novelle certe che ’l patriarca era in cammino, e
libero da’ Sanesi e’ tornavasi a lui, non aspettò che giugnesse in Pisa
innanzi la sua partita, ma avute le novelle in sull’ora del vespero, a
dì 27 di maggio del detto anno si partì di Pisa, e con lui il cardinale
d’Ostia, e cavalcando forte non si tenne sicuro infinch’e’ fu giunto a
Pietrasanta; e giunto là, si mise di presente con l’imperadrice a stare
dentro dalla rocca, e mentre che vi dimorò, che furono più giorni,
continovo tornò a dormire nella rocca, e in persona andava a fare
serrare le porte, e mettea le guardie, e portavasene le chiavi nella
sua camera, ch’era nella mastra torre di quella rocca.


CAP. XLI.

_Come i Sanesi domandarono vicario all’imperadore, e non l’accettarono._

Parendo a’ Sanesi avere offeso l’imperadore, e non essendo ancora in
istato fermo del loro reggimento, mandarono all’imperadore che mandasse
loro suo vicario. L’imperadore chiamò per suo vicario della città
di Siena messer Agabito della Colonna di Roma. I Sanesi saputo cui
egli mandava loro per vicario, uomo animoso in parte ghibellina e di
disonesta vita, avvegnachè fosse di grande lignaggio, il ricusarono, e
più non si travagliarono di domandare altro vicario all’imperadore, nè
l’imperadore per sdegno preso di darlo loro.


CAP. XLII.

_Come i Sanesi presono e rubarono Massa._

Rimasa la signoria di Siena nelle mani degli artefici e del minuto
popolo favoreggiato dalle case de’ grandi, avendo veduto che Massa
di Maremma non avea voluto ricevere la loro signoria, e dimostrava di
volersi reggere in libertà, di subito senza provvisione, all’entrata
del mese di giugno del detto anno, in furore si mosse il popolo con
certi soldati ch’avea, e andaronne a Massa. Gl’infelici Massetani, che
stando alle difese per lo disordine di quel popolo erano vincitori,
per più disordinato modo che quello de’ Sanesi, baldanzosi uscirono
della città di Massa e affrontaronsi alla battaglia co’ Sanesi,
nella quale furono rotti e sconfitti; e fuggendo alla città, e’
Sanesi seguitandoli, con loro insieme v’entrarono dentro; e senza
misericordia, come avessono preso una terra di nemici, intesono a
rubare, e a spogliare la città di tutti i suoi beni, ch’erano pochi,
e recare in preda gli uomini, e le femmine e’ fanciulli, e raccolta
la gente, misono fuoco nella città, e menarne a Siena gli uomini, e
le femmine, e’ fanciulli, e le masserizie e l’altre cose, in gran
gloria e gazzarra di quello scondito popolazzo. E nell’empito di
questa loro vittoria corsono a Grosseto, e feciono pruova di volerlo
per forza, ma non ebbono podere d’accostarsi alle mura, e con vergogna
si tornarono addietro. Ma poi i Grossetani per fuggire la guerra
de’ loro vicini s’accordarono co’ Sanesi, e ricevettono la loro
signoria. A Montepulciano non vollono andare, perchè sentirono ch’e’
Montepulcianesi erano provveduti alla loro difesa, non ostante che per
loro si tenesse la rocca del castello, ma non potea dare l’entrata.


CAP. XLIII.

_Come l’imperadore domandò menda a’ Pisani._

Essendo l’imperadore a Pietrasanta ove gli pareva essere sicuro dal
furore del popolo, e pertanto traendo l’animo suo alla cupidigia più
che all’onore imperiale, mandò a Pisa per certi cittadini caporali
del nuovo reggimento, e fugli mandato messer Paffetta con altri cinque
cittadini; e avendo costoro a se, disse, che voleva dal comune di Pisa
l’ammenda del danno ricevuto al tempo del romore; del suo disonore
e della morte de’ suoi cavalieri non fece conto. Questi cittadini
tenendosi in istato per lui, e acciocchè ’l suo vicario li mantenesse
negli onori, gli terminarono per ammenda fiorini tredicimila d’oro,
ed egli ne fu contento; e tanto attese che gli furono mandati, e quitò
del danno ricevuto il comune di Pisa. L’ingiuria e la vergogna sfogata
nel sangue degl’innocenti, con più gravezza il seguitò per lunghi tempi
infino nella Magna.


CAP. XLIV.

_Come i Sanesi vollono fornire la rocca di Montepulciano, e non
poterono._

Messer Niccolò e Messer Iacopo de’ Cavalieri di Montepulciano, che
furono tratti della terra quando l’imperadore andò a desinare con loro,
ed essendo nel cammino di Roma, come già è detto, quando sentirono la
revoluzione del popolo e del patriarca si tornarono in Montepulciano,
e avendo accolta gente d’arme coll’aiuto de’ loro terrazzani s’erano
afforzati, e aveano assediati i Sanesi ch’erano nella rocca. Il popolo
e gli artefici di Siena baldanzosi per la presura di Massa e per
l’ubbidienza di Grosseto accolsono la loro potenza a cavallo e a piede,
e andarono per fornire la rocca di Montepulciano. I terrazzani co’ loro
signori provveduti di buona gente d’arme ordinatamente prenderono loro
vantaggio, e ributtarono i Sanesi addietro con danno e con vergogna:
e fatto questo, incontanente quelli della rocca s’arrenderono a’
terrazzani, i quali di presente la disfeciono, e fortificarono le mura
della terra, e d’un animo, per lo tradimento che i Sanesi feciono a’
loro signori narrato addietro, si disposono e ordinarono alla difesa
contro a loro.


CAP. XLV.

_Come i Veneziani feciono pace co’ Genovesi senza i Catalani._

Partendoci un poco di Toscana, i Veneziani non senza ammirazione ci si
apparecchiano, nè però a loro cosa nuova, ma forse non troppo onesta.
Compagni e collegati erano stati lungamente col re d’Araona e co’
suoi Catalani contro a’ Genovesi, e fatte con loro diverse e gravi
battaglie, nelle quali comunemente aveano partecipato lo spargimento
del loro sangue, e perdimento di navili nelle sconfitte, e l’onore e
’l navilio e la preda nelle vittorie acquistate; e ancora essendo in
lega e in giuramento con quel re e con quella gente, stretti dalla
paura de’ Genovesi, che poco innanzi gli aveano mal guidati nel porto
di Sapienza, e temendo che non si allegassono contro a loro col re
d’Ungheria, a cui eglino teneano occupata Giadra e gran parte della
Schiavonia, posponendo la vergogna della fede che rompeano a’ Catalani,
senza loro consentimento, all’uscita di maggio predetto fermarono pace
co’ Genovesi in questa maniera: che la pace dovesse avere tra loro
cominciamento a dì 28 del mese di settembre prossimo avvenire, e che
fra questo termine il re d’Aragona co’ suoi Catalani con certi patti
potesse venire, s’e’ volesse, alla detta pace, e se non, rimanesse
in guerra co’ Genovesi senza i Veneziani: e fu di patto, che infra
questo tempo niuno comune dovesse dinnovo armare, ma se le galee e’
legni armati di catuno comune ch’erano in mare in diverse parti del
mondo s’abboccassono e facessono danno l’uno all’altro, intendessesi
essere fatto per buona guerra, e ciò che n’avvenisse, e’ non avesse a
maculare la detta pace. E’ Veneziani promisono di stare tre anni senza
andare colle loro galee o altri navili alla Tana, ma in questo tempo
fare loro porto e mercato a Caffa. E promisono i Veneziani a’ Genovesi
per ammenda, e per riavere i loro prigioni, in certi termini ordinati
dugento migliaia di fiorini d’oro, e’ prigioni di catuna parte furono
lasciati liberamente.


CAP. XLVI.

_Come si fè l’accordo dal legato a messer Malatesta da Rimini._

Messer Malatesta da Rimini, il quale tenea occupata a santa Chiesa
Ancona con gran parte della Marca e alquante terre in Romagna,
trovandosi assottigliato del danaro e della rendita per la tempesta
della compagnia e per la sconfitta ricevuta dalla Chiesa, e preso il
fratello, e i sudditi tanto gravati che più non poteano sostenere,
e avendo addosso il legato a cui al continovo accresceva forza, e da
niuno signore o comune di Toscana contro alla Chiesa non potea avere
aiuto, e col legato non trovava accordo con patti, avendone lungamente
fatto cercare, conoscendo egli e’ suoi essere naturali guelfi,
che la pace piuttosto che la guerra potea mantenere il loro stato,
confortato da’ suoi amici e di santa Chiesa, che il legato gli sarebbe
benivolo e grazioso, s’arrendè liberamente alla sua misericordia,
e liberamente rendè a santa Chiesa quante terre tenea nella Marca e
in Romagna; e il legato ricevuto ogni cosa in nome di santa Chiesa,
essendo grato dell’onore ricevuto da’ Malatesti, e per compiacere a’
guelfi d’Italia, avendo promesso e giurato messer Malatesta e’ suoi
di stare in ubbidienza, e di mantenere lealtà e fede a santa Chiesa,
acciocchè potessono a onore mantenere loro stato, diede loro la libera
giurisdizione e signoria di cinque città, ciò sono, Rimini, Pesaro,
Fano, Fossombrone, e .... co’ loro contadi, per dodici anni avvenire;
le quali riconobbono la santa Chiesa, e promisono di darne per censo
ogni anno alla Chiesa certa piccola quantità di pecunia, e compiuto il
termine, farne la volontà di santa Chiesa. E rimasi contenti e in pace,
messer Malatesta e’ figliuoli e’ fratelli cominciarono fedelmente a
seguitare il legato, e a servire la santa Chiesa; ed essendo singulari
amici de’ Fiorentini, assai con più fidanza gli adoperava e onorava
il legato ne’ fatti della guerra. E questa pace e accordo fu fatto
all’uscita di maggio del detto anno.


CAP. XLVII.

_Come i Genovesi appostarono Tripoli._

Avea il comune di Genova, innanzi la pace fatta co’ Veneziani, armate
quindici galee di loro cittadini, e fattone ammiraglio Filippo Doria,
ed era l’intenzione del comune di fare prendere la Loiera in Sardigna
per alcuno trattato, che si menava per un soldato ch’era alla guardia
di quella; e giunti in Sardigna, trovarono che il trattato non ebbe
effetto. Allora l’ammiraglio si pensò di fare maggiore impresa, e
avea l’animo a diverse terre per via di furto: e arrivati in Cicilia
a Trapani, ebbe avviso, come Tripoli di Barberia era per un vile
tirannello rubellato alla corona, ed era male guernito alla difesa
d’un subito assalto, e per questo fece in Trapani fare scale e
altri argomenti da potere combattere alle mura, tenendo segreta sua
intenzione; e quando si vide apparecchiato, fece muovere le sue galee
verso la Barberia. E giunto a Tripoli, mostrando d’andare pacificamente
per mercatanzie, trovando due navi del signore cariche di spezieria
che venivano d’Alessandria, si mostrarono come amici, e al signore
feciono domandare licenza di potere mettere scala in terra per alcuno
rinfrescamento, e il signore la concedette. L’ammiraglio mise in terra
alquanti de’ suoi più savi e provveduti vestiti vilmente a modo di
galeotti per comperare alcune cose per rinfrescamento, e commise loro
che provvedessono il modo della guardia di quelli Saracini e di loro
aspetto, e l’altezza delle mura della città, e da qual parte fosse
più debole. Il signore più per paura che per amore fece fare onore a’
galeotti, e nondimeno guardare la terra. Eglino mostrandosi rozzi e
grossi provvidono molto bene quello che fu loro imposto: e comperate
delle cose, si ritornarono a galea, e avvisarono pienamente il loro
ammiraglio. Il signore presentò alle galee due grossi buoi, e castroni
e vino; i Genovesi non vollono prendere le cose, ma molto grandi grazie
ne feciono rapportare al signore, e incontanente, senza fare a’ legni
carichi alcuna novità, suonarono loro trombetta, e partendosi di là,
si misono in alto mare, tanto che si dilungarono da ogni vista della
città, per assicurare più il signore e la gente della terra; i quali
sentendo le galee partite, e che a’ loro legni carichi non aveano fatto
nulla, che li poteano prendere, presono sicurtà, la quale tosto tornò
loro amara, come appresso diviseremo.


CAP. XLVIII.

_Come i Genovesi presono Tripoli a inganno._

I Genovesi ch’erano partiti da Tripoli, come la notte fu fatta, avendo
bonaccia in mare, si strinsono insieme colle loro galee, e ragunato al
consiglio padroni e nocchieri, l’ammiraglio manifestò loro l’intenzione
ch’avea, quando a loro piacesse, di vincere per ingegno e per forza la
città di Tripoli, ove tutti sarebbono ricchi di gran tesoro; e mostrò
loro come il signore di quella era un vile tirannello nato d’un fabbro
saracino, e disamato da tutti per la sua tirannia, e però se fosse
assalito francamente non potrebbe fare resistenza, e soccorso non
potea avere, perchè non ubbidiva il re di Tunisi, ma era suo ribello;
e avvisolli com’egli avea fatto provvedere di prendere le mura e la
porta agevolmente: e però, là dove e’ volessono essere prod’uomini, la
grande e la ricca preda era loro apparecchiata. Costoro cupidi della
roba altrui, avendo udito il loro ammiraglio, con grande allegrezza
deliberarono che l’impresa si facesse, e offersonsi tutti a ben fare
il suo comandamento, e misonsi di presente in concio di loro armi,
e balestra, e saettamento; e preso alcuno riposo, in quella notte, e
innanzi che il giorno venisse, all’aurora tutti armati e ordinati di
quello ch’aveano a fare giunsono nel porto di Tripoli, e di colpo con
poca fatica ebbono presi i due navili del signore; e messe le ciurme in
terra e’ loro soprassaglienti colle balestra, portando le scale a’ muri
della città vi montarono suso senza trovare resistenza, e la parte di
loro ch’era rimasa a guardia delle galee e de’ legni s’accostarono alla
terra per dare aiuto e soccorso a’ loro compagni; e questo fu sì tosto
e sì prestamente fatto, che appena i cittadini se n’avvidono, se non
quando i Genovesi teneano le mura, e già aveano presa la porta. Levato
il romore per la città, il signore armato colla sua gente, e con parte
de’ cittadini ch’ebbono cuore alla difesa, corsono per volere riparare
ch’e’ nemici non potessono correre la terra, e abboccaronsi con loro. I
Genovesi erano già tanti entrati dentro e sì forti, che per suo assalto
non li potè ributtare; e stando loro a petto, i Genovesi ordinati
colle balestra a vicenda li sollecitavano tanto co’ verrettoni, ch’e’
Saracini male armati non li poteano sostenere. E il signore vedendo che
non potea riparare, vilmente diede la volta, e fuggendosi abbandonò la
città e il popolo. I Genovesi, sentendo partito il tiranno, presono
più ardire, e ordinatisi insieme si misono per la terra, e qualunque
si volea difendere uccidevano, e grande strage feciono quel dì de’
Saracini; e avendo corsa tutta la terra, presono le porti e serraronle,
e misonvi le guardie, e furono al tutto signori della terra e degli
uomini, e di tutta la loro sostanza.


CAP. XLIX.

_Di quello medesimo._

Presa, come detto è, l’antica città di Tripoli, e chiuse le porti, i
Genovesi diedono ordine di spogliare le case, e di farsi insegnare
i tesori del signore e l’avere de’ cittadini, e che ogni cosa
pervenisse a bottino, sicchè lo spogliamento andasse per ordine;
e così seguitarono penando più giorni a fare questa esecuzione, e
condussono a bottino in pecunia, e in avere sottile, e ornamenti d’oro
e d’argento il valere di più di diciannove centinaia di migliaia di
fiorini d’oro, e settemila prigioni tra uomini, femmine, e fanciulli;
e questo fu senza le segrete ruberie ch’e’ galeotti e gli altri
maggiori feciono, che non le rassegnarono in comune, e di ciò non
si fece cerca nè inquisizione; e avendo così spogliata la terra, la
guardarono, e mandarono una delle loro più sottili galee al comune
di Genova, significando quello ch’aveano fatto, e come teneano la
città a farne la volontà del comune. I governatori di quel comune, e
appresso i buoni cittadini si turbarono forte del tradimento fatto a
coloro che non erano nemici, e non aveano guardia di loro, non ostante
che fossono Saracini, e temettono forte, ch’e’ cittadini di Genova
ch’erano in Tunisi e in Egitto tra’ Saracini, e in loro mani colle
loro mercatanzie, non fossono per questo a furore presi e morti; e così
sarebbe avvenuto, se non fosse che Tripoli era sotto reggimento di vile
tiranno, e non ubbidia al re di Tunisi, e però egli e gli altri signori
saracini contenti del suo male non se ne curarono. Agli ambasciadori
della galea non fu risposto; i quali vedendo i cittadini mal contenti,
senza prendere comiato si tornarono a Tripoli a’ loro compagni; i quali
vedendosi smisuratamente ricchi, del cruccio del loro comune, sapendo
che tutti erano corsali, poco si curarono, e in Tripoli si misono
a stare, consumando ogni reliquia di quella città, e cercavano di
venderla per averne danari da chi più ne desse: e questo fu di giugno
del detto anno.


CAP. L.

_Come la gente del marchese di Ferrara fu sconfitta, a Spaziano._

In questi medesimi dì, il marchese di Ferrara avea mandato quattrocento
cavalieri e millecinquecento fanti ad assediare un castello ch’avea
nome Spaziano, il quale avea occupato il signore di Milano nel
Ferrarese; e avendolo tenuto assediato alcun tempo, messer Bernabò vi
mandò subitamente de’ suoi cavalieri al soccorso, e furono tanti, che
per forza li levarono dall’assedio e sconfissono, dando loro danno
assai; e liberato il castello, il fornirono di ciò ch’avea bisogno, e
tornarsene a Milano.


CAP. LI.

_Come l’imperadore ebbe l’ultima paga da’ Fiorentini, e fè la fine._

Restavano i Fiorentini a dare all’imperadore ventimila fiorini d’oro
per lo resto de’ centomila, e sentendolo partito da Pisa, e ch’egli
era a Pietrasanta, s’affrettarono di mandarglieli più tosto, e a dì
10 di giugno gli feciono appresentare contanti ventimila fiorini a
Pietrasanta. L’imperadore considerato il suo partimento non d’onore
ma piuttosto d’abbassamento dell’imperiale maestà, e vedendo la
sollecitudine della fede promessa del comune di Firenze, e il luogo
dove gli aveano mandata la pecunia, fu molto allegro, e commendò
magnificamente la fede e il buono portamento ch’avea trovato ne’
cittadini di Firenze, dicendo, come i Pisani ch’erano camera d’imperio,
e’ Sanesi che liberamente s’erano dati senza mezzo alla sua signoria
l’aveano ingannato e tradito, e fattagli gran vergogna per loro
corrotta fede, e’ Fiorentini l’aveano atato e consigliato dirittamente,
e onorato molto i suoi baroni, e la sua gente, e adempiutogli
pienamente ciò ch’aveano promesso, onde molto si tenea per contento da
quello comune; e di proprio movimento li privilegiò di nuovo ciò che
teneano in distretto, e riconobbe diciotto migliaia di fiorini che il
comune diede per lui al sire della Lippa suo alto barone, e tremila che
per suo mandato avea pagati ad altri baroni, e di tutta la quantità
di centomila fiorini d’oro ch’aveano promesso, come addietro abbiamo
narrato, fece fine al detto comune per suoi documenti e cautela,
per carta fatta per ser Agnolo di ser Andrea di messer Agnolo da
Poggibonizzi notaio imperiale, fatta nella detta terra di Pietrasanta
il detto dì.


CAP. LII.

_Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato._

Avendo veduto messer Altino figliuolo di Castruccio Castracane già
tiranno di Lucca, come l’imperadore era uscito di Pisa con sua vergogna
per andarsene nella Magna, accolti certi masnadieri e con sua gente
entrò in Monteggoli presso a Pietrasanta, per tenersi la terra. I
Pisani sdegnati di presente vi cavalcarono, e assediarono il castello
intorno. Messer Altino intendea a difenderlo da’ Pisani, e credea
poterlo fare. I Pisani sentendo ivi presso l’imperadore, mandarono
a pregarlo che gli piacesse di venire nel campo, perocch’elli erano
certi che alla sua persona messer Altino non si terrebbe. L’imperadore
v’andò, e fece comandare a messer Altino che si dovesse arrendere; il
quale incontanente ubbidì a’ suoi comandamenti, e diede la terra a’
Pisani, e sè all’imperadore. I Pisani di presente arsono e disfeciono
il castello: e richiesto l’imperadore da’ Pisani che desse loro messer
Altino, con poco onore della sua corona il mandò prigione a Pisa, e ivi
a pochi dì, partito l’imperadore da Pietrasanta, i Pisani gli feciono
tagliare la testa.


CAP. LIII.

_D’una fanciulla pilosa presentata all’imperadore._

Mentre che l’imperadore era a Pietrasanta, per grande maraviglia, e
cosa nuova e strana, gli fu presentata una fanciulla femmina d’età
di sette anni, tutta lanuta come una pecora, di lana rossa mal tinta,
ed era piena per tutta la persona di quella lana insino all’estremità
delle labbra e degli occhi. L’imperadrice, maravigliatasi di vedere un
corpo umano così maravigliosamente vestito dalla natura, l’accomandò a
sue damigelle che la nudrissono e guardassono, e menolla nella Magna.


CAP. LIV.

_Come l’imperadore e l’imperadrice si partirono per tornare in
Alamagna._

Avendo l’imperadore col senno e colla provvedenza alamannica presa la
corona dell’imperio, e guidati i fatti degl’Italiani come nel nostro
trattato è raccontato, essendosi ridotto a Pietrasanta, l’imperadrice
sollecitando che si tornasse nella Magna, a dì 11 di giugno del detto
anno si partì di là con milledugento cavalieri di sua gente, e tenne
la via di Lombardia; e giugnendo alle terre de’ signori di Milano
non potè in alcuna entrare, ma a tutte trovò le porte serrate, e le
mura e le torri piene d’uomini armati alla guardia colle balestra,
e col saettamento apparecchiato. E giugnendo a Cremona, ch’è grossa
città, volendovi entrare dentro, fu ritenuto alla porta per spazio di
due ore innanzi che vi potesse entrare; poi ebbe licenza d’andarvi
la sua persona con alquanta compagnia senza alcuna gente armata; e
strignendolo la necessità, per non mostrare d’avere dimenticata la pace
che la sua persona avea voluto trattare tra’ Lombardi, vi si mise ad
entrare, e stettevi la notte e il dì seguente, continovo le porti della
città serrate, e di dì e di notte i soldati armati facendo continova
guardia. E ragionando l’imperadore con certi che v’erano per i signori
di Milano, di volere trattare della pace tra’ Lombardi, gli fu detto
da parte de’ signori, che non se ne dovesse affaticare. E però la
mattina vegnente, avendo già preso di se alcuno sospetto, s’uscì della
città, e cavalcò a Soncino. Ivi fu ricevuto con pochi disarmati e con
grandissima guardia: e vedendosi così onorare ora ch’era imperadore
nella forza de’ tiranni di Milano, molto pieno di sdegno s’affrettò
di tornare in Alamagna, ove tornò colla corona ricevuta senza colpo
di spada, e colla borsa piena di danari avendola recata vota, ma con
poca gloria delle sue virtuose operazioni, e con assai vergogna in
abbassamento dell’imperiale maestà.


CAP. LV.

_Come il minuto popolo di Siena prese al tutto la signoria di quella._

Del mese di giugno del detto anno, il minuto popolo di Siena avendo
fino a qui avuto in certi ufici in compagnia alquanti delle grandi case
di Siena, e desiderando d’avere in tutto il governamento di quella
città, levò il romore, e tutti i cittadini presono l’arme; e stando
il popolo armato, dimostrò di volere che i grandi rinunziassono agli
ufici del comune; e sentendo i grandi che questo movea dal consiglio
dato al minuto popolo per Giovanni d’Agnolino Bottoni de’ Salimbeni
per accattare la benivolenza del minuto popolo per animo tirannesco,
non vollono per forza d’arme cercare di ributtare i loro cittadini;
e acciocchè il popolo non si tenesse d’avere lo stato del reggimento
da Giovanni d’Agnolino, i Tolomei suoi avversari furono quelli che
prima cominciarono a rinunziare agli ufici, e volere che il popolo gli
avesse in tutto, e così feciono gli altri appresso. E volle il popolo,
che laddove lo staio era cresciuto per lo patriarca alla misura lieve,
fosse alla picchiata, e così fu conceduto per tutti. Allora il popolo
ordinò d’avere il gran consiglio, e lasciato l’arme, in questo stabilì
per riformagione la loro somma signoria, reggendosi per dodici priori
di due in due mesi, e ivi li crearono; e ancora feciono un gonfaloniere
di popolo, e certi altri ch’avessono a rispondere a lui per terziere
della città: e ivi da capo rifiutato messer Agapito della Colonna per
loro vicario, come detto è, cominciò in libertà il reggimento di quello
popolazzo.


CAP. LVI.

_Come la compagnia del conte di Lando cavalcò a Napoli._

Avvenne ancora del detto mese di giugno, che la compagnia ch’era
lungamente stata in Puglia guidata dal conte di Lando, sentendo che il
re Luigi contro a loro non avea fatta alcuna provvisione a sua difesa,
si partirono di Puglia, e vennonsene in Principato; e soggiornati
alquanti dì nelle contrade di Serni, e di Matalona, e d’Argenza,
feciono grandi prede; e non trovando fuori delle terre murate alcun
contrasto, di là entrarono in Terra di Lavoro, e vennono infino presso
a Napoli, e cavalcarono il paese d’intorno; e non sentendo chi vietasse
loro il paese, essendo ubbiditi da’ casali e da’ paesani di fuori, e
forniti di quello che alla loro vita e dei loro cavalli bisognava, per
potere stare più ad agio, si divisono in più compagnie, e l’una stando
nell’una contrada, e l’altra nell’altra, compresono a modo di paesani
tutto il paese; e lasciarono l’arme non sentendo alcuno avversario, e
cominciarono a prendere diletti d’uccellare e di cacciare; e i loro
cavalcatori e’ ragazzi visitavano le ville e’ casali, e recavano
all’ostiere ciò che bisognava largamente per la loro vita e di loro
cavalli, e quando i signori tornavano, trovavano apparecchiato, e
i cattivelli paesani, che non aveano aiuto dal loro signore, erano
consumati in vilissima fama della real corona.


CAP. LVII.

_Come Fermo tornò alla Chiesa e si rubellò da Gentile da Mogliano._

In questo mese di giugno, quelli della città di Fermo, i quali per lo
tradimento fatto per Gentile da Mogliano al legato quando gli rubellò
la città colla forza del capitano di Forlì e coll’ordine di messer
Malatesta, essendo contro al loro volere, come narrato è addietro,
tornati contro alla signoria del legato, dove s’erano ridotti con
loro grande piacere, vedendo ora la forza del legato loro di presso,
e che Gentile era povero di gente, levarono il romore nella città,
e rinchiusone Gentile nella rocca, e diedono la terra al legato; il
quale la fornì di buone masnade a piè e a cavallo, e presene buona e
sollecita guardia.


CAP. LVIII.

_Come il re di Francia mandò gente in Scozia per guerreggiare
gl’Inghilesi._

Trapassando alquanto agli strani, il re di Francia vedendo che passate
le triegue gl’Inghilesi cavalcavano nel reame, e facevano spesso
danno alle sue genti e al paese, prese consiglio da’ suoi, e avendo
alcuno intendimento da certi baroni di Scozia, mandò in Scozia il sire
di Garendone suo barone con ottocento armadure di ferro, a fine di
muovere gli Scotti a fare guerra agl’Inghilesi per modo, che quelli che
guerreggiavano in Francia avessono cagione di tornare a guerreggiare
con gli Scotti. E giunta questa gente in Scozia, gli Scotti tennero
loro consiglio e diliberarono, che essendo il loro re David prigione
del re d’Inghilterra, se gli Scotti movessono guerra agl’Inghilesi
tornerebbe in pericolo e dannaggio del loro re; e però non vollono
che ad istanza del re di Francia in Scozia si facesse movimento di
guerra sopra gl’Inghilesi, e per questo la gente francesca ch’era di
là passata si ritornò addietro. E questo avvenne del mese di giugno del
detto anno.


CAP. LIX.

_Come i prigioni d’Ostiglia presono il castello._

Di questo mese una buona brigata di prigioni, che messer Gran Cane
della Scala avea racchiusi in Ostiglia, seppono tanto fare per loro
sottile provvedimento che tutte le guardie delle prigioni e del
castello uccisono, e presono il castello, e recaronlo nella loro
guardia e signoria. Il castello era forte e in sù i confini del
distretto di Mantova e di Ferrara. Sentendo i signori vicini questa
rubellione, tentarono quelli di Mantova e di Ferrara catuno di volere
dare danari a’ prigioni che l’aveano preso per avere quella tenuta,
ch’era di piccola guardia, ed era forte da non potere essere vinta
per battaglia, e dava il passo in catuna parte; i matti prigioni
non seppono prendere il buono partito, e però s’accostarono al reo;
e avendo grandi promesse da messer Gran Cane, cui eglino aveano
cotanto offeso, affidandosi solamente alla fede delle sue promesse,
che renderebbe loro i propri beni e farebbe a catuno altri vantaggi,
dicendo, che non imputerebbe loro il misfatto, perocchè fatto l’aveano
come prigioni, a cui era lecito di trovare ogni via di loro scampo,
sicchè ciò non era tradimento. I miseri vinti dalle vane promesse
renderono la tenuta del forte castello alla gente di messer Gran
Cane, il quale ripresa la fortezza, incontanente attenne la promessa
ammazzandone una parte colle scuri, e altri con gravi tormenti fece
morire, e trentasei de’ residui più vili fece impendere per la gola:
e per questo modo morti tutti i prigioni riebbe la sua fortezza del
castello d’Ostiglia.


CAP. LX.

_Come i Genovesi venderono Tripoli._

I Genovesi ch’aveano preso Tripoli di Barberia, come addietro abbiamo
narrato, e non avendo potuto avere risposta dal loro comune quello che
della città si facessono, cercarono di venderla per danari a’ baroni
saracini che v’erano di presso, e niuno trovarono che vi volesse
intendere. Era a quel tempo signore dell’isola di Gerbi un Saracino
ricco e di gran cuore; costui intese a volerla comperare, e trattato
il mercato, ne diè a’ Genovesi cinquantamila doble d’oro; e ricevuto
il pagamento e la tenuta della città, e sceltisi de’ cittadini uomini
e femmine e fanciulle cui e’ vollono, gli altri lasciarono colla
città spogliata d’ogni bene; e raccolti in su le loro quindici galee
piene d’arnesi e di gran tesoro partironsi del paese, e lungamente
stettono ora in una parte ora in un’altra, tanto che il loro comune fu
rassicurato de’ loro cittadini ch’erano in Alessandria e in Tunisi,
che per questa novità di Tripoli non aveano ricevuto danno, allora
ribandirono quelli delle galee, i quali aveano sbanditi per lo fallo
commesso, e dierono loro licenza che potessono tornare a Genova, quando
tre mesi alle loro spese avessono guerreggiate le marine di Catalogna;
i quali fatto il servigio tornarono a Genova, e riempierono la città
di schiavi e schiave saracine, e di molto tesoro acquistato con gran
tradimento, ma per giusto giudicio di Dio in breve tempo capitarono
quasi tutti male, rimanendo in povero stato.


CAP. LXI.

_Come gli usciti di Lucca tentarono di far guerra._

Essendo per le novità sopravvenute all’imperadore in Pisa perduta agli
usciti di Lucca la speranza d’essere liberati dal giogo de’ Pisani,
secondo il trattato di cui era scorsa la fama; e veduto come fortuna
avea fatti signori della città le piccole reliquie de’ Lucchesi
ch’erano nella città in una giornata, per un poco d’ardire ch’aveano
dimostrato, se da loro medesimi non fossono stati traditi, come detto
è, trovandosi gli usciti avere ragunata alcuna moneta per la detta
cagione della speranza dell’imperadore, e parendo loro ch’e’ Pisani
fossono in dubbioso stato, s’intesono insieme i guelfi co’ ghibellini,
e’ figliuoli di Castruccio ch’erano in Lombardia promisono a tutti i
caporali delle famiglie guelfe uscite di Lucca nella loro fede, che
contro alla loro origine e’ si farebbono guelfi per trarre di tanto
servaggio la loro città; e trattarono con loro di fare ogni loro sforzo
con buona punga per rientrare in Lucca, e catuno promise di fornirsi
di gente per loro aiuto, e di cavalli e d’armi per fornire loro
impresa. E sentendo i Pisani questo apparecchiamento, si provvidono
sollecitamente al riparo. Le cose procedettono e seguirono al loro fine
come degnamente meritarono, e tosto ci verrà il tempo da raccontarlo.


CAP. LXII.

_Conta della gran compagnia di Puglia._

Avvedendosi quelli della compagnia ch’erano in Terra di Lavoro,
che il re nè i suoi baroni mettevano alcuno riparo contro a loro,
presono maggiore baldanza, e raccolti insieme se ne vennero verso
Napoli, e posonsi a campo a Giuliano tra Aversa e Napoli, presso a
Napoli a quattro miglia di piano, e domandavano al re danari senza
fare guasto. Allora i Napoletani vedendo che il re non si movea, si
mossono da loro, e accolsono de’ paesani e de’ forestieri una quantità
di cavalieri, e feciono capo il conte camarlingo, e ’l conte di san
Severino e l’ammiraglio di volontà del re; nondimeno costoro non
uscivano di Napoli a riparare le cavalcate della compagnia e sturbavano
l’accordo, che si cercava di dare loro danari. Per la qual cosa i
Napoletani temendo di ricevere il guasto, di che la compagnia gli
minacciava, a dì 12 di Luglio del detto anno s’armarono a cavallo e
a piè romoreggiando, e minacciando i baroni che non lasciavano fare
l’accordo colla compagnia. I baroni erano forti da loro, e aveano con
seco i forestieri armati, sicchè poco curavano le minacce o le mostre
de’ Napoletani, e avvedendosene i Napoletani, posono giù l’arme, e
se n’acquetarono. Nondimeno il re mostrando di fare al movimento de’
Napoletani l’accordo, vedendosi l’oste di presso addosso, per schifare
maggiore pericolo, trattò di dare loro fiorini centoventimila in
certi termini, e per questo si levarono da Giuliano, e dilungaronsi da
Napoli, paesando e vivendo alle spese de’ paesani. L’effetto di questo
trattato ebbe mutamenti con danno de’ regnicoli innanzi che si traesse
a fine, come innanzi al suo tempo racconteremo.


CAP. LXIII.

_Come il gran siniscalco condusse mille barbute contro alla compagnia,
ond’ella s’accrebbe._

Mentre che queste cose si trattavano in Napoli, il gran siniscalco del
Regno messer Niccola Acciaiuoli di Firenze essendo stato in Toscana, e
in Romagna e nella Marca accogliendo gente d’arme, s’era con essa messo
a cammino: e giunto alla città di Sulmona con mille barbute di gente
tedesca e oltramontana, fè sentire al re la sua venuta; il re richiese
i baroni per volersi combattere colla compagnia venendo contro a’
patti promessi: ma la cosa venne dilatando e prendendo indugio, e nel
soprastare il caldo appetito del re venne raffreddando, e ancora de’
suoi baroni, e il termine delle paghe de’ soldati menati per lo gran
siniscalco cominciò a venire; e non essendo il re mobolato da poterli
pagare e riconducere per innanzi, assai se ne partirono dal servigio
del re. e andarsene alla compagnia, e fecionla maggiore.


CAP. LXIV.

_Come gli usciti di Lucca s’accolsono senza far nulla._

Ritornando nostra materia al fatto degli usciti di Lucca, que’
caporali ch’erano a soldo del comune di Firenze, con le loro bandiere
appresentandosi al tempo ordinato tra loro, cominciò la cosa a
pubblicarsi in Firenze. Quando il comune sentì questo, incontanente
tutti gli cassò dal suo soldo, e comandò loro sotto pena della vita,
che niuna ragunata di gente facessono nel contado o distretto di
Firenze, e contradisse a tutti i cittadini e contadini sotto pena
dell’avere e della persona, che niuno aiuto o favore si desse loro,
perocchè non volea il nostro comune rompere per niuna cagione la pace
ch’avea co’ Pisani. Nondimeno i Lucchesi guelfi ch’erano in Toscana,
con loro sforzo s’accolsono in certo luogo in sù quello di Lucca, e
ivi si trovarono con dugento cavalieri e con molti masnadieri che gli
seguitavano per speranza di guadagnare. I conducitori furono Obizzi
e Salamoncelli, e attendeano che dall’altra parte, com’era ordinato,
venissono i figliuoli di Castruccio con gli usciti ghibellini, e col
popolo di Lunigiana e Garfagnana. I Pisani sentendo che gli usciti di
Lucca si cominciavano a ragunare, cacciarono di Lucca tutti i cittadini
ch’aveano alcuna apparenza, e mandaronvi per comune i due quartieri di
Pisa alla guardia, e con grande studio si fornirono di gente d’arme
alla difesa. I figliuoli di Castruccio non attennono la promessa al
termine, per la qual cosa gli usciti guelfi soprastati al termine
più di due dì, e non avendo novelle che venissono, si cominciarono a
sfilare, e senza ordine tornare catuno a casa con poco onore. Abbianne
fatto memoria non per lo fatto, che nol meritava, ma perchè in quel
tempo che questo fu, erano quarantadue anni ch’e’ Lucchesi guelfi erano
stati fuori della loro città, e mai non aveano fatta altrettanta vista
per cercare di volere tornare in Lucca, come a questa volta.


CAP. LXV.

_Come il re di Cicilia racquistò più terre._

In questo tempo, don Luigi di Cicilia coll’aiuto de’ Catalani
dell’isola e della loro setta, accolti insieme in arme a piè e a
cavallo si mossono da Catania con la persona del loro signore, e
cavalcando sopra le terre ch’ubbidiano l’altra setta di Chiaramonti e
il re di Puglia, e trovandole mal fornite alla difesa, s’arrenderono e
ubbidirono, vedendo la persona di don Luigi, senza farli resistenza.
E appresso preso più ardire, del mese di luglio con sei galee armate
e con l’altra gente per terra venne a Palermo, e posevisi intorno
credendolasi riavere, ma vedendo ch’e’ si difendeano colla gente
forestiera che v’era per lo re Luigi di Puglia, fece danno assai nelle
villate di fuori, e poi se ne ritornò a Catania.


CAP. LXVI.

_Novità di Padova._

Essendo messer Iacopino da Carrara signore di Padova, e avendo
lungamente tenuta la signoria in compagnia di Francesco suo nipote
carnale, avendosi portato insieme grande onore, non sentendosi alcuna
cagione d’odio o di sospetto tra loro, salvo che messer Francesco
volea pace co’ signori di Milano, e messer Iacopo la volea con loro,
e voleala co’ signori di Mantova insieme con cui erano collegati, non
dovea però per questo essere cagione d’odio tra loro, ma piuttosto
quello che non soffera d’avere consorto nella signoria tra gli animi
ambiziosi di quella; e per questo Francesco ch’era più giovane e più
atto a guerra, e avea il seguito della gente d’arme, una sera, a dì
26 del mese di luglio del detto anno, essendo messer Iacopino nella
sua sala posto a cena, messer Francesco con suoi compagni armati
copertamente venne al palagio, dove non gli era nè di dì nè di notte
vietata porta, e andato suso, trovò il zio che cenava, e accogliendo
il nipote senza alcuno sospetto, fu da lui preso, e incamerato e messo
in buona guardia, senza essere per lui alcuna resistenza fatta nel
palagio. La mattina vegnente messer Francesco cavalcò per la città, e
senza fare novità nella terra fu ubbidito in tutto come signore, e si
scusò al popolo, che questo avea fatto perocchè avea trovato di certo,
che poichè messer Iacopino si vide avere figliuolo, avea cercato di
fare avvelenare lui: e che ciò fosse vero o no, tanto se ne dimostrò,
che alcuni di ciò furono incolpati e martoriati, tanto che confessarono
il malificio, e perderonne le persone.


CAP. LXVII.

_Come i Visconti tentarono di racquistare Bologna._

Di questo mese di luglio del detto anno, messer Bernabò de’ Visconti
di Milano avendo tenuto alcuno trattato in Bologna, credendolasi
racquistare, mandò di subito duemila cavalieri e di molti masnadieri
di soldo sopra la città di Bologna, e la loro prima posta fu al Borgo a
Panicale, e feciono vista d’afforzare loro campo presso a Bologna a tre
miglia; poi all’entrata d’agosto si levarono di là e andarono a Budrio,
e trovandovi difetto d’acqua, si partirono di là, e posono campo a
Medicina tra Bologna e Imola, e là dimorarono attendendo che novità si
movesse in Bologna. Lasceremo ora questa gente ch’attende di fare suo
baratto, come al tempo innanzi racconteremo.


CAP. LXVIII.

_Come in Firenze nacquono quattro lioni._

A dì 3 d’agosto nacquono in Firenze quattro lioni, due maschi e due
femmine; l’uno si donò al duca d’Osteric, che ’l domandò al comune,
l’altro al signore di Padova.


CAP. LXIX.

_Novità fatte per gli usciti di Lucca._

All’entrata del mese d’agosto del detto anno, messer Arrigo e messer
Gallerano figliuoli di Castruccio usciti di Lucca, con quella gente
d’arme ch’avere poterono in Lombardia apparirono in Lunigiana, e ivi
e di Garfagnana accolsono fanti a piè; e i Lucchesi guelfi usciti da
capo si ragunarono e accozzarono co’ figliuoli di Castruccio, e di
concordia, trovandosi quattrocento cavalieri e duemilacinquecento
fanti, si posono ad assedio a Castiglione, che si guardava per i
Pisani. I Pisani avuto l’aiuto da’ Sanesi, con cui erano in lega e
compagnia, con settecento cavalieri e seimila pedoni uscirono di Pisa
per andare a soccorrere il castello, e a dì 12 d’agosto del detto anno,
trovandosi ne’ campi presso a’ nemici, feciono loro schiere. Gli usciti
di Lucca, veggendosi il vantaggio del terreno, si feciono ordinatamente
loro incontro da quella parte donde li vidono venire. I Pisani si
mostrarono di volerli assalire da quella parte, e cominciaronvi
l’assalto per tenere i nemici a bada; e cominciata la battaglia, il
loro capitano con quella gente ch’e’ s’avea eletta, mentre che d’ogni
parte si mantenea l’assalto, girò il poggio, e montò sopra i nemici
da quella parte onde venia la vittuaglia agli usciti che teneano
l’assedio, e fece questo sì prestamente, che i Lucchesi, ch’aveano
assai di buoni capitani, non vi poterono riparare, ma veduto ch’ebbono
ch’e’ nemici aveano tolto loro la via del pane, non vidono potere
mantenere l’assedio al castello; e però si strinsono insieme, e arsone
il campo loro, e ricolsonsi in alcuna parte ivi presso senza potere
essere danneggiati da’ nemici; e raccolti quivi, senza alcuno danno
di là si partirono salvamente, e valicarono l’alpe, e capitarono nel
Frignano, e di là catuno con accrescimento d’onta, senza altro danno,
perduta la speranza di tornare in Lucca, catuno tornò a procacciare
sue condotte per vivere al soldo, e ’l castello rimase libero
all’ubbidienza de’ Pisani.


CAP. LXX.

_Come i Catalani non vollono la pace co’ Genovesi fatta per i
Veneziani._

Il re d’Araona essendo in Ispagna dopo l’acquisto fatto della Loiera,
e dell’accordo preso col giudice d’Alborea, sentendo che i Veneziani
aveano fatta pace co’ Genovesi senza il suo consentimento contro
al giuramento della loro compagnia, fece di presente armare venti
galee per sua sicurtà: e domandaronli i Genovesi la Loiera e altre
terre di Sardigna, se con loro volea pace. E questa fu la cagione già
scritta addietro, perchè il comune di Genova ribandì le quindici galee
ch’aveano preso Tripoli, le quali feciono per tre mesi gravi danni
nella riviera di Catalogna, spezialmente d’ardere e di profondare loro
navili ne’ porti. Le venti galee del re avendo fortificate e fornite le
terre di Sardigna, e reiterata la pace col giudice, si ritornarono in
Catalogna senz’altra novità fare.


CAP. LXXI.

_Come messer Ruberto di Durazzo lasciò il Balzo._

Di questo mese d’agosto, essendo stato messer Ruberto di Durazzo
stretto da’ Provenzali nel Balzo per modo, che non avea potuto correre
il paese nè fare prede com’avea cominciato, benchè ’l castello potesse
tenere lungamente, parendogli stare con sua vergogna senza guadagno, di
sua volontà s’uscì del castello, e rilasciollo a’ signori del Balzo.
Alcuni dissono, che ’l papa gli diè alcuni danari co’ quali si mise
in arme, e andò a servire il re di Francia nelle sue guerre ove morì a
onore, come a suo tempo racconteremo.


CAP. LXXII.

_Come arse la bastita da Modena._

Essendo lungamente mantenuta per la forza di messer Bernabò di Milano
una grande e forte bastita sopra la città di Modena con molti cavalieri
e masnadieri, i quali aveano per stretto modo assediata la città,
e recata in grandi stremi, come piacque a Dio, quello che non avea
potuto fare la gran compagnia nel caso della ribellione di Bologna,
nè appresso tutta la forza della lega di Lombardia, fece subitamente
un fuoco che vi s’apprese, ma piuttosto fu fama ch’un soldato corrotto
dal signore di Bologna il vi mise. Questo fuoco infiammò per sì fatto
modo la bastita, che per la gente dentro non si potè ammortare. I
Modenesi stati a vedere lungamente, e sentendo il romore, presono
l’arme, e corsono verso la bastita con smisurato romore. I cavalieri
e’ masnadieri, che ve n’erano assai, impacciati dal fuoco, e impauriti
del romore, si ritrassono fuori della bastita con animo di fermarsi di
fuori, ma non ebbono potere di farlo, che di presente catuno cominciò
a fuggire senza essere cacciati, e abbandonarono la bastita. I Modenesi
la presono e spensono il fuoco: e appresso per tema che messer Bernabò
non la rifacesse da capo riporre, ch’era il luogo molto forte, la
feciono riparare e rafforzare, e misonvi gente a guardarla lungamente
per sicurtà della terra.


CAP. LXXIII.

_Come fu fatto il castello di Sancasciano._

Tornando alquanto nostra materia al fatto di Firenze, occorse in
questi dì, che tornando a memoria a’ collegi del nostro comune i
danni ricevuti a’ tempi delle persecuzioni fatte al nostro comune, e
i pericoli che occorsi erano alla città ponendosi i nemici a oste in
sul poggio del borgo di Sancasciano in Valdipesa, e questo conosciuto
per esperienza dell’imperadore Arrigo di Luzimborgo, e appresso di
Castruccio tiranno di Lucca, e novellamente della gran compagnia di
fra Moriale, che catuno nimicando il nostro comune tennono campo
in quel luogo con podere, per lo vantaggio del sito, di potere
vantaggiare assai e non potere essere danneggiati: acciocchè questo
non potesse più avvenire, deliberò il comune di farvi un forte e
nobile castello di mura, e incontanente del mese d’agosto del detto
anno 1355 si cominciarono a fare i fossi, e all’uscita di settembre
del detto anno si cominciarono a fondare le mura, e tutte s’allogarono
in somma a buoni maestri con discreti e avvisati provveditori, dando
d’ogni braccio quadro soldi sette di piccioli, di lire tre soldi
nove il fiorino dell’oro, dando il comune a’ maestri solo la calcina,
acciocch’e’ maestri avessono cagione di fare buone le mura. Le mura
furono larghe nel fondamento braccia quattro, e fondate braccia
uno sotto il piano del fosso, e sopra terra grosse braccia due,
ristrignendosi a modo di barbacane, e sopra terra alle braccia dodici,
con corridoi intorno i beccatelli, e armate di torri intorno intorno,
di lungi braccia cinquanta dall’una torre all’altra, alzate braccia
dodici sopra le mura e con due porte mastre, catuna con due torri
più alte che l’altre e bene ordinate alla guardia. E questo circuito
comprese il poggio e il borgo, e senza arresto fu compiuto e perfetto
il lavorio del mese di settembre seguente 1356. E veduto il conto del
detto edificio, costò al Comune di Firenze trentacinque migliaia di
fiorini d’oro.


CAP. LXXIV.

_Come in Firenze s’ordinò la tavola delle possessioni._

Di questo mese d’agosto, alquanti cittadini di Firenze, parendo loro
che dovesse essere util cosa al comune per levare la briga a’ creditori
di ritrovare i beni del debitore, misono innanzi a’ signori che si
facesse una tavola, nella quale si scrivessono tutti i beni immobili
della città e del contado per popolo e per confini, e diedono il modo
a catuno quartiere della città e del contado per se; e’ signori misono
la petizione, e vinsesi, parendo a tutti che dovesse essere utile
cosa. Agli uomini antichi, e savi e pratichi parea la cosa impossibile
a potere avere perfezione, ma non fu loro creduto, se non quando per
pratica si conobbe. Furono comandate le recate a ogni possessore sotto
grave pena, e nondimeno ch’e’ reggitori de’ popoli anche le dovessono
recare, catuno si provvidde di recare e di fare recare i beni in cui
volle, e confinavali secondo che trovava l’usata vicinanza, e quando
tali nelle loro recate mutavano i primi possessori, e così d’ogni parte
discordavano i confini, e oltre a questa inconvenienza ve n’accorrevano
molte altre maggiori. Per la qual cosa dopo la lunga scrittura, e la
grande spesa cresciuta parecchi anni, in confusione senza frutto rimase
abbandonata, e la sperienza ammaestrò il nostro comune alle sue spese.
Avenne fatta memoria per esempio di coloro che verranno appresso,
acciocch’e’ notino quello ch’è detto provato per opera; e ancora, che
molti recavano una medesima cosa per mostrare che possedessero i beni:
ma quello ch’è più forte, si è la mutazione de’ beni, che più occorre
nella nostra città che altrove, perchè più abbonda di mercatanzie e di
mestieri e d’arti, c’hanno a fare la mutazione de’ beni immobili.


CAP. LXXV.

_Come il re d’Inghilterra con grande apparecchio valicò a Calese._

Avendo noi addietro narrata la morte del conestabile di Francia, della
quale il re di Navarra fu operatore, seguita, che d’allora innanzi il
re di Navarra era in odio del re Giovanni di Francia, e per questa
cagione tenne trattato col re d’Inghilterra di riceverlo nelle sue
terre. Il re d’Inghilterra era di questo molto contento, e però mise
in concio sua gente e suo navilio per valicare con forte braccio; e
nel soprastare che facea, per sollecita operazione del cardinale di
Bologna e d’altri baroni e’ fu fatta la pace tra ’l re di Francia a
quello di Navarra, e perdonatoli liberamente l’offesa della morte del
conestabile, e per suo amore a tutti gli altri ch’erano a ciò stati.
Il re d’Inghilterra avendo apparecchiata la sua gente d’arme e ’l
suo navilio, del mese di settembre del detto anno valicò a Calese.
Il re di Francia avea d’altra parte apparecchiata la sua baronia, e
con quindicimila cavalieri e molti sergenti gli si fece incontro in
Normandia. Il re d’Inghilterra sentendo la pace fatta tra’ due re, e
vedendo la gran forza apparecchiata contro a sè dal re di Francia,
non si attentò d’uscire a campo, nè di seguire sua impresa, e data
la volta, con sua vergogna si ritornò con tutta la sua oste in
Inghilterra. Il re di Francia sentendo i suoi nemici tornati nell’isola
si ritornò a Parigi, e dimostrando grande amore al re di Navarra, gli
accomandò il Delfino suo maggiore figliuolo, i quali d’allora innanzi
si congiunsono di fraternale amore, e di grande compagnia.


CAP. LXXVI.

_Come il re Luigi s’accordò colla compagnia del conte di Lando._

Mandaci il tempo materia di ritornare in Italia. Di questo mese di
settembre del detto anno, essendo la compagnia ritornata presso a
Napoli in Terra di Lavoro, e il re per arroto al danno per la gente
condotta nel Regno alle sue spese, volendo atare i Napoletani che non
perdessono le loro vendemmie, e non avendo il podere altro che con
danari, rifece la nuova concordia, e promise loro centocinque migliaia
di fiorini d’oro; le trentacinque migliaia contanti, e le settanta
in due paghe a venire: e mentre che le penassono ad avere si doveano
stare in Puglia. E per fornire la prima paga, il re Luigi gravò di
fatto i Napoletani, e certi baroni, e forestieri, e mercatanti, e le
loro mercatanzie, e pagò la compagnia, e andossene in Puglia alla roba
d’ogni uomo, non senza grande rammarichio, contro alla corona degli
uomini di quel paese.


CAP. LXXVII.

_Come il conte da Doadola fu sconfitto e morto dal capitano di Forlì._

Avendo il legato rivolto tutto suo intendimento di volere abbattere
la tirannia di Francesco degli Ordelaffi capitano di Forlì, e
guerreggiando la città di Cesena, il conte Carlo da Doadola con due
figliuoli del conticino da Ghiaggiuolo de’ Malatesti si mise in preda
con cento cavalieri e con assai masnadieri, e corsono insino presso
alle mura di Cesena; e avendo raccolta una buona preda d’uomini e di
bestiame, si raccoglievano per tornare al campo. Avendo questo sentito
madonna Cia moglie del capitano, a cui egli avea accomandata la guardia
di quella città, non come femmina, ma come virtudioso cavaliere montò a
cavallo coll’arme indosso gridando, e smovendo i cavalieri soldati che
v’erano che la dovessono seguire contro a’ nemici ch’erano di fuori. I
cavalieri inanimati, vedendo tanto ardire in una femmina, di presente
la seguitarono, e abboccatosi co’ nemici per forza li sconfissono, e
fuvvi fedito il conte Carlo per modo che poco appresso morì, e presi
i due figliuoli del conticino da Ghiaggiuolo, e la maggior parte de’
cavalieri e assai masnadieri furono prigioni; e riscossa la preda, con
grande onore si tornarono in Cesena del mese d’agosto predetto.


CAP. LXXVIII.

_Come la gente del Biscione prese le mura di Bologna e furono cacciati._

Poco addietro ci ricorda, che noi trattammo de’ duemila cavalieri e
de’ molti masnadieri che messer Bernabò avea mandati sopra Bologna,
e le mute che fatte aveano di luogo in luogo; all’ultimo, all’uscita
del mese d’agosto del detto anno, erano tornati al borgo a Panicale
forniti di molte scale, e bolcioni ferrati da cozzare mura della città,
e di queste cose il signore di Bologna non si prendeva guardia. E però
una notte ordinata tutta l’oste se ne venne alle mura di Bologna dalla
parte del prato, dov’era più solitario, ed ebbono poste le scale alle
mura, e di subito vi montarono suso più di dugento cavalieri armati,
ch’erano smontati de’ cavalli, e assai masnadieri, e traboccate le
guardie che vi trovarono dalle mura in terra, cominciarono a perquotere
le mura co’ bolcioni tanto che già l’aveano forate e aperte le mura da
piè, innanzi che ’l signore o i cittadini se n’avvedessono, e alquanti
per gagliardia erano scesi dentro e entrati per la piccola rottura;
e parendo agli assalitori avere la forza delle mura e l’entrata,
avvisando che dentro fosse dato loro alcuno aiuto per lo loro trattato,
cominciarono a gridare ad alte boci: Vivano i popolani, e muoia il
signore. A questo romore il popolo si cominciò a sentire, e ogni uomo
a prendere l’arme, e certe masnade di fanti a piè toscani con alquanti
cittadini trassono in quella parte ov’erano i nemici, e quanti ne
trovarono a basso entrati uccisono, e ingrossandosi alla difesa quelli
della terra a cavallo e a piè, con molti balestrieri cacciarono a terra
quelli ch’erano montati su per le mura; e avvedendosi i capitani della
gente di messer Bernabò, che per lo fallo dell’affrettato romore la
città era difesa, con vergogna sonarono a ricolta e tornarsi al borgo a
Panicale, e indi cavalcate le contrade d’intorno, e fatto assai danno
d’arsione presono loro cammino e andarono a Milano; e il signore di
Bologna, vedendo il pericolo ch’avea corso, prese miglior guardia.


CAP. LXXIX.

_Novità state in Udine._

Di questo medesimo mese d’agosto: o che il patriarca d’Aquilea
facesse fare gravezze con oppressione al popolo della città d’Udine
a lui soggetta, o che il vicario ch’era testa lucchese, chiamato
messer Iacopo Morvello, per soperchia baldanza, ch’avea per moglie
la figliuola del patriarca, facesse da sè cose sconce, a furore di
popolo con l’aiuto d’alquanti terrieri del paese fu preso nel palazzo
del comune, e tratto di là, fu racchiuso in prigione, e poco appresso
senza processo dicollato, in grande vituperio e vergogna del patriarca,
ch’era fratello dell’imperadore.


CAP. LXXX.

_Come abbondarono grilli in Cipri e in Barberia._

In questo tempo abbondarono nell’isola di Cipri tanti grilli, che
riempierono tutti i campi alti da terra un quarto di braccio, e
consumarono ciò che verde trovarono sopra la terra, e guastarono i
lavori per modo, che frutto non se ne potè avere in quest’anno. E ’l
simigliante avvenne questo medesimo anno 1355 in molte parti della
Barberia, e massimamente nel reame di Tunisi; ed essendo mancato il
pane al minuto popolo di Barberia, metteano i grilli ne’ forni, e cotti
alquanto incrosticati li mangiavano i Saracini, e con questa brutta
vivanda mantennero la misera vita, ma grande mortalità seguitò di quel
popolo.


CAP. LXXXI.

_Come messer Maffiolo Visconti fu morto da’ fratelli._

Messer Maffiolo de’ Visconti di Milano essendo il maggiore de’ tre
fratelli signori di Milano, perchè era dissoluto nella sua vita e senza
alcuna virtù era riputato il minore nel reggimento della signoria:
tuttavia messer Bernabò e messer Galeazzo gli rendeano assai onore.
Avvenne, che per scellerato stemperamento della sua lussuria accolse
nella camera sua venti tra donne maritate, e fanciulle, e altre
femmine, colle quali, avendole fatte spogliare ignude, si sollazzava a
suo diletto con loro bestialmente; e ricordandosi in quello sformato
e sfrenato ardore di libidine d’una bella giovane moglie d’un buono
cittadino di Milano, mandò per lei, e minacciandolo di farlo morire
se immantinente non glie la menasse, o mandasse. Vedendosi questo
buono uomo a così villano partito, come disperato piangendo se n’andò
a messer Bernabò, e contogli il grave partito a che messer Maffiolo
l’avea messo, dicendo, che innanzi volea morire ch’assentire a cotanta
sua vergogna, pregandolo che ’l dovesse atare. Messer Bernabò disse:
Io non ho a gastigare il mio maggiore fratello, per non mostrare a
colui la sua intenzione, e di presente cavalcò all’ostiere di Messer
Maffiolo, e trovò la scellerata danza del suo fratello; e senza dire
alcuna cosa diede la volta, e accozzossi con messer Galeasso, e disse:
Noi corriamo gran pericolo di nostro stato, e le sconce e dissolute
cose di messer Maffiolo ci faranno cacciare della signoria, se per noi
non si ripara a cotanto pericolo a che ci conduce. E manifestatoli
ciò che facea delle donne de’ buoni uomini di Milano, e il richiamo
che n’avea avuto, di presente s’accordarono alla morte sua, che altro
gastigamento non avea luogo. E però essendo andato messer Maffiolo
a Moncia a fare una caccia, la sera di sant’Agnolo di settembre, li
feciono dare con quaglie veleno; e la mattina vegnente essendo nella
caccia si cominciò a sentir male nel ventre, e di presente se ne tornò
a Milano; e vicitato la sera da’ fratelli, la mattina si trovò morto in
sù ’l letto. Alcuni dissono, che in quella visitazione e’ fu soffocato
da loro, e altri tennono che morisse delle quaglie; e l’una cagione e
l’altra potè essere, per non farlo storiare. Il vero fu che morì come
un cane, senza confessione, di violenta morte, e forse degnamente per
la sua dissoluta vita.


CAP. LXXXII.

_Come messer Bernabò ebbe la Mirandola._

Dappoichè la bastita da Modena per l’arsione fu ripresa da’ Modenesi,
messer Bernabò tenne nelle castella ch’avea acquistate nel Modenese
gente d’arme per scorrere il paese, e fare continova guerra a Modena:
e oltre a ciò mise a campo tra Reggio e Modena millecinquecento
cavalieri e assai masnadieri, i quali assediavano il castello della
Mirandola, il quale era di certi gentili uomini loro patrimonio: e non
essendo potenti a poterlo lungamente difendere da’ signori di Milano,
s’accordarono con loro, e diedono la guardia del castello a messer
Bernabò, ed egli li ricevette in amistà, e con provvisione li mise
nelle sue guerre. E in questi dì, vedendosi messer Giovanni da Oleggio
in pericolo della guardia di Bologna, cercò accordo con messer Bernabò;
e messer Bernabò per poterlo rimettere in confidenza, per meglio potere
venire alla sua intenzione, s’accordò con lui; e messer Giovanni
gli promise di guardare Bologna per lui, e dopo la sua morte gliela
lascerebbe, e riceverebbe nella città continuamente un suo potestà. E
fece questo messer Giovanni da Oleggio senza volontà o consiglio de’
cittadini di Bologna, sperando rimanere in pace nella signoria, nella
quale rimase in continovi aguati, come leggendo per innanzi si potrà
trovare: e ricevette in prima per potestà di Bologna il signore della
Mirandola sopraddetto.


CAP. LXXXIII.

_Come i Perugini presono a difendere Montepulciano._

I Sanesi vedendosi avere perduta in tutto la signoria ch’avere soleano
in Montepulciano, trattavano della guerra; ed essendo cercato se
co’ Sanesi si potea trovare modo d’accordo senza fargliene signori,
non trovandosi, i signori che dentro v’erano ritornati, ricordandosi
che ’l comune di Siena non avea attenuti i patti promessi loro altra
volta sotto la sicurtà e fede del comune di Firenze e di Perugia, a
cui i Sanesi l’aveano rotta con inganno assai sconcio e manifesto, al
quale i detti comuni senza l’arme non aveano potuto mettere rimedio, e
l’arme non aveano voluto pigliare, per questa cagione non si vollono
più fidare alla corrotta fede de’ Sanesi; e vedendosi impotenti da
difendersi da’ Sanesi, s’accordarono, e misono di volontà del popolo
la guardia di Montepulciano con certi patti nelle mani de’ Perugini;
e i Perugini vaghi di crescere signoria, e ricordandosi dell’ingiuria
ricevuta in Siena per questi fatti di Montepulciano, accettarono la
guardia, e incontanente la fornirono di loro soldati a cavallo e a
piè per difenderla da’ Sanesi. Questa cosa conturbò molto il comune
di Siena, e perciò facendosi la lega che seguitò appresso de’ Toscani,
i Sanesi non vi vollono essere, e altre gravi cose ne seguirono, come
innanzi si potrà trovare al debito tempo.


CAP. LXXXIV.

_Come il re d’Inghilterra tornò in Francia._

Quello che seguita è cosa bene strana: essendo il re d’Inghilterra,
come poco innanzi avemo contato, ritornato di state nell’isola
d’Inghilterra con tutto suo oste e col navilio, e dovendosi secondo
usanza della guerra, il navilio e la gente d’arme riposare per
la grazia del verno, il detto re di maggiore animo e ardire che
altro signore al suo tempo, del mese d’ottobre del detto anno, co’
figliuoli, e colla moglie, e co’ baroni, e con grande moltitudine
di suoi cavalieri e arcieri, di subito e improvviso a’ Franceschi
valicò a Calese: e di presente fece tre osti, l’una accomandò al conte
di Lancastro suo cugino, e questa mandò in Brettagna, e la seconda
accomandò al suo maggiore figliuolo duca di Guales, e questa mandò in
Guascogna, e l’altra ritenne a sè, per venire verso Parigi, e a catuna
comandò che dimostrasse sua virtù, mettendosi innanzi fra le terre del
re di Francia ardendo e predando, e facendo dimostranza di valorosi
baroni contro a’ loro nemici.


CAP. LXXXV.

_Come il re d’Inghilterra cavalcò il reame fino ad Amiens._

Mandato ch’ebbe il re d’Inghilterra i detti baroni, catuno con grande
compagnia di cavalieri e d’arcieri nel reame di Francia, egli in
persona si mosse da Calese colla sua oste, e avviossi verso Parigi
dov’era il re di Francia, e guastando le ville del paese con fuoco,
facendo grandi prede se ne venne ad Amiens, e ivi s’arrestò alquanti
dì. Ma vedendo che ’l soprastare gli era pericoloso per la gran
cavalleria che ’l re di Francia apparecchiava contro a lui, e perchè
i passi del suo ritorno erano da potere essere occupati, sopravvenendo
la gente del re di Francia, a grave suo pericolo, come savio guerriere
raccolse tutta la sua gente e tutta la preda ch’avea fatta, e senza
contasto sano e salvo colla sua oste si tornò a Calese in dieci
dì dalla sua mossa. Il conte di Lancastro entrò colla sua oste in
Brettagna e cavalcò il paese, facendo danno assai e grandi prede, e
stettevi più tempo: poi si raccolse colla sua oste, e con gran preda
tornossi a salvamento.


CAP. LXXXVI.

_Della materia degl’Inghilesi medesima._

Il valente prenze di Guales colla sua compagnia di tremila cavalieri
e quattromila arcieri mosso da Calese, a gran giornate si mise in
Tolosana, e trovando i paesi sprovveduti del suo subito avvenimento,
fece in Tolosana molte grandi prede, e con fuoco guastò molto paese;
e senza arrestarsi in Tolosana cavalcò a Carcasciona, e vinse e prese
l’antica città di Carcasciona, fuori che la rocca della villa, ch’era
un forte castello; e recato in preda ciò che potè fare portare, arse
la maggior parte della villa, e cavalcò più innanzi in Bideurese, e
arse e fece preda grande senza contasto, e della sua gente corse insino
presso a Mompelieri a poche leghe, e dimostrava di voler venire insino
a sant’Andrea dirimpetto a Avignone, il Rodano in mezzo, e forte se
ne temette nella corte di Roma; ma il papa gli mandò a dire che non
venisse più innanzi, e incontanente per ubbidire al santo padre si
tornò addietro, essendo stato nuovo flagello di quel paese, che memoria
non v’avea per i viventi a quel tempo ch’altra guerra gli avesse
molestati. Il conestabile di Francia, ch’era allora messer Giacche
figliuolo del duca di Borbona, giovane cavaliere e di gran cuore,
avendo accolta assai gente d’arme, in compagnia del conte d’Armignacca,
e del conte di Foci e di più altri baroni del paese, sentendo tornare
per quel paese il duca di Guales con tutta la preda, ch’era più di
mille carrette cariche dell’avere de’ paesani, e più di cinquemila
prigioni, si volle abboccare con gl’Inghilesi per combattere con loro
per riscuotere la preda. Il conte d’Armignacca e gli altri baroni
non vollono e non acconsentirono al conestabile, parendo loro avere
disavvantaggio per la buona compagnia de’ franchi guerrieri ch’erano
con il duca di Guales. Il giovane e franco barone ne prese sdegno, e
cavalcò a Parigi e rifiutò l’uficio, e allora fu fatto conestabile
il duca d’Atene conte di Brenna. Il valente duca di Guales intese
a conducere la sua preda, ch’era oltre a modo grande, e sentendo i
nemici appresso, come fu alla selva di Crugnì per maestria di guerra vi
nascose una parte di sua gente in aguato, e i Franceschi vi mandarono
ad imboscare, non sapendo degl’Inghilesi che v’erano, messer Astorgio
di Duraforte con mille cavalieri, i quali entrando nella selva furono
di subito assaliti dagl’Inghilesi che prima v’erano riposti, che
poco sostennono, che furono sconfitti e sbarattati con loro danno,
e d’allora innanzi non trovarono gl’Inghilesi contasto, e ricchi di
preda, sani e salvi si tornarono a Bordello in Guascogna, del mese di
novembre del detto anno.


CAP. LXXXVII.

_Come morì il re Lodovico di Cicilia, e l’isola rimase in male stato._

Di questo mese di novembre anno detto, Lodovico di Cicilia primogenito
di don Pietro si morì molto giovane, e poco appresso di lui si morì il
seguente suo fratello detto duca Giovanni, e de’ tre fratelli rimase
Federigo il minore, il quale la setta de’ Catalani recarono appo
loro, per potere sotto il titolo d’avere a governare il giovane, a
cui s’appartenea il regno, aggiugnersi maggiore forza. Ma per questo
l’altra setta degl’Italiani si feciono più strani contro al duca
Federigo, e diventarono più animosi contro alla setta de’ Catalani.
E per la detta maladizione di divisione e tempesta tanto intestina
battaglia era nell’isola, che gli abitanti di catuna terra erano
in fatica d’avere del pane per vivere, e consumavansi d’inopia e di
carestia; e di questo seguitò poi grande novità nell’isola, come al suo
tempo racconteremo.


CAP. LXXXVIII.

_Come in Napoli fu romore._

A’ Napoletani parendo essere gravati de’ danari pagati per la compagnia
e d’alcune altre gravezze, del mese di novembre del detto anno, per
mostrare la potenza e la franchigia di quella città, tutti di concordia
presono l’arme, e feciono armare tutti i forestieri mercatanti e
artefici ch’erano nella città, e levarono il romore, gridando: Viva la
reina, e muoia il suo consiglio. E di questo tumulto seguitò solamente,
che la misura del sale fu alcuna cosa consentita loro migliore mercato:
convenevole prezzo di cotanto movimento, non volendosi francare
dell’antica consuetudine della loro natura, che come sono pieni di
furore per ambizioso vento, così poco mantengono l’ira, che li riduce a
pace.



LIBRO SESTO


CAPITOLO PRIMO.

_Il Prologo._

Perocchè ’l sesto libro del nostro trattato nuova e non pensata materia
di guerra nel suo principio con seguito di gran cose in breve tempo
ci apparecchia, ci fa pensare come e quanto lo stato della tirannesca
signoria è pieno d’aguati e di calamitosa vita. Le loro scellerate
operazioni sempre combattono e spesso abbattono le virtù de’ buoni: i
loro diletti sono dissimiglianti a’ buoni costumi: per loro s’abbattono
le ricchezze de’ sudditi; nimicano gli uomini che crescono nella loro
giurisdizione in magnanimità e in senno; assottigliano con incarichi la
sustanza de’ popoli: la loro sfrenata libidine non prende saziamento
dal fatto, ma quanto il piacere della vista richiede, tanta in fatto
a’ sudditi contro all’onesto debito conviene sostenere e patire.
Ma perocchè in queste e molte altre maligne operazioni le violenti
tirannie si manifestano, non richieggiono da noi nuovo raccontamento.
Ma traendone una parte assai strana nell’apparenza e assai dimestica
nel fatto, qual’è più maravigliosa vista, guardando nella tirannesca
gloria, a vedere antichi e nobili principi naturali ubbidienti a’
tiranneschi servigi, e uomini d’alti lignaggi e d’antica nobiltà usare
le mense di coloro, e prendere le loro provvisioni? Ma se guardare
vogliamo l’uscimento delle cose, quella gloria spesso si converte
in calamitosa miseria. Chi la può disegnare maggiore? che i tiranni
medesimi non sanno nè possono in alcuno riposare la loro fede, ed
eglino al continovo aspettano il cadimento del tiranno, e lievemente
si dispongono e accordano alla loro distruzione, non ostante le
sopraddette cose. E questo non si trova avvenire nelle reali e naturali
signorie, perocch’e’ loro fatti ne’ sudditi, e nelle loro virtù e cose
son contrarie a’ tiranni. Dunque come le tirannie si criano, com’elle
esaltando si fortificano e crescono, così in esse si nutrica e nasconde
la materia della loro confusione e ruina. Certo intra l’altre questa
è grandissima miseria de’ tiranni: e perocchè al presente ci occorre
alcuna cosa di ciò manifestare in fatto non di lieve movimento, come
seguirà appresso nostro volume, basti narrando quella avere fatto certa
prova al nostro proponimento.


CAP. II.

_Come nacque briga da’ Visconti e que’ di Pavia e di Monferrato._

Certa cosa è, che il marchese di Monferrato per vicinanza e per larghe
provvisioni de’ tiranni di Milano, e i signori da Beccheria di Pavia
parenti stretti e dimestichi della loro mensa, per lunghi tempi uniti
colla casa de’ Visconti signori di Milano, e nelle loro guerre stati i
principali aiutatori, e in questo tempo valicando Carlo d’Osteric re
de’ Romani in Lombardia, come già è detto, il marchese, non ostante
ch’e’ fosse soggetto all’imperio, venne a Milano per dare aiuto e
favore a’ signori con seicento cavalieri di buona gente d’arme, e
que’ da Beccheria anche vi mandarono loro sforzo. Avvenne, che un
dì essendo il marchese in Piacenza in compagnia di messer Maffiolo
Visconti, ch’allora vivea, un suo scudiere andò in cucina al cuoco
di messer Maffiolo per un tagliere di vivanda: il cuoco villanamente
gliel contradicea: lo scudiere sdegnoso diede una gotata al cuoco, e
portonne la vivanda; il cuoco di presente se n’andò a dolere a messer
Maffiolo suo signore. Il tiranno mosso a furore non considerò suo
onore, nè quello di tant’uomo quant’era il marchese, e senza dirli
alcuna cosa, avendolo in sua compagnia, fece prendere lo scudiere,
e in quell’istante tagliarli la mano; della qual cosa il marchese
fu molto turbato, ma ritenne con virtù nel petto il grave sdegno.
Questo li rinnovò nella mente certo oltraggio che la famiglia di
messer Galeazzo Visconti per maggioranza avea fatto alla sua gente
che vicinavano con sue terre, la quale cosa con senno avea trapassata
insino allora. E ancora di nuovo sentiva, come al continovo per nuovi
dispetti la gente di messer Galeazzo oltraggiava i detti sudditi che
vicinavano con loro, e il signore il sentiva, e vedea l’onore che ’l
marchese facea alla loro signoria, e per arrogante maggioranza mostrava
d’esserne contento; onde turbato il marchese, cambiò l’animo, ed
essendo con quelli da Beccheria una cosa, s’intesono insieme, essendo
l’imperadore futuro a Mantova, e ancora, con lui s’intesono in segreto.
E trattando l’imperadore co’ signori di Milano di volere prendere la
corona a Moncia, sentirono i Visconti, che se non s’accordavano con
lui, che quelli da Beccheria erano acconci di riceverlo in Pavia;
onde i signori concepettono contro a loro; per la qual cosa poterono
comprendere, che partito l’imperadore, a loro converrebbe mutare
stato. E tornando l’imperadore coronato da Moncia in Milano, i signori
feciono molti cavalieri, e in questo stante il marchese cavalcò subito
a Pavia, e menò seco due di quelli da Beccheria e feceli fare cavalieri
all’imperadore, e questo accrebbe l’izza e la malavoglia a’ tiranni.
Poi partito l’imperadore il marchese se n’andò via, e quelli da
Beccheria rimasono in gran sospetto de’ signori di Milano, e stavanne
in più guardia che non soleano. E dalle sopraddette cose seguitarono
le ribellioni e le nuove guerre che appresso seguirono a’ signori di
Milano, come seguendo nostro trattato per li tempi racconteremo.


CAP. III.

_Come si rubellarono terre di Piemonte._

Il marchese di Monferrato avendo ordinato co’ signori di Pavia che
si fortificassono di gente e di buona guardia, acciocchè i tiranni
vicini non li potessono improvviso sorprendere, tornato nelle sue
terre, procacciò aiuto di gente d’arme da certi baroni tedeschi di sua
amistà, e con suoi trattati (ch’era molto amato da quelli del Piemonte
e dalla sua gente) trovandosi forte di cavalieri e favoreggiato
dall’imperadore, del mese di dicembre, gli anni di Cristo 1355, fece
rubellare nel Piemonte a messer Galeazzo de’ Visconti di Milano Chieri
e Carasco; e poco appresso del mese di gennaio fece rubellare al detto
tiranno la ricca terra d’Asti, e appresso Albi, Valenza, e Tortona, e
più altre terre del Piemonte, e tutti i popoli di quelle d’un animo,
con ordine di mantenere la difesa, feciono loro capitano il detto
marchese. Messer Galeazzo vi mandò incontanente molta gente d’arme
a cavallo e a piè credendo ricoverare delle terre; il marchese era
provveduto di buona gente, e coll’aiuto de’ Piemontesi si fece loro
incontro alle frontiere, e in alcuni abboccamenti fece vergogna alla
gente di messer Galeazzo, e difese bene i Piemontesi. Allora quelli da
Beccheria, ch’erano confederati nella amistà e compagnia del marchese,
non si poterono più coprire, e però in aperto si fortificarono di
gente e d’altre cose, aspettando l’impeto dell’ira e della forza de’
tiranni contro a loro, non dimostrando però di volere essere i movitori
della guerra, ma apparecchiati alla difesa. Lasceremo alquanto questa
materia per raccontare al suo tempo con più chiarezza le cose che ne
seguitarono, e diremo degli altri fatti che prima occorrono alla nostra
materia.


CAP. IV.

_Come i Fiorentini feciono lega contro la compagnia._

E’ m’incresce di scrivere quello ch’ora seguita, perocchè ’l nostro
comune delle leghe e delle compagnie c’ha usato di fare co’ comuni
di Toscana, al bisogno sempre s’è trovato ingannato, nondimeno il
fatto narreremo. Sentendosi già per tutta Italia che ’l conte di Lando
colla compagnia ch’aveva nel Regno era per venire al primo tempo nella
Marca, e valicare in Toscana, i Fiorentini volendo riparare ch’ella
non facesse ricomperare i comuni di Toscana, mandarono a Perugia, e a
Pisa, e a Siena, e all’altre minori comuni di Toscana, richieggendo i
detti comuni, che per beneficio di tutti parea loro di fare una lega
e una taglia di duemila cavalieri il meno, i quali fossono al tempo
apparecchiati interi e cavalcanti al servigio della detta lega contro
alla compagnia, o a chi venisse a fare guerra sopra alcuna città di
quelle della lega. E a ciò feciono muovere i detti comuni per loro
ambasciadori, e durò il trattato lungamente, sturbandolo i Sanesi per
l’izza ch’aveano presa co’ Perugini per l’impresa di Montepulciano; in
fine, essendo la cosa cominciata al principio di gennaio, del mese di
febbraio del detto anno ebbe compimento in questo modo tra’ Fiorentini,
e’ Pisani, e’ Perugini: che la lega dovesse durare tre anni, e la
taglia fosse di milleottocento cavalieri, ottocento de’ Fiorentini,
cinquecentocinquanta de’ Pisani, e quattrocentocinquanta de’ Perugini;
con patto ch’e’ Sanesi vi potessono entrare colla loro parte della
taglia de’ cavalieri, e che del mese d’aprile fossono pagati e
apparecchiati, e che l’uno comune dovesse fare rassegnare i cavalieri
dell’altro. La lega fu ferma e fatta, l’effetto che ne seguitò fa
manifesto quello che poco innanzi n’avemo detto.


CAP. V.

_Come gli Scotti presono Vervic._

Essendo tornato il re d’Inghilterra a Calese dalla cavalcata ch’avea
fatta ad Amiens, come poco innanzi abbiamo detto, i baroni di
Scozia sentendo il re, e i figliuoli, e’ baroni, e tutta la forza
del re d’Inghilterra valicati nel reame di Francia, e cominciatovi
grande guerra, non ostante che il loro re vi fosse in prigione,
prestamente accolsono molta gente d’arme a cavallo e a piè, e
improvviso agl’Inghilesi se ne vennono a Vervic, grande e forte terra
degl’Inghilesi, situata agli stremi de’ confini di Scozia; e giugnendo
alla città sprovveduta, per forza v’entrarono dentro e presono la
terra, ma il castello del re che v’era forte e bene guernito non
poterono avere; ma com’ebbono presa la terra, la lasciarono guernita
di loro gente, e per savia provvisione con tutta loro oste si misono
innanzi, e presono una montagna onde il soccorso degl’Inghilesi
potea venire alla terra, e non d’altra parte, e ivi s’accamparono per
contradire agl’Inghilesi il passo. Era in que’ dì il conte di Lancastro
già tornato in Inghilterra, il quale di presente cavalcò nel paese
colla sua gente, ma non ebbe podere di levare gli Scotti dal passo.
Il re Adoardo sentendo la novella degli Scotti, incontanente valicò
nell’isola con quella gente che subitamente potè muovere, e senza
arresto se n’andò contro a’ nemici che teneano il passo della montagna,
e aggiuntosi il conte di Lancastro colla sua gente, non ostante che
grande fosse il loro disavvantaggio ad avere a combattere i nemici
all’erta, colla sua persona si mise innanzi, e diede tanto conforto
a’ suoi, ricordando loro le vittorie avute sopra gli Scotti e la loro
viltà, che con tanto ardore d’animo, e con tanto duro assalto d’ogni
parte li percossono, che per forza li ributtarono della montagna;
e senza avere cuore di rifare testa alla terra ch’aveano presa
l’abbandonarono in tanta fretta, che la preda ch’aveano accolta non
ne portarono, e assai de’ loro Scotti vi lasciarono morti e presi per
ricordanza. E questo fu del mese di gennaio del detto anno. Allora fece
il re racconciare la terra, e fornire di miglior guardia.


CAP. VI.

_D’un trattato fatto per racquistare Bologna._

Messer Bernabò de’ Visconti di Milano avendo la mente attenta a trovar
modo di racquistare Bologna, e di vendicarsi di messer Giovanni
da Oleggio; quanto che per l’accordo fatto si dimostrasse amico,
diede boce e dimostrò manifesto segno di volere guerreggiare in
sul Ferrarese; e mandò messer Arrigo figliuolo di Castruccio che fu
tiranno di Lucca in Romagna, a conducere al suo soldo mille barbute
della compagnia ch’allora era nel paese, il quale avea caparrati i
conestabili, e intesosi secondo il segreto a lui commesso da messer
Bernabò col capitano di Forlì, e col signore di Ravenna, e con alquanti
degli Ubaldini in cui si confidava, e ancora s’intendea col podestà di
Bologna, ch’avea nome messer Ramondo de’ Ramondi di Parma, ed erano in
questo trattato certi caporali di quelli da Pagano, e altri Bolognesi
confidenti di messer Bernabò. Il modo era, che la forza del tiranno
dovea venire da Milano sul Ferrarese secondo la palese boce, e già era
messer Bernabò venuto in persona a Parma con duemila cavalieri, e come
messer Bernabò fosse in sul Ferrarese, messer Arrigo di Castruccio
co’ cavalieri condotti di Romagna, e coll’aiuto de’ Romagnuoli e degli
Ubaldini, essendo provveduti e apparecchiati, doveano il dì nominato,
essendo messer Bernabò in sul Ferrarese, valicare sopra Bologna da
quella parte, e messer Arrigo colla sua compagnia venire dall’altra,
e allora il podestà, e que’ da Pagano con gli altri Bolognesi
confidenti doveano levare il romore nella città, e con loro quattordici
conestabili di cavalieri che tenevano a questo trattato; e costoro,
ch’erano soldati di messer Giovanni, nel romore doveano trarre a lui, e
ucciderlo se potessono, e se non, si doveano strignere dall’una parte
della città, e aprire e spezzare la porta, e mettervi dentro quella
gente di fuori che più avessono di presso. Questo trattato era segreto
per li palesi verisimili della vicina impresa della guerra di Ferrara,
alla quale il marchese prendea ogni riparo che potea; ma come fu
piacere di Dio, per lo meno male, la cosa fu rivelata per strano e non
pensato modo come appresso diviseremo.


CAP. VII.

_Come si scoperse il trattato di Bologna, e fevvisi giustizia._

In Bologna era tornato di Romagna messer Arrigo di Castruccio,
avendo fornito e messo in punto ciò che gli era stato commesso, e
ivi era venuto per intendersi con gli altri traditori. Avvenne, che,
all’entrata del mese di Febbraio del detto anno, Francesco de’ Roaldi
di Bologna, grande cittadino e molto confidente di messer Giovanni da
Oleggio, tanto ch’al continovo ricevea provvisione da lui, essendo in
questo trattato, confidandosi nel suo senno, volendosi sgravare della
sua provvisione, se n’andò a messer Giovanni, e per me’ coprire quello
che sentiva in sè, disse: Signor mio, pigliate ne’ vostri fatti buona
guardia, perocch’io sento che molti uomini, e oltre al modo usato, sono
venuti della montagna nella città in questi giorni; e a dirli questo
il movea la tenerezza ch’avea nell’animo del suo stato e onore, per
lo beneficio ch’avea ricevuto e ricevea da lui. Il tiranno il commendò
di questo fatto, e ringrazionnelo assai, e dopo questo confortò della
buona guardia. Messer Francesco entrando in altra materia disse a
messer Giovanni: Signor mio, io vi prego che vi piaccia di darmi
licenza, ch’io possa prendere altrove mio vantaggio, perocchè della
provvisione ch’io ho da voi non posso comportare la vita mia a onore.
Il tiranno si maravigliò di questo, perocchè gli avea assegnate grandi
provvisioni e altri gaggi, e ricordogli le dette cose, e ancora li
promettea al tempo maggiori, e nondimeno messer Francesco pure gli
domandava licenza. Il tiranno gli disse, che si ripensasse, e poi
tornasse a lui; e a tanto si partì messer Francesco. Messer Giovanni
mandò incontanente alle porti, e fece sapere chi a que’ giorni vi fosse
entrato oltre all’usato modo, e trovò che non v’erano entrati contadini
nè altra gente oltre al modo usato, e così se n’erano usciti. E per
questo cominciò a maravigliarsi più del movimento di messer Francesco
de’ Roaldi, e sospicciando mandò per lui; e quando l’ebbe seco, il
tiranno finse di sapere che sentisse contro a lui alcuno trattato. Il
savio cavaliere veggendosi preso dall’astuzia, pensò che senza grave
tormento non potea passare mettendosi al niego, e però di cheto gli
confessò e manifestò tutto il trattato. Il tiranno senza arresto mandò
per lo potestà, e per messer Arrigo di Castruccio ch’era in Bologna,
e per que’ caporali da Pagano, e avuti costoro disse, e a certi degli
Ubaldini ch’era no in quel servigio, ch’e’ perdonava loro per vicinanza
e per molti servigi ch’avea ricevuti da quella casa, ma comandò loro
che incontanente si dovessono partire, e così fu fatto. E abboccando
messer Giovanni i traditori insieme, fu da loro al tutto chiaro del
trattato sopraddetto: e a dì 12 di febbraio, non trovando il tiranno
chi volesse fare la condannagione nè l’esecuzione, fece podestà messer
Tassino de’ Donati rubello di Firenze; costui li condannò; e Sinibaldo
di messer Amerigo Donati di Firenze, allora in bando e al soldo del
tiranno, con dugento fanti tutti armati a corazze fece tagliare la
testa a messer Arrigo, figliuolo che fu di Castruccio signore di Lucca
e di Pisa, e a messer Bernardo e a Galeotto da Pagano, e a messer
Ramondo Ramondi da Parma podestà di Bologna, e a Francesco de’ Roaldi
di Bologna; e appresso, a dì 20 del detto mese, ne furono decapitati
diciassette tra conestabili de’ soldati e famigli de’ traditori.
E fatto questo, messer Giovanni rimase in maggior paura, e in gran
sospetto di messer Bernabò di Milano.


CAP. VIII.

_Come il signore di Bologna fece lega._

Era insino a qui messer Giovanni da Oleggio, poichè avea fatta la pace
e la concordia con messer Bernabò, stato in fede ne’ suoi servigi, e
intesosi con lui e ricevuto in Bologna le sue podestà, e attendea dopo
la sua morte lasciarli Bologna, come gli avea promesso, ma vedendo
questo mortale trattato contro a sè, non pensò potersi mai più fidare
de’ signori di Milano, e conobbe, che a volersi meglio potere guardare
gli convenia essere loro mortale nemico, e però incontanente si rifornì
di nuove masnade di cavalieri e di masnadieri. Ed essendo in guerra il
signore di Mantova e il marchese di Ferrara col Biscione, ch’allora
era così chiamata la tirannia di Milano per la loro arme, si collegò
con loro, e promise d’essere sempre contro alla casa de’ Visconti
di Milano, e mandò la sua gente a fare loro guerra con gli altri
collegati.


CAP. IX.

_Come l’oste del Biscione ch’era a Reggio si levò in isconfitta._

A Reggio era stata lungamente l’oste de’ signori di Milano in una
forte bastita presso alla terra, nella quale avea ottocento cavalieri
e grande popolo, e in quel tempo vi s’aspettava il fornimento della
vittuaglia da Parma con grande scorta. Il marchese di Ferrara, e
quegli di Mantova, e ’l signore di Bologna sentendo quell’apparecchio,
accolsono loro gente per impedire la scorta a loro podere; e avendo
a Modena seicento barbute e cinquecento masnadieri, il signore di
Bologna n’aggiunse dugento cavalieri e cinquanta masnadieri; e avendo
lingua come la vittuaglia in dugento carra colla scorta dovea l’altro
dì venire alla bastita, cavalcarono la notte per modo, che essendo
giunta l’altra parte alla bastita, e messavi la roba, tornandosene
senza sospetto, costoro li assalirono sprovveduti, i quali non feciono
retta, e quasi tutti furono presi, i buoi e le carra in preda. E
avuta subitamente questa vittoria, con grandi grida e con maggiore
baldanza percossono alla bastita dalla parte di fuori; e quelli di
Reggio ch’aveano veduta la vittoria della loro gente francamente li
assalirono dalla parte d’entro, e combattendo la bastita d’ogni parte,
in fine per forza v’entrarono dentro, ed ebbono a prigioni i cavalieri
e’ masnadieri che quella guardavano, e pochi ne poterono campare; e
messa la vittuaglia e l’arme, e tutti i prigioni guadagnati in Reggio,
arsono in tutto la bastita: e riposati alcuno dì la gente in Reggio,
cavalcarono infino a Parma, e valicarono quella facendo grandi prede
e danno a’ paesani: e del mese di febbraio del detto anno, con grande
onore e ricca preda, in vergogna de’ tiranni di Milano, si ritornò
catuna gente a’ suoi signori senza trovare alcuno contasto.


CAP. X.

_Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato col prefetto._

Del mese di febbraio del detto anno, i Chiaravallesi di Todi per
provvisione del comune tornarono a’ loro beni, e potendo colle loro
persone usare la cittadinanza, cercavano, come mal contenti, trattato
col prefetto di Roma di metterlo in Todi per farlone signore; e non
potendo menare eglino questo perchè erano sospetti, il feciono menare
a un messer Andrea giudice di Todi loro confidente. Il trattato
si scoperse, e al giudice fu tagliata la testa. I Chiaravallesi
avvedendosi che il comune di Todi per questo prendea di loro maggiore
sospetto, temendo di non essere corsi un dì a furore, da capo uscendo
della città, presono il castello di Toscina l’aprile seguente, e
rubellaronlo al comune.


CAP. XI.

_Come morì messer Pietro Sacconi de’ Tarlati._

Essendo messer Pietro Sacconi de’ Tarlati d’Arezzo in età decrepita
intorno al centinaio degli anni, e malato a morte, in questi dì si
disse pubblico, ch’e’ pensò di non volere morire che non ordinasse
prima alcuno nobile fatto del suo antico mestiere: e ordinò con Marco
suo figliuolo, dicendo: Ora, che si crede che tu sia imbrigato intorno
alla mia malattia, e che altri non prenderà guardia di te, procaccia
di furare Gressa al vescovo d’Arezzo e agli Ubertini. Il figliuolo
ubbidì al consiglio del padre, e molto segretamente accolse gente, e di
furto entrò nel castello di Gressa, ma essendovi gli Ubertini forti,
per forza ne lo pinsono fuori; e forse per dolore che messer Pietro
n’ebbe s’avacciò la sua dispettosa e non contenta morte, lasciando
nuova guerra tra’ suoi Tarlati e gli Ubertini per questo furto. Pro’ e
valente uomo fu e avvisato, in fatti di guerra, ma più in operazioni di
trattati, e di furti e di subite cavalcate, che in campo o in aperta
guerra; e’ fu fortunato contro agli altri suoi nemici, e infortunato
contro al comune di Firenze, e per animosità di parte ghibellina non
seppe tener fede.


CAP. XII.

_Come scurò tutto il corpo della luna._

Martedì notte alle ore quattro, a dì 16 di febbraio anno 1355,
cominciò la scurazione della luna nel segno dell’Aquario, e alle
cinque ore e mezzo fu tutta scurata, e bene dello spazio d’un’altra
ora si penò a liberare. E non sapendo noi per astrologia di sua
inflenza, considerammo gli effetti di questo seguente anno, e vedemmo
continovamente infino a mezzo aprile serenissimo cielo, e appresso
continove acque oltre all’usato modo il rimanente d’aprile e tutto il
mese di maggio, e appresso continovi secchi e stemperati caldi insino a
mezzo ottobre. E in questi tempi estivali e autunnali furono generali
infezioni, e in molte parti malattie di febbri e altri stemperamenti
di corpi umani, e singularmente malattie di ventre e di pondi con
lungo duramento. Ancora avvenne in quest’anno un disusato accidente
agli uomini, e cominciossi in Calavria a Fiume freddo e scorse fino
a Gaeta, e chiamavano questo accidente male arrabbiato. L’effetto
mostrava mancamento di celabro con cadimenti di capogirli con diversi
dibattimenti, e mordeano come cani e percoteansi pericolosamente,
e assai se ne morivano, ma chi era provveduto e atato guariva. E fu
nel detto anno mortalità di bestie dimestiche grande. E in quest’anno
medesimo furono in Fiandra, e in Francia e in Italia molte grandi e
diverse battaglie, e nuovi movimenti di guerre e di signorie, come
leggendo si potrà trovare. E nel detto anno fu singulare buona e
gran ricolta di pane, e più vino non si sperava, perchè un freddo
d’aprile l’uve già nate seccò e arse, e da capo molte ne rinacquono
e condussonsi a bene, cosa assai strana. E da mezzo ottobre a calen
di gennaio furono acque contino ve con gravi diluvi, e perdessene il
terzo della sementa, ma il gennaio vegnente fu sì bel tempo, che la
perduta sementa si racquistò. I frutti degli alberi dimestichi tutti
si perderono in quest’anno. Non ne avremmo stesa questa memoria se la
scurazione predetta non vi ci avesse indotto.


CAP. XIII.

_Come la gran compagnia presono Venosa._

La compagnia del conte di Lando ch’avea avuta la prima paga dal re
Luigi, e dovea attendere l’altre paghe in Puglia senza far danno a’
paesani, vernava di là, e non faceva guerra; ma la fede, vedendosi il
destro, non seppe per promessa o saramento ch’avessono fatto osservare:
e però entrarono in Rapolla, e presa la terra la spogliarono d’ogni
sustanza, e consumarono colle persone e co’ cavalli ciò che da vivere
vi trovarono; e appresso, del mese di febbraio predetto, per aguato di
furto presono la città di Venosa, e fecionne il simigliante. E questa
è la fede delle compagnie, che ogni cosa fanno licito alla corrotta
volontà della preda, e però è folle chi alle loro promissioni si fida.


CAP. XIV.

_Come il legato bandì la croce contro al capitano di Forlì._

In questo tempo del verno, messer Gilio cardinale di Spagna legato
di santa Chiesa, avendo prosperamente racquistato a santa Chiesa il
Patrimonio, la Marca d’Ancona, e ’l ducato di Spoleto, e la maggior
parte della Romagna, restavagli a racquistare Forlì e Faenza, e le
terre vicine e de’ loro distretti, le quali tenevano occupate per
loro tirannie Francesco degli Ordilaffi capitano di Forlì, e messer
Giovanni di messer Ricciardo Manfredi; e non trovando il detto legato
concordia con loro, ordinò contro a’ detti suo processo, e seguitollo
fino alla sentenza, perocchè tornare non vollono all’ubbidienza. E
pubblicata per Italia la loro dannazione, e fattili scomunicare, avendo
dal papa lettere d’indulgenza con piena remissione de’ peccati e della
pena a chi fosse contrito e confesso, fece bandire la croce contro
Francesco Ordilaffi tiranno di Forlì, e di Forlimpopoli e di Cesena, e
contro a Giovanni e Rinieri de’ Manfredi tiranni di Faenza, condannati
per eretichi e ribelli di santa Chiesa, potendo il cavaliere e il
pedone partecipare in due anni il servigio d’un anno in arme contro
a loro. Ordinati furono i predicatori, e’ collettori delle provincie
e delle città, e incontanente l’avarizia de’ cherici cominciò a fare
l’uficio suo, e allargarono colla predicazione l’indulgenza oltre alla
commissione del papa, e cominciarono a non rifiutare danaio da ogni
maniera di gente, compensando i peccati e i voti d’ogni ragione con
danari assai o pochi come gli poteano attrarre; e per non mancare alla
loro avarizia, sommoveano nelle città e ne’ castelli e nelle ville
ogni femminella, ogni povero che non avea danari, e dare panni lini e
lani, e masserizie, grani e biada, niuna cosa rifiutavano, ingannando
la gente con allargare colle parole quello che non portava la loro
commissione; e così davano la croce, e spogliavano le ville e le
castella più che non poteano fare le città, ma nelle città le donne e
le femmine valicavano tutta l’altra gente, e per questa maniera davano
la croce: e ’l termine della guerra cominciava in calen di maggio gli
anni 1356. Della città di Firenze e del contado un frate de’ Romitani
vescovo di Narni trasse grandissimo tesoro, del quale non potendo il
cardinale avere diritto conto, lungo tempo tenne in prigione il detto
vescovo in un suo castello nella Marca, guardato alle spese del detto
vescovo.


CAP. XV.

_Come il conte Paffetta fu da’ Pisani messo in prigione._

Egli è assai utile cosa agli uomini considerare contro alla malizia e
alla superbia de’ grandi cittadini, quando possono far male e abbattere
gli altri, ch’e’ medesimi sono sottoposti a quella medesima calamità
e fortuna; ma provarlo per esperienza gli ne fa più certi, e a quelli
c’hanno a venire ne rimane migliore esempio. Detto abbiamo come la
malizia di messer Paffetta conte di Montescudaio cittadino di Pisa,
colla perversa operazione fece morire e cacciare i Gambacorti di Pisa,
e sè fece il maggiore di quella città; avvenne che gli altri cittadini,
cui egli avea rimessi al governamento del comune, parendo loro che
messer Paffetta fosse troppo grande, si legarono e feciono setta
contro a lui segretamente, e un dì, essendo messer Paffetta andato
agli anziani, come ordinato era, gli anziani mandarono di subito a
fare pigliare certi cittadini caporali della sua setta e stretti suoi
confidenti, e altri di suo seguito intorno di cinquanta, e di presente
li mandarono a’ confini, facendoli uscire della città, e messer
Paffetta con alcuno altro mandarono in prigione nell’Agosta a Lucca;
e messolo in carcere sotto buona guardia, rivocarono i confini agli
altri e fecionli ritornare, senza fare altra novità o mutazione di loro
stato. Parve a tutti rimanere più sicuri, e in migliore essere nella
cittadinanza, che in prima; e questo fu all’entrata del mese d’aprile,
e ancora non era compiuto l’anno ch’egli avea abbattuti i Gambacorti
e gli altri buoni cittadini di Pisa. Era in Pisa il vicario sostituto
del vicario dell’imperadore, il quale consentì a tutto, essendoli fatto
intendere che messer Paffetta volea con certo trattato dare Pisa a’
signori di Milano: grande loro amico era, ma altro vero non se ne potè
trovare; e stato alquanto in prigione, per tema che l’imperadore non lo
ne facesse trarre, o i signori di Milano, di veleno, o d’altra violente
morte, celatamente lo feciono morire in prigione.


CAP. XVI.

_Come gli Aretini riposono certe fortezze._

Gli Aretini sentendo morto messer Piero Sacconi de’ Tarlati loro
nemico, il quale lungo tempo gli avea tenuti in guerra e in gran paura,
contro al quale non s’ardivano a muovere vivendo, incontanente dopo
la sua morte, del detto mese di febbraio del detto anno, uscirono a
oste, e riposono una tenuta contro al castello di Gaerina, e un’altra
contro a Bibbiena, e una sopra Pietramala, e tanto stettono a campo,
che tutte e tre furono fortificate e fornite, acciocchè i Tarlati
non potessono correre sopra loro a loro volontà, com’erano usati di
fare. E per la baldanza presa per la morte d’un decrepito vecchio,
non avendo avuto ardire di farlo a sua vita, ordinarono tra nella
città e nel contado tremila uomini a corazze, e trecento balestrieri
e centocinquanta barbute, per potere mantenere il loro contado più
sicuro, e guerreggiare i nemici. Abbianne fatta memoria per una cosa
assai nuova, considerando che un uomo vecchio tenesse in freno e in
paura così antica e gran città, che non pensavano in fatti di guerra
potere resistere alla sua persona.


CAP. XVII.

_Di nuove rivolture della gran compagnia._

Stando la compagnia del conte di Lando a vernare in Puglia con grande
abbondanza d’ogni bene da vivere, aspettando dal re Luigi la moneta
promessa, per lo patto ch’avea di doversi partire al maggio prossimo
e uscire del regno, una parte di loro con certi conestabili intorno
di cinquecento barbute, contentandosi male d’aversi a partire del
paese, senza tenere promessa al re o fede all’altra compagnia si
rubellarono da essa, e accostati al conte di Minerbino detto Paladino,
se n’andarono per sua condotta in terra d’Otranto, ove per lunghi tempi
passati non era sentita guerra, e di presente presono due castella nel
paese piene di molta vittuaglia, e preda quanta ne poterono guardare
di bestiame grosso e minuto, del quale poterono avere l’uso, ma non
danari. Il conte di Lando si dolse al re Luigi del tradimento fatto per
costoro, e offerse sè e l’altra compagnia al servigio del re contro a
que’ ribelli, e contro a tutti i baroni che non volessono ubbidire alla
corona. Il re, e il suo consiglio, e il gran siniscalco, credendosi
fare meno male, accettarono la profferta, e una parte della compagnia
con certa condotta de’ suoi uficiali mandò in Abruzzi per fare ubbidire
alquanti comuni e baroni, i quali così rubavano e predavano il paese
come se fossono nel servigio della compagnia e non in quello del re,
e tanto più sicuramente, perchè niuno s’era provveduto contro a loro:
e quelli ch’erano rimasi col conte di Lando volevano pur vivere largo
all’altrui spese. E così nella concordia, come nella guerra, erano
d’ogni parte i regnicoli mal trattati.


CAP. XVIII.

_Di grandi gravezze fatte dal re di Francia nel suo reame._

In questo verno, vedendosi il re di Francia la guerra degl’Inghilesi
addosso, e spogliare da’ forestieri il reame, come già abbiamo narrato,
pensando avere a moltiplicare la spesa, oltre alle colte de’ feudi
delle città del reame e de’ baroni, e oltre alle gravezze dell’usate
reve, e del gran danno fatto a’ sudditi del reame di cambiare le
buone monete d’oro e d’argento in ree contro all’usanza di quel
regno, ordinò, e pose per modo di gabelle, ch’ogni mercatanzia che si
comperasse o vendesse nel reame dovesse pagare agli uficiali ordinati
sopra ciò danari otto per catuna lira. La qual cosa gravò tanto i
mercatanti, che abbandonarono in gran parte il reame e il trafficare in
quello, e quasi tutto il peso rimase a’ baroni e a’ paesani, della qual
gravezza forte si conturbarono inverso il loro signore, e desideravano
il suo male; e alquante città per questa cagione si recarono a reggere
per loro, e non voleano ricevere gli esecutori e gli uficiali del re di
Francia, come per innanzi leggendo si potrà trovare.


CAP. XIX.

_Come i Pisani facevano simulata guerra._

La materia ch’ora seguita non era degna di memoria per lo fatto,
ch’assai fu lieve, ma il modo, c’ha poi generate più gravi cose, ci
scusa. I Pisani, innanzi a questo tempo di più anni, per loro maliziosa
industria, avendo buona e leale pace co’ Fiorentini, contro a’ patti
di quella aveano fatto fare il castello di Sovrana, il quale il comune
di Firenze tenea per li patti della pace, e fecionlo torre a certi
ghibellini usciti di quel paese, e il comune di Pisa sotto nome di
costoro si tenea la terra, e mantenievi soldati che tribolavano tutto
il paese e le terre d’intorno del comune di Firenze; essendo i Pisani,
oltre alla pace, in singulare compagnia e lega col nostro comune,
faceano queste coperte con grande ambizione. I Fiorentini lungamente
dissimularono mostrando di non se n’avvedere, ma moltiplicandosi il
male, e scoprendosi ogni dì più l’uno che l’altro, il nostro comune
prese di gastigarli in quella contrada con quella malizia ch’eglino
avevano insegnata. E del mese di febbraio del detto anno ordinarono
co’ Pistoiesi che si lasciarono torre Calumao, una fortezza sopra
Sovrana, a certi caporali di buoni masnadieri, i quali con aspra e
continova guerra in breve tempo uccisono tutti i caporali di Sovrana,
e presono masnade ch’e’ Pisani mandavano per guastare la Sambuca, e
feciono grande guerra nel paese. E per questo tutti i ghibellini di
Valdinievole erano mal condotti, ch’avendo pace vivevano in continua
guerra per la cominciata malizia pisanesca. Ma aggiugnendo malizia a
malizia, per vendicare loro onta sbandirono loro soldati, e mandarono
trecento barbute e gran popolo agli usciti ghibellini di Valdinievole,
i quali cavalcarono infino alla Pieve a Nievole, e arsono intorno a
quella, e feciono quel danno che poterono; e appresso si dirizzarono
a Castelvecchio, e ordinatamente il combatterono, ma nol vinsono. Il
comune di Firenze sentendo questo fece cavalcare i suoi cavalieri in
Valdinievole, e raunati i paesani, cercavano d’abboccarsi co’ nemici,
ma eglino non attesono; e non potendo tornare per la via ond’erano
andati, per altra via più aspra, ma a loro più sicura, in fretta si
ritornarono a Pisa, e furono ribanditi.


CAP. XX.

_Come il capitano della Chiesa assediò Cesena._

Il legato del papa, oltre alla gente ch’attendea de’ crociati avea
da sè a soldo duemila barbute, e confidandosi de’ Malatesti, fece
gonfaloniere di santa Chiesa e capitano della sua gente d’arme messer
Galeotto da Rimini, e con mille cavalieri e con gran popolo del mese
di febbraio del detto anno il mandò a oste sopra la città di Cesena;
il quale in prima corse il paese predando d’intorno, e appresso visi
pose ad assedio, e strettosi alla terra, vi stette infino che il
conte di Lando venne del Regno in Romagna, come innanzi al suo tempo
racconteremo.


CAP. XXI.

_Come il conte da Battifolle assediò Reggiuolo._

Avendo il conte Ruberto da Battifolle ricevuto ingiuria nel suo
contado di cavalcate e di prede fatte per Marco figliuolo di messer
Piero de’ Tarlati, contro a’ patti della pace fatta con gli aderenti
de’ signori di Milano, accolta sua gente e’ suoi fedeli in arme,
all’entrata del mese d’aprile anni 1356, essendo per nevi e per venti
smisurato freddo, se n’andò al castello di Reggiuolo, il quale era
allora del detto Marco, e cinselo d’assedio, e fece a’ suoi fare case
di legname per ripararsi dal freddo, e rizzò trabocchi e manganelle
che tribolavano il castello e coloro che dentro il guardavano, e
aggiungendo al continovo forza avea sì stretti gli assediati, che più
non si poteano difendere. Vedendo Marco che ’l castello non si potea
più tenere, mandò a richiedere il comune di Firenze per li patti della
pace, che non lasciassono al conte seguitare l’impresa. Il conte venne
a Firenze, e mostrò al comune come Marco era stato movitore della
guerra, e più che non avea voluto approvare nè ratificare per carta
alla pace secondo i patti. Ma nondimeno il comune di Firenze, per non
potere essere calunniato a diritto o a torto d’avere lasciato a’ suoi
aderenti rompere la pace, diliberò, che ’l conte si dovesse partire
dall’assedio. Il conte non ostante l’ingiuria ricevuta, e la spesa
fatta, e la ferma speranza d’avere il castello, per ubbidire al comune
di Firenze lasciò l’impresa, e a dì 18 d’aprile del detto anno si tornò
in Casentino.


CAP. XXII.

_Come il conticino da Ghiaggiuolo racquistò Ghiaggiuolo._

Di questo mese di maggio 1356, il conticino da Ghiaggiuolo con alcuna
gente del legato cavalcò nelle terre che il capitano di Forlì gli avea
tolte; e stando nella contrada molto baldanzoso, fece correre boce
che Forlì s’era renduto al legato, e che il capitano era preso. E per
mostrare la cosa ben certa, si fece venire un frate con lettere che
contavano le novelle molto verisimili, e recò l’ulivo palese, e fu
ricevuto con grande festa. E incontanente si strinse a Ghiaggiuolo,
e fece vedere le lettere al castellano, e poi gli disse, che se
incontanente non li rendesse il castello, che lui e’ compagni farebbe
morire senza niuna misericordia. La cosa avea sembianza di verità, e
il castellano era di poco intendimento, e pauroso e vile, e però gli
rendè il castello, ch’era forte e bene fornito, e andossene colla sua
compagnia a salvamento con vergogna, e non senza infamia di tradimento.


CAP. XXIII.

_Come i Visconti assediarono Pavia._

Avendo nel principio di questo sesto libro narrato il sospetto preso,
e la discordia tra’ signori di Milano e il marchese di Monferrato,
e quelli da Beccheria di Pavia, e accresciuta la mala voglia per le
rubellioni fatte in Piemonte, messer Bernabò e messer Galeazzo Visconti
volendosi vendicare sopra i loro parenti e prossimani vicini, con
grande moltitudine di cavalieri e di popolo, del mese di maggio del
detto anno, valicarono il Tesino e strinsonsi alla città di Pavia, e
vi poson l’assedio d’ogni parte, con intendimento di non levare l’oste
se prima non avessono la città al loro comandamento, e così si credette
per tutta Italia, perocchè la città è presso a Milano a venti miglia di
piano, e la potenza de’ tiranni era sopra modo grande a quella impresa.
Ma perocchè non procede dalla volontà umana la potenza divina, le cose
succedono spesso ad altro fine che gli uomini non divisano, e così
avvenne di quest’assedio, come seguendo nostro trattato dimostreremo.


CAP. XXIV.

_Come il re di Francia prese il re di Navarra._

Avendo racconto addietro come il re Giovanni di Francia avea renduto
pace al re di Navarra, e perdonatagli la morte del conestabile e agli
altri baroni ch’erano stati con lui, e come accomandato gli avea il
Delfino suo figliuolo, seguitò, che in questo tempo, essendo loro
commesso dal re la provvisione della guardia di Guascogna, insieme
cavalcavano la provincia, provvedendo a quello ch’era di bisogno alla
difesa del paese, e ancora andavano prendendo loro diporto; ed essendo
nella città di Ruen, il re di Francia il sentì, e mossesi da Parigi
quasi sconosciuto con poca compagnia e cavalcò ad Orliens, e là tenne
a battesimo un fanciullo nato di quelli d’Artese, e parente stretto
del conestabile di Francia che fu morto, a cui il re secondo il volgo
avea portato disordinato amore: avvenne, o che la morte del suo diletto
amico per lo fanciullo parente li rivenisse nella mente, o che altra
cagione il movesse al presente fatto, niuna certezza se ne potè avere,
ma di subito armato a modo di cavaliere, con sessanta cavalieri armati
di sua famiglia cavalcò a Ruen; e giunto senza arresto alla città,
mandò un cavaliere innanzi a sè, il quale dicesse in segreto al Delfino
suo figliuolo, che di cosa ch’avvenisse non prendesse turbazione nè
paura; e seguendo il re co’ suoi cavalieri armati entrò nel palagio
ov’era il re di Navarra, e il Delfino, e il conte di Ricorti con
quattro cavalieri banderesi di Normandia, e aveano a desinare con
loro altri baroni e cavalieri del paese. Ed essendo giunto innanzi il
cavaliere, e appena compiuto di favellare al Delfino, il re di Francia
armato colla barbuta in testa e co’ suoi cavalieri fu in sulla sala, e
trovandoli alla mensa, comandò che alcuno non si movesse; e avviatosi
verso il re di Navarra, il chiamò traditore della corona, e andogli
addosso con uno stocco ignudo per ucciderlo di sue mani: ripreso e
ritenuto da’ suoi, dicendo che a re non si convenia tanto fallo, il
fece prendere e imprigionare, e detto fu che alquanto il punse dello
stocco; e fece pigliare il conte di Ricorti, e i quattro cavalieri
normandi, chiamandoli traditori, i quali si scusavano, dicendo ch’erano
diritti e leali; ma il re mosso da furiosa tempesta d’animo giurò di
non mangiare, prima che di loro avesse fatto secondo la sua intenzione
piena giustizia.


CAP. XXV.

_Come il re di Francia fece decapitare il sire di Ricorti e altri
quattro cavalieri normandi._

Avendo preso il re di Navarra, di presente il mandò a incarcerare a un
forte castello che si chiama Castel Gagliardo: e in quello stante il
re di Francia fece mettere in su una carretta il sire di Ricorti e i
quattro cavalieri normandi per farli decapitare, innanzi che volesse
desinare. E quelli della città per la subita tempesta del re vedendo
tanta novità, e non sapendo che vi fosse la persona del re di Francia,
traevano in piazza per aiutare i baroni presi. Il re conoscendo il
pericolo del popolo commosso, si trasse la barbuta di testa e fecesi
conoscere; e sparta la voce che ivi era la persona del re loro signore
catuno stette cheto. Allora il re, per mostrare al popolo e agli altri
maggiori che v’erano che ’l suo furioso movimento a tanto fatto non era
senza gran cagione, si trasse dal lato un brieve con molti suggelli,
nel quale si contenea, come il re di Navarra col sire di Ricorti, e con
quattro cavalieri normandi, e con altri che in quello si nominavano,
aveano trattato col re d’Inghilterra d’uccidere il re di Francia e ’l
Delfino suo figliuolo, e di fare re di Francia il detto re di Navarra,
il quale fatto re, dovea rendere la Guascogna e la Normandia al re
d’Inghilterra. E questo brieve, vero o simulato che fosse, continovo
fino alla morte fu negato per lo sire di Ricorti e per i quattro
cavalieri normandi; nondimeno nella presenza del re tranati in sulla
piazza furono decapitati, e i corpi loro legati con catene, senza
concedere loro sepoltura, furono appesi. Altri dissono, che doveano
dare prigione il Delfino al re d’Inghilterra, ma poca fede si diede
all’una cagione e all’altra, ma più che ciò fosse fatto per vendetta
della morte del conestabile. E appresso fu mandato il re di Navarra
prigione in Castelletto, parendo a molti, che egli, egli altri ch’erano
stati decapitati fossono senza colpa di quella infamia.


CAP. XXVI.

_D’un grosso badalucco fu a Pavia._

Essendo l’oste de’ signori di Milano sopra la città di Pavia, del
mese di maggio del detto anno, uscirono cavalieri della terra, e
cominciarono giostre e badalucchi con quelli del campo; e venendo
a poco a poco crescendo l’assalto e la gente da catuna parte, vi
s’allignò un’aspra battaglia di più di mille cavalieri di catuna
gente, tutti i più pro’ e i più arditi, che di grande volontà per
fare d’arme si metteano in quello stormo. Infine per lo superchio de’
cavalieri che messer Galeazzo sollecitava di mandarvi, quelli di Pavia
non poterono sostenere, e per forza convenne che dessono le reni, e
fuggendo, alquanti ne furono presi; gli altri per campare si tornarono
nel borgo della città, ed essendo fortemente incalciati da’ nemici
che li seguivano, con loro insieme si misono follemente nel borgo, ove
racchiusi, si trovarono prigioni per troppa sicura gagliardia, e ben
quattrocento se ne rassegnarono a bottino, per li quali quelli di Pavia
riebbono tutti i loro prigioni; e guadagnati i cavalli e l’arme, tutti
gli lasciarono andare alla fede, secondo l’usanza de’ Tedeschi.


CAP. XXVII.

_Come i Visconti assediarono Borgoforte._

Di questo mese di maggio, i signori di Milano, non ostante ch’avessono
l’oste a Pavia, e mandata gran gente in Piemonte contro al marchese di
Monferrato, mandarono duemila cavalieri e gran popolo con molto navilio
ad assediare Borgoforte in sul Mantovano, e ivi si posono ad assedio
per acqua e per terra, facendo nel Pò grandi palizzati, acciocchè
levassono al castello ogni fornimento e soccorso che venire gli potesse
per lo fiume del Po, e con bertesche, e con guardie, e con navili il
chiusono, e per acqua e per terra l’assediarono strettamente.


CAP. XXVIII.

_Come i Visconti feciono contro a’ prelati di santa Chiesa._

Avvenne in questi dì, che ’l papa mandò un valente prete in Lombardia
a predicare la croce, guardandosi i maggiori prelati di non volere la
grazia di quell’uficio. E la croce si bandiva e predicava, come detto
è, contro al capitano di Forlì e al signore di Faenza. Il valente
sacerdote se n’andò a Milano, e ivi favoreggiato dal vescovo di Parma,
cominciò sollicitamente a fare l’uficio che commesso gli era dalla
santa Chiesa. Come messer Bernabò ebbe notizia di questo servigio,
senza vietarglielo, o ammonirlo che questo fosse contro alla sua
volontà, il fece pigliare, e ordinata per lui una graticola di ferro
tonda a modo d’una botte, là dentro vi fece mettere il sacerdote, e
accesovi sotto il fuoco come si fa a uno arrosto, e facendolo volgere,
crudelmente il fece morire a grande vitupero, non tanto per la sua
persona ch’era prete sagrato, quanto per lo dispregio e irreverenza
che per lui si mostrò fatto a santa Chiesa che l’avea mandato. E per
arrogere al mal fatto aggiunse, che al vescovo di Parma fece torre
il vescovado, e delle rendite di quello investì altrui, e contradiò
alla predica della croce. E acciocchè il capitano si potesse difendere
dal legato li mandò subitamente dieci bandiere di cavalieri, dandogli
speranza di maggiore aiuto, e avendoli presso il castello di Luco, che
tenea tra Bologna e la Romagna, senza contasto li vi mise dentro.


CAP. XXIX.

_Come i Visconti feciono tre bastite a Pavia._

Del mese di maggio 1356, i signori di Milano volendo vincere per
assedio la città di Pavia, feciono edificare attorno alla terra tre
grandi bastite, le quali feciono armate di bertesche e di steccati, e
molto afforzare con buoni e larghi fossi, e l’una strinsono alla città
di là dal Tesino, e l’altra di verso Milano, il Tesino in mezzo; e
in sul fiume feciono un largo ponte di legname per lo quale l’un’oste
potea soccorrere all’altra, e l’altra bastita posono dall’altra parte
della terra. E per non tenervi tanta gente impedita a tenervi campo
aperto, misono in queste bastite cavalieri e pedoni assai, i quali
faceano aspra guerra, e teneano la città sì stretta, che vittuaglia
niuna o gente non grossa vi poteva entrare, e grande speranza aveano
di vincere la città, se fortuna l’avesse conceduto alla loro volontà:
ma non sempre agli appetiti de’ potenti tiranni acconsente la divina
disposizione, come leggendo innanzi si potrà trovare.


CAP. XXX.

_Come i Turchi con loro legni feciono gran danno in Romania._

In questi medesimi tempi, i Turchi avendo settanta legni armati, e
molte barche imborbottate, valicarono in Romania, ricettati da un
barone di quelli che rimase nel paese dell’antica compagnia, uomo di
perversa condizione; e per far male a’ suoi paesani, dava a’ Turchi
rinfrescamento e porto a’ loro navili, ed eglino quando per mare
quando per terra correvano il paese predando uomini e bestiame e roba
senza trovare da’ paesani contasto, e al barone, che gli ritenea e
favoreggiava, di tutta la preda davano la decima parte. E così seguendo
tutta la state feciono in Grecia grandissimi danni, e poi senza
contasto si tornarono in Turchia carichi di servi greci e di molta
roba.


CAP. XXXI.

_Come gl’Inghilesi guerreggiarono, il reame di Francia._

Non essendo per li legati di santa Chiesa potuto trovare in tutto
il verno passato pace o tregua tra il re di Francia e quello
d’Inghilterra, ma piuttosto aggravato l’animo del re di Francia
e de’ suoi Franceschi per l’ingiurie ricevute dagl’Inghilesi; e
gl’Inghilesi montati in maggiore audacia e baldanza aveano tanto a
vile i Franceschi, che non pensavano potere perdere abboccandosi con
loro: e però essendo tornato il re d’Inghilterra nell’isola per lo
fatto degli Scotti, come detto è, da capo s’apparecchiarono il valente
duca di Guales, e ’l pro’ e ardito conte di Lancastro, e tra loro
divisono il paese ove doveano guerreggiare nel reame di Francia, e
catuno prese tremila cavalieri e molti arceri, e da capo cominciarono
a correre il paese. E ’l conte entrò in Brettagna facendo nel paese
aspra guerra, ardendo, e guastando e predando senza trovare contasto, e
’l duca se n’entrò in Guascogna scorrendo il paese, e valicando insino
a Nerbona, guastando e predando il Nerbonese e ’l paese d’intorno
senza trovare avversari in campo. Catuno si tenea alla guardia delle
mura e delle fortezze, per modo che niuna terra vi potè acquistare. E
in questo modo gl’Inghilesi stettono il maggio e ’l giugno del detto
anno, facendo assai danno e vergogna al re di Francia e a’ sudditi
del suo reame. Il re di Francia non avendo riparato infino a qui
all’audacia degl’Inghilesi, vedendoli tanto montare in sua vergogna
e in danno del paese, s’apparecchiò con ogni sollecitudine che potè
di tutta sua forza di cavalieri e di sergenti e d’arme, a intenzione
d’andare a trovare i nemici, e di combattere con loro, e cacciarli
del reame a suo podere. Ma i due baroni colle due osti, si tornarono
a Bordello in Guascogna colle loro prede, per ordinarsi insieme de’
nuovi assalti che intendeano fare nel reame, e per provvedersi contro
all’apparecchiamento che sentivano fare al re di Francia. Come le cose
seguirono, leggendo appresso per li loro termini si potranno trovare.


CAP. XXXII.

_Come gl’Inghilesi furarono un forte castello._

Essendo un forte castello nel mezzo della contea della Marcia
chiamato...., ove si facea grandi mercati certi dì per li circostanti
paesani, gl’Inghilesi feciono prendere a più loro cavalieri abito di
mercatanti, i quali sapeano la lingua francesca, e mostrando d’andare
a fare loro investite al mercato, a due a due giugnendo al castello
prendevano albergo; ed essendovene entrati una buona compagnia, facendo
vista d’attendere il mercato per lo seguente dì, faceano grandi e
larghe spese e cortesie, e diportandosi per lo castello verso la
rocca, il castellano che non si prendea guardia de’ mercatanti fu da
loro morto. E morto il castellano, entrarono nella fortezza, e quella
tennono tanto, che gl’Inghilesi che stavano però attenti n’ebbono
la novella, e cavalcaronvi di subito quattrocento cavalieri e altri
arceri; e giugnendo alla terra, avendo l’entrata, senza uccisione vi
s’entrarono e afforzaronvisi dentro, e feciono in quello loro ridotto,
guerreggiando tutto il paese d’intorno, con fare danno grave a’
paesani. E questo avvenne del mese di giugno predetto.


CAP. XXXIII.

_Come il zio del conte di Ricorti si rubellò al re di Francia._

Dappoichè il re di Francia ebbe morto il conte di Ricorti e gli altri
cavalieri normandi, come già è detto, mandò in Normandia un suo barone,
e fecelo giustiziere in quel paese. Costui cavalcò nel paese, e faceva
senza contasto l’uficio del suo baliato, ubbidito da tutti i paesani.
Avvenne che una terra della contea di Ricorti era nel giustiziato del
suo uficio; il balio vi cavalcò con tutta sua famiglia per tenervi
ragione, come facea in tutte l’altre terre. Il zio carnale del conte
di Ricorti ch’era morto, con sua forza prese il detto balio e’ suoi
famigli, e in dispetto del re di Francia, a lui e a’ diciassette suoi
compagni, per ricordanza di quello ch’era stato fatto al nipote sire
di Ricorti, fece tagliare le teste, e quella terra e l’altre della
contea di Ricorti fece rubellare al re di Francia; e allegatosi col
re d’Inghilterra fornì le sue terre, e ricettando gl’Inghilesi, faceva
grande guerra a’ Normandi.


CAP. XXXIV.

_Come messer Filippo di Navarra si rubellò al re di Francia._

Appresso alla detta rubellione, sentendo messer Filippo di Navarra
fratello del re, come il re Giovanni in persona sconciamente avea a
Ruen voluto uccidere il re di Navarra suo fratello, e appresso l’avea
villanamente imprigionato, e come avea morto il conte di Ricorti,
disperandosi della salute del fratello e della sua, incontanente
rubellò tutte le terre di Navarra al re di Francia; e cavalcando per
tutte le terre accogliendo a parlamento gli uomini del reame, si dolea
del grande tradimento fatto per lo re di Francia al loro signore, e
inanimandoli contro al re di Francia, gli confortò alla difesa del
paese, e ordinò e fornì tutte le buone ville; e fatto questo, colla
sua persona si mise nel forte e nobile castello posto in sulla marina,
che si chiama...., e ivi si fortificò, per potere dare l’entrata in
Navarra agl’Inghilesi e a cui volesse, senza potere essere impedito.
E messovi buona e confidente guardia, si partì del reame e andossene
al re d’Inghilterra, e fece lega e compagnia con lui. E poi seguitò
coll’aiuto e in compagnia degl’Inghilesi a fare grande guerra al re di
Francia, come seguendo nostra materia si potrà trovare.


CAP. XXXV.

_Come il popolo di Pavia prese le bastite, e liberossi dall’assedio._

Essendo con tre grandi e forti bastite assediata la città di Pavia
da’ signori di Milano, confidandosi nelle grandi fortezze, ne
trassono de’ cavalieri e de’ masnadieri per sovvenire all’altre loro
imprese; e avvedendosene quelli da Beccheria che governavano la città,
procacciarono d’avere segretamente aiuto dal marchese di Monferrato.
Era in quella stagione in Pavia un frate Iacopo Bossolaro de’ romitani,
in cui gli uomini e le donne di Pavia aveano grande divozione: costui
colle sue prediche avea confortato molto il popolo alla sua franchigia
contro alla potente tirannia di quelli di Milano; e avendo avuta gente
dal marchese, la quale v’era entrata di notte chetamente, essendosi
provveduti della bastita ch’era loro più di presso, che rispondea a
quella di là dal Tesino, dato il dì ordine a’ cavalieri e al popolo, e
apparecchiate scale e argomenti di legname da entrare nella bastita,
per modo che i loro nemici non n’ebbono alcuno sentimento, e dato
l’ordine dell’assalto a’ caporali, sicchè catuno sapea ciò che s’aveva
a fare, e da qual parte avea a fornire la sua battaglia, s’andarono
la sera a posare: e nella mezza notte s’armarono e guernirono d’ogni
cosa; e poi, come ordinato era, in sù l’aurora, a dì 28 di maggio del
detto anno, uscirono della città, e il buono frate Iacopo Bossolaro
con loro. Cominciarono l’assalto d’ogni parte alla bastita, e fecionlo
sì contamente, ch’elli sprovveduti dentro del subito assalto perderono
ogni facondia di consiglio e d’aiuto alla loro difesa; e’ cavalieri
tedeschi che dentro v’erano, vedendosi d’ogni parte assaliti, non
ebbono cuore alla difesa, e stavano smarriti a vedere come se fossimo
consenzienti, e ciò non era vero: ma per loro natura rinchiusi non
sanno combattere, nè resistere come in aperto campo. E però quelli di
Pavia con poca resistenza entrarono nella bastita, e presonla, facendo
grande uccisione de’ loro nemici, e la maggiore parte ne presono; gli
altri che poterono fuggire non furono perseguitati, e camparono. Presa
la prima bastita, di presente si dirizzarono al ponte, e presonlo, e
fedironsi nell’altra bastita di là dal Tesino. I capitani di quella
impauriti della sconfitta de’ loro compagni, e della perdita della
forte bastita, non ebbono cuore di mettersi alla difesa, ma alla fuga,
chi meglio il seppe fare, ma non sì che assai non ne rimanessono morti
e presi. E vinta, e messo fuoco alla seconda bastita, si dirizzarono
alla terza ch’era dall’altra parte della città, e quella vinsono per
simigliante modo. E come saviamente per loro era ordinato, seicento de’
loro fanti a piè forniti di seghe, e d’altri argomenti da tagliare,
e da svegliere palizzati e rompere catene, furono mandati per acqua
al navilio di Piacenza ch’era raunato in Po, e alquanti cavalieri per
terra in loro aiuto, i quali valorosamente feciono il servigio: e per
forza presono il navilio, e arsonne la maggiore parte, e alquanto ne
ritennono, e quelli che v’erano alla guardia ne mandarono in rotta.
E così maravigliosamente, come a Dio piacque, quella franca gente
assediata lungamente dalla gran potenza de’ signori di Milano, in
uno dì se ne liberò vittoriosamente, dando abbassamento alla superba
potenza de’ grandi tiranni.


CAP. XXXVI.

_Il movimento del re d’Ungheria per assediare Trevigi._

Sopravvenendo nuova guerra a raccontare alla nostra materia, così
cominciamo. Avendo Lodovico re d’Ungheria per lungo tempo molte volte
richiesto a’ Veneziani la città di Giara e l’altre terre, che del suo
regno teneano occupate in Schiavonia, e non trovando modo con loro di
riaverle con pace, di questo mese di maggio del detto anno, si mosse
dalla città di Buda in persona con trenta compagni, e misesi a cammino
dirizzandosi in Schiavonia alla città di Sagabria, ch’è in Dalmazia,
e innanzi che quivi fosse giunto, si trovò con cinquecento cavalieri.
E giunto in Sagabria, in pochi dì vi vennono tutti i baroni del reame
e del suo distretto, e catuno colla gente d’arme del debito servigio,
la quale era tanta che non la comportava il paese; per la qual cosa
fu costretto il re di parlare a uno a uno, e dir loro la gente ch’e’
volea in quel servigio, e tutti gli altri fece rimandare addietro in
Ungheria. A Sagabria vennono a lui ambasciadori del comune di Vinegia
i quali addomandavano la sua pace, offerendoli danari quanti più
potessono, per rimanere in concordia con lui. Il re rispose che non
cercava i loro danari, perocchè n’avea assai, ma s’eglino avevano in
mandato dal loro comune di renderli le sue terre, per questo poteano
avere la sua concordia e la sua pace. Gli ambasciadori risposono,
che ciò non aveano in commissione. Il re disse, che per altro non si
travagliassono: onde gli ambasciadori si tornarono addietro al loro
comune. Il re stando in Sagabria ordinò di fare la sua guerra, come
appresso la diviseremo. La boce che usciva si spandea per diversi
luoghi; i più credeano che a Giara si facesse la gran punga, come altra
volta era fatta, altri nell’Istria, altri a Trevigi, e ’l certo non si
potea sapere; e per questo i Veneziani aveano più a pensare, e maggiore
spesa a provvedere alle loro terre in diverse parti: e incontanente,
non curando la spesa, dando grandi e disordinati soldi, fornirono
Giara, e l’altre terre di Schiavonia e dell’Istria, e provvidono e
fornirono la città di Trevigi di gente d’arme a cavallo e a piè con
grande spesa.


CAP. XXXVII.

_Come per l’avvenimento del re d’Ungheria si temette in Italia._

Sentendosi per tutta Italia, che il re d’Ungheria con grande
moltitudine d’Ungheri e d’altri suoi sudditi infedeli s’apparecchiava
per passare sopra i Veneziani, aggiugnendosi alla novella, che
l’imperadore e ’l duca d’Osteric tenea mano con lui, e che l’imperadore
dovea creare re in Lombardia e re in Toscana, non senza sospetto
stettono tutti i tiranni d’Italia, e ancora i popoli di catuna parte
sospesi, e massimamente i tiranni di Lombardia. E per questa cagione
s’accostarono a parlamento insieme, e ordinarono loro leghe, e di
concordia li mandarono ambasciadori per sapere la sua intenzione de’
fatti loro; e avuta da lui amichevole risposta, catuno rimase senza
paura della sua impresa, salvo il comune di Vinegia, contro a cui egli
manifestamente s’apparecchiava.


CAP. XXXVIII.

_Come la cavalleria del re Luigi sconfissono i nemici, e furono vinti._

Di questo mese di maggio, essendo il conte Paladino in ribellione del
re Luigi, e avendo con seco due grandi conestabili con cinquecento
barbute, ch’egli avea tratte della compagnia contro alla volontà
del conte di Lando, come addietro abbiamo narrato, e avendone messi
quattrocento in una sua terra di Puglia che guerreggiavano il paese,
il re, avendo concordia col conte di Lando, mandò in Puglia ottocento
cavalieri per ristrignere quelli del conte nella terra, e poi
coll’aiuto de’ paesani assediativi dentro. Ma gli avvisati Tedeschi
non si vollono rinchiudere tra le mura, e partire non si sarebbono
potuti senza loro grande danno e vergogna. E però, come uomini di
grande ardire, uscirono della terra, e sentendo nel paese la gente
del re, vennono loro incontro, e misonsi in aguato, e appressatasi
la cavalleria del re, per modo che quelli dell’aguato non si poteano
coprire, si schierarono e ordinarono a battaglia, e mandarono a
richiedere i cavalieri del re di battaglia, ch’erano ivi cinquecento
cavalieri bene armati, e montati tutti in buoni cavalli; i quali
sentendo la richiesta, e avendoli in dispregio, senza fare altra
risposta, accoltisi insieme e dato il nome, s’addirizzarono contro a’
nemici, e percossongli per tale virtù, ch’al primo assalto gli ruppono
e sbarattarono; e cacciandoli per avere in preda, si cominciarono a
sciogliere della loro massa con mala provvedenza, e chi cacciarono qua
e chi là. L’uno de’ due conestabili con pochi de’ suoi si ridusse in
alcuno vantaggio di terreno e fece testa, e degli altri che fuggivano,
vedendo ferma quella bandiera, per loro scampo si riduceano ad essa,
e ingrossavano la sua forza. La gente del re vittoriosa, avendo morti
e presi de’ loro nemici, vedendo che alquanti aveano fatto testa
sotto quella bandiera, s’addirizzarono a loro con più baldanza che
buon ordine. Il conestabile avvisato di guerra, conoscendo la sciocca
venuta de’ suoi avversari, confortò i suoi di ben fare, e stretto co’
suoi pochi sì percosse tra gli assai male ordinati, e ruppegli più per
maestria di guerra che per forza ch’egli avesse; e coloro ch’erano
vincitori, per la stolta baldanzosa tratta rimasono vinti in questa
parte, e il conestabile, per lo savio accorgimento e buona condotta,
essendo prima vinto e fuggito del campo, rimase vincitore, e tanti
prese de’ suoi avversari, quanti i suoi cavalieri ne poterono menare
prigioni, tra’ quali furono certi baroni e alcuni cavalieri di Napoli e
altri Toscani, tutti ricchi prigioni; e senza arresto, quanto i cavalli
di buono andare li poterono menare si partirono, e condussonli senza
cercare più altra fortuna in sul campo a salvamento. E nondimeno della
loro compagnia ne rimasono morti assai, e più presi che quelli ch’e’
ne menarono in buona quantità, ma de’ loro poco si curarono: di quelli
ch’aveano presi eglino ebbono danari assai, e per mala condotta la
bella vittoria condussono a vergognoso fine.


CAP. XXXIX.

_D’appelli fatti per lo conte di Lando di tradigione._

Quello che seguita non è cosa che meriti memoria, se non per dimostrare
con esempio del fatto la matta follia degli oltramontani. Il conte
di Lando era lungamente stato colla sua compagnia a nimicare con
operazioni latrocine e infedeli il Regno, e con lui i sopraddetti due
conestabili alamanni. Avvenne, che fatta la sopraddetta battaglia, il
conte di Lando appellò di tradimento i detti due conestabili, dicendo,
che contro al loro saramento s’erano partiti della compagnia. E’
conestabili dall’altre parte appellavano lui per traditore, dicendo,
che contro al suo saramento avea rotti loro i patti. L’antica pazzia
oltramontana per l’usanza del loro appello li recò in giudicio, e
commisonsi nel re Luigi; e appresentandosi l’una parte e l’altra in
giudicio nella sua corte, non senza giusto pericolo delle loro persone,
essendo prencipi di manifesti ladroni senza alcuna fede, nondimeno il
re guardò alla liberalità ch’e’ nemici ebbono confidandosi alla sua
persona, e fedelmente commise a disputare la loro questione, facendo
loro assessore il suo gran siniscalco, e d’ogni parte per lungo
piato furono i savi ad allegare. Ma in fine, o ragione o torto che si
fosse, il re, avuta la relazione dal suo consiglio, liberò il conte,
e i due conestabili condannò per traditori, e ritenneli per prigioni
alla volontà del conte. E per questo modo forse fece in parte la sua
vendetta per la capitosa follia tedesca.


CAP. XL.

_Come i Sanesi per paura ricorsono a’ Fiorentini._

Avvedutosi alquanto il comune di Siena, che l’essere strano dal comune
di Firenze gli potea tornare a pericoloso danno, e massimamente
sentendosi male forniti, e che la compagnia del Regno era già in
Abruzzi per valicare nella Marca e appresso in Toscana, elesse de’
suoi maggiori cittadini grandi e popolani, e accompagnati da molta
famiglia pomposamente alla loro maniera, a dì 16 di giugno del detto
anno vennero a Firenze. E fatti adunare i collegi e gli altri buoni
cittadini di Firenze, con parole di grande reverenza cominciarono
loro sermone, chiamando padri del loro comune il popolo e ’l comune di
Firenze, e come figliuoli al padre a loro si raccomandavano, offerendo
il loro comune apparecchiato di non partirsi dal reverente consiglio
e ubbidienza del comune di Firenze, dicendo, ch’erano apparecchiati
ad entrare nella lega e compagnia già provveduta e ordinata per lo
comune di Firenze, e di pigliare la loro taglia, e di fare quanto
il detto comune volesse comandare in questo e nell’altre cose. I
governatori della nostra città, non guardando alli sconvenevoli falli
per addietro commessi pe’ Sanesi contro al nostro Comune, li riceverono
graziosamente in compagnia e in lega, e promisono, dov’eglino volessono
essere uniti e in fede al nostro comune, d’aiutarli e difenderli come
cari e diletti fratelli amichevolemente.


CAP. XLI.

_Come l’oste si levò da Borgoforte._

Tornando a nostro conto all’assedio di Borgoforte in sul Mantovano,
il quale i signori di Milano molto si sforzarono per acquistare,
e’ ruppono e svelsono i grandi palizzati che v’erano per difesa del
castello, e per molte battaglie e gravi assalti tentarono d’averlo, e
sarebbe venuto fatto, se non fosse il grande e buono aiuto ch’ebbono
da Mantova e da Reggio, e per questo si difesono francamente. Vedendo i
capitani dell’oste che a quella pugna si perdea il tempo senza frutto,
e sapendo che Reggio per soccorrere Borgoforte era sfornito della
gente d’arme, si levarono subito, e cavalcarono a Reggio; e trovando
la città sprovveduta dei loro subito avvenimento, di poco fallì che
non entrarono nella terra, ma quella poca gente che v’era si mise
francamente a guardare le mura e le porte, per la qual cosa l’oste
corse danneggiando il contado, e appresso vi si misono ad assedio,
e stettonvi più dì; ed ebbono novelle, come gente del marchese di
Monferrato s’era ingrossata a Pavia, per la qual cosa temendo i signori
di ricevere vergogna in sul Milanese, feciono partire l’oste da Reggio,
e all’uscita di luglio del detto anno con poco onore si tornarono a
Milano.


CAP. XLII.

_Principio della guerra da’ Fiamminghi a’ Brabanzoni._

Sopravvenendo in questi dì alla nostra materia grande e non pensata
guerra, e volendone dimostrare la cagione, ci conviene alquanto tornare
addietro nostra materia. Certa cosa fu, che per antico la villa e
gli uomini di Mellina in Brabante erano della chiesa cattedrale di
Legge, ma essendo nella provincia di Brabante e tra’ Brabanzoni, erano
usati di fare lega col duca di Brabante per essere più sicuri e più
riguardati, e per antica costuma con ogni novello duca di Brabante
facevano l’usata lega e compagnia, e ne’ patti tra loro era che ’l duca
li dovea difendere e aiutare in tutte le loro brighe, e la comune di
Mellina dovea servire il duca in tutte le loro guerre, essendo i primi
che venissono al servigio e gli ultimi che si partissono. Avvenne,
che un duca di Brabante ebbe guerra col vescovo di Legge e fece oste
sopra le sue terre, nella quale due di Mellina furono in arme contro
al loro signore; per la qual cosa, finita la guerra, il vescovo andò
a corte di Roma a Avignone a papa Benedetto sesto, e tanto procacciò,
ch’egli ebbe di licenza dal papa sotto la sua bolla ch’e’ potesse
vendere Mellina, e convertire i danari in altre possessioni a utilità
della chiesa di Legge, il quale di presente si mise in cerca, e venne
a concordia segretamente col conte di Fiandra per dugento migliaia
di reali d’oro; e trovato a ciò il sussidio de’ Fiamminghi, pagò il
vescovo innanzi ch’avesse la possessione della città, pensando, ma non
saviamente, non avere contasto. Ma incontanente che quelli di Mellina
sentirono il fatto, andando il conte per la tenuta serrarono le porte,
e presono l’arme alla difesa e non lo vi lasciarono entrare, e misonsi
a procacciare di fare ritrattare la vendita; e non potendolo fare,
ricorsono al duca di Brabante, richieggendolo per li patti della lega e
compagnia ch’aveano con lui che li dovesse aiutare e difendere, ed egli
il fece, e fecelo volentieri, parendoli che la villa dovesse essere
sua, ma non l’avea voluta comperare. Per questa ingiuria il conte
richiese il re di Francia, il quale avendo conceputo contro al duca di
Brabante per li fatti del re d’Inghilterra, prese ad aiutare il conte
di Fiandra. E allora fu fatto grande sommovimento di Tedeschi e di
Franceschi contro al duca di Brabante, e il conte di Fiandra co’ suoi
Fiamminghi, per modo che il duca fu recato a grave e pericoloso partito
di perdere tutta la duchea, e fatto li venia, se non fosse che il conte
di Bari con tutta sua forza il francò a quella volta, come trovare
si può nella Cronica di Giovanni Villani nostro antecessore. Per
questo sdegno preso per lo duca contro al re di Francia incontanente
si collegò col re d’Inghilterra contro al re di Francia, onde grande
male ne seguitò a’ Franceschi. Poi morto il duca predetto niella
generale mortalità lasciò quattro figliuole femmine, che la maggiore
fu moglie di messer..... fratello uterino di Carlo di Boemia eletto
re de’ Romani, la seconda fu moglie del conte di Fiandra, la terza del
duca di Giulieri, la quarta del duca di Ghelleri. E non essendovi reda
maschio, il conte domandò di volere parte della duchea di Brabante per
la legittima della moglie; e non potendola avere, perchè si tenne che
all’anzianità rimanesse la successione del ducato, mosse di rivolere
Mellina, come sua propria terra comperata dal vescovo di Legge, come
di sopra è detto, ed essendoli dal nuovo duca dinegata, ne seguirono in
breve tempo gran cose, come appresso racconteremo.


CAP. XLIII.

_Come il conte di Fiandra andò su quello di Brabante._

Di questo mese di giugno 1356, il conte di Fiandra avendo raddomandato
al cognato duca di Brabante la villa di Mellina che di ragione era
sua, e non volendogliela rendere, fece bandire per tutta la contea, di
Fiandra il torto che il duca di Brabante e’ Brabanzoni faceano loro, e
che catuno s’apparecchiasse d’arme, per seguitare la sua persona contro
a’ Brabanzoni in Brabante, e in pochi dì ebbe, con apparecchiamento
fatto di molta vittuaglia e di gran carreaggio, centocinquanta migliaia
d’uomini armati, quasi tutti a modo di cavalieri, e con essi ebbe
di suo sforzo e di sua amistà seimila cavalieri; e con questo grande
esercito, e coll’animo acceso di tutti per l’ingiuria de’ Brabanzoni,
uscirono di Fiandra, ed entrarono in Brabante per combattersi co’
Brabanzoni.


CAP. XLIV.

_Come si fece accordo sul campo da’ Fiamminghi a’ Brabanzoni._

Il duca di Brabante, ch’era Alamanno, accolse dall’imperadore e da
altri baroni d’Alamagna molti cavalieri, e apparecchiò in arme i
Brabanzoni a piè e a cavallo per comune; e sentendosi venire addosso il
conte di Fiandra co’ Fiamminghi, si fece loro incontro con diecimila
cavalieri, e con centodieci migliaia di Brabanzoni a piè bene armati.
Ed essendo accampati l’uno presso all’altro, e cercando di combattere
insieme più per altiera miccianza che per guerra che tra’ cognati
fosse, alquanti baroni di catuna parte si mossono per trattare tra
l’una parte e l’altra accordo, acciocchè a sì grande e pericolosa
battaglia non si mettessono, e infine vennero a questa concordia:
che catuno eleggesse quattro buoni uomini di sua parte, e uomini
d’autorità; e fatta la lezione, fu loro commesso di concordia delle
parti che dovessono vedere le ragioni che ’l conte di Fiandra avea
sopra la villa di Mellina e quelle del duca di Brabante, e veduta
la verità del fatto, incontanente obbligati per loro saramento,
ricevuto solennemente in presenza di molti baroni, che levato via
ogni cavillazone o non vere ragioni, e’ giudicherei bono a cui la
villa di Mellina dovesse rimanere per loro sentenza. I baroni e’
popoli promisono stare e osservare quello per loro fosse giudicato,
e gli arbitri giurarono ancora in fra ’l termine loro assegnato avere
terminata e renduta la loro sentenza. E presa la detta concordia tra
le parti, catuno dolcemente senz’altro movimento o segno d’alcuna
arroganza, mansuetamente si ritornarono i Fiamminghi in Fiandra, e’
Brabanzoni in Brabante, catuno alle sue ville, del mese di giugno del
detto anno. Lasceremo ora le novità di Fiandra e di Brabante, tanto che
torni il tempo ove fu abbattuta la superbia del Tedesco e la baldanza
de’ Brabanzoni, e torneremo alle italiane novità che prima ci occorrono
a divisare.


CAP. XLV.

_Come la città d’Ascoli s’arrendè al legato._

Il valente cardinale legato del papa, avendo duemila barbute a soldo
della Chiesa, oltre ai molti crociati ch’avea in Romagna, avendo inteso
come la compagnia ch’usciva del Regno volea passare d’Abruzzi nella
Marca d’Ancona inverso la città d’Ascoli, s’ingrossò di gente d’arme
a piè e a cavallo in quelle contrade. Gli Ascolani temendosi della
compagnia, perchè non erano ancora in accordo col legato, si disposono
di rendersi a fare la volontà del legato. Il cardinale fu loro benigno
e mansueto, facendo assai di quello ch’e’ voleano, e del mese di giugno
del detto anno ricevettono la signoria del legato, e la sua cavalleria
nella città a ubbidienza di santa Chiesa. E in questi medesimi giorni
prese il legato accordo col signore di Fabriano, ch’era stato ribello
a santa Chiesa per animo tirannesco e ghibellino; e col vescovo di
Fuligno, che tenea la terra per lo detto modo, ogni cosa dissimulava
con molta provvisione, secondo che ’l tempo glie la richiedea.


CAP. XLVI.

_Come il legato procacciò tenere il Tronto alla compagnia._

Avuto che il legato ebbe la città d’Ascoli a’ suoi comandamenti,
sentendo la compagnia del conte di Lando in Abruzzi a’ confini della
Marca, e che i danari che ’l re Luigi dovea dare loro perch’elli
uscissono del Regno veniano, temendo che valicato che avesse il Tronto
e’ non si stendesse in troppo danno de’ suoi Marchigiani, con grande
animo raunò al Tronto gran parte della sua cavalleria e il popolo del
paese, e fece fare in sulla riva del Tronto fossi di grande lunghezza,
e fortificare con steccati, e faceva continovo di dì e di notte
guardare i passi, acciocchè la compagnia non entrasse sopra le sue
terre, e nondimeno tenea col conte capitano della compagnia trattato
d’accordarsi con lui a suo vantaggio.


CAP. XLVII.

_Come i Pisani ruppono la franchigia a’ Fiorentini._

Avvegnachè già per noi addietro sia narrato, come la non domata
astuzia de’ Pisani avea fatto fare a’ Fiorentini rubellare Sovrana e
Coriglia, e quelle faceano guardare e fare guerra a’ loro soldati, i
quali diceano essere loro sbanditi, rompendo per indiretto modo la
pace a’ Fiorentini, e il comune di Firenze dissimulando l’ingiuria
per non turbare il tranquillo della pace, ed eglino multiplicando in
superbia, confidandosi che per cagione del loro porto i Fiorentini
portassono ogni soma, avendo rivolto lo stato e il reggimento della
città come addietro è contato, volendo manifestamente rompere i patti
della pace a’ Fiorentini, e mostrare che ciò non fosse, ordinarono,
che per cagione che la mercatanzia venisse e stesse sicura nel porto
e in quel mare, pagasse due danari per lira di ciò che la mercatanzia
valesse, alla stima de’ loro uficiali ordinati sopra ciò. E sapendo che
per i patti della pace i Fiorentini doveano essere liberi e franchi
delle loro mercatanzie, e persone e cose nella loro città, e porto e
distretto, non glie ne feciono esenti, ma i primi a cui staggirono e
arrestarono la mercatanzia per la detta gabella furono i Fiorentini.
Il comune di Firenze sentendo la novità ch’e’ Pisani faceano di torre
contro a’ patti della pace la franchigia a’ suoi cittadini, vi mandò
solenni ambasciadori, richieggendo e pregando quello comune che non
dovesse torre la franchigia debita per gli ordini della pace a’ suoi
cittadini. La risposta fu, ch’elli erano sotto il governo del loro
signore messer l’imperadore, e questo era sua fattura, per volere che
’l porto e ’l mare stesse guardato e sicuro. E non potendosi trarre
altro da loro, il comune mandò all’imperadore in Boemia a sapere,
se suo ordine era, e se volea ch’e’ Pisani sotto l’imperiale titolo
rompessono loro la pace, togliendo la franchigia a’ suoi cittadini.
L’imperadore udita la novella, gli dispiacque: e incontanente riscrisse
al nostro comune, che ciò non era fatto di suo volere nè di suo
sentimento, e che la sua volontà era ch’e’ Pisani mantenessero a’
Fiorentini la loro franchigia e buona e leale pace; e così riscrisse al
comune di Pisa per sue lettere, ma poco il curarono, e però poco valse.
E avuta la risposta dall’imperadore, più pertinacemente tennono fermo
quello ch’aveano incominciato, e necessità fu a’ mercatanti fiorentini
a cui era staggita la loro mercatanzia di pagare il dazio, e rompere
la franchigia, se rivollono la loro mercatanzia. Questo fu il primo
cominciamento del mese di giugno predetto; come le cose montarono poi
a grande sdegno, e poi a incitazione di grave turbazione di guerra,
appresso ne’ tempi come occorsono si potrà trovare, e massimamente nel
cominciamento dell’undecimo libro della nostra compilazione.


CAP. XLVIII.

_Come i Fiorentini deliberarono partirsi da Pisa e ire a Talamone._

Vedendo i Fiorentini la pertinacia de’ Pisani in non volersi rimuovere
dall’impresa, conoscendo manifestamente che venivano contro a’ patti
della pace con due maliziosi rispetti; il primo, che non sapeano
vedere, e non poteano pensare, che per quella lieve gravezza i
Fiorentini si dovessono sconciare della comodità ch’aveano del loro
porto per le proprie mercatanzie, e per quelle degli altri mercatanti
strani da cui aveano a comperare, trovandole in Pisa a una giornata
presso alla loro città, e trovando in Pisa da’ Pisani la civanza delle
scritte e della loro credenza; e perocchè partendosi di là la spesa
e lo sconcio era sformato, non voleano pensare ch’e’ Fiorentini non
s’acconciassono a consentire questo cominciamento: e quando ciò fosse
recato in pratica e in usanza, aveano intenzione di venire crescendo
il dazio a utilità del loro comune, e a servaggio di quello di
Firenze. L’altro peggiore pensiere si era, se per questo i Fiorentini
si movessono a guerra, lo stato di coloro che nuovamente reggeano,
il quale era debole per i molti buoni cittadini cui eglino aveano
abbattuti dello stato, si fortificherebbe per la guerra de’ Fiorentini,
e sarebbono seguitati e più ubbiditi dal loro popolo. I Fiorentini
conoscendo la loro malizia, non vollono però rompere la pace, ma
tennero più consigli, e trovarono i loro cittadini tutti acconci di
portare ogni gravezza, e ogni spesa e interesso che incorrere potesse
all’arti e alla mercatanzia, innanzi che volessono comportare un danaio
di dazio o di gabella da’ Pisani contro alla loro franchigia. E però
di presente ordinarono per riformagione penale, che catuno cittadino,
o contadino, o distrettuale di Firenze, infra certo tempo giusto dato
loro, catuno si venisse spacciando e ritraendo per modo, ch’al termine
dato catuno si potesse partire da Pisa senza suo danno: e sopra ciò
e sopra trovare modo d’avere porto altrove fu fatto un uficio di
dieci buoni cittadini, due grandi e otto popolani con grande balìa, e
chiamaronsi i dieci del mare; della quale provvisione seguirono gran
cose, come innanzi al suo tempo diviseremo.


CAP. XLIX.

_Come fu disfatta la città di Venafri in Terra di Lavoro._

Il re Luigi avendo lungamente avuto addosso la compagnia e certi de’
suoi baroni ribelli, non avea potuto resistere a’ ladroni, e per questo
erano in ogni parte multiplicati i malfattori, e i baroni si teneano
in loro fortezze, e davano più rifugio e favore a’ rei che a’ buoni;
e per tanto il paese era nella forza di chi male volea fare, per tale,
ch’uno conestabile tedesco, ch’avea nome Currado Codispillo, si rubellò
al re essendo al suo soldo, e con ottanta barbute e cento masnadieri
era entrato nella città di Venafri, e tormentava le strade e’ cammini
e tutto il paese d’intorno, cavalcando in prede e in ruberie infino
ad Aversa, e ritornavasi in Venafri; e per questo erano assediate le
strade e’ cammini, ch’e’ mercatanti non poteano andare nè mandare le
mercatanzie per lo Regno. Sapendo il re che la compagnia era per uscire
del Regno, fece di subito sua raunata, e in persona cavalcò a Venafri,
e sopraggiunti li sprovveduti ladroni, combattè la terra ch’avea
poca difesa, e vinsela, e’ forestieri si fuggirono per la montagna, e
salvaronsi. Il re nel caldo del suo furore, non pensando che la città
era sua e antica nel Regno, la fece ardere e disfare, perchè più non
potesse essere ridotto di ladroni suoi ribelli, e del detto mese si
ritornò a Napoli, cominciando a essere più ubbidito e temuto che non
era prima.


CAP. L.

_Come l’oste del re d’Ungheria cominciò a venire a Trevigi._

Avendo contato poco addietro il movimento del re d’Ungheria, seguita,
che a dì 28 del mese di giugno del detto anno, messer Currado Lupo,
il conte d’Aquilizia, Ilbano di Bossina con quattromila cavalieri
tedeschi, friolani e ungari vennono sopra la città di Trevigi, la quale
era a quel tempo sotto la guardia e libera signoria de’ Veneziani; i
quali avendo poco dinanzi avuta per li loro ambasciadori tornati dal
detto re risposta della sua intenzione, aveano presa temenza ch’e’ non
venisse sopra loro a Trevigi, e però in fretta intesono a fornire la
città di gente d’arme a cavallo e a piè per la difesa, e d’altre cose
necessarie, ma tanto giunsono tosto i nemici, che a compimento non lo
poterono fare; nondimeno per levare il ridotto a’ loro avversari arsono
le villate d’intorno, e i borghi del castello di Mestri. Giunto messer
Currado Lupo incontenente colle sue masnade tedesche corse il paese, e
cavalcò infino a Marghera presso di Vinegia a tre miglia di mare in sul
canale ch’andava a Trevigi, nel quale trovarono più barche cariche di
vittuaglia e d’arme ch’andavano a Trevigi, le quali prese, e gli uomini
fece impiccare, e la roba conducere al campo. Costoro cominciarono a
porre l’assedio alla città, e il re era rimaso addietro a Sigille con
più di quaranta migliaia d’Ungari a cavallo, per venire appresso al
detto assedio.


CAP. LI.

_De’ parlamenti che per questo si feciono in Lombardia._

Nell’avvenimento della gente del re d’Ungheria a Trevigi, da capo
presono sospetto tutti i signori lombardi, e quelli di Milano andarono
in persona a messer Cane Grande, e con lui s’accozzarono al lago di
Garda a un suo castello, e ivi fermarono tra loro lega e compagnia.
E alla città di Bologna si ragunarono tutti gli altri collegati
contro al signore di Milano, e da capo rifermarono loro lega, e di
comune concordia catuna gente per sè mandò da capo ambasciadori al re
d’Ungheria, a volere sapere se egli intendea con tanto grande esercito
quant’egli avea seco fare altra novità in Italia che contro alla città
di Trevigi; e saputo da lui che non venia per altro che per procacciare
le sue terre dal comune di Vinegia, rimasono per contenti. E Ilbano
di Bossina e messer Currado Lupo andarono al signore di Padova che
vicinava col Trivigiano, e da parte del loro signore gli offersono
amistà e buona pace e sicurtà del suo paese, pregandolo ch’allargasse
la sua mano di dare all’oste del re vittuaglia per li loro danari, la
qual cosa fu promessa con certo ordine a’ detti baroni. E tutte queste
cose furono mosse e fatte in pochi dì, all’entrare del mese di luglio
del detto anno.


CAP. LII.

_Come il re d’Ungheria ebbe Colligrano._

Colligrano è un grande e forte castello in Trevigiana presso a
Trevigi a sedici miglia, e in sul passo del Frioli. Questo castello
aveano ben fornito i Veneziani di gente d’arme per impedire il passo
al re. In questi dì il re venia con grande esercito verso Trevigi,
e giunto a Colligrano, vedendolo forte e in sul passo, quanto che
potesse ben passare per forza della sua cavalleria, non lo si volle
lasciare addietro, e però mise in ordine gli Ungheri, ch’erano più
di quarantamila per fare combattere la terra, con intenzione di non
partirsene ch’e’ l’arebbe. I terrazzani vedendo la moltitudine che
copriva la terra intorno intorno parecchie miglia, tutti con gli archi
e colle saette, temendo il pericolo della battaglia, s’arrenderono
alla persona del re innanzi che battaglia si cominciasse. Ed egli
in persona, senza lasciare fare loro alcuno male, v’entrò dentro con
quella gente ch’e’ volle, a dì 12 di luglio del detto anno, e prese la
signoria in nome dell’imperadore, e fornitolo di suoi cavalieri e d’uno
confidente capitano, si mise innanzi col suo esercito in verso la città
di Trevigi.


CAP. LIII.

_Come il re d’Ungheria venne a oste a Trevigi._

Essendo il detto re in cammino, prese un’altro castello che si chiama
Asille, e altre tenute d’intorno senza arrestarsi ad esse, ed ebbele
a’ suoi comandamenti. E cavalcando innanzi, a dì 14 del detto mese
giunse nel campo a Trevigi con più di quarantamila Ungheri e Schiavi
a cavallo, oltre a quelli che prima erano venuti co’ suoi baroni. E
con questo grande esercito prese tutto il paese intorno a Trevigi, e
assediò la città e più altre castella in Trevigiana ivi d’intorno; e ’l
suo proponimento era di non partirsi dall’assedio ch’egli avrebbe la
città al suo comandamento. Ma le cose alcuna volta non succedono alla
volontà umana, e però con tutta la smisurata potenza non potè adempiere
suo proponimento, come leggendo appresso dimostreremo.


CAP. LIV.

_Come si reggeano gli Ungheri in oste._

E’ pare cosa maravigliosa agl’Italiani ne’ nostri dì, a udire la
moltitudine de’ cavalieri che seguitano il re d’Ungheria quando cavalca
in arme contro i suoi nemici. E però, avvegnachè gli antichi fossono di
queste cose più sperti, per lo lungo trapassamento di quella memoria
qui ne rinnoveremo alcuna cosa, per levare l’ammirazione de’ moderni.
Gli Ungheri sono grandissimi popoli, e quasi tutti si reggono sotto
baronaggi, e le baronie d’Ungheria non sono per successione nè a vita,
ma tutte si danno e tolgono a volontà del signore: e hanno per loro
antica consuetudine ordinate quantità di cavalieri, de’ quali catuno
barone, e catuno comune hanno a servire il loro re quando va o manda
in fatti d’arme, sicchè il numero e ’l tempo del servigio catuno sa
che l’ha a fare. E perocchè alla richiesta del signore subitamente
senza soggiorno o intervallo conviene che sieno mossi, per questo quel
comune e quello barone ha diputato quelli che a quel servigio debbino
continovo stare apparecchiati di doppi cavalli, e chi di più, e di loro
leggieri armi da offendere, cioè l’arco colle frecce ne’ loro turcassi,
e una spada lunga a difensione di loro persone. Portano generalmente
farsetti di cordovano, i quali continovano per loro vestimenta, e
com’è bene unto, v’aggiungono il nuovo, e poi l’altro, e appresso
l’altro, e per questo modo gli fanno forti e assai difendevoli. La
testa di rado armano, per non perdere la destrezza del reggere l’arco,
ov’è tutta la loro speranza. Gli Ungheri hanno le gregge de’ cavalli
grandissime, e sono non grandi, e co’ loro cavalli arano e governano
il lavorio della terra, e tutte loro some sono carrette, e tutti gli
nudriscono a stare stretti insieme, e legati per l’uno de’ piedi,
sicchè in catuna parte con uno cavigliuolo fitto in terra li possono
tenere, e il loro nudrimento è l’erba, fieno e strame con poca biada;
massimamente quando usano d’andare verso levante, e valicare i lunghi
diserti. E andando verso que’ paesi, usano selle lunghe a modo di
barde, congiunte con usolieri; e quando sono in que’ cammini disabitati
e ne’ loro eserciti, l’uomo e ’l cavallo in sul campo a scoperto cielo
fanno un letto senz’altra tenda, e in tempo sereno aprono le bande
delle loro selle a modo di barda, e fannosene materasse, e sopr’esse
dormono la notte; e se ’l tempo è di piova, che di rado avviene, o
dell’una parte o d’amendue si fanno coperta, e’ loro cavalli usi a ciò
non si curano di stare al sereno e alla piova, e non hanno danno in
que’ paesi che di rado vi piove; altrove non è così, ma pure comportano
meglio i disagi; e molti ne castrano, che si mantengono meglio, e
sono più mansueti. Di loro vivanda con lieve incarico sono ne’ diserti
ben forniti, e la cagione di ciò e la loro provvisione è questa; che
in Ungheria cresce grande moltitudine di buoi e di vacche, i quali
non lavorano la terra, e avendo larga pastura, crescono e ingrassano
tosto, i quali elli uccidono per avere il cuoio, e ’l grasso che
fanno ne fanno grande mercatanzia, e la carne fanno cuocere in grandi
caldaie; e com’ell’è ben cotta e salata la fanno dividere dall’ossa,
e appresso la fanno seccare ne’ forni o in altro modo, e secca, la
fanno polverezzare e recare in sottile polvere, e così la serbano; e
quando vanno pe’ deserti con grande esercito, ove non trovano alcuna
cosa da vivere, portano paiuoli e altri vasi di rame, e catuno per
sè porta uno sacchetto di questa polvere per provvisione di guerra, e
oltre a ciò il signore ne fa portare in sulle carrette gran quantità;
e quando s’abbattono alle fiumane o altre acque, quivi s’arrestano,
e pieni i loro vaselli d’acqua la fanno bollire, e bollita, vi
mettono suso di questa polvere secondo la quantità de’ compagni che
s’accostano insieme; la polvere ricresce e gonfia, e d’una menata o di
due si fa pieno il vaso a modo di farinata, e dà sustanza grande da
nutricare, e rende gli uomini forti con poco pane, o per se medesima
senza pane. E però non è maraviglia perchè gran moltitudine stieno
e passino lungamente per li diserti senza trovare foraggio, che i
cavalli si nutricano coll’erbe e col fieno, e gli uomini con questa
carne martoriata. Ma ne’ nostri paesi, ove trovano il pane e ’l vino
e la carne fresca, infastidiscono il loro cibo, il quale per dolce
usano ne’ deserti; e però mutano costume, e non saprebbono vivere di
quell’impastata vivanda, e però non potrebbono in tanto numero ne’
nostri paesi durare, che le città e le castella sono forti, e i campi
stretti e le genti provvedute; e però avviene, che quanti più in numero
di qua ne passano, più tosto per necessità di vita si confondono. La
loro guerra non è in potere mantenere campo, ma di correre e fuggire e
cacciare, saettando le loro saette, e di rivolgersi e di ritornare alla
battaglia. E molto sono atti e destri a fare preda e lunghe cavalcate,
e molto magagnano colle saette gli altrui cavalli e le genti a piede, e
per tanto sono utili ove sia chi possa tenere campo, perocchè di fare
guerra in corso e tribolare i nemici d’assalto sono maestri, e non
si curano di morire, e però si mettono a ogni gran pericolo. E quando
le battaglie si commettono, sempre gli Ungheri si tengono per loro, e
combattono, partendosi a dieci o quindici insieme, chi a destra e chi a
sinistra, e corrono a fedire dalla lunga con le loro saette, e appresso
in su’ loro correnti cavalli si fuggono, e solieno andare senza insegna
o alcuna bandiera, e senza stromento da battaglia, e a certa percossa
di loro turcassi s’accoglievano insieme. Abbianne forse oltre al
dovere stesa nostra materia, ma perchè in questo nostro tempo si sono
cominciati a stendere nelle italiane guerre, non è male a sapere loro
condizione.


CAP. LV.

_Come l’oste si mantenea a Trevigi._

Stando il re d’Ungheria all’assedio di Trevigi, venne a lui messer Gran
Cane della Scala con cinquecento barbute di fiorita gente d’arme, e
ricevuto dal re graziosamente stette a parlamentare con lui in segreto,
e tornossi a Verona, lasciati al servigio del re que’ cavalieri che
menati avea con seco, avvegnachè il re, avendo troppa gente della sua,
non gli arebbe voluti, ma per cortesia gli ritenne. Messer Bernabò di
Milano gli mandò cinquecento balestrieri, i quali gli furono assai
a grado; e incontanente il re fece strignere l’oste intorno alla
città, e rizzarvi da diverse parti da diciotto difici, e cominciava
a volere fare cave per abbattere le mura, ma di quello quelli della
città poco si torneano, perocch’ell’è posta in piano, ed è quel piano
sì abbondante d’acqua viva, che non si può cavare braccia due in
profondo, che da catuna parte l’acqua surge abbondante e bella. Quelli
che dentro v’erano alla guardia della città per i Veneziani, vedendo
l’oste strignersi alle mura della città, francamente si mostrarono
apparecchiati alla difesa, e contro a’ trabocchi aveano fatti terrati
e altri utili ripari. Il re e ’l suo consiglio avendo provveduto la
terra intorno, conobbono che non era cosa possibile a volerla vincere
per battaglia, avendo difensori come la sentivano fornita, perocchè le
mura erano forti e alte, e molto bene provvedute e armate, e i fossi
larghi e pieni d’acqua viva. E per tanto non era da potere sperare
vittoria, se non per lungo assedio, e a questo si disponea la volontà
reale, ma la moltitudine de’ suoi Ungheri bestiali e baldanzosi
generava confusione, che non si poteano reggere nè tenere ordine; e
però avvenne, non ostante che il re col signore di Padova avesse pace e
concordia (per la quale mandava ogni dì grande quantità di pane cotto
all’oste in molte carra, e quattro carrette di vino per mantenere in
dovizia l’oste, senza quella vittuaglia che le singulari persone del
suo contado vi portavano) e in patto era che il suo contado e distretto
dovea essere salvo e sicuro da tutto l’esercito del re, che non ostante
le dette promesse gli Ungheri cavalcavano di loro movimento in sul
Padovano, uccidendo ardendo e rubando, e facendo preda come sopra i
nemici; onde il signore si turbò, e non mandò più nel campo l’ordinata
vittuaglia, e’ paesani per non essere rubati si rimasono di portarvene,
per la qual cosa il grande esercito cominciò a sentire difetto, e
sformata carestia delle cose da vivere oltre all’usato modo. Lasceremo
alquanto questa materia, per dare all’altre cose che occorsono alla
fine di questo assedio il loro debito.


CAP. LVI.

_Come la gran compagnia passò nella Marca._

All’uscita del mese di luglio del detto anno, il conte di Lando colla
sua compagnia uscì del Regno per la via della marina di san Fabiano.
La forza del legato ch’era in sul Tronto non si potè tanto stendere
che la compagnia inverso la marina non valicasse il fiume, e valicati
senza contasto, si dirizzarono verso Fermo, e tra la città d’Ascoli e
di Fermo posono loro campo; nel quale si trovarono duemilacinquecento
barbute ben montati e bene in arme, e gran quantità di cavallari e di
saccomanni in ronzini e in somieri, e mille masnadieri, e barattieri,
e femmine di mondo, e bordaglia da carogna bene più di seimila.
Essendosi accampati, sentirono come il legato era forte di gente d’arme
e apparecchiato a tenerli stretti dalle gualdane, e però cercarono
accordo con lui, e vennero a’ patti, che promisono in dodici dì essere
fuori della Marca d’Ancona, senza fare prede o danno al paese, e che
prenderebbono derrata per danaio, e’ paesani doveano apparecchiare la
vittuaglia al loro trapasso. Seguirono i patti, ma non del termine, e
dovunque tenevano campo non poteano fare senza grave danno de’ paesani;
e a dì 10 del mese d’agosto furono passati in Romagna.


CAP. LVII.

_De’ fatti dell’isola di Cicilia._

In questi tempi nell’isola di Cicilia avvenne, che essendo morto
Lodovico che si faceva dire re, e un suo fratello, ch’erano in guardia
della setta de’ Catalani, l’altra parte della setta degl’Italiani,
ond’erano capo i conti della casa di Chiaramonte, i quali s’erano
accostati col re Luigi di Puglia, presono più ardire, e’ Catalani e’
loro seguaci n’abbassarono; e per questo avvenne, che messer Niccola
di Cesaro con alquanti grandi cittadini di Messina i quali erano
stati cacciati di Messina vi ritornarono; e questo messer Niccola
essendo cacciato della terra, s’era ridotto di volontà del re Luigi
nel castello di Melazzo, e fatto capitano de’ cavalieri del detto re
Luigi per guardare il castello e guerreggiare i Messinesi. Costui
ritornato in Messina co’ suoi consorti e con altri di suo seguito,
molto segretamente si cominciò a intendere co’ caporali di Chiaramonte,
e all’entrata di luglio del detto anno, provveduto a’ suoi segreti,
fece muovere certi di sua setta, i quali cominciarono mischia con
quelli cittadini ch’erano avversari di messer Niccola, e che l’aveano
tenuto fuori di Messina. Essendo per questa novità la terra a romore,
come ordinato era, messer Niccola ebbe di subito da Melazzo dugento
cavalieri che v’erano del re Luigi e quattrocento fanti, i quali mise
nella città, e con loro e con suo seguito di cittadini corse la terra,
e caccionne fuori diciannove famiglie de’ suoi avversari, e tutti
gli fece rubare, e fecesene signore, non per titolo, ma come maggiore
governava il reggimento di quella. E così in tutte le parti dell’isola
erano dissensioni e brighe per le maladette sette, ma l’una calava e
l’altra montava con continove uccisioni e guastamento del paese; e già
per terre che ’l re Luigi v’avesse o per sua forza di gente, che ve ne
manteneva poca per povertà di moneta, lievemente montava al fatto. La
divisione de’ paesani mutava la loro fortuna, come seguendo nel loro
tempo si potrà vedere.


CAP. LVIII.

_Come il conte di Lancastro cavalcò fino a Parigi._

Del mese di luglio del detto anno, il conte di Lancastro con
due fratelli del redi Navarra, con quattromila cavalieri e molti
arcieri inghilesi, per fare maggiore onta al re di Francia, sentendo
s’apparecchiava di molta baronia, si misono a cammino, scorrendo i
paesi inverso la città di Parigi, facendo col fuoco gran danno alle
villate di fuori e predando in ogni parte, e misonsi tanto innanzi,
che a una giornata s’appressarono a Parigi. Sentendo che ’l re
s’apparecchiava di venire contro a loro con diecimila cavalieri e
grande popolo, diedono la volta girando il paese, e facendo continovi
danni e gravi si ridussono in Normandia a un castello che si chiamava
Bertoglio, innanzi al quale fermarono loro campo per difenderlo,
avvisando che ’l re di Francia il dovesse fare assediare, perocchè
tribolava col ricetto degl’Inghilesi tutta Normandia.


CAP. LIX.

_Come il re di Francia andò in Normandia._

Il re di Francia infocato di sdegno più contro a messer Filippo di
Navarra che gli era venuto addosso, che contro al duca di Lancastro,
sentendo che s’era ridotto nel Castello di Bertoglio sotto la guardia
degl’Inghilesi, di presente in persona si mosse da Parigi con quella
cavalleria ch’avea accolta, lasciando d’essere seguito dagli altri,
e dirizzossi in Normandia verso Bertoglio; e trovandosi con più di
diecimila cavalieri, e con grande moltitudine di sergenti, si mise
a campo presso a’ suoi nemici, a intenzione di combattere con loro.
Il conte di Lancastro avvisato guerriere, sentendosi il re appresso
con molto maggior forza che la sua, ebbe un suo avvisato scudiere e
ben parlante, il quale mandò al re di Francia, e fecelo richiedere di
battaglia. Il re allegramente ricevette il gaggio della battaglia,
facendo allo scudiere larghi doni; il quale volendo dimostrare
ch’avesse amore al re, in sul partire gli disse, che la venuta del
conte alla battaglia sarebbe innanzi dì, dicendogli, che per tempo si
dovesse apparecchiare. Il re mucciando gli disse, che di ciò non si
curava; venisse quando volesse, pure che venisse alla battaglia; ma le
parole dello scudiere furono molto piene di malizia, perocchè sapendo
che ’l conte la notte si dovea partire, disse questo acciocch’e’
Franceschi sentendo il movimento credessono che ciò fosse apparecchio
di battaglia e non di fuga, e così avvenne, che ’l conte di Lancastro,
e messer Filippo di Navarra in quella notte, facendo fare gran vista
nel campo e gran romore, chetamente si ricolsono, e partirono colla
loro gente. Il re la mattina scoperto il baratto degl’Inghilesi si
mise a oste al castello con proponimento di lasciare gli altri assalti
degl’Inghilesi, e attendere a racquistare le terre che rubellate gli
erano in Normandia. In questo tempo il duca di Guales faceva alle terre
del re di Francia grandi guerre in Guascogna, ma però il re non si
volle partire dall’assedio di Bertuglio infino a tanto che l’ebbe a’
suoi comandamenti, arrenduti al re salve le persone, e così fu fatto;
avendo il re vittoria d’avere cacciati con vergogna i nemici, e vinto
il castello.


CAP. LX.

_Come il papa e l’imperadore diedono titolo al re d’Ungheria._

In questi tempi mostravano il papa e’ cardinali grande affezione al
re d’Ungheria, o che fosse procaccio del detto re, che spesso avea in
corte suoi ambasciadori, o che motivo fosse della Chiesa per fargli
onore, a dì quattro del mese d’agosto del detto anno, il papa e i
cardinali di concordia in consistoro il pronunziarono e dichiararono
gonfaloniere di santa Chiesa contro agl’infedeli. In questo medesimo
tempo, essendo il detto re all’assedio di Trevigi, l’imperadore il fece
suo vicario nella guerra de’ Veneziani, ed egli levò nel campo la sua
insegna, e tutte le terre che per lui s’acquistavano riceveva in nome
dell’imperadore.


CAP. LXI.

_Come i Fiorentini s’accordarono di fare porto a Talamone._

Avemo narrato addietro, come il comune di Firenze per lo torto
ch’e’ Pisani faceano a’ suoi cittadini, d’avere levata loro la
franchigia contro a’ patti della pace, essendo venuto il termine che
i mercatanti s’erano partiti da Pisa, e ritrattone le mercatanzie e’
danari, del presente mese d’agosto del detto anno, avendo i dieci del
mare lungamente trattato col comune di Siena di volere far porto a
Talamone, recato l’acconciamento del porto e del ridotto in terra,
e della guardia, che da loro parte era a fare, e del dirizzamento
del cammino, e dell’albergherie, e appresso di quello che per dazio
e gabelle la mercatanzia de’ Fiorentini avesse a pagare, in piena
concordia, per riformagioni de’ consigli di catuno comune, si fermò
per dieci anni di fare i Fiorentini porto là e ridotto a Siena, e i
Sanesi di conservare i patti promessi. È vero, che tra gli altri patti
era promesso di sbandire le strade da Siena a Pisa per divieto d’ogni
mercatanzia, ma questo non osservarono i Sanesi, anzi correa il cammino
dall’una città all’altra in grande acconcio de’ Pisani. Avvedendosene
i Fiorentini, se ne dolsono, ma ’l reggimento del comune di Siena non
se ne movea. Vedendo de’ cittadini che voleano s’attenesse la fede al
comune di Firenze, e che i loro rettori non lo faceano, ordinarono,
che certi sbanditi loro cittadini rompessono e rubassono la strada e
la mercatanzia, e forse fu d’assentimento de’ rettori per coprirsi
al comune di Pisa. Costoro feciono volentieri il servigio per modo
che ’l cammino al tutto per terra fu loro tolto. E i Pisani sopra gli
altri Toscani saputi e maliziosi, a questa volta si trovarono presi
nella loro malizia; perocchè incontanente che i Fiorentini presono
porto a Talamone e ridotto a Siena, tutti gli altri mercatanti d’ogni
parte abbandonarono il porto e la città di Pisa, e votarono la città
d’ogni mercatanzia, e le case dell’abitazioni, e ’l mestiere delle
loro mercerie, e gli alberghi de’ mercatanti e de’ viandanti, e’
cammini de’ vetturali, e ’l porto delle navi, per modo che in brieve
tempo s’avvidono, che la loro città era divenuta una terra solitaria
castellana; e nella città n’era contro a’ loro rettori grande repetio.
Allora s’accorsono senza suscitamento di guerra quanto guadagno tornava
al loro comune per avere rotta la pace e la franchigia a’ Fiorentini.
Allora cominciarono a cercare ogni via e modo, con ogni vantangio che
volessono i Fiorentini, di ritornarli a stare in Pisa; ma i Fiorentini,
sdegnati della fede rotta pe’ Pisani cotante volte al loro comune, non
poterono essere smossi del fermo proposito di fare col fatto conoscenti
i Pisani, che i Fiorentini poteano ben fare le mercatanzie per terra
e per mare senza loro, ed eglino male usare il porto, e’ mercatanti,
e la mercatanzia, e l’arti, e’ mestieri a utilità de’ loro cittadini,
e l’entrate del loro comune senza i Fiorentini. E perchè per indietro
non si potessono atare, si fece divieto in tutto il distretto di
Firenze d’ogni mercatanzia o roba ch’andasse o venisse verso Pisa,
senza rompere il cammino a’ viandanti. E di questo seguitarono appresso
maggiori cose per mare e per terra, come leggendo innanzi per li tempi
si potrà trovare,


CAP. LXII.

_Come messer Bruzzi cercò di tradire il signore di Bologna._

Messer Bruzzi, figliuolo non legittimo che fu di messer Luchino signore
di Milano, essendo per sospetto de’ signori di Milano cacciato di
quella, e per sue cattive operazioni stato in ribellione più tempo,
vedendosi messer Giovanni da Oleggio molto solo di confidenti nella sua
signoria, e conoscendo messer Bruzzi pro’ e ardito, e bene avvisato in
guerra e di gran consiglio, il recò a sè, parendogli potersi confidare
di lui, e assegnogli larga provvisione, e facevagli onore, e tutte le
maggiori cose di fatti d’arme li commettea; e oltre a ciò in camera
l’avea a’ suoi segreti consigli, e mostravagli tanto amore, ch’e’
Bolognesi temevano, che se messer Giovanni morisse costui non rimanesse
signore; ma l’animo tirannesco affrettando l’ambizione della signoria
li gravava d’attendere, e però cercava di fornirlo più tosto, e trattò
di torre la signoria a messer Giovanni, ma non seppe fare il trattato
sì coperto che a messer Giovanni, ch’era maestro di buona guardia e di
savia investigagione, non li venisse palese. E tornando messer Bruzzi
di fuori con molta gente d’arme in Bologna con grande pompa, messer
Giovanni mandò per lui, e avendolo in camera, li rammentò l’onore
e ’l beneficio che gli avea cominciato a fare, e l’animo ch’avea di
farlo grande; e appresso li mostrò il trattato ch’e’ tenea per torli
la signoria di Bologna sì aperto, ch’e’ non glie lo potè negare: ma
per amore della casa de’ Visconti, dond’era nato, gli disse, che li
perdonava la morte; ma per vendetta dello sconoscimento dell’onore che
gli avea fatto trovandolo traditore il fece spogliare in giubbetto, e
cacciare a piè fuori di suo distretto incontanente, e diede congio a
tutta sua famiglia, e ritenne l’arme gli arnesi e i cavalli.


CAP. LXIII.

_Come i Veneziani cercarono accordo col re d’Ungheria._

Di questo mese d’agosto del detto anno, vedendo i Veneziani essere
recati a mal partito nella guerra col re d’Ungheria, signore di così
gran potenza, e pensando che per lo cominciamento della guerra i loro
cittadini erano per le spese loro premuti dal comune infino al sangue,
pensarono ch’altro scampo non era per loro se non di procacciare la sua
pace; e però elessono parecchi de’ maggiori e de’ più savi cittadini
di Vinegia, e mandaronli al re nel campo a Trevigi con pieno mandato,
informati dell’intenzione e volontà del loro comune, e giunti al re, da
lui furono ricevuti onorevolemente; ed essendo a parlamento con lui,
gli offersono da parte del comune di Vinegia, come quando potessono
avere da lui buona pace, che ’l comune lascerebbe la città di Giara,
con patto ch’ella dovesse rimanere nel primo stato in sua libertà,
e che renderebbono liberamente certe terre nomate della Schiavonia
a sua volontà, e certe altre voleano ritenere e riconoscere da lui,
con quello convenevole censo a dare ogn’anno al re ch’a lui piacesse,
e offerendoli di ristituire per tempo ordinato quella quantità di
pecunia per suoi interessi e spese che fosse convenevole, e di che egli
giustamente si potesse contentare. Al re parve strano ch’e’ volessono
trarre Giara del suo reame e metterla in libertà, e che per patto li
convenisse lasciare le sue terre al comune di Vinegia a censo; e questo
riputava in vergogna della sua corona, e però non volle consentire
a questa pace, nè a questo accordo, se liberamente non gli fossono
restituite le terre del suo reame. Molti di questo biasimarono il re,
parendo ch’egli dovesse avere preso questo accordo con suo vantaggio,
per quello ch’appresso ne seguitò di suo poco onore, ma chi riguarderà
al fine e alla potenza reale non li darà biasimo della sua alta
risposta.


CAP. LXIV.

_Come il signore di Bologna scoperse un altro trattato contro a sè._

Messer Bernabò di Milano, avendo sopra all’altre cose cuore a’ fatti
di Bologna, come avea ordinato l’uno trattato contro al signore di
Bologna, e era scoperto, così avea ricominciato l’altro: apparve cosa
maravigliosa, che tutti si scoprivano per sè stessi per non pensati nè
provveduti modi. Avea in questi dì messer Giovanni da Oleggio fatto
podestà di san Giovanni in Percesena, e datali provvisione in altre
terre circustanti, un Milanese, in cui avea grande e antica confidanza.
Tanto seppe adoperare messer Bernabò, che corruppe questo podestà
milanese, e corruppe il suo cancelliere, il quale dovea fare lettere
da parte del signore per certo modo come volea il detto podestà; e già
ogni cosa era recata in opera per modo, ch’era mossa la cavalleria che
dovea entrare nelle castella sotto il titolo delle lettere del signore
di Bologna, e mandò messer Bernabò un suo fidato messaggere innanzi
al podestà di san Giovanni colle sue lettere. Avvenne che in quel dì,
alcune ore innanzi che ’l fante giugnesse al castello di san Giovanni,
il podestà era ito a Bologna; il fante li tenne dietro, e cominciò
infra sè a dubitare delle lettere che portava, perocchè sentiva della
cagione perch’egli andava; e giunto a Bologna, trovo che ’l podestà
era col signore, e allora li montò più il sospetto, immaginando
che ’l trattato fosse scoperto, e per campare sè, tanto fu forte la
sua immaginazione ch’e’ si mise ad andare al signore, e con grande
improntitudine fece d’avere udienza da lui, e allora li manifestò il
fatto; e per provare la verità li diè le lettere di messer Bernabò
ch’e’ portava al podestà, per le quali fu manifesto che san Giovanni,
e Nonantola e altre castella, in uno dì doveano essere date per lo
trattato del podestà alla gente di messer Bernabò, il quale era ancora
in casa del signore; messer Giovanni vedute quelle lettere e disaminato
il fante, fece ritenere il podestà e il cancelliere, è ritrovata
con loro la verità del fatto, e colpevoli, di presente provvide alla
guardia delle terre, e costoro con anche dieci di loro seguito fece
morire.


CAP. LXV.

_Di certa novità che gli Ungheri feciono nel campo a Trevigi._

La disordinata moltitudine de’ cavalieri ungheri, che a modo di
gente barbara non sanno osservare la disciplina militare, nè essere
ubbidienti a’ loro conducitori, come detto è poco addietro, aveano
scorso il Padovano, perchè la vittuaglia che di là solea venire non
venia, e la carestia montava nel campo. Per la qual cosa al primo
fallo n’arrosono uno maggiore, e presono riotta co’ cavalieri tedeschi
che v’erano con messer Currado Lupo e con gli altri conestabili
tedeschi che fedelmente servivano il loro signore, e per arroganza
li villaneggiavano; e fatto questo, corsono con furore alla camera
dove il re avea ordinato il fornimento della vittuaglia e dell’altre
cose per conservare l’oste, e rubaronla; e così in pochi dì ebbono a
tanto condotta l’oste, sconciando l’ordine che la mantenea, che per
necessità fu costretto il re di partirsi dall’assedio, come appresso
diviseremo: verificandosi quel detto del filosofo il quale disse: che
le sopragrandi cose reggere non si possono, e quelle che reggere non si
possono, lungamente durare non possono.


CAP. LXVI.

_Come il re d’Ungheria si levò da oste da Trevigi._

Il re d’Ungheria vedendo l’oste sua sconcia per la sfrenata baldanza
della moltitudine de’ suoi Ungheri, e che i difetti della vittuaglia
erano senza rimedio, si pentè di non avere presa la concordia
che potuta avea prendere con suo onore co’ Veneziani; ed essendo
naturalmente di subito movimento, senza deliberare con altro consiglio,
improvviso a tutti, a dì 23 del mese d’agosto del detto anno si
partì dall’assedio di Trevigi, ov’era con più di trecento migliaia di
cavalieri, è passò la Piave raccolta tutta sua gente a salvamento;
perocchè quelli della città nè segno nè avviso n’ebbono ch’e’ si
dovesse partire, e alcuni dì stettono innanzi che pienamente si potesse
credere la loro partita. A Colligrano fu la loro raccolta, e in quella
terra lasciò duemila cavalieri ungari alla guardia della terra per
fare guerra a Trevigi, ed egli con tutto l’altro esercito si tornò in
Ungheria con poco onore della sua impresa a questa volta.


CAP. LXVII.

_Raccoglimento di condizioni, e movimento del re._

Questo re d’Ungheria, per quella verità che sapere ne potemmo, è uomo
di gran cuore, pro’ e ardito di sua persona, e nelle prosperità di
grandi imprese molto animoso, rigido e fiero in quelle, e molto si fa
temere a’ suoi baroni, e vuole avere presti i loro debiti servigi; è
grande impigliatore senza debita provvedenza; e a sua gente in fatti
d’arme è più abbandonato e baldanzoso che provveduto, per la soperchia
fidanza, che havea in loro ed eglino in lui, perocchè molto è cortese
a tutti e di buona aria; assai volte ha mostrati esempi di subiti e
lievi movimenti nelle grandi cose, e l’avverse sa meglio abbandonare,
partendosi da esse, che stando con virtù resistere a quelle.


CAP. LXVIII.

_Come la gente della lega di Lombardia sconfisse il Biscione a Castel
Lione._

Essendo lungamente stato assediato il forte Castel Leone de’ Mantovani
dalla forza de’ signori di Milano, e recato a stretto partito, i
signori di Mantova coll’aiuto del marchese di Ferrara e del signore
di Bologna raunate subitamente, all’uscita d’agosto anno detto, mille
dugento barbute e grande popolo per soccorrere il castello, s’avviarono
molto prestamente verso il campo de’ nemici, i quali vedendosi venire
improvviso addosso i Mantovani si levarono dall’assedio, e ordinarono
una grossa schiera alla loro riscossa e innanzi che la gente de’
Mantovani giugnesse al campo, si ridussono a uno castello ivi presso
de’ loro signori di Milano; ma la schiera fatta per la riscossa fu
soppressa dalla gente de’ Mantovani e sconfitta, e morti e presi la
maggior parte, e ’l castello liberato dall’assedio; e rifornito di
nuova gente e di molta vittuaglia con vittoria si tornarono al loro
signore, avendo vituperata la gente de’ signori di Milano di quella
loro lunga impresa.


CAP. LXIX.

_Trattati de’ Ciciliani._

Detto abbiamo addietro, come certi potenti cittadini della città di
Messina nominati que’ di Cesare cacciarono della città altri cittadini
loro avversari, e rimasi i maggiori, s’accostarono co’ baroni di
Chiaramonte, i quali teneano col re Luigi del Regno. Nondimeno perchè
a loro parea essere nell’isola i maggiori, eziandio senza l’aiuto del
detto re, e’ cercarono di riducere a loro Federigo loro legittimo
signore, e trarlo delle mani de’ Catalani, e conducerlo a Messina
e farlo coronare dell’isola. E per dimostrare che eglino avessono
affezione al loro signore naturale dell’isola, messer Niccola di Cesaro
in persona, a cui il re Luigi avea accomandata la terra di Melazzo,
andò là con gente d’arme, e fece per più di combattere coloro che
per lo re guardavano la rocca, tanto che l’ebbe. Per la qual cosa i
Messinesi presono molta confidanza di messer Niccola, e don Federigo
medesimo prese speranza e diede intenzione di venire a Messina, e per
tutto si divolgò che l’accordo di Cicilia era fatto. Ma o che questo
trattato fosse fatto ad ingegno di malizia, come si credette, o che
la setta de’ Catalani non si fidasse, la cosa si ruppe tra’ Ciciliani,
e seguitonne la chiamata a Messina del re Luigi, come appresso al suo
tempo, conseguendo nostra materia, diviseremo.


CAP. LXX.

_Come la compagnia stette sopra Ravenna._

Venuta la compagnia del conte di Lando del Regno in Romagna, il
legato per tema de’ baratti di quella gente senza fede si ritrasse
dall’assedio di Cesena, e dalla cominciata guerra contro al capitano
di Forlì, pensando saviamente i pericoli che occorrere li poteano.
Il capitano a quella compagnia dava il mercato, e a’ capitani e
a’ maggiori conestabili facea doni per avere il loro aiuto: e la
moltitudine di quello esercito si stava in sul contado di Ravenna
facendo danno di prede, e minacciando di dargli il guasto, se ’l loro
signore messer Bernardino da Polenta non desse loro danari. Ma egli,
essendo molto ricco di moneta, chiamò a consiglio i Cittadini di
Ravenna; e con loro ordinò il modo dell’ammenda del guasto, e volle in
questo caso, come valoroso tiranno, innanzi sodisfare il danno a’ suoi
cittadini, che sottomettersi al tributo della compagnia. Onde molto
fu commendato da’ savi; perocchè del guasto la compagnia fa danno a sè
senza trarne alcun frutto, e il trarre danari da’ signori e da’ comuni
è un accrescere baldanza e favore a mantenere le compagnie e servaggio
de’ popoli.


CAP. LXXI.

_Come i Fiorentini ordinarono di fare balestrieri._

Sentendo i Fiorentini la gran compagnia in Romagna, e che ’l termine
promesso per quella di non gravare i Fiorentini compieva, si provvidono
d’alquanti cavalieri, e mandaronli in Mugello per contradire i passi
dell’alpe, e feciono eletta nella città e nel contado di balestrieri, e
del mese di luglio del detto anno feciono mostra di duemilacinquecento
balestrieri sperti del balestro, tutti armati a corazzine, e mandaronne
a’ passi dell’alpe, e senza arresto, ne compresono appresso fino
in quattromila, tutti con buone corazzine, della qual cosa le terre
vicine ghibelline, e guelfe di Toscana, che allora viveano in sospetto,
stavano in gelosia e in guardia, e la compagnia medesima ne cominciò a
dottare. Nondimeno il comune, per savia e segreta provvidenza, mandò
alcuni cittadini per ambasciadori alla compagnia, i quali teneano
ragionamento di trattato, e passavano tempo, e tentavano con ispesa
di trarre de’ caporali della compagnia e conducergli a soldo; e per
questo modo temporeggiando co’ conducitori di quella, tanto che il
grano e i biadi del nostro contado fu fuori de’ campi, e ’l comune
fortificato di cavalieri, e masnadieri, e balestrieri, e presi i passi
in tutta l’alpe, ove potea essere il passo alla compagnia, si ruppono
dal trattato, e tornaronsi a Firenze. La compagnia, sentendo il comune
di Firenze provveduto contro a sè, con accrescimento di sdegno perdè
la speranza d’entrare a fare la ricolta tributaria in Toscana, e però
tenne co’ Lombardi suo trattato, il quale fornì, come innanzi al suo
tempo racconteremo.


CAP. LXXII.

_L’ordine ch’e’ Fiorentini presono per mantenere i balestrieri._

Piacendo a’ Fiorentini molto il nuovo trovato de’ balestrieri, il
fermarono con ordine, e nella città n’elessono ottocento, tutti
balestrieri provati, partendoli per gonfalone, e a venticinque davano
un conestabile, e le balestra e le corazze di catuno inarcavano del
marco del comune, e per simile modo n’elessono nel contado, dandone
secondo l’estimo cotanti per cento, e appresso nel distretto ne
feciono scegliere a catuna comunanza, terra o castello quelli che si
conveniano, tanti che in tutto n’ebbono quattromila; e ordinarono
per li loro soldi certa entrata del comune, e che catuno de’ detti
balestrieri, non andando al servigio del comune, standosi a casa
sua avesse ogni mese soldi venti di provvisione dal comune, e ’l
conestabile soldi quaranta, e dovessono stare apparecchiati a ogni
richiesta del comune; e quando il comune li mandasse o tenesse in suo
servigio, dovessono avere il mese fiorini tre di soldo, e ogni capo di
tre o di quattro mesi erano tenuti a volontà degli uficiali deputati
sopra loro, ch’erano due cittadini per catuno quartiere, colle loro
balestra e colle corazze marcate del marco del comune. E oltre a ciò,
a ogni rassegnamento gli uficiali facevano fare per ogni gonfalone
un bello e nobile balestro e tre ricche ghiere, il quale poneano in
premio e in onore di quel balestriere della compagnia del gonfalone,
che tre continovi tratti saettando a berzaglio vinceva gli altri; e
ancora così faceano ne’ comuni del contado per esercitare gli uomini,
per vaghezza dell’onore, a divenire buoni balestrieri; e fu cagione di
grande esercitamento del balestro, tanto che tra sè nella città e nel
contado ogni dì di festa si ragunavano insieme i balestrieri a farne
loro giuoco e sollazzo per singulare diporto.


CAP. LXXIII.

_Come i Trevigiani furono soppresi dagli Ungheri con loro grave danno._

Tornando un poco nostra materia, a’ fatti di Trevigi, avendo veduto
coloro ch’erano per i Veneziani alla guardia di Trevigi la subita
partita del re d’Ungheria e del suo grande esercito, cominciarono a far
tornare i lavoratori nel contado, e conducervi il bestiame, e sparti
per le contrade. Gli Ungheri ch’erano rimasi a Colligrano e per le
terre vicine, sentendo il paese pieno di preda, mandarono scorrendo di
loro Ungheri fino presso a Trevigi intorno di quattrocento cavalli, i
quali raunarono d’uomini e di bestiame una grande preda; i cavalieri
e’ balestrieri ch’erano in Trevigi con loro capitani veneziani, per
risquotere la preda gagliardamente uscirono fuori più di cinquecento
cavalieri e assai masnadieri, i quali di presente s’aggiunsono con
gli Ungheri; ed eglino si cominciarono a difendere andando verso i
nemici, e voltando e appresso ritornando; e continovo si ritraevano,
ove sapevano ch’era l’aguato della loro gente, non facendone alcuno
sembiante; e così continuando, e perseguitandoli i Trevigiani, gli
ebbono condotti dov’erano riposti in aguato ottocento de’ loro Ungheri,
i quali di subito uscirono addosso a’ Trevigiani, e rinchiusi tra loro,
più di dugento n’uccisono in sul campo, e presonne più di trecento, e
menaronsene i prigioni e la preda, avendo più danno fatto a’ Veneziani
e a quelli del paese in questa giornata, che il re nell’assedio con
tutto il suo esercito; e questo fu a dì 23 del mese d’agosto anno
detto.


CAP. LXXIV.

_Come il Regno era d’ogni parte in guerra._

Essendo, come detto abbiamo poco innanzi, uscita la compagnia del
reame, il re rimaso povero d’avere e di gente d’arme non potea riparare
alla forza de’ ladroni che per tutto scorrevano il reame, ricettati da’
baroni ch’erano scorsi a mal fare, e partivano le ruberie e le prede
con loro; e di verso le parti di Campagna centocinquanta cavalieri,
ch’erano rimasi della compagnia, tribolavano tutto il paese d’intorno,
e rubavano e rompevano le strade e’ cammini, e così gli altri caporali
de’ ladroni facevano in principato e in Terra di Lavoro; e in Puglia il
paladino col favore del duca di Durazzo, faceva il simigliante, e con
ottocento barbute avea assediato Sanseverino, scorrendo e rubando tutto
il piano di Puglia; e per questo il Regno era in maggiore tempesta che
quando v’era la gran compagnia, e niuno cammino v’era rimaso sicuro;
catuna parte del Regno era corrotta a mal fare, fuori che le buone
terre, per gran colpa della mala provvedenza del re loro signore, che
fuori de’ suoi diletti poco d’altro si mostrava di curare.


CAP. LXXV.

_Come i collegati condussono la compagnia al loro soldo._

La compagnia del conte di Lando stando lungamente sopra il contado di
Ravenna, e premendo per via d’aiuto gravemente i Forlivesi, conosciuto
che per lo riparo e provvedenza del comune di Firenze a loro era
malagevole e pericoloso entrare in Toscana, s’accordarono d’andare
a servire i collegati contro a’ signori di Milano in Lombardia; e
condotti per quattro mesi per quelli della lega, promisono di stare
il detto tempo sopra le terre de’ signori di Milano guerreggiando il
paese a loro utilità; e a dì 18 del mese di settembre anni Domini 1356
si partirono di Romagna, e presono loro cammino in Lombardia, e tra
Bologna e Modena attesono l’altra forza de’ collegati e ’l capitano
ch’appresso diviseremo.


CAP. LXXVI.

_De’ fatti de’ collegati di Lombardia._

Erano in questo tempo collegati contro a’ signori di Milano il signore
di Mantova, il marchese di Ferrara e ’l signore di Bologna, nominati
caporali, avvegnachè assai degli altri tacitamente teneano con loro; e
avendo procacciato d’avere la compagnia al loro servigio, come detto è,
trattarono coll’imperadore d’avere capitano da lui a quell’impresa, e
l’imperadore avendo l’animo contro a’ signori di Milano, i quali avea
trovati molto potenti, avendo in Pisa per suo vicario messer Astorgio
Marcovaldo vescovo d’Augusta, uomo valoroso in arme e di grande
autorità, per non volersi scoprire manifestamente contro a’ tiranni,
concedette la libertà al vescovo, e in segreto l’ordinò suo vicario,
e a ciò li concedette tacitamente suoi privilegi, commettendoli che
ciò non manifestasse se non quando sopra loro si vedesse in gran
prosperità, sicchè con onore dell’imperio il potesse fare, altrimenti
nol facesse, ma mostrasse da sè fare quell’impresa. Costui chiamato
dalla lega de’ Lombardi si partì da Pisa e venne a Firenze, ove li
fu fatto grande onore; e senza soggiorno se n’andò alla compagnia, e
fu fatto loro conduttore, e dell’altra gente de’ Lombardi collegati;
il quale valentemente s’ordinò contro a’ tiranni, e fece grandi cose,
come appresso narreremo; ma richiedendoci innanzi alcune cose grandi
conviene che prima abbiano il debito della nostra penna.


CAP. LXXVII.

_Come i Brabanzoni ruppono i patti a’ Fiamminghi._

Avendo poco innanzi narrato la concordia che si prese in luogo
dell’apparecchiata battaglia tra’ Fiamminghi, e’ Brabanzoni per lo
fatto di Mellina, seguita, che gli otto albitri eletti, quattro da
catuna parte, sotto la fede del loro saramento, aveano diligentemente
vedute, e disaminate le ragioni di catuna parte; e trovando di
concordia tutti gli albitri la ragione della villa di Mellina essere
del conte di Fiandra, e così essere acconci di sentenziare per
osservare il loro saramento; il duca di Brabante, rompendo la fede
promessa, mandò per fare pigliare i quattro suoi Brabanzoni ch’erano
albitri, acciocchè non potessono dare la sentenza, e due ne presono, e
due se ne fuggirono. Per questa cosa il conte di Fiandra, e’ Fiamminghi
si tennono traditi da’ Brabanzoni e dal loro duca, e di presente
mossono guerra nel paese. Ed essendo alquanti cavalieri fiamminghi
entrati in Brabante guerreggiando, i Brabanzoni si misono con maggiore
forza contro a loro, e rupponli, e uccisono ottanta cavalieri, e più
altri ne imprigionarono. E aggiunto alla prima ingiuria il secondo
danno e vergogna de’ Fiamminghi, s’infiammarono tutti di tanto sdegno,
che per comune tutti diedono luogo a’ loro mestieri, e intesono ad
apparecchiarsi in arme per andare contro a’ Brabanzoni, onde uscirono
notabili cose come appresso racconteremo.


CAP. LXXVIII.

_Come il conte di Fiandra andò sopra Brabante._

È da sapere, per meglio intendere quello che seguita, che non per nuovo
accidente, ma per antica virtù, e continovata ambizione, il popolo
Fiammingo era più pro’ e più sperto e audace in fatti d’arme che il
popolo brabanzone, e i cavalieri brabanzoni più sperti e più atti in
fatti d’arme ch’e’ cavalieri fiamminghi. Ma recando a sè il popolo
fiammingo l’ingiuria ricevuta da’ Brabanzoni, nell’impeto del furore
del suo animo, come un uomo, s’accolsono insieme più di centocinquanta
migliaia d’uomini, tutti armati a modo di cavalieri, e con loro il
conte loro signore con quattromila cavalieri, e raccolto grandissimo
carreaggio carico di vivanda, e d’armadura a dì 9 d’agosto anno detto
presono loro cammino per entrare in Brabante, e a dì 12 del detto mese
si trovarono sopra la gran città di Borsella, presso a mezza lega, e
ivi fermarono loro campo, scorrendo il paese d’intorno, e facendo assai
danno a’ paesani.


CAP. LXXIX.

_Come il duca di Brabante si fè incontro a’ Fiamminghi._

Il duca di Brabante, il quale era Tedesco, fratello uterino di Carlo
di Boemia imperadore, avendo in animo di non volere, Mellina al conte
rendere attendendo la guerra, avea richiesto d’aiuto l’imperadore,
e molti altri principi della Magna, e a questo punto si trovò da
diecimila o più buoni cavalieri tedeschi e brabanzoni, e tutto il
popolo di Brabante si mise in arme, e trovossi il duca a questo bisogno
cento migliaia di Brabanzoni a piè bene armati. E vedendosi i nemici
all’uscio, a dì 17 del detto mese d’agosto uscirono a campo fuori della
villa di Borsella, e misonsi a campo a rimpetto de’ Fiamminghi presso
a un mezzo miglio: e cominciarono a ordinare la loro gente, e disporla
per battaglie a piè, e a cavallo; perocchè ben conosceano che l’impresa
era tale, che non riceveva altro termine che la vittoria della
battaglia a cui Iddio la concedesse. In questo ordinare stettono dalla
mattina a nona; mezzani non si poteano in questo fatto tramettere per
la fede altra volta rotta pe’ Brabanzoni, catuna parte s’acconciava di
combattere, e tanto era presso l’un’oste all’altra, che battaglia non
vi potea mancare.


CAP. LXXX.

_Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni._

I Fiamminghi, ch’erano infocati per l’ingiurie ricevute, vedendosi i
nemici così di presso, e sentendo tra loro gran romore, avvisandosi
che per discordia si dovessono partire, senza attendere che venissono
schierati al campo, valicata l’ora della nona, si misono ad assalirgli.
E cominciato un grido tutti insieme a loro costuma, che trapassava
il cielo vincendo ogni tonitruo, e giugnendo a’ nemici, i quali
aveano incominciata alcuna discordia tra’ Tedeschi e’ Brabanzoni, gli
assalirono con grande ardimento; e cominciata tra loro la battaglia,
avvenne per caso, e non per operazione de’ nemici, che l’insegna del
duca di Brabante si vide abbattuta. Veduto questo i Brabanzoni a piede
in prima si misono alla fuga, e i cavalieri appresso volsono le reni
a’ nemici senza fare alcuna resistenza, e intesonsi a salvare nella
città ch’era loro presso; i Fiamminghi affannati per la corsa al
primo assalto, e carichi d’arme, non li poterono seguire, e per questa
cagione pochi ne morirono in sul campo, ma più n’annegarono, gittandosi
a passare il fiume coll’armi indosso; ma tra tutti i morti in sul
campo e annegati nel fiume appena aggiunsono al numero di cinquecento,
che fu di così grande esercito gran maraviglia, e de’ Fiamminghi non
morì alcuno di ferro, cosa quasi, incredibile a raccontare, ma così fu
per la grazia di Dio, che non assentì tra loro maggiore effusione di
sangue.


CAP. LXXXI.

_Come il conte di Fiandra ebbe Borsella._

Il duca di Brabante fuggendo co’ suoi cavalieri tedeschi entrò in
Borsella, e tanta paura gli entrò nell’animo per la fede rotta a’
Fiamminghi, che non ebbe cuore di ritenersi in Borsella, ma di presente
senza ordinarla a difesa o a guardia se ne partì, e andossene in
Loano. Il conte, avendo vittoriosamente rotti e cacciati del campo i
suoi nemici, vedendo i suoi Fiamminghi per la vittoria baldanzosi e di
grande volontà a seguire innanzi, di presente in quel giorno se n’andò
a Borsella. I gentili uomini e i grandi borgesi di quella villa aveano
per addietro ordinato, che tutti gli artefici de’ mestieri stessono
fuori della città in grandi borghi che v’erano, per novità che v’erano
di loro riotte alcuna volta avvenute in pericolo della villa, e in
questa rotta non gli aveano lasciati rifuggire dentro. I borghi erano
grandi a maraviglia cresciuti per li mestieri, ed erano pieni e forniti
d’ogni bene. Il conte avendo in fuga i suoi nemici senza contasto
s’entrò ne’ borghi facendo alcuna uccisione, e comincionne ad affocare
uno, e disse, che tutti gli arderebbe se la terra non facesse i suoi
comandamenti. Gli artefici ch’abitavano ne’ borghi, e aveano di fuori
e nella villa di loro gente, e avendo già in loro balìa l’una delle
porte, dissono a’ borgesi, che non intendeano essere diserti colle loro
famiglie per loro, e che se di presente non facessono i comandamenti
del conte, che per forza il metterebbono nella villa. Per la qual
cosa vedendosi i borgesi dentro a mal partito, elessono di concordia
di volere innanzi essere all’ubbidienza del conte, che di lasciarsi
prendere per forza da’ Fiamminghi e da’ loro propri cittadini, e
guastare la città di sangue e di ruberia; e di presente elessono
ambasciadori, e mandaronli ne’ borghi al conte, che voleano ubbidire
a’ suoi comandamenti, promettendo salvarli d’uccisione e di ruberie,
e così fu fatto; e di presente furono aperte le porte, ed entrovvi il
conte e chi volle de’ Fiamminghi, ricevuti con grande onore da tutta
la villa, e apparecchiato loro come ad amici ciò che era di bisogno,
il conte ne prese la signoria dolcemente, e ordinovvi il reggimento e
la guardia come a lui parve; e rinfrescata la sua gente, il terzo dì
coll’empito della sua prospera fortuna si mosse da Borsella co’ suoi
Fiamminghi, e andò a Villaforte, la quale come che molto fosse forte e
difendevole a battaglia, sentendo che Borsella s’era renduta, e che il
loro signore si fuggiva e non facea riparo, per non tentare maggiore
fortuna s’arrendè a’ comandamenti del conte, il quale la ricevette
benignamente. E la villa di Mellina, per cui era stato la cagione della
guerra, senza attendere che l’oste v’andasse s’arrenderono al conte,
e ricevettonlo per loro signore, e ordinaronsi per tutto a fare i suoi
comandamenti.


CAP. LXXXII.

_Come il conte di Fiandra ebbe tutto Brabante a suo comandamento._

Il duca di Brabante, vilmente abbattuto per la sua corrotta fede,
e poco amato perchè era Tedesco, avendo sentito come Borsella e
Villaforte aveano fatto i comandamenti del conte, non si fidò in
Loana nè in alcuna terra di Brabante, ma colla moglie, e colla sua
famiglia, e co’ suoi arnesi s’uscì di tutta la provincia di Brabante
e ridussesi in Alamagna, abbandonando così ricco e nobile paese per
sua codardia. Il conte sentendo partito il duca, crebbe in ardire
co’ suoi Fiamminghi, e dirizzossi verso Anversa: quelli d’Anversa
feciono vista di volersi difendere: il conte non volle quivi fare sua
pruova, e lasciata Anversa, se n’andò a Loano, affrettandosi prima che
potessono mettere consiglio alla loro difesa. Quelli di Loano vedendosi
abbandonati dal duca loro signore, e male provveduti alla subita
guerra, e che l’altre buone ville di Brabante s’erano arrendute al
conte, e che da lui erano bene trattati, per non ricevere il guasto nè
maggiore danno s’arrenderono al conte, e con pace il misono nella città
con gran festa ed onore; ed entrato in Loano, incontanente Anversa,
e tutte le buone ville e castella della provincia di Brabante, si
misono all’ubbidienza del conte e feciono i suoi comandamenti; e così
in pochi giorni del rimanente del mese d’agosto del detto anno, dopo
la sconfitta de’ Brabanzoni, fu il conte di Fiandra messer Lodovico
signore a cheto di tutta la ducea di Brabante; e dato ordine a loro
reggimento, e fatti uficiali in tutte le terre, e messovi quella
guardia ch’a lui parve a conservagione del paese, e fornito Mellina con
più sua fermezza e guardia, perchè era propria villa di suo dominio,
con allegra e piena vittoria, di letizia e non di sangue, co’ suoi
Fiamminghi si tornò in Fiandra, accresciuto altamente il suo onore e la
fama de’ suoi Fiamminghi.


CAP. LXXXIII.

_Perchè si mosse guerra dagli Spagnuoli a’ Catalani._

Era in questi dì il re Petro di Castella giovane, e più pieno di
dissolute volontà che d’oneste virtù, e molto era stemperato nella
concupiscenza delle femmine; e dilettandosi con una sopra l’altre, non
bastandogli le grandi camere e’ nobili verzieri a suo diletto, si mise
a diporto con lei in mare in su un legno armato non di gran difesa;
e andandosi sollazzando in alto mare, una galea armata di Catalani
passava per quella marina, e vedendo il legno armato, si dirizzò a lui,
e domandava di cui fosse il legno e la mercatanzia che su v’era carica:
il re per isdegno non volea che risposta si facesse; per la qual cosa
i Catalani più si sforzavano di volerlo sapere, e non potendone avere
risposta, s’appressarono al legno, e cominciarono a saettare; e vedendo
da presso che gli uomini erano Spagnuoli, senza mettersi più innanzi si
partirono, e seguirono loro viaggio. Il re rimase di questo con grande
sdegno; e poco appresso avvenne, che in Sibilia arrivarono galee armate
di Catalani, i quali aveano guerra co’ Genovesi, e trovando nel porto
alquanti mercatanti di Genova, li presono, e raddomandandoli il re di
Spagna, non li vollono rendere. E questa cagione più giusta infiammò
più l’animo del re per modo, che immantinente per mare e per terra
cominciò a’ Catalani nuova guerra; e incontanente fece armare dodici
galee, e mandò scorrendo le marine fino nel porto di Maiolica, ardendo
e mettendo in fuoco quanti legni di Catalani poterono trovare per tutta
la riviera di Catalogna. E in questi dì, le quindici galee bandeggiate
di Genova per la presura di Tripoli, avendo per uscire di bando a
guerreggiare tre mesi i Catalani, feciono in Catalogna e nell’isola
di Maiolica danno assai. E ’l re di Castella per terra con gran forza
di suoi cavalieri venuto alle frontiere di Catalogna improvviso a’
Catalani, fece loro d’arsioni e di prede danno grande. Per la qual
cosa d’ogni parte s’apparecchiò grande sforzo di gente d’arme, e catuno
richiese gli amici per conducersi a battaglia, come seguendo appresso
nel suo tempo racconteremo.


CAP. LXXXIV.

_Di gran tremuoti furono in Ispagna._

In questo anno 1356 all’uscita del mese di settembre, e alquanti dì
all’entrata d’ottobre, furono in Ispagna grandissimi terremuoti, i
quali lasciarono in Cordova e in Sibilia grandi e gravi ruine di molti
dificii in quelle due grandi città, e nelle loro circustanze, nelle
quali perirono uomini, e femmine, e fanciulli in grandissimo numero,
facendo sepoltura delle loro case. E questi medesimi tremuoti feciono
nella Magna grandi fracassi, che quasi tutta Basola, e un’altra città
feciono rovinare con grande mortalità de’ loro abitanti. In Toscana in
questi medesimi dì si sentirono, ma piccoli e senza alcuno danno.



LIBRO SETTIMO


CAPITOLO PRIMO.

_Il Prologo._

Chi potrebbe con intera mente nel futuro ricordare i falli, e gli
orribili peccati che si commettono per la sfrenata licenza de’ principi
e de’ signori mondani (lasciando le minori e le mezzane cose che
per loro spesso senza giustizia si fanno) se la brevità del tempo
dell’umana vita non togliesse l’esperienza, che per giustizia si
dimostra nel mondo? Si maravigliano eziandio i savi quando avvenire
veggono traboccamenti di potentissimi re e d’altri grandi signori,
de’ quali avendo memoria de’ commessi mali non ammendati per tempo
conceduto dalla divina grazia, ma piuttosto aggravati da que’ medesimi
signori e da’ loro successori per disordinata presunzione, non
recherebbono a maraviglia quello ch’avviene, ma a misericordievole
gastigamento dalla divina mansuetudine e giustizia, che per non perdere
l’anime eternalmente, temporalmente percuote e flagella, acciocchè
per le loro rovine, e pe’ loro trabocchevoli casi si riconoscano,
e correggano e ammendino. E apparecchiandosi al nostro trattato
il cominciamento del settimo libro, alcuna particella di quello
torneremo addietro, per dimostrare esempio delle cose qui narrate,
per la successione che seguita a raccontare del grave caso occorso al
re Filippo di Francia e al suo reame, e appresso al re Giovanni suo
figliuolo.


CAP. II.

_Come il re di Francia prese la croce per fare il passaggio._

Non è nascoso in antica memoria a’ viventi del nostro tempo, che per
l’operazioni inique e crudeli, nate da invidia e da somma avarizia de’
reali di Francia dello stocco anticato nella successione reale, onde
fu il re Filippo dinominato il Bello, coll’aggiunta della sfrenata
libidine delle loro donne, che a Dio piacque di porre termine a
quello lignaggio. Rimasene sola la reina d’Inghilterra madre del
valoroso re Adoardo di quell’isola, per la cui successione il detto
re d’Inghilterra fece la guerra co’ Franceschi, come per lo nostro
anticessore nella sua cronica, e appresso per noi in questa è in gran
parte raccontato. Essendo venuti meno tutti i reali, messer Filippo,
figliuolo che fu di messer Carlo di Valois detto Carlo Senza terra,
prese la signoria, e fecesi coronare re di Francia. E trovandosi re
di così grande ricco e potentissimo reame, e senza alcuna guerra, e
trovandosi in grande amore del sommo pontefice e de’ cardinali di santa
Chiesa, il detto re Filippo, simulando singulare affezione di volere
imprendere e fare il santo passaggio d’oltremare per acquistare la
terra santa, di suo movimento prese con molti baroni di suo reame la
croce in pubblico parlamento, e sommosse a pigliarla altri re, prenzi,
duchi e baroni, conti e gran signori, e per esempio di loro molti
altri fedeli cristiani presono la croce con animo di seguire il detto
re; e per tutta la cristianità, ed eziandio tra’ saracini, si divolgò
la novella di questo passaggio; e dando vista il detto re di grande
apparecchiamento, avvenne, che negli anni 1334 il detto re di Francia
mandò a corte di Roma a Avignone per suoi ambasciadori l’arcivescovo di
Ruen con altri grandi baroni a papa Giovanni di Caorsa vigesimosecondo
e a’ suoi cardinali, il quale arcivescovo fu poi papa Clemente sesto,
e in pubblico concestoro avendo fatto l’arcivescovo predetto un bello
e alto sermone sopra la materia del santo passaggio, e confortato
il sommo pontefice, e’ prelati di santa Chiesa, e tutto il popolo
cristiano che si manifestassono a dare consiglio e aiuto al serenissimo
re di Francia, il quale si movea per zelo della fede di Cristo a così
alta impresa, per seguire e fare e per accrescere la sicurtà a’ fedeli
cristiani, giurò nell’udienza di tutti nella maestà divina, al santo
padre, e alla Chiesa di Roma, e a tutta la cristianità, nell’anima
del detto re di Francia, che l’agosto prossimamente seguente, gli anni
1335, e’ sarebbe uscito fuori del suo reame in via colla sua potenza,
e con gli altri principi del suo reame crociati per andare oltremare al
santo passaggio; e per questo impetrò da santa Chiesa le decime del suo
reame per molti anni, e altre promissioni del tesoro di santa Chiesa, e
quante altre cose domandò per parte del detto re al papa di tutte ebbe
da lui piena grazia; e io scrittore, fui presente nel detto consistoro,
e udii fare il saramento, come detto a verno.


CAP. III.

_Le parole disse frate Andrea d’Antiochia al re di Francia._

Essendo divolgata la novella di questo passaggio in Egitto e in Soria,
i cristiani del paese che sono sottoposti al giogo de’ saracini,
ed eziandio i viandanti mercatanti ch’allora erano in quelli paesi,
ricevettono gravi oppressioni e diversi tormenti, e molti ne furono
morti da’ signori saracini, e tolto il loro avere sotto false cagioni
d’essere trattatori del passaggio; per la qual cosa un valente
religioso italiano, il quale era chiamato frate Andrea d’Antiochia,
in fervore del suo animo dolendosi dell’ingiuria che riceveano
gl’innocenti cristiani, si mosse di Soria e venne a corte di Roma a
Avignone; e là giunse, quando il re Filippo di Francia era tornato
di pellegrinaggio da Marsilia a Avignone, passato di lungo il termine
della sua promessa, e non essendo di ciò nè dal papa nè da’ cardinali
ripreso; e già avea presa la licenza dal santo padre, e avea valicato
il Rodano, e desinato nel nobile ostiere di sant’Andrea, il quale
avea fatto edificare messer Napoleone degli Orsini di Roma a fine di
ricevervi il re di Francia e gli altri reali, il re era già montato
a cavallo per prendere suo cammino verso Parigi, il valoroso frate
Andrea, avendo accattato dagli scudieri de’ cardinali che l’atassono
conducere al freno del cavallo del re, com’egli uscì dell’ostiere così
li fu condotto al freno. Il religioso avea la barba lunga e canuta, e
parea di santo aspetto, e per la reverenza di lui il re si sostenne,
e frate Andrea disse: Se’ tu quello Filippo re di Francia, c’hai
promesso a Dio e a santa Chiesa d’andare colla tua potenza a trarre
delle mani de’ perfidi saracini la terra, dove Cristo nostro salvatore
volle spandere il suo immaculato sangue per la nostra redenzione? Il
re rispuose di sì; allora il venerabile religioso gli disse: Se tu
questo hai mosso, e intendi di seguitare con pura intenzione e fede,
io prego quel Cristo benedetto che per noi volle in quella terra
santa ricevere passione, che dirizzi i tuoi andamenti al fine di piena
vittoria, e intera prosperità di te e del tuo esercito, e che ti presti
in tutte le cose il suo aiuto e la sua benedizione, e t’accresca ne’
beni spirituali e temporali colla sua grazia, sicchè tu sii colui,
che colla tua vittoria levi l’obbrobrio del popolo cristiano, e
abbatti l’errore dell’iniquo e perfido Maometto, e purghi e mondi il
venerabile luogo di tutte l’abominazioni degl’infedeli, in tua per
Cristo sempiterna gloria. Ma se tu questo hai cominciato e pubblicato,
la qual cosa resulta in grave tormento e morte de’ cristiani che in
quel paese conversano, e non hai l’animo perfetto con Dio a questa
impresa seguitare, e la santa Chiesa cattolica da te è ingannata, sopra
te e sopra la tua casa, e i tuoi discendenti e ’l tuo reame venga l’ira
della divina indegnazione, e dimostri contro a te e’ tuoi successori,
e in evidenza de’ cristiani, il flagello della divina giustizia, e
contro a te gridi a Dio il sangue degl’innocenti cristiani, già sparto
perla boce di questo passaggio. Il re turbato nell’animo di questa
maladizione disse al religioso: Venite appresso di noi; e frate Andrea
rispose: Se voi andaste verso la terra di promissione in levante, io
v’anderei davanti; ma perchè vostro viaggio è in ponente, vi lascerò
andare, e io tornerò a fare penitenza de’ miei peccati in quella terra,
che voi avete promesso a Dio di trarre delle mani de’ cani saracini.


CAP. IV.

_Molte laide cose fece il re di Francia._

Da questo tempo innanzi cominciarono le commozioni del re d’Inghilterra
già narrate per lo nostro antecessore; e prima il detto re di Francia
vedendo sommuovere gl’Inghilesi contro a sè, con grande armata si mise
in arme contro a loro, e di trentadue migliaia d’uomini che reggeano
il suo navilio, perduto il navilio, ventotto migliaia d’uomini di
sua gente furono morti dagl’Inghilesi. E poi appresso venuto il
re d’Inghilterra in Francia con piccolo numero di gente, rispetto
della moltitudine de’ cavalieri e di sergenti ch’avea seco il re di
Francia a seguitarlo, fu sconfitto, come narrato abbiamo addietro; e
campata la sua persona con pochi per grazia della notte, e tornato a
Parigi, avendosi veduto nel giudicio di Dio, non ricorse alla virtù
dell’umiltà, ma aggiugnendo male a male, per avere moneta assai, in
cui era la sua fidanza, licenziò e sicurò tutti gli usurai del suo
reame, dando loro licenza di prestare pubblicamente, pagando alla
corte cinque per cento di quello che catuno era tassato dagli uficiali
del re ogni anno. E aggiugnendo alla sua avarizia, fece battere nuova
moneta d’oro e d’argento per tutto suo reame di molto meno valuta che
quella che prima correa, e subitamente la fece correre per buona, e
la buona fece disfare, in gran danno e confusione de’ suoi baroni, e
di tutti i paesani e de’ mercatanti ch’aveano a ricevere mercatanzie
nel suo reame; e dopo questo, con ordine dato a’ suoi ministri, per
tutto il reame in una notte fece prendere in persona e arrestare
l’avere a tutti gli usurieri del reame; e aggiugnendo male a male,
fece gridare per tutto, che chi avesse accattato sopra pegno l’andasse
a riscuotere per lo capitale, stando del capitale al suo saramento,
e così dell’accattato a carta; per la qual cosa coloro ch’aveano
accattato, per la larga licenza, vinti da avarizia, si spergiurarono,
e pochi furono secondo la fama che stessono in fede; e tutto ciò che
pagavano di capitale s’appropriò alla corte, che fu grandissimo tesoro,
in disertagione di molte famiglie, ch’ogni cosa s’appropriò alla corte,
dicendo, ch’aveano forfatto di aver messi più danari a usura che
non doveano. Appresso, dopo la sua affrettata morte per disordinata
lussuria, essendo di tempo, e dilettandosi nella sua giovane e bella
donna, seguitarono più gravi persecuzioni di guerra nel suo reame, in
fine il re Giovanni suo figliuolo e uno de’ suoi figliuoli furono presi
nella grande battaglia ch’appresso racconteremo; conchiudendo, che
come a inganno fu presa la croce, e promesso il santo passaggio per lo
re di Francia, così nel suo reame fu passato per divino giudicio da’
suoi nemici, e com’egli volle arricchire il suo reame indebitamente
de’ beni di santa Chiesa, e degli altri stranieri mercatanti e usurieri
del suo reame, così per giusta retribuzione impoverì il re, e il reame
consumato da’ soldi e dalle prede; e volendosi per ambizione esaltare
sopra gli altri signori della cristianità, veduti furono entrare in
servaggio di prigione, vinti maravigliosamente da più impotenti di
loro, secondo la forza e ’l numero della gente.


CAP. V.

_Come il re di Francia uscì di Parigi con suo sforzo, e andò in
Normandia._

Seguita, tornando a nostra materia, che ’l re di Francia vedendo
assalire il suo reame ora dal conte di Lancastro con quelli di Navarra,
ora dal duca di Guales coll’aiuto de’ Guasconi, e che per soperchia
baldanza aveano preso sopra lui e sopra la gente francesca; vedendo
al presente il conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ridotti
in Normandia a Bertoglio, come poco innanzi abbiamo narrato, si
propose in animo di perseguitarli, e di tutto il reame raunò a Parigi
i suoi baroni e tutto il fiore della sua cavalleria, ed eziandio i
ricchi borgesi di Parigi e dell’altre buone ville, i quali tutti si
sforzarono di comparire bene in arme per accompagnare la persona del
re; il quale era già ito in Normandia, e fatto fuggire di notte il
conte di Lancastro e messer Filippo di Navarra ch’erano in Normandia a
Bertoglio, e il re, come detto è poco addietro, avea vinto il castello,
e cacciati i nemici del paese. E stando in Normandia, i baroni, e’
cavalieri e’ borgesi del reame che smossi erano traevano d’ogni parte a
lui, e all’entrata del mese di settembre si trovò più di quindicimila
armadure di ferro ben montati e bene acconci a’ servigi del re, e
con esso gran novero di sergenti in arme. E vedendosi aver vinto il
castello, e avviliti i nemici, e cresciuta la sua forza, prese speranza
di cacciare gl’Inghilesi al tutto del suo reame innanzi che ritornasse
a Parigi. E con tutta questa cavalleria stava alle frontiere de’ suoi
nemici per non lasciarli scorrere per tutte le sue terre al modo usato,
e per prendere sopra loro suo vantaggio, stando apparecchiato alla
fronte de’ suoi avversari.


CAP. VI.

_Quello faceva il prenze di Guales._

Il valente duca di Cornovaglia prenze di Guales, primogenito del re
d’Inghilterra, il quale avea in sua parte per guereggiare tremila buoni
cavalieri bene montati, tra Inghilesi e Guasconi, e da duemila arceri
inghilesi a cavallo, e altri masnadieri a piè da quattromila tra con
archi e altre armadure, tutti bene capitanati; avendo sentito che ’l
conte di Lancastro colla sua parte di gente d’arme avea cavalcata
la Normandia ed entrato nel reame presso a Parigi a sedici leghe,
parendogli avere vergogna se non facesse dalla sua parte, si mosse di
Guascogna e vennesene in Berrì, ardendo e divorando con ferro e con
fuoco ciò che innanzi gli si parava. E già avea fatta smisurata preda,
perocchè assai ville di cinquecento e di mille fuocora, e di più e di
meno, avea vinte, e rubate e arse senza trovare contasto; seguitando
appresso avea costeggiato il fiume dell’Era infino ad Orliens, e
fattole intorno grave danno, passò a Pettieri; e trovandosi presso alla
grande oste del re di Francia, fu costretto di fermarsi ivi tra le due
fiumora coll’oste e colla preda che raccolta avea, che di quel luogo,
avendo di presso la gente del re di Francia ch’andava contro a lui, a
salvamento non si potea partire nè con suo onore.


CAP. VII.

_Come il re di Francia pose il campo presso al prenze._

Il re Giovanni di Francia, ch’era presso colla sua grande oste, e
baldanzoso per lo duca di Lancastro che l’avea fuggito, e per la
vittoria del castello, sentendo il duca ristretto tra le due fiumare,
che l’una tramezzava a volere andare a lui, di presente si mosse con
tutta la sua gente e appressossi a’ nemici, e pose il campo suo di
costa a Berrì, e’ nemici erano dall’altra parte, la fiumara in mezzo,
e’ ponti erano i più rotti, e alcuno ve n’avea rimaso in guardia
de’ Franceschi: il duca non potea passare innanzi a prendere suo
vantaggio di terreno, e ’l tornare addietro di lungo viaggio, per
lo stretto de’ loro nemici, e avendo chi gli perseguitasse, non se
ne potea pensare alcuna salute, e però la necessità gli accrescea in
quel luogo l’ardire. Il coraggioso duca di Guales vedendosi a questo
stretto partito, non dimostrò a’ suoi segno d’alcuna paura nè viltà,
ma francamente provvide il suo campo, e mostrossi a tutta sua gente,
confortandoli che non dovessono temere di quella gente cui eglino tante
volte avevano fatta ricredente, e ammaestrandoli di buona e sollecita
guardia il dì e la notte, dicendo, come tosto avrebbono in loro aiuto
il valente conte di Lancastro con tutta la sua gran forza. Gl’Inghilesi
e’ Guasconi presono gran conforto della valentria e buona voglia del
loro signore, e intesono a fortificare loro campo, e a fare buona e
sollecita guardia il dì e la notte. E questo fu a dì 17 di settembre
anno detto.


CAP. VIII.

_Due conti del re di Francia rimasono presi da un aguato._

Saputo che ’l re ebbe la condizione de’ suoi nemici, e come il loro
campo stava, segretamente con alquanti de’ più confidenti baroni prese
consiglio di valicare alla mezza notte, venendo il sabato, per un ponte
della riviera, che gli dava più certo il cammino ad aggiugnersi co’
nemici, e più atto il cammino alla gran gente che l’avea a seguitare.
Il duca di Guales, o che sapesse il segreto del re, o che per avviso
di guerra avesse che così dovesse seguire, la notte medesima venne
con sua gente eletta, e misesi in un bosco presso al cammino che ’l re
dovea fare, e veniagli fatto d’avere il re con buona parte della sua
compagnia per lo presto avviso. Il re si mosse con duemila cavalieri,
e con quelli baroni a cui s’era manifestato: e appressandosi al passo
del bosco, mandò innanzi dieci cavalieri sperti e bene montati a
provvedere se aguato vi fosse. I detti cavalieri scopersono il guato,
e di presente ritornarono al re, il quale conoscendo il pericolo prese
una volta, e dilungossi da quel passo, e girò verso Pittieri, e valicò
a salvamento con tutta sua cavalleria: ma addietro non mandò all’altra
sua gente che ’l seguiva ad avvisarli di quello aguato, onde avvenne,
che seguitandolo il conte d’Alzurro, e quello di Clugnì con altri
baroni e cavalieri, avendo sentita la sua subita partita, non però con
tutta l’oste, ma colle loro masnade facendo la via che dovea fare il re
del bosco, credendo che per quella fosse andato, gl’Inghilesi maestri
di baratti avendo mandati cavalieri de’ loro a ingegno che tornassono
la notte per quel cammino, e dimostrandosi essere de’ Franceschi che
seguissono il re, come se per quel cammino fosse passato, e scorgendo i
conti questi cavalieri, e facendoli domandare, risposono in Francesco
che seguivano monsignor lo re, e però con più sicurtà si misono a
cammino; ed entrati nell’aguato senza ordine, essendo d’ogni parte
assaliti, non v’ebbe resistenza altro che del fuggire e del campare chi
potea; il conte d’Alzurro valente barone, e quello di Clugnì rimasono
presi con quattrocento compagni di buona gente, e menati prigioni nel
campo, il duca e tutta la sua oste ne presono assai conforto: e questo
fu il sabato a dì 17 di settembre del detto anno.


CAP. IX.

_Puose il re di Francia il campo suo presso agl’Inghilesi._

Valicato il re di Francia con duemila cavalieri a Pettieri, e scoperto
l’aguato degl’Inghilesi, come detto abbiamo, di presente tutta l’altra
oste de’ Franceschi seguirono il loro re per lo sicuro cammino, e
giunti a lui, si trovarono più di quattordicimila cavalieri e molti
sergenti, e non v’era però tutta la sua forza, che al continovo vi
crescea gente a cavallo e a piè, sperando avere degl’Inghilesi buon
mercato; e misonsi a campo presso al campo del duca a meno di due leghe
parigine, in parte che gl’Inghilesi non si poteano allargare; ed erano
per venire in pochi dì in gran soffratta di vittuaglia, e ancora erano
condotti in parte, che ’l conte di Lancastro non li potea venire a
soccorrere per lo campo preso per i Franceschi, avvegnachè troppo era
di lungi a quel paese; per la qual cosa al re di Francia pareva avere
la vittoria in mano, e così era per ragione di guerra, ove fortuna
e mala provvedenza non avesse mutata la condizione del fatto, come
seguendo immantinente racconteremo.


CAP. X.

_I legati cercarono accordo tra’ due signori._

Come addietro avemo narrato, in questa guerra la Chiesa di Roma
continovo tenea suoi legati che trattassono la concordia e la pace
tra’ due re, e al presente era nella compagnia del re il cardinale
di Bologna suo confidente, e il cardinale di Pelagorga confidente
del duca e degl’Inghilesi, i quali continovo cercavano di recarli a
pace; e vedendo la cosa a questo stremo condotta e ultimo partito,
acciocchè tra questi due signori de’ maggiori della cristianità non
si venisse a mortale battaglia, di concordia furono con lo re di
Francia, mostrandoli quanto erano vari e non sicuri gli uscimenti
delle battaglie, pregandolo, che dove con suo onore potesse venire a
buona pace, non volesse ricercare per vantaggio ch’avere li paresse
il dubbioso fine delle battaglie. Il re diede udienza al savio
consiglio; e però incontanente il cardinale di Pelagorga cavalcò al
duca nel suo campo; e ricevuto da lui graziosamente, con savie parole
gli mostrò il pericolo dov’era egli e tutta la sua oste, e ricordogli
le grandi ingiurie per lo suo padre, e per lo suo zio, e per lui
fatte alla corona di Francia, e conchiudendo disse, che acciocchè Dio
non giudicasse la sua causa per disordinata presunzione e superbia
in cotanto pericolo quanto egli era di sè e di tutta la sua gente,
ch’e’ volea ch’e’ si dichinasse a volere restituire e rendere al
re di Francia il suo onore e le terre ch’avea occupate delle sue, e
l’ammenda del danno che fatto gli avea nel suo reame, acciocchè buona
e ferma pace si fermasse tra loro. Il giovane duca, conoscendo il
forte caso dove la fortuna l’avea condotto, e avendo reverenza a santa
Chiesa, avvegnaché ’l suo animo fosse fermo e sicuro di grande sdegno,
acconsentì innanzi di pigliare concordia, che tentare la pericolosa
parte della battaglia; e data speranza al legato, il fece ritornare al
re di Francia, per ordinare i patti e le convenenze della concordia.


CAP. XI.

_I patti che si trattarono e quasi conchiusono._

Tornato il cardinale al re di Francia, il re fece raunare il suo
consiglio, per fare assentire a tutte l’offerte che ’l cardinale avea
portate al re da parte del duca per avere buona pace; e l’offerta
era, ch’e’ volea restituire al re di Francia tutte le terre prese per
gl’Inghilesi e’ Guasconi nel suo reame ne’ tre anni prossimi passati,
e che renderebbe liberi tutti i prigioni, e che per ammenda de’ danni
fatti darebbe al re di Francia dugento migliaia di nobili, che valeano
cinquecento migliaia di fiorini d’oro; e domandava per fermezza di
buona pace per moglie la figliuola del re di Francia, quando a lui
piacesse, e per dote la duchea d’Anghiemem facendosi suo uomo, e a
questo non si fermava oltre alla volontà del detto re; e in preghiera
domandava, che ’l re di Navarra fosse lasciato e restituito nel suo
reame. A queste cose il re e il consiglio s’acconciavano assai bene,
e conosceano senza pericolo il loro vantaggio. È vero che queste cose
non si poteano fermare senza la volontà del re Adoardo d’Inghilterra
suo padre, ma il duca impromettea in termine di pochi dì fargliele
attenere e confermare; e andato e rivenuto più volte il cardinali per
recare a fine di buona pace questo trattato, e avendo ogni libertà dal
duca che domandare si seppe, e che per lui si potea fare, avendo che la
concordia fosse fatta, ritornò al re di Francia; ma la cosa ebbe tutto
altro fine che non si sperava, come incontanente racconteremo.


CAP. XII.

_Come il vescovo di Celona sturbò la pace._

Essendo venuto con pieno mandato il cardinale al re di Francia, il re
avendo veduto per esperienza i pericoli della battaglia, e parendogli
venire a convenevole ammenda dell’ingiuria ricevuta, si disponea alla
pace, e per darle compimento, fece raunare i baroni e ’l suo consiglio:
tra gli altri quegli in cui il consiglio del re più si posava per piena
confidanza era il vescovo di Celona; costui udite le convenenze e’
patti della pace raccontati per lo cardinale di Pelagorga, e come il
re d’Inghilterra gli avea infra certi giorni a confermare, stigato dal
peccato non purgato nè ammendato da’ Franceschi si levò in parlamento,
e molto arditamente disse al re di Francia: Sire, se io mi ricordo
bene, il re d’Inghilterra e ’l duca ch’è qui presso suo figliuolo,
e ’l conte di Lancastro suo cugino, v’hanno fatto lungamente grande
onta e sconvenevole oltraggio a tutto vostro reame per molte riprese,
sconfiggendo in campo vostro padre con perdita di re, e di gran baroni,
e in mare hanno tagliate le vostre forze, e arso e dipopolato il vostro
reame in diverse parti; ditemi sire, che vendetta v’avete voi fatta,
che senza vostra onta, e di tutto vostro reame, questa pace si faccia?
Avendo voi qui il vostro corporale nemico, con gran parte de’ baroni
e de’ cavalieri inghilesi e guasconi c’hanno contra voi e contro al
vostro reame fatti tutti i grandi mali, e oltre a quelli ch’io v’ho
contati, e ora gli ha Iddio ridotti e rinchiusi nelle vostre mani per
modo, ch’addietro non possono tornare, nè a destra nè a sinistra si
possono allargare. Da vivere hanno poco, e soccorso non attendono: voi
siete signore di fare altamente la vostra vendetta, e veggovi trattare
di lasciarli andare; ed eziandio per non certa fede o fermezza delle
loro promesse, ma piene d’aguati e d’inganni, come è loro antica
usanza, che sotto i patti di fare confermare la pace al re, intende
di subito avere il suo soccorso e quello del conte di Lancastro, ch’è
apparecchiato con grande oste, come tutti quanti sapete; e se questo
avviene, chi v’accerta che la vostra vittoria non possa tornare in mano
de’ vostri nemici, con vituperoso inganno della vostra reale maestà?
E però consiglio, che a’ vinti non si dia più dilazione, e che la
vendetta delle vostre ricevute offese e la piena vittoria, che Iddio
v’ha apparecchiata, non vi scampi per tardamento de’ vostri trattati e
de’ vostri consigli. Le parole dell’ardito prelato feciono cambiare la
volontà del re e di tutti i baroni del consiglio, e catuno s’inanimò
alla battaglia, e al cardinale fu risposto precisamente che più non si
travagliasse della concordia; e deliberato fu di strignere il duca alla
battaglia la mattina vegnente, e questo consiglio fu preso domenica
a dì 18 di settembre anno detto; operando fortuna, per lo franco
consiglio di quel prelato, la materia dell’occulto giudicio di Dio
contro al detto re di Francia.


CAP. XIII.

_Diceria che fece il prenze di Guales a’ suoi._

Il cardinale di Pelagorga avuta la risposta dal re di Francia e
dal suo consiglio contradia al suo trattato e alla sua opinione,
avendo singulare affezione al giovane duca, in cui avea trovato
molta liberalità, parendogli sconvenevole se colla sua bocca non gli
rispondesse, il dì medesimo valicò nel suo campo: ed essendo innanzi
al duca ch’attendea la fermezza della pace, il cardinale gli disse:
Sire, io ho assai travagliato per poterti recare pace, ma non ho
potuto per alcuna maniera; e però a te conviene procacciare d’essere
valente prenze, e pensare alla tua difesa colla spada in mano, perocchè
alla battaglia ti conviene venire co’ Franceschi, rimossa ogni altra
speranza d’accordo o di pace. Udendo questa parola il magnanimo duca,
non perdè in atto o in segno sua virtù, anzi disse: Voi ci potete
essere testimonio, che dalla nostra parte non è mancata la concordia
alla quale con pura fede ci recavamo; ora che da’ nostri avversari
manca, prendiamo fidanza che Iddio sia dalla nostra parte. E dato
con reverenza congio al cardinale, di presente ebbe i suoi baroni e’
suoi capitani de’ cavalieri e degli arcieri inghilesi e guasconi, e
manifestò loro l’intenzione del re di Francia e del suo consiglio,
e come al mattino attendessono la battaglia, con franche e signorili
parole dicendo, come Iddio e la ragione era dalla loro parte, e che
però catuno prendesse cuore e ardire, e inanimasse sè e’ suoi a ben
fare; e ricordassonsi come i Franceschi vinti e sconfitti più volte
da loro, non avrebbono cuore di sostenere la battaglia. E oltre a ciò
disse: Signori e compagni, non dimenticate il luogo ove fortuna ci
ha inchiusi, nel quale se noi vogliamo stare alla difesa, avendo la
forza de’ nemici nostri a petto, in breve ci manca la vittuaglia, e di
niuna parte ci può venire, perchè noi e’ nostri cavalli verremo meno di
fame, e saremo vilissima preda a’ nostri nemici. E nel partire non si
vede salvamento, avendo al fuggire lungo il cammino per le terre de’
nostri nemici d’ogni parte, e così gran forza qui, e de’ nemici alle
spalle, anzi possiamo essere molto certi, che dando loro le reni, ci
faranno morire a gran tormento; e però niuna speranza di salute rimane
dalla nostra parte, se non di combattere francamente, e procurare colla
virtù dell’indurata fortezza delle nostre braccia abbattere la delicata
e apparente pompa de’ nostri avversari; e quanto la loro potenza e
numero di cavalieri e di sergenti è maggiore, tanto conviene in noi
più accendere l’animo a dimostrare nostra virtù: e se fortuna ci pur
volesse abbattere, facciamo sì ch’a’ nostri nemici rimanga dolorosa
vittoria, e a noi eterno nome di valorosa cavalleria. E confortata
e inanimata la sua gente, comandò ch’al mattino tutta la preda loro
delle cose grosse fosse recata nel campo, e messa fuori tra loro e’
nemici, e fattone tre monti, e che la notte stessono in buona guardia,
e confortassono loro e’ loro cavalli, sicchè al mattino si trovassono
forti e acconci alla battaglia;


CAP. XIV.

_Come i Franceschi s’apparecchiarono alla battaglia._

Avendo il re di Francia preso per partito nel consiglio di combattere
la mattina vegnente, fece il dì raunare tutti i suoi baroni e’ capitani
della sua cavalleria e dei sergenti, e con allegra faccia manifestò
loro il consiglio di combattere la mattina vegnente gl’Inghilesi e’
Guasconi, i quali erano pochi alla loro comparazione, i quali tutti si
mostrarono allegri, stimando che non li dovessono attendere conoscendo
il soperchio, e che si dovessono fuggire come fatto avea poco innanzi
il conte di Lancastro. E diedono ordine alle loro schiere, e la gente
che in catuna dovesse essere, e quale andasse prima ad assalire i
nemici e quale appresso, e chi fosse nella schiera grossa del re. E
avvisato catuno capitano della sua gente e di quello ch’al mattino avea
a fare, tutti intesono per quello resto della giornata a provvedere
le loro armi e’ loro cavalli, per essere presti la mattina innanzi il
giorno alla battaglia.


CAP. XV.

_Le schiere e gli ordini de’ Franceschi._

Venuto il lunedì mattina, il maliscalco di Dina, a cui toccava il
primo assalto, fece per tempo la sua schiera co’ cavalieri di Spagna
e d’altri circustanti a quella lingua, ch’erano venuti e condotti al
servigio del re, e a questa schiera vi s’aggiunsono masnadieri italiani
e spagnuoli, sperti delle battaglie, e buoni assalitori. A costoro fu
commesso d’assalire prima i nemici, ed essendo apparecchiati in sul
campo, e le spianate fatte, appresso a lui fu fatta la schiera del
conestabile di Francia, ch’era il duca d’Atene, e in sua schiera ebbe
molti valenti baccellieri di Francia, provenzali e normandi, e questa
schiera dovea percuotere appresso i feditori. Dopo questa il Dalfino
di Vienna figliuolo primogenito del re di Francia, e ’l duca d’Orliens
fratello del re, furono fatti conduttori della terza schiera, ove
aveano più di cinquemila cavalieri franceschi e del reame, e questa
dovea fedire appresso al duca d’Atene. La quarta e ultima schiera era
quella del re di Francia, nella quale avea più di seimila cavalieri
con molti grandi baroni, e questa era per fermezza e riscossa di tutte
l’altre. Avendo i Franceschi così fornite e ordinate le loro schiere:
essendo lungo spazio di terreno tra loro e’ nemici, innanzi che
s’aggiungano alla battaglia, ci conviene narrare l’ordine che prese il
duca di Guales nella sua gente.


CAP. XVI.

_L’ordine degl’Inghilesi con le loro schiere._

Avendo il duca di Guales fatto, come detto è, raunare fuori del
campo innanzi al suo carreggio, verso la frontiera de’ Franceschi
per buono spazio, in tre monti tutto il grosso della loro preda, vi
fece aggiugnere legname la mattina innanzi dì e mettervi entro fuoco,
acciocchè l’avarizia della preda non impedisse l’animo a’ suoi, e
non fosse speranza agli avversari di racquistarla. E fatti i fuochi
grandi tra loro e’ nemici, i fummi occuparono la pianura a modo d’una
grossa nebbia, sicchè i Franceschi non poteano scorgere quello che
gl’Inghilesi si dovessono fare. E in questo tempo il duca e ’l suo
consiglio feciono due parti de’ loro arcieri, che n’aveano intorno
di tremila, e nascosonli in boschi e in vigne, a destra e a sinistra
inverso dove i Franceschi potessono venire per assalirli, sicchè al
bisogno d’ogni parte potessono ferire la gente di Francia e’ loro
cavalli colle saette; e ordinarono fuori del loro campo innanzi al
carreggio una schiera, che sostenesse il primo assalto, e ’l duca con
tutta l’altra cavalleria in un fiotto erano armati, e schierati nel
campo dentro al loro carreggio, per provvedere il portamento de’ loro
nemici. E in questo modo fu apparecchiata l’una e l’altra oste di
venire alla battaglia.


CAP. XVII.

_La battaglia tra il re di Francia, e il prenze di Guales._

Il maliscalco di Dina colla sua schiera de’ feditori, come poco
avveduto e assai baldanzoso, vedendo i fuochi che gl’Inghilesi
facevano, pensò che ardessono il campo, e che per paura se ne
fuggissono, e per questa folle burbanza, non attendendo d’avere
appresso la seconda e terza schiera, levato un grido, se ne vanno
con matto ardimento, e avacciarono il loro assalto, e dilungaronsi
subitamente tanto dall’altre schiere, che per lo lungo terreno non
poterono essere veduti da loro, e con grande ardire si misono ad
assalire la schiera degl’Inghilesi, ch’era di fuori del carreggio, e
fedironli per tal virtù, che li feciono rinculare a dietro, e perdere
assai terreno. Il duca e’ suoi, che conobbono la mala condotta che
aveano fatta gli Spagnuoli, e che non aveano la riscossa appresso,
mandarono per costa millecinquecento cavalieri de’ loro, e inchiusonli,
combattendoli dinanzi e di dietro, e sbarattaronli, facendone grande
uccisione in poca d’ora. Seguendo appresso l’altra più grossa schiera
del duca d’Atene conestabile di Francia, gli arcieri ch’erano riposti
uscirono d’ogni parte per costa a saettare a questa schiera, e
sollecitando le loro saette, molti uomini e cavalli fedirono e assai
n’uccisono; e ’l duca di Guales, vedendo questa schiera già impedita
e magagnata dagli arcieri, uscì loro addosso colla baldanza della
prima vittoria, e dopo non grande resistenza furano tutti morti e
presi, innanzi che ’l re ne sapesse la novella. Il Delfino di Vienna,
e ’l duca d’Orliens, che aveano più di cinquemila cavalieri, e il re
appresso con seimila in sua compagnia, avendo sentita la rotta delle
due prime schiere, come vilissimi e codardi, avendo ancora due tanti e
più di cavalieri e di baroni freschi e ben montati, ed essendo i nemici
stanchi per le due battaglie, tanta paura entro ne loro animi rimessi e
vili, che potendo ricoverare la battaglia, non ebbono cuore di fedire
a’ nemici, nè vergogna d’abbandonare il re, ch’era presso di loro sul
campo, nè l’altra baronia di Francia, e senza ritornarsi a dietro a
far testa col re insieme, e senza essere cacciati, si fuggirono del
campo, e andaronsene verso Parigi, abbandonando il padre e’ fratelli
nel pericolo della grave battaglia; degni non di titoli d’onore, ma di
gravi pene, se giustizia avesse forza in loro.


CAP. XVIII.

_La sconfitta del re di Francia e sua gente._

Avendo il valoroso duca di Guales già sbarattate le due prime schiere
de’ nemici, e veduto che la terza schiera, ov’era il figliuolo e ’l
fratello del re con cinquemila cavalieri, per paura s’erano fuggiti
senza dare o ricevere colpo, prese speranza dell’incredibile vittoria,
e con molta baldanza tutti in uno drappello fatto s’addirizzarono ad
andare a combattere la grossa schiera del re. Il quale re, avendosi
messe innanzi l’altre schiere, si pensò, per ritenere più ferma la
baronia, di scendere a piè, e così fece. E vedendosi venire addosso
gl’Inghilesi e’ Guasconi con gran baldanza, e avendo saputa la fuga
del figliuolo e del fratello non invilì, ma virtuosamente confortando
i suoi baroni che gli erano di presso, si fece innanzi a’ nemici per
riceverli alla battaglia coraggiosamente. Il duca co’ suoi franchi
cavalieri, e sperti in arme a quel tempo più ch’e’ Franceschi, e
cresciuti nella speranza della vittoria, si fedirono aspramente nella
schiera del re. Quivi erano di valorosi baroni e di pro’ cavalieri;
e sentendovi la persona del re, faceano forte e aspra resistenza, e
mantennono francamente lo stormo, abbattendo, tagliando e uccidendo
di loro nemici; ma perocchè fortuna favoreggiava gl’Inghilesi, molti
Franceschi come poteano ricoverare a cavallo si fuggivano, senz’essere
perseguitati; che la gente del duca non si snodava, e la schiera del
re al continovo mancava; e ’l re medesimo, conoscendo già la vittoria
in mano de’ suoi nemici, non volendo per viltà di fuga vituperare
la corona, fieramente s’addurò alla battaglia, facendo grandi cose
d’arme di sua persona; ma sentendosi allato messer Gianni suo piccolo
figliuolo, comandò che fosse menato via e tratto della battaglia; il
quale per comandamento del re essendo montato a cavallo con alquanti
in sua compagnia, e partito un pezzo, il fanciullo ebbe tanta onta
di lasciare il padre nella battaglia che ritornò a lui, e non potendo
adoperare l’arme, considerava i pericoli del padre, e spesso gridava:
Padre, guardatevi a destra, o a sinistra o d’altra parte, come vedea
gli assalitori; ed essendo appresso del re messer Ruberto di Durazzo
della casa reale di Puglia, ch’avea aoperate sue virtù come paladino,
e lungamente con altri baroni difesa la battaglia, e morti e magagnati
assai di quelli ch’a loro si strigneano, in fine abbattuti e morti
intorno al re, il re fu intorniato dagl’Inghilesi e da’ Guasconi, e
domandato fu che si dovesse arrendere; ed egli vedendosi intorneato
de’ suoi baroni e nimici morti e de’ nemici vivi, e fuori d’ogni
speranza di potere più sostenere la battaglia, s’arrendè per sua voce
a’ Guasconi, e lasciò l’arme sotto la loro guardia: e ’l suo piccolo
figliuolo di corpo, e grande d’animo, non si voleva arrendere, ma
pregato, e ricevuto comandamento dal padre che s’arrendesse, così fece;
e questo fu il fine della disavventurata battaglia per li Franceschi, e
d’alta gloria per gl’Inghilesi.


CAP. XIX.

_Racconta molti morti e presi nella battaglia._

In questa battaglia furono morti il duca di Borbona della casa di
Francia, il duca d’Atene, il maliscalco di Chiaramonte, messer Rinaldo
di Ponzo, messer Giuffrè di Ciarnì, il conte di Galizia, messer Ruberto
di Durazzo de’ reali del regno di Cicilia, il sire di Landone, il sire
di Crotignacco, messer Gianni Martello, messer Guglielmo di Montaguto,
messer Gramonte di Cambelli, il vescovo di Celona, cagione di questo
male, il vescovo d’Alzurro, tutti alti e gran baroni; e furono morti
in sul campo oltre a costoro più di milledugento altri cavalieri a
sproni d’oro, e banderesi, e cavalieri di scudo e borgesi, tutta nobile
cavalleria, perocchè non v’erano quasi soldati; tutti erano famigli
di gran signori, e uomini ch’erano venuti al servigio del loro re. I
presi furono messer Giovanni re di Francia, messer Giovanni suo piccolo
figliuolo, il maliscalco da Udinam, messer Iacopo di Borbona, il conte
di Trincia villa, il conte di Monmartino, il visconte di Ventador, il
Conte di Salembrucco Alamanno, il sire di Craone, il sire di Montaguto,
il sire di Monfreno, messer Brucicolto, messer Bremont della volta,
messer Amelio del Balzo, e ’l castellano d’Amposta, messer Gianni e
messer Carlo d’Artese, l’arcivescovo di Sensa, il vescovo di Lingres, e
molti altri baroni che qui non si nominano; e oltre a questi caporali,
vi rimasono presi più di duemila cavalieri franceschi tutti uomini
di pregio, e grandi e ricchi borgesi, e scudieri e gentili uomini.
Questa battaglia fu fatta lunedì la mattina, a dì 18 di settembre, gli
anni 1356, presso a Pittieri a due leghe, in una villa che si chiama
Trecceria, la quale per questo caso piuttosto confermò il suo nome che
altra mutazione le desse.


CAP. XX.

_Come il re di Francia n’andò preso in Guascogna._

Seguita, che vedendosi il giovane duca sì altamente vittorioso, non
ne montò in superbia, e non volle come potea mettersi più innanzi
nel reame, che lieve gli era a venirsene fino a Parigi, ma avendo la
persona del re a prigione. e ’l figliuolo, e tanti baroni e cavalieri,
per savio consiglio diliberò di non volere tentare più innanzi la sua
fortuna; e però raccolta la preda e tutta la sua gente, e fatto fare
solenne uficio per li morti, e rendute grazie a Dio della sua vittoria,
si partì del paese, e senz’altro arresto se ne tornò in Guascogna alla
città di Bordello. E giunto là, fece apparecchiare al re nobilemente
il più bello ostiere, ove largamente tenea lui e ’l figliuolo, facendo
loro reale onore, e spesse volte la sua persona il serviva alla
mensa. È vero che lo volle al cominciamento menare in Inghilterra per
più sua sicurtà, ma i Guasconi, a cui il re s’era accomandato, non
acconsentirono, e però si rimase in Guascogna alcun tempo innanzi che
condotto fosse in Inghilterra, che si fece con grande ingegno, come
innanzi racconteremo.


CAP. XXI.

_I modi tenne il re d’Inghilterra sentendo la novella di sì gran
vittoria._

Corsa la fama dell’incredibile vittoria in Inghilterra, e avendo il
re Adoardo di ciò lettere dal figliuolo che li contavano il pericolo
dov’egli con tutta la sua oste era stato, e l’alta e la grande vittoria
che Iddio gli avea data, il savio re contenente nella faccia e negli
atti, senza mostrare vana allegrezza, di presente fece raunare i suoi
baroni e ’l suo consiglio, e con belle e savie parole dimostrò a tutti
che questo non era avvenuto per virtù nè operazione di sua gente, ma
per singulare grazia di Dio, e comandò a tutti che niuna vana gloria o
festa se ne mostrasse; ma per suo dicreto fece ordinare e mandare per
tutta l’isola, che in catuna buona terra, castello e villa, otto dì
continovi si facesse in tutte le chiese ogni mattina solenne sacrificio
per l’anime de’ morti nella battaglia, e che si rendesse a Dio grazia
della vittoria ricevuta. E fuori di questi esequi non si udì nè
vide alcuna festa in tutta l’isola, strignendo catuna l’esempio e il
comandamento del re. La quale mansuetudine fu al re maggiore laude, che
al figliuolo la non pensata vittoria.


CAP. XXII.

_Battaglia fra due cavalieri, e perchè._

Fu vero, avvegnachè non in questi dì ma poi, che due grandi e valorosi
cavalieri, l’uno Guascone e l’altro Inghilese, vennero a quistione,
perocchè catuno si vantava ch’avea preso il re. E venne tanto montando
la loro riotta, che s’appellarono per questo a battaglia, la quale con
grande pompa e riguardo feciono a Calese, e il Guascone fece ricredente
l’Inghilese. E al Guascone ch’ebbe la vittoria furono fatti gran doni
dal re di Francia e dal prenze di Guales, ma poco appresso gl’Inghilesi
per invidia il feciono morire. Avendo raccontate l’oltramontane
fortune, le italiane con sollecitudine addomandano il debito alla
nostra penna.


CAP. XXIII.

_Processo fatto contro a’ signori di Milano per lo vicario
dell’imperadore._

Narrato abbiamo nel sesto libro, come messer Marcovaldo vescovo
augustinese vicario in Pisa per l’imperadore, era fatto capitano della
compagnia, e dell’altra oste de’ Lombardi ch’erano collegati contro
a’ signori di Milano; ed essendo raunati tutti in Lombardia e acconci
d’andare verso Milano, il vescovo fece esaltare nell’oste l’insegna
imperiale ne’ campi di Modena, e ivi dichiarò a tutti, com’egli era
vicario dell’imperadore, e formò un processo sotto il titolo del
vicariato contro a messer Bernabò e a messer Galeazzo signori di
Milano, il quale in effetto contenea: come in derisione e in contento
della santa Chiesa e’ davano l’investiture de’ beneficii ecclesiastici
a cui voleano, togliendoli a cui la santa Chiesa gli avea investiti, e
a’ legati del papa non lasciavano in tutta loro tirannica giurisdizione
fare uficio, e alquanti n’aveano fatti morire crudelmente; e come
aveano trattato con messer Palletta da Montescudaio di tradire
l’imperadore, e di torgli la città di Pisa, e come per loro violenta
tirannia aveano occupate le città e’ popoli di Lombardia pertinenti al
santo imperio, e come in vergogna della maestà imperiale, tornandosi
l’imperadore in Alamagna, valicando per Lombardia, gli feciono serrare
le porte delle città e castella di loro distretto, e guardare le mura
con gente d’arme, come da loro nemico, avendo titolo di suoi vicari;
e formato il processo, mandò per sue lettere a richiedere i tiranni,
che a dì 11 del presente mese d’ottobre del detto anno comparissono
personalmente dinanzi da lui a scusarsi del detto processo, altrimenti
non ostante la loro contumace contro a loro pronunzierebbe giusta
sentenza. E di quella, coll’aiuto di Dio, e del santo imperio e del suo
potente esercito, tosto intendea fare piena esecuzione.


CAP. XXIV.

_Risposta fatta per li signori di Milano al vicario._

«Avendo per alcuni nostri fedeli notizia delle tue superbe e pazze
lettere, colle quali noi, come fanciulli, col tuo ventoso intronamento
credi spaurire, noi, avvegnachè dell’età giovani, molte cose avendo
già vedute, al postutto il mormorio delle mosche non temiamo. Tu
immerito del preclarissimo nome del santo imperio ti fai vicario, dei
quale noi fedeli vicari ci confessiamo. Contro dunque a te non vicario
dell’imperio, ma capo de’ ladroni, e guida di fuggitivi soldati, infra’
l termine che ci hai assegnato, acciocchè non t’affatichi venendo
sopra il milanese, piagentino ovvero parmigiano tenitorio, pe’ nostri
precussori idonei, acciocchè non ti vanti ch’a tua volontà le nostre
persone abbi mosse, co’ tuoi guai, forse ti risponderemo. Noi adunque
promettiamo a te, che con nefaria mano di ladroni a depopolare e ardere
i nostri pacifichi confini con pazzo campo se’ mosso, non come vescovo
ma come uomo di sangue, se la fortuna ministra, della giustizia nelle
nostre mani ti conducerà, non altrimenti che come famoso ladrone, e
incendiario ti puniremo.»


CAP. XXV.

_Risposta fatta, per lo vicario, alla detta lettera._

«Rallegriamo delle lettere che mandate ci avete, quali mostrano la
superbia della quale voi vi gloriate. Della nostra ingiuria intendiamo
soprassedere, ma della bugia scritta nelle vostre lettere non ci
possiamo contenere. Scriveste dunque, che co’ vostri precursori,
innanzi ch’entrassimo nel vostro tenitorio, ci rispondereste
minacciandone di battaglia. E ora con la grazia di Dio e col suo
aiuto, nel quale solo è la nostra speranza, non occultamente a modo di
predoni, ma palesi, passati Parma, siamo in sul campo presso a cinque
miglia a Piacenza, e col detto divino aiutorio intendiamo procedere
innanzi, e co’ vostri precursori non ci avete ovviati, in vituperio
della vostra vana superbia. Data a Ponte miro, a dì 10 d’ottobre.»


CAP. XXVI.

_Come i soldati de’ tiranni non vollono venire contro all’insegna
dell’imperadore._

Era in questo mezzo avvenuto, ch’e’ signori di Milano, temendo
l’avvenimento de’ sopraddetti loro avversari, aveano mandato a Parma
il marchese Francesco con quattromila barbute di gente tedesca e
Borgognoni ivi raunati altri cavalieri e gran popolo per uscire a
campo, e non lasciare i nemici entrare sul terreno de’ signori di
Milano, e di combattere con loro. Quando il marchese volle uscire
fuori a campo, i conestabili de’ Tedeschi e de’ Borgognoni tutti di
concordia dissono al marchese loro capitano, che contro al vicario
dell’imperadore e alla sua insegna non anderebbono, nè in campo non
farebbono resistenza contro al loro signore. Questo fu il titolo della
scusa, ma più li mosse non volere fare resistenza alla compagnia,
perocchè aveano parte in quella non istandovi, e il refugio e il soldo
quand’erano cassi in altre parti; ma dissono, ch’erano apparecchiati di
stare alla guardia delle città e delle castella lealmente. I signori
sentendo l’intenzione de’ soldati, ch’acconsentivano d’essere cassi
innanzi che uscire contro al vicario dell’imperadore, pensarono che a
cassarli era aggiugnere forza a’ loro nemici, e pericolo di loro stato:
e però dissimularono con loro, e ritrassonli a Milano, lasciando in
Parma e in Piacenza buona guardia per difendere le mura.


CAP. XXVII.

_Come il vicario puose campo._

Il vescovo d’Augusta, ch’era prod’uomo in fatti d’arme e bene avveduto,
sentendo ch’e’ soldati de’ signori di Milano non erano per uscire in
campo contro a lui, con più ardire valicò Parma, cavalcando con tutta
sua oste presso alle porti, e così Cremona, e ristette alquanto in sui
Piacentino, ove fece la risposta della lettera sopraddetta. E predando
il paese d’intorno per alcuno dì, si partì di là, ed entrò sul contado
di Milano; e facendo in quello grandissime prede, trovando la gente
male provveduta, si mise a fermare suo campo a una grossa villa che si
chiama Rosario, presso a Milano a quattordici miglia di piano, intorno
alla quale a due, e a tre, e quattro miglia sono altre grosse villate,
raccolte a modo di casali, piene di molta vittuaglia e bestiame, e
per l’abbondanza l’oste vi stette a grande agio; e indi cavalcarono
per tutto il Milanese, facendo danno grave a’ paesani, che per lungo
tempo non aveano sentito che guerra si fosse; e con tutta la forza de’
signori di Milano, niuna resistenza trovarono in campo in molti giorni:
e però lasceremo alquanto questa materia, tanto che le grandi cose che
ne seguirono abbiano il tempo loro, non partendoci però dall’italiane
tempeste, che prima si vogliono raccontare.


CAP. XXVIII.

_Ordine del re d’Ungheria alla guerra con i Veneziani._

Tornato il re in Ungheria, avvisato che la moltitudine degli Ungheri
non si può mantenere in Italia come ne’ diserti, ebbe suo consiglio, ed
elesse trenta suoi grandi baroni per capitani, ciascuno di cinquemila
Ungheri a cavallo, con ordine che catuno il servisse tre mesi, come
sono tenuti per omaggio. E per questo modo deliberò di continovare
la guerra a’ Veneziani, succedendo l’uno barone all’altro di due in
due mesi, perocchè ’l terzo aveano per la venuta e pel ritorno. E a
dì 15 d’ottobre del detto anno giunse l’uno de’ baroni a Colligrano
con quattromila Ungheri, i quali di presente si misono a scorrere e a
predare il paese infino a Trevigi. In campo non trovavano contasto,
perocchè come questo signore era sopra Trevigi, così altri signori
erano a Giara e nella Schiavonia sopra le terre de’ Veneziani, sicchè i
Veneziani aveano tanto a fare a guardare le mura delle loro terre, che
non sapeano come pur quello si potessono fornire, sicchè gli Ungheri al
tutto signoreggiavano i campi di Trevigiana, e assediavano le castella.


CAP. XXIX.

_L’aguato misono gli Ungheri a gente de’ Veneziani._

Il doge di Vinegia col suo consiglio, vedendo la soperchia baldanza
degli Ungheri, per tenerli più a freno si sforzarono di conducere un
gran barone della Magna con seicento cavalieri tedeschi, per mandarli a
Trevigi, e pagaronlo per quattro mesi innanzi; e datogli a compagnia un
gentile uomo di Vinegia, all’uscita d’ottobre li mandarono a Trevigi,
e per loro la paga per gli altri soldati a cavallo e a piè ch’erano
a Trevigi. Costoro con poca provvedenza de’ loro nemici faceano la
via per lo Vicentino. Gli Ungheri da Colligrano sentirono la via che
costoro faceano; e di subito eletti mille Ungheri, li feciono cavalcare
la notte contro a’ Tedeschi; e venne loro si contamente fatto, che
innanzi ch’e’ Tedeschi avessono novella di loro, gli ebbono addosso
nel cammino; ed essendo male armati, chi si mise a difendere fu morto,
gli altri tutti ebbono a prigioni, e tolti loro i danari, e l’arme, e’
cavalli; e le robe, in camicia gli rimandarono a Vinegia. Per questo
i Veneziani perderono molto vigore, e a’ nemici baldanza grande ne
crebbe, e quasi come paesani sicuravano i villani, e faceano lavorare
le terre per la nuova sementa.


CAP. XXX.

_Come il re Luigi trattò d’avere Messina in Cicilia._

Addietro avemo fatta memoria nel quarto libro, come messer Niccola di
Cesaro rientrò in Messina e caccionne i suoi nemici, e con assentimento
del re Luigi riprese Melazzo, e fecesene maggiore, ma non tanto
ch’avesse ardire di scoprirsi a’ Messinesi, se non si sentisse più
forte. E però s’accostò alla setta di que’ di Chiaramonte, e fece
tornare da Firenze a Messina certi cavalieri ch’erano stati cacciati
quando fu cacciato egli. E vedendo morto colui che dovea essere loro
re, si mise in trattato col gran siniscalco del re Luigi di dargli
Messina, e per questa cagione il re Luigi, e la reina Giovanna andarono
in Calavria, e stettono parecchi mesi a Reggio, innanzi che l’accordo
avesse il suo effetto. E facendo suo sforzo d’avere galee armate a
questo servigio, con gran fatica ve n’erano sette, e alquanti legni
armati in questo tempo. Lasceremo al presente questa materia tanto
che venga a perfezione, e seguiremo quello che prima ci occorre a
raccontare.


CAP. XXXI.

_Come si trattò pace fra il conte di Fiandra e i Brabanzoni._

I Brabanzoni vedendosi sottoposti al conte di Fiandra e a’ Fiamminghi,
cosa molto strana al loro costume, non potendo più sostenere il giogo,
e non volendosi rimettere in guerra, che n’erano mal capitati e mal
destri, per savio avvisamento presono consiglio tutte le comuni di
Brabante, fuori che la villa di Mellina ch’appartenea al conte, che la
duchessa, ch’era cognata carnale del conte, tornasse in Brabante: e
fattala venire, la ricevettono in Loano, affinchè tra lei e ’l conte
si trovasse accordo. E per questa cagione, niuna vista o sentimento
mostrarono di pigliare arme: e ’l conte, sentendo tornata la cognata
in Brabante, non ne prese turbazione come avrebbe fatto del duca. E di
presente che la duchessa fu in Brabante, si levarono baroni e amici di
catuna parte, a trattare tra loro concordia per riposo de’ Fiamminghi
e Brabanzoni. Per lo quale trattato, avvegnachè durasse lungamente,
in fine, come trovare si potrà appresso nel suo tempo, vennero a final
pace e concordia; ma questo principio fu del mese d’ottobre del detto
anno.


CAP. XXXII.

_Come i Fiorentini si partirono da Pisa, e andarono a Siena con le
mercatanzie._

Seguita, per non lasciare in silenzio lo sdegno preso pe’ Fiorentini
contro a’ Pisani, i quali, come narrato è addietro, aveano loro rotta
la pace, togliendo a’ Fiorentini la franchigia, della quale appresso
seguitò grande materia di guerra, come leggendo per li tempi si potrà
trovare. I Fiorentini avendo ritratta la loro mercatanzia e’ danari,
in calen di novembre anno detto, tutti i cittadini e distrettuali di
Firenze furono partiti di Pisa; e come questo fu fatto, e le strade
sbandite per divieto fatto a tutte le mercatanzie, arnese e roba, i
Genovesi, e’ Provenzali, e’ Catalani, e tutti altri mercatanti se ne
partirono, e rimase la città di Pisa ne’ luoghi della mercatanzia
solitaria; e allora si cominciarono a avvedere i Pisani che non
aveano fatta buona impresa, e grande repetio ebbe nella città de’
loro maggiori nel reggimento, che dato avea a intendere, che per
gravezze ch’e’ facessono a’ Fiorentini non se ne partirebbono, tant’era
l’agiamento del porto, e la comodità del cammino e dell’altre cose,
e’ non pensavano che lo sdegno dell’ingiuria ponderasse contro alla
loro comodità. La cosa andò tutto per altro modo. I Fiorentini presono
porto a Talamone, e pertinacemente si disposono a volere vedere se fare
potessono la mercatanzia senza i Pisani. Per questo i Pisani ch’erano
amici di Simone Boccanegra doge di Genova, si misono a fare lega con
lui, e armare galee, per impedire che la mercatanzia non ponesse a
Talamone. Onde seguitarono non piccole e disusate novità, come leggendo
innanzi a loro tempo si potrà trovare.


CAP. XXXIII.

_Come il capitano di Forlì si provvide._

Essendo la compagnia valicata in Lombardia, il legato intendea a
riprendere la guerra contro al capitano di Forlì il signore di Faenza,
e apparecchiavasi d’assediare la città di Forlì. Il capitano ch’era
coraggioso e avvisato, innanzi che l’assedio gli venisse addosso,
ebbe trecento suoi cavalieri e cinquecento masnadieri, e di subito e
improvviso a’ Malatesti cavalcò con questa gente a Rimini, e accolse
una grande preda d’uomini, e d’arnesi, e di bestiame, e data la
volta, senza contasto con tutta la preda si tornò in Forlì; e fatto
questo, fece ardere e disfare tutti i casali e terre da non potersi
bene difendere, e intese a votare la terra di tutta la gente disutile
alla guerra, e a fornirsi copiosamente di vittuaglia, acciocchè più
lungamente potesse fare sua difesa contro al legato, ch’era per farlo
assediare, come appresso avvenne, ma più tardi ch’e’ non s’avvisava.


CAP. XXXIV.

_Come Faenza s’arrendè al legato, e’ patti._

Messer Giovanni di messer Ricciardo de’ Manfredi signore di Faenza,
conoscendo la sua forza debole a resistere a santa Chiesa, si mise
a trattare accordo col legato, mediante gli ambasciadori del re
d’Ungheria, che a stanza di messer Giovanni se ne travagliavano, e in
fine del mese di Novembre anno detto, a dì 10, vennero a questi patti:
che al legato si dovesse rendere liberamente la signoria di Faenza, e
delle castella e del contado, e messer Giovanni dovesse avere tutto suo
patrimonio salvo, e la terra di Bagnacavallo. E per attenere i patti
diede due suoi figliuoli stadichi, e mandolli co’ detti ambasciadori
alla guardia del signore di Padova. E appresso, del mese di dicembre
vegnente, il legato attesi d’ogni parte i patti, fece prendere la
tenuta della città di Faenza e di tutte le castella. E innanzi che
la terra si desse al legato, il tiranno fece a’ cittadini gravi
oppressioni, e tolse loro molti danari, e di quelli cui egli odiava
per sospetto fece uccidere. E a questo modo prese fine la tirannia di
messer Giovanni sopraddetto, la quale per lo suo principio fu cagione,
come addietro avemo contato, di molti mali avvenuti in Italia.


CAP. XXXV.

_Che fece la gente della lega de’ Lombardi in questo tempo._

Tornando a’ fatti di Lombardia, essendo stato lungamente il vicario
dell’imperadore colla gente della lega e della compagnia a oste in
sul contado di Milano senza avere trovato contasto, si ridussono a
una villa chiamata Margotto in sul Tesino, e ivi si rassegnarono
tremilacinquecento cavalieri bene armati e bene a cavallo, senza
l’altra cavalleria da saccomanno, e seimila masnadieri: costoro
prendeano molta fidanza, non temendo ch’e’ soldati tedeschi e
borgognoni venissono contro a loro. Il marchese di Monferrato trasse
dell’oste cinquecento cavalieri per un trattato ch’egli avea tenuto
della città di Novara, e a dì 9 di novembre anno detto entrò nella
terra, e presela, e assediò il castello, ch’era grande e forte e
bene fornito di gente alla difesa, e di molta vittuaglia da potere
lungamente attendere il soccorso, e francamente manteneano la difesa.


CAP. XXXVI.

_Della materia medesima._

Avvenne, che presa Novara per lo marchese prosperamente, avendo egli e
messer Azzo da Correggio un altro trattato in Vercelli, si sforzarono
d’avacciare la cavalcata, e per tema di riparo che pensavano vi si
metterebbe per esempio di Novara; e per questo messer Azzo trasse
dell’oste anche settecento barbute di buona gente, e andando per
entrare in Vercelli, a dì 11 di novembre detto, quelli che v’erano
dentro per lo signore di Milano avendo udita la novità di Novara
ripararono alla guardia di Vercelli, sicchè la cavalcata fu invano.
Nondimeno pensando il marchese e messer Azzo che da Milano non potesse
venire loro soccorso, vi si misono a oste, ove stettono più dì; e in
questo mezzo fortuna cambiò la faccia a coloro che troppo si fidavano,
come spesso avviene in fatti di guerra, che fa vinti i vincitori avere
a schifo il suo nemico.


CAP. XXXVII.

_Come l’oste della lega fu rotta dalla gente di Milano._

I signori di Milano che riceveano cotanto oltraggio per la malizia de’
loro soldati, non si ruppono da loro, ma carezzaronli in vista e in
opere, e massimamente certi conestabili più confidenti, e tanto seppono
fare, che una parte ne recarono a loro volontà; e nondimeno per tutte
loro città raccolsono arme de’ soldati de’ loro sudditi e degli altri
Italiani intorno di quattromila cavalieri, e altrettanti n’ebbono
de’ loro soldati; e questo fu fatto per modo, che poco avvisamento
n’ebbono i loro nemici. E sentendo tratti dell’oste del vicario
milledugento barbute per lo fatto di Novara e di Vercelli, subitamente
feciono capitano messer Loderigo de’ Visconti valente cavaliere, ma
di grande età. Costui uscì subito con bene seimila cavalieri e molto
gran popolo di Milano, e andatosene verso i nemici, ch’erano col loro
campo a Margotto in sul Tesino, puosesi a campo a dì 12 di novembre
predetto, presso a’ nemici a tre miglia, e mandò a richiedere il
vescovo di battaglia, la quale richiesta il vicario mostrò d’accettare
allegramente, e ’l termine fu per la domenica mattina vegnente, a dì
13 del mese. Ma vedendosi il vescovo sfornito il campo di milledugento
buoni cavalieri, si provvide la notte di fare valicare il Tesino a
tutta la sua oste, a fine di riducersi con essa presso a Pavia, per
avere il sussidio della città, che troppo gli parea avere grande
disavvantaggio. In questo movimento prigioni si fuggirono ch’avvisarono
messer Loderigo del fatto: il quale di subito la notte mandò messer
Vallerano Interminelli, figliuolo che fu di Castruccio, con trecento
cavalieri, e comandogli che si strignesse co’ nemici francamente,
sicch’egli impedisse la partita loro, tanto ch’e’ giugnesse colla sua
oste, della quale incontanente ordinò le battaglie, e seguitò appresso.
Messer Vallerano fece coraggiosamente il suo servigio, e innanzi
dì assalì il campo ora dall’una parte ora dall’altra, per li quali
assalti molto impedì il valico del Tesino alla gente del vicario. Ma
schiarito il giorno, per lo soperchio della gente del vicario fu preso
colla maggiore parte de’ suoi cavalieri. Nondimeno il carreggio del
campo, e la salmeria, e ’l popolo, e parte de’ cavalieri valicavano
continovamente, e di qua alla riscossa erano rimasi col vicario
dell’imperadore il conte di Lando capitano della compagnia, e messer
Dondaccio di Parma, e messer Ramondino Lupo, e quasi tutti i migliori
conestabili dell’oste con millecinquecento barbute e co’ sopraddetti
prigioni. E avendosi messa innanzi tutta l’altra oste, innanzi che
potessono conducersi al passo, messer Loderigo colla sua cavalleria,
tutti schierati e ordinati alla battaglia, fu loro addosso la mattina
al chiaro dì. I cavalieri del vicario, ch’erano uomini di gran virtù
in fatti d’arme, vedendosi allo stretto partito, tutti s’annodarono
insieme, e feciono testa, e ricevettono l’assalto de’ nemici
francamente, non lasciandosi di serrare, facendo d’arme gran cose
contro al soperchio ch’aveano addosso: e combattendo continovamente
per spazio di tre ore sostennero l’assalto d’ogni parte, danneggiando
molto i nemici loro. Infine la fatica e ’l soperchio della moltitudine
de’ loro avversari li ruppe. Allora molti, che temettono più la paura
che la vergogna, si misono alla fuga e camparono. In sul campo ne
rimasono presi seicento e più, tra’ quali fu il vescovo già detto,
vicario dell’imperadore, e ’l conte di Lando, e messer Ramondino Lupo,
e messer Dondaccio. È vero che ’l conte venne a mano de’ Tedeschi,
che ’l celarono e camparono, e due cavalieri tedeschi camparono messer
Dondaccio, e fuggironsi con lui, e fidaronsi alle sue promesse, e per
diversi cammini il condussono a Firenze, e poi in Lombardia. Tutta
l’altra oste, che avea valicato Tesino, sani e salvi si ricolsono in
Pavia con tutto il carreaggio e l’altro arnese. E questa fu la fine
della nuova impresa del nuovo vicario dell’imperadore, ma non de’ fatti
della lega.


CAP. XXXVIII.

_Il consiglio prese il capitano di Forlì._

Veduto che Francesco degli Ordelaffi ebbe, che Faenza, e tutta l’altra
Romagna, e la Marca, e ’l Ducato era venuta all’ubbidienza di santa
Chiesa, e che al legato ch’avea gran potenza di danari e d’uomini
d’arme, non restava a fare altra guerra che contro a lui, ragunò a
consiglio tutti i buoni uomini di Forlì, e domandò consiglio da loro
di quello ch’avesse a fare. Costoro consigliati insieme, di concordia
feciono dire al capitano in quel consiglio, che la fede e l’amore
ch’e’ Forlivesi aveano sempre portato alla sua casa e a lui non era
in loro mancata; e come altre volte de’ loro propri beni nelle fortune
loro gli aveano atati e mantenuti, tanto ch’elli erano ritornati nella
signoria; così intendeano di fare quando il bisogno incorresse, di che
Iddio il guardasse. Nondimeno conoscendo al presente la gran forza
della Chiesa contro a lui solo, e niuno soccorso, consigliavano che
col legato si trattasse accordo il migliore che avere si potesse. E
di questo avverrebbe, ch’eglino suoi amici non perderebbono i loro
beni, e potrebbonlo sovvenire e atare. Quando egli ebbe udito il loro
consiglio, disse: Ora voglio che voi udiate la mia intenzione. Io
non intendo fare accordo colla Chiesa, se Forlì e l’altre terre ch’io
tengo non mi rimangono, e quelle intendo mantenere e difendere fino
alla morte. E prima Cesena, e le castella di fuori, e Forlimpopoli,
e appresso perdute quelle, le mura di Forlì, e perdute le mura,
difendere le vie e le piazze, all’ultimo questo mio palazzo, e in fine
l’ultima torre di quello, innanzi che per suo assentimento alcuna
n’abbandonasse; e però volea che tutti sapessono in palese la sua
intenzione, pregandoli con minacciamento di gravi minacce che catuno li
fosse fedele amico e leale: e di presente mandò la moglie e’ figliuoli
con buona compagnia di gente d’arme a cavallo e a piè, e raccomandolle
la guardia di Cesena; e fornì di vantaggio tutte le castella, e di
Forlì trasse da capo femmine e fanciulli, e gente disutile in tempo
d’assedio, e soldati mise nelle case e masserizie di certi cittadini
meno confidenti; e così disposto, intendea a difendersi dal legato.


CAP. XXXIX.

_Messer Niccola prese Messina per lo re Luigi._

Tornando nostra materia a’ fatti di Messina, essendo il re Luigi a
Reggio, messer Niccola di Cesaro avea procurato d’avere in sua guardia
il castello di Sansalvadore in sulla marina, e aggiuntosi i cavalieri
di sua setta, ch’avea fatti ritornare da Firenze, si provvide che non
era sicuro a fare sua impresa col re Luigi, s’e’ non avesse il castello
di Mattagrifone sopra Messina, che era fortissimo, e dava l’entrata e
l’uscita della città per la montagna; questo procacciò per ingegno,
che per forza non avea luogo. Il castellano non prendea guardia de’
suoi cittadini, e’ cavalieri tornati da Firenze erano amici, e per
modo d’andarlo a vicitare con alquanti loro famigli, furono con festa
ricevuti da lui; e tenendolo in novelle, com’era ordinato, messer
Niccola sopravvenne con altri suoi compagni, e non gli fu contradetta
l’entrata per mala provvisione del castellano; e trovandosi dentro
forte, cortesemente ne trasse il castellano, ch’era male provveduto
alla difesa. Fornito questo messer Niccola vi mise il castellano e le
guardie a suo modo; e avendo fermo il trattato col re Luigi, il re del
mese di novembre vi mandò messer Niccola Acciaiuoli da Firenze ch’avea
menato questo trattato, con sette galee e un legno armato cariche di
grano, e con lui cinquanta cavalieri e trecento masnadieri di Toscana;
e giunti a Messina, furono ricevuti da messer Niccola di Cesaro e da’
suoi seguaci a grande onore; e ’l popolo ch’avea necessità grande di
vittuaglia, sentendo le galee cariche di grano, fu molto contento, e
incontanente per sicurtà del re fu consegnato al gran siniscalco la
guardia di Sansalvadore, ch’è la forza del porto, e Mattagrifone, ch’è
la guardia della città; e fatto questo, e lasciato in catuno masnadieri
e balestrieri alla guardia, fu condotto il gran siniscalco e l’altra
sua gente d’arme all’abitazione del re, ove trovò due figliuole del
re Petro, le quali ritenute cortesemente mandò poi al re e alla reina
ch’erano a Reggio, e da loro furono ricevute graziosamente, come
appresso racconteremo, e la reina le ritenne con seco onorevolemente.
Qui si desti la memoria della reale eccellenza del re Ruberto: qui
s’agguagli la sua sollecitudine, la sua grande potenza, l’armata di
cento, e di centosessanta, e di dugento galee per volta, e di molte
armate colla forza grande de’ suoi baroni, e della sua cavalleria e
delle sue osti, per acquistare alcuna terra nell’isola di Cicilia non
che Messina, ch’è la corona dell’isola, e non potutolo fare, acciocchè
per esempio si raffreni l’impotente ambizione degli uomini, e non si
stimi alcuna cosa per forza avere fermezza, nè potere fuggire a tempo
le calamità innate nelle mortali e cadevoli cose del mondo.


CAP. XL.

_Come si ribellò Genova a que’ di Milano._

Seguitasi, che in questi dì i Genovesi, i quali di natura sono altieri,
vedendosi sì vilmente sottoposti a’ tiranni di Milano, e che vendicati
s’erano de’ Veneziani e de’ Catalani, per la cui fortuna s’erano
sottoposti al tirannesco giogo, avendo sentito che ’l marchese di
Monferrato avea rubellato a’ tiranni Asti in Piemonte, e che i signori
di Pavia s’erano accostati con lui, e ’l vicario dell’imperadore
era colla gente della lega e colla compagnia a oste in sul Milanese,
innanzi che sapessono della sconfitta del vicario, parendo loro avere
tempo da rubellarsi senza pericolo, a dì 15 di novembre anno detto, il
popolo si levò a romore, e prese l’arme, e corse la terra, gridando:
Viva libertà, e muoiano i tiranni; e corsi al palagio, dov’era il
vicario de’ signori, senza contasto furono messi dentro, e trassonne il
vicario e tutta sua famiglia, e tutte le masnade de’ soldati a cavallo
e a piè con lui misono fuori della città e del loro distretto, senza
fare loro villania o altro male. E incontanente mandarono a Pisa per
messer Simone Boccanegra, ch’era prima stato doge di Genova, il quale
essendo molto amico de’ Pisani, e avendo secondo l’opinione di molti
trattata questa rivoltura, coll’aiuto de’ cavalieri di Pisa e per loro
consiglio si mise per terra, e andò a Genova, e prese la signoria dal
popolo. E per questo modo fu libera la città di Genova dalla signoria
de’ Visconti di Milano, della qual cosa i signori di Milano rimasono
indegnati contro al comune di Pisa, aggiugnendo allo sdegno, ch’aveano
dato aiuto al vicario dell’imperadore quando andò contro a loro, e la
morte di messer Paffetta loro confidente amico; ma tutto comporta nel
tempo l’animo della parte.


CAP. XLI.

_Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo._

Era la chiesa di santo Romolo in sulla piazza de’ priori, e impedia
molto la piazza; entrò un uficio al priorato ch’aveano poco a fare, e
però, come fu loro messo innanzi di rallargare e dirizzare la piazza,
preso di concordia tra loro il partito, subitamente la sera e la
notte feciono mettere in puntelli la chiesa e le case sue, e a dì 20
di novembre tutto feciono rovinare, e ivi presso volgendo le loggie
verso la piazza, ordinarono che si redificasse maggiore e più bella,
e ordinaronvi i danari, e fu fatto. Costoro, a dì 3 di dicembre del
detto anno, volendo fare una gran loggia per lo comune in sulla via di
Vacchereccia, non bene provveduti al beneficio del popolo, subitamente
feciono puntellare e tagliare da piè il nobile palagio e la torre della
guardia della moneta, dov’era la zecca del comune, ch’era dirimpetto
all’entrata del palagio de’ priori in sulla via di Vacchereccia, e
quella abbattuta, e fatta la stima delle case vicine fino al chiasso
de’ Baroncelli e de’ Raugi (biasimati dell’impresa, e che loggia si
convenia a tiranno e non a popolo) vi rimase la piazza de’ casolari, e
la moneta assai debole e vergognosa a cotanto comune. Questo medesimo
uficio comperò da’ Tornaquinci la grande e bella torre ch’aveano sul
canto di mercato vecchio e in sul corso del palio, la quale strignea
e impediva la via del corso; questa feciono abbattere e cadere in sul
mercato all’uscita del loro uficio; e fu molto a grado a’ cittadini, e
utile alla via e al mercato.


CAP. XLII.

_Quello fece messer Filippo di Taranto e di Vercelli._

Era in questi dì a corte di Roma a Avignone messer Filippo di
Taranto fratello carnale del re Luigi, il quale aspettava che ’l papa
dispensasse con lui e con la moglie che s’avea tolta, sirocchia della
reina Giovanna, quella che fu moglie del duca di Durazzo e appresso di
Ruberto del Balzo, ed era sua nipote, figliuola del fratello carnale;
e ’l papa, per l’irreverenza ch’ebbono al sagramento matrimoniale
di copularsi prima ch’avessono la dispensagione, tardava di farla,
e mostrava di non volerla fare: e in questo aspetto messer Filippo
sommosse certi baroni e cavalieri provenzali, e raunò quattrocento
barbute, e tenne segreta la sua cavalcata, avendo boce ch’andava in
aiuto a’ signori di Milano o al marchese; ma egli ch’avea suo trattato
cavalcò a Carasco in Piemonte, e ripresesi la terra, e lasciolla
in ordine di guardia, e se ne tornò a Avignone del detto mese di
novembre. In questo medesimo mese, non ostante la sconfitta del vicario
dell’imperadore, il marchese di Monferrato, e messer Azzo da Correggio,
e ’l conte di Lando, ch’era lasciato, accolsono tutto il rimanente
della loro gente, e que’ di Milano, avendo la vittoria, ne cassarono,
e assediarono di fuori il castello di Novara, e anche dalla parte della
città, e assediarono Vercelli, e tutto il verno mantennero gli assedi,
tanto che vinsono la punga del castello di Novara, come seguendo nostro
trattato al suo tempo diviseremo.


CAP. XLIII.

_Come si fuggì di Milano la donna che fu di messer Luchino col
figliuolo._

Di messer Luchino Visconti tiranno di Milano era rimaso uno figliuolo
nudrito per la madre, ch’era di quelli dal Fiesco di Genova. I tiranni
di Milano, per tema della signoria, l’aveano assottigliato delle
possessioni e del tesoro che ’l padre gli avea lasciato, e il giovane
crescea in aspetto d’essere valoroso e in amore de’ cittadini, e questo
gravava l’animo a’ signori per gelosia dal loro stato. La madre, ch’era
savia e accorta, temea forte che messer Bernabò e messer Galeazzo nol
facessono morire, i quali teneano lui e lei in guardia, ch’uscire non
poteano di Milano. La donna ordinò molto saviamente con danari e con
grandi promesse, con certi conestabili di cavalieri ch’aveano a fare
la guardia, che ’l dì ch’ella disse loro la donna fu provveduta, e
montata in su buoni cavalli, e con parte di loro tesoro furono tratti
di Milano, e avviati con cavalieri in verso Pavia. La cosa fu tosto
manifestata a’ signori; i quali li feciono perseguitare insino presso
a Pavia, e arebbonli ritenuti, se non che gente uscì di Pavia, e
ricevettonli, e tutti condussonli sani e salvi nella città di Pavia.


CAP. XLIV.

_Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina._

Dappoichè per la gente del re Luigi fu presa la tenuta delle fortezze
della città di Messina e del porto, i cittadini ordinarono di comune
consiglio di mandare per lo re e per la reina a Reggio, acciocchè
venissono in Messina a ricevere il saramento e la reverenza come loro
signori; ed elessono undici cittadini i maggiori per ambasciadori,
i quali tutti si vestirono di scarlatto foderato di vaio, e con le
due figliuole di don Petro valicarono a Reggio, del mese di dicembre
anno detto; e giunti là, e fatta la reverenza al re e alla reina,
furono da loro ricevuti con grande allegrezza e festa; e sposta la
loro ambasciata, e pregato il re e la reina che dovessono andare a
Messina, incontanente mandarono a far tornare le loro galee: e ricevute
le damigelle a grande onore, la reina l’ordinò di sua compagnia,
trattandole caritatevolmente in tutte le cose; e venute le galee, il re
e la reina e le damigelle vi montarono suso con tutti gli ambasciadori,
e valicarono a Messina, a dì 24 di dicembre la vigilia di Natale,
ove furono ricevuti con grande solennità di festa, fatta per tutti i
cittadini, e collocati nelle case reali: e fatta la solenne festa del
Natale, ricevettono il saramento e l’omaggio da tutti i cittadini, e
a richiesta de’ cittadini promise il re di risedere colla corte di là,
cosa che poi non attenne.


CAP. XLV.

_Come fu murato il borgo di Fegghine._

Ricordandosi i cittadini di Firenze, come in tutte le gravi guerre
ch’al loro comune erano sopravvenute, il borgo di Fegghine ricevea
le percosse, e veggendo quanto il porto di quel luogo era utile al
fornimento della città, per la grande abbondanza della vittuaglia
che a quello mercato continovamente venia, diliberarono che ’l borgo
si murasse di grosse mura e di buone torri, e facessevisi una grossa
terra alle spese del comune con l’aiuto delle circustanti vicinanze;
e dato l’ordine del mese di dicembre del detto anno, e chiamati gli
uficiali del mese di gennaio, cominciarono a fare i fossi e le porte
principali, e appresso a fondare le mura e le torri. Penossi a compiere
questa terra lungamente, ma fornita fu d’essere circundata di mura da
difesa l’anno 1363, e compiuta e perfetta del mese di.....: Furono le
mura in fondamento grosse braccia .... e sopra terra grosse braccia
... e alte con merli braccia ... con un corridoio dentro in beccatelli
largo braccia ... e con torri alte braccia .... senza le porte, catuna
alta sopra le mura braccia ... E con due porte maestre, l’una verso
Firenze chiamata porta fiorentina, e l’altra verso castello Sangiovanni
chiamata porta aretina, catuna Con gran torri, alte sopra le mura
braccia ... la faccia delle mura di verso Firenze è per lunghezza
braccia ... e diverso l’Arno è braccia ... e quella verso castello
Sangiovanni è braccia ... e quella di verso il poggio è braccia ...
E così in tutto girano le mura di quella terra braccia ... E innanzi
che la terra fosse murata, fu ripiena di molte case nuove edificate
da’ cittadini di Firenze, e da’ paesani d’intorno. Costò al comune
di Firenze fiorini .... e a’ terrazzani e circustanti fiorini....
E in questo medesimo tempo ne fece porre il comune una di nuovo al
Pontassieve di costa ove si dice Filicaia, la quale è più per ridotto
d’una guerra, che per abitazione o per mercato che vi si potesse
allignare.


CAP. XLVI.

_D’un parlamento fece l’imperadore in Alamagna._

L’imperadore Carlo convocati i prelati e’ baroni d’Alamagna alla festa
della natività di Cristo a Mezza nello Reno, vi si trovò con bene
ventimila cavalieri, e in abito della maestà imperiale fu servito
a mensa dal duca di Brandimborgo, e dagli altri baroni ordinati per
consuetudine a quel servigio. E a quella festa vennero ambasciadori
del re d’Inghilterra, e due figliuoli del re di Francia per trattare
pace intra ’l re di Francia e ’l re d’Inghilterra, ma gli Alamanni
poco vi seppono trovare modo, ma trattovvisi la concordia, che poi ebbe
compimento, tra ’l conte di Fiandra e ’l duca di Brabante per l’opera
di Mellina. In quella festa fu molto ubbidito e reverito l’imperadore
da’ prencipi d’Alamagna, e con tutti si mostrò in buona pace. In
questi medesimi dì, a dì 23 di dicembre, papa Innocenzio sesto fece
più cardinali di suo movimento, fra’ quali fu il vescovo di Firenze,
ch’avea nome messer Andrea da Todi valente uomo, il cancelliere di
Parigi uomo di grande autorità, e il generale de’ frati minori e quello
de’ predicatori, che niuno l’avea procurato.


CAP. XLVII.

_Come il marchese di Monferrato ebbe il castello di Novara._

Il Marchese Francesco di Monferrato, come narrato abbiamo addietro,
avea assediato il castello di Novara, ma per via d’assedio o per forza
non si potea avere, ch’era inespugnabile e fornito per molti anni:
ma il valente marchese avea presi e facea guardare i passi del Tesino
per modo, che ’l soccorso più volte mandato pe’ signori di Milano più
volte ributtò addietro, e la rocca fece cavare; e avendo gli assediati
recati a partito, che le mura erano in puntelli nella maggiore parte,
e non attendeano altro che d’arrendersi o di mettervi entro il fuoco;
la gente de’ signori di Milano passò Tesino, per andare a soccorrere
quelli del castello. Il marchese colla sua gente francamente si fece
loro incontro, e nella prima affrontata gli mise in rotta, e fece
loro danno ma non grande. E tornato colla vittoria, fece vedere a
quelli del castello le cave e le mura tagliate, e il loro soccorso
sconfitto: e però, a dì 21 di gennaio s’arrenderono al marchese,
salve le persone, e diedongli il castello fornito d’armadura, e di
saettamento, e d’ogni bene da vivere maravigliosamente. Ed è da notare,
non senza ammirazione, come la famosa potenza de’ signori di Milano,
essendo vittoriosi, come avemo contato, in termine di due mesi e mezzo
non poterono soccorrere il castello di Novara; e tutto avvenne per
la franca e buona sollicitudine del buono marchese. Di questo mese,
a dì 22, in sull’ora della terza trapassò di verso settentrione in
meriggio un grande bordone di fuoco, e valicato per l’aria alla vista
de’ nostri occhi, essendo il tempo chiaro e cheto, s’udì a modo d’un
tuono tremolante avvisato dal movimento del grosso vapore. Videsi la
state singulare e grandissimo caldo, e lungamente secco e sereno, e
molte terzane nell’arie grosse e presso alle fiumare, con seguito di
morti oltre al consueto modo; altro non ne sapemmo notare se da lui
procedette.


CAP. XLVIII.

_Come messer Bernabò volle uccidere messer Pandolfo Malatesti._

Messer Pandolfo figliuolo di messer Malatesta da Rimini giovane
cavaliere, franco e ardito e di grande aspetto, era andato per
esperimentare in arme sua virtù a Milano, fatto capitano di tutta
la cavalleria di messer Galeazzo Visconti: ed era venuto tanto nel
piacere del suo signore, che tutto il consiglio e la confidanza di
messer Galeazzo riposava in messer Pandolfo. Avvenne di questo mese di
gennaio, essendo messer Galeazzo malato di podagre e d’altro, comandò
a messer Pandolfo che cavalcasse per Milano colla sua cavalleria, e
messer Pandolfo fece come comandato gli fu dal suo signore. Questa
cosa parve che generasse sdegno a messer Bernabò, ma non lo volle
dimostrare contro al fratello; ma ivi a pochi dì mandò per messer
Pandolfo, il quale di presente andò a lui e per reverenza gli
s’inginocchiò davanti. Messer Bernabò, avendo in mano una spada dentro
alla guaina, il percosse con essa senza dirgli la cagione: il giovane
sostenne alquanto, ma menandogli sopra la testa, parò il braccio, e
in quella percossa il fodero della spada uscì del ferro; e rimase il
ferro ignudo nelle mani del tiranno, incrudelì forte, e menogli un
colpo di punta, che l’avrebbe passato dall’uno lato all’altro (e fu
bene l’intenzione del tiranno d’ucciderlo) ma per schifare il colpo,
il giovane cavaliere si lasciò cadere in terra, e ’l colpo andò in
vano. Intanto la moglie di messer Bernabò, ch’era presente, con gli
altri circostanti cominciarono a riprenderlo, dicendo, che non era
suo onore in casa sua colle sue mani volere uccidere un gentile uomo.
E per questo si ritenne, e fecelo prendere e legare, e comandò che
fosse decapitato. Messer Galeazzo sentendo il furore del fratello,
mandò a lui prima la moglie, e appresso due suoi cavalieri, pregandolo
che gli rimandasse il suo capitano. Allora disse messer Bernabò: Dite
al mio frate, che questi ha offeso lui come me, e io gliel rimando,
acciocchè ne faccia giustizia, e non perdoni a costui la nostra onta.
Come messer Galeazzo il riebbe, senza alcuno arresto in quell’ora il
fece accompagnare per le sue terre, e rimandollo in suo paese. La
cagione che messer Bernabò disse palese della sua ingiuria fu, che
’l giovane dovea usare con una donna colla quale usava egli, e che
conobbe a messer Pandolfo in dito un suo anello. La cagione segreta, a
che più si diede fede, fu, perchè gli parea che costui facesse troppo
montare il suo fratello nella consorte signoria. Pochi dì appresso
si mostrò di ciò un altro segno; che essendo venuti a parole due
scudieri, l’uno di messer Bernabò, e l’altro di messer Galeazzo, e
dalle parole a mischia, ove fu fedito il famiglio di messer Bernabò,
e quello di messer Galeazzo rifuggito in casa il suo signore, di
presente messer Bernabò vi cavalcò in persona; e vedendo il fratello
alle finestre, gli disse, che gli mandasse giù quello scudiere che
avea fedito il suo. Messer Galeazzo glie le mandò; e lo scudiere gli
si gettò a’ piedi domandandogli misericordia. La misericordia che
gli fece fu, che negli occhi del fratello il fece tutto stampanare,
e lasciolli il corpo senza anima così forato all’uscio, e tornossi a
casa. Avvenne ancora in questi dì, che un giovane di buona famiglia
di Bergamo, essendo richiesto da uno messo per la signoria, il prese
per la barba, e confessato in giudicio il fallo suo, fu condannato in
venticinque libbre. Sentendolo messer Bernabò, scrisse al potestà che
gli facesse tagliare la mano. E avendolo il potestà preso per seguire
il comandamento, i buoni cittadini della città comparenti del giovane,
parendo loro troppa dura cosa questo giudicio, operarono tanto con il
potestà, che sostenne l’esecuzione tanto ch’eglino andassono per avere
grazia dal signore. Come il tiranno sentì per questi ambasciadori ch’al
giovane non era tagliata la mano, comandò che al giovane le due, e al
potestà l’una fossono tagliate, e a fare questo vi mandò gli esecutori.
La potestà sentendo il crudele comandamento, col giovane ch’avea
preso si fuggirono in uno castello ribello al tiranno. E non molto
di lungi da questi dì uno lavoratore uccise con una mazza una lepre,
che gli occorse per caso tra le mani, e portolla all’oste suo, ch’era
grande cittadino di Milano, e dimestico di messer Bernabò. Vedendola
costui sformatamente grande e grassa la presentò a messer Bernabò; il
quale veduta la lepre, si maravigliò, e domandò ov’ell’era nudrita:
fugli detto, ch’ell’era stata presa per lo cotale lavoratore. Mandò
per lui, e domandollo come l’avea presa. Il lavoratore lietamente
gli raccontò il caso intervenuto. Il tiranno, perchè avea comandato
che il salvaggiume non si pigliasse con alcuno ingegno, fuori che co’
cani o uccelli, non avendo compassione alla semplicità del villano, nè
al caso occorso, incrudelì contro al semplice; e mandato per li suoi
cani alani, nella sua presenza il fece morire e dilacerare a quelli.
Le crudeltà sono poco degne di memoria, ma alquanto ci scusa averne
raccontate delle molte alcune, per esempio del pericolo che si corre
sotto il giogo della sfrenata tirannia.


CAP. XLIX.

_Come i Genovesi racquistarono Savona._

Messer Simone Boccanegra doge di Genova, avendo ripresa la signoria
per lo popolo, mandò per avere tutte le terre e castella della riviera
di levante e di ponente e fra terra, e in breve tutti feciono i suoi
comandamenti, fuori che Savona, Ventimiglia, e Monaco; i quali essendo
in forza de’ Grimaldi, e d’altri gentili uomini di Genova, non vollono
ubbidire il doge. E però il doge commosse il popolo, e per mare e per
terra fece assediare Savona, e strignerla per modo, che tosto venne
in soffratta; e quelli che la teneano avendola di poco rubellata
al Biscione, non erano provveduti a potere avere soccorso, e però
trattarono certi patti, e del mese di febbraio del detto anno feciono
i comandamenti del doge, e ricevettono la sua signoria e del popolo di
Genova.


CAP. L.

_Guerra dal re di Castella a quello d’Araona._

Pella guerra incominciata, come addietro è narrato, tra ’l re di
Castella e quello d’Araona, il re di Castella essendo apparecchiato
con sua gente, improvviso al suo avversario cavalcò sopra le terre
di quello d’Araona, e danneggiò assai il paese, e per forza vinse e
prese la città di Saragozza, e arse la terra, e ritennesi la rocca, e
misevi gente alla guardia. Di questo nacque l’abboccamento che appresso
ne seguitò de’ due re con tutto loro sforzo, come seguendo al tempo
racconteremo. E questo avvenne del mese di febbraio del detto anno.


CAP. LI.

_Come messer Filippo di Navarra cavalcò presso a Parigi._

Messer Filippo fratello carnale del re di Navarra, ch’era preso dal re
di Francia, si mise in compagnia del conte di Lancastro, e con molti
cavalieri e arcieri cavalcarono verso Parigi, scorrendo e predando il
paese, senza trovare in campo alcuno contasto, e accostaronsi presso a
Parigi a quindici leghe, e di là elesse messer Filippo mille cavalieri
Franceschi, navarresi e normandi, e con essi cavalcò all’uscita di
gennaio del detto anno infino presso a Parigi a tre leghe, ardendo
ville casali e manieri in grande quantità, e uccidendo e predando bene
alla disperata; e sì avea in quell’ora in Parigi cinquemila cavalieri
armati, e non ebbono ardire d’uscire della città, tanto erano inviliti.
E avendo per questo modo danneggiato il paese, e fatto onta e vergogna
al vilissimo Delfino, raccolta sua preda, con tutta sua gente sano e
salvo si tornò al conte, e di là tutti insieme carichi degli arnesi e
de’ beni de’ Franceschi, e di loro prigioni si tornarono, senza vedere
viso di nemico, in loro paese. In questi dì il Delfino s’era rimesso
nel consiglio e nelle mani di certi borgesi, i quali erano stati
eletti per comune consiglio del popolo di Parigi, e avea giurato nelle
loro mani di fare pace e guerra come per loro si diliberasse. E molti
stimarono che questa fosse la cagione perchè non uscì contro a messer
Filippo di Navarra, potendolo fare con molta maggiore forza per numero
di cavalieri che non avea egli.


CAP. LII.

_Come si cominciò le mulina del comune di Firenze._

Del mese di marzo, anno 1356 all’entrante, diliberò il comune di
Firenze di far fare la gran pescaia in Arno sopra la città, dalla
torre del Renaio alla porta di san Niccolò, e ’l canale che prende
di sopra a san Niccolò infino al Ponte rubaconte da san Gregorio, nel
quale ordinarono e poi fornirono due case a traverso al canale, l’una
di sopra e l’altra di sotto, catuna con sei palmenta per lo comune
molto bene edificate, e ancora per ordine vi se ne dovea fare quattro
penzole. Provvide questo il comune per fatti delle guerre di fuori,
che faceano alcuna volta venire di farina la città in gran soffratta,
e queste vengono nella guardia dentro alle mura della città, e spesso
hanno d’acqua grande abbondanza.


CAP. LIII.

_Come il reame di Francia ebbe gran divisione._

Detto abbiamo poco addietro come i borgesi di Parigi doveano guidare
il Delfino e ’l reame, ma il mestiere di tanto fascio non era loro;
e per la presura del re Giovanni, e per la codardia del Delfino suo
figliuolo, l’ordine del consueto corso del reame era rotto, e’ baroni
e’ popoli si governavano a loro senno, e’ borgesi di Parigi non poteano
nè sapeano riparare. Gl’Inghilesi tennono con loro trattati d’accordo,
e a mano a mano gli cavalcavano, facendo loro gran danni; e però,
credendosi potere meglio riparare, ordinarono di comune concordia del
reame che la balía e ’l consiglio del reggimento in quelle fortune
fosse di tre prelati, e di tre baroni, e di tre borgesi, con piena
balía di potere fare pace e guerra, e leggi e comandamenti come a loro
paresse; e convenne che ’l Delfino acconsentisse a questo reggimento, e
promettesse reggersi per loro consiglio. Dall’altra parte tutti quelli
di Linguadoca feciono loro conducitore il conte d’Ormignac, dandoli
due altri cavalieri per suo consiglio per certo termine, e ’l Delfino
convenne che glie le confermasse; della qual cosa nacque lo sdegno del
conte di Fucì, che fu poi cagione di gran guerra tra loro, come innanzi
si potrà trovare. Nel principio di questo nuovo reggimento al tutto si
mostrarono strani di non volere udire trattato di pace, e cominciarono
a dare ordine d’accogliere danari per fornirsi di cavalieri soldati,
e parve in questi principii dovessono fare gran cose; ma in poco di
tempo, come catuno ebbe fornite sue spezialità per virtù dell’uficio,
lasciarono in abbandono il consiglio del comune reggimento, e senza
ordine trascorsono alla figura della ruina dello sviato regno. I
Piccardi prima avvedendosi di questo, presono da loro di reggersi per
sè, e non conferire nè ubbidire alle colte, nè agli ordini de’ detti
uficiali, e così feciono molte altre provincie e ville del reame; e
di questo nacquono poi cose di gravi danni di tutto il reame, come
seguendo nostra materia si potrà trovare.


CAP. LIV.

_Morte del conte Simone di Chiaramonte in Cicilia._

Essendo il re Luigi in Messina, vi venne il conte Simone di
Chiaramonte; e parendogli avere fatto al detto re gran cose, perocchè
era principale cagione d’avergli fatto avere Messina, e l’altre terre
e castella dell’isola, parendogli dovere avere dal re ogni grazia,
gli addomandò di volere per moglie dama Bianca una delle figliuole di
don Petro che fu re di Cicilia, e oltre a ciò si mostrava in atto e
nel suo parlare più superbo che altiero. Al re e al suo consiglio non
parve convenevole la sua domanda, che tant’era come dargli il regno, e
però entrò in trattato con lui di volergli dare la figliuola del duca
di Durazzo. E in questo stante al conte venne male, che in sette dì si
trovò morto. Sospetto fu, che ’l consiglio del re avesse aoperato nella
sua morte, per tema ch’e’ non movesse novità grandi nell’isola, come
potea, non avendo dal re la sua intenzione. Se natural fu, assai fu a
grado al re e al suo consiglio. E questo avvenne di marzo, anno detto
1356.


CAP. LV.

_Come si liberò il Borgo a Sansepolcro da tirannia._

Francesco di Nieri da Faggiuola essendo come tiranno signore del
Borgo a Sansepolcro, e per tenere quello avea perdute certe delle
sue proprie castella, e vedendosi debole in quello reggimento, trattò
co’ terrazzani d’avere da loro seimila fiorini d’oro, e lasciarli in
libertà; e avendone già avuti tremila, e data la fortezza a guardia
de’ terrazzani, certi Boccognani, ch’erano in bando di Perugia e
riparavansi con lui, il ripresono di viltà, e dissono che nol dovea
fare, ma se avarazia di danari il movea, elli gli farebbono dare
quindicimila fiorini in tre dì al comune di Perugia dando loro
la terra. Costui stretto dalla cupidigia della moneta diè il suo
consentimento a que’ Perugini. Ed egli avea ancora il titolo della
signoria, e le masnade de’ forestieri a piè da poter mettere i
Perugini nella terra, s’e’ borghigiani non se ne fossono accorti, ma
sentirono il fatto; e senza attendere il dì, la notte furono tutti
sotto l’arme, e per forza trassono Francesco e tutti i soldati del
Borgo, e accompagnandoli, gli ebbono condotti in sul terreno di Città
di Castello. Ivi il lasciarono co’ suoi soldati, i quali il ritennono
tanto, ch’e’ tremila fiorini ch’avea avuto da’ borghigiani vennono
nelle loro mani; e avuti i danari, e de’ suoi arnesi, il lasciarono
andare povero e mendico, com’egli avea meritato. I borghigiani usciti
delle mani del tiranno ghibellino si riformarono a popolo e a parte
guelfa, tenendo di fuori tutti i Boccognani ghibellini ch’aveano
tradita la loro terra, come addietro contammo, e’ loro seguaci.


CAP. LVI.

_Come l’abate di Clugnì succedette al cardinale di Spagna._

Avea, come si può vedere addietro, il cardinale di Spagna legato del
papa con prospera fortuna racquistato a santa Chiesa tolte le terre,
ch’erano state occupate lungamente a santa Chiesa nel Patrimonio, nella
Marca, nel Ducato e in Romagna, salvo quelle che tenea il signore di
Forlì, e contro a quelle s’era apparecchiato di vincerle. In questo il
papa, o che fosse movimento suo o de’ cardinali, o fatto a richiesta
o a motiva del legato, la Chiesa mandò successore a fornire le guerre,
che restavano, e a mantenere le ragioni di santa Chiesa in Italia, per
successore del valoroso cardinale di Spagna l’abate di Clugnì con piena
legazione; il quale giunse a Faenza all’entrante d’aprile anni 1357. E
come l’abate fu giunto, la gente della Chiesa in una cavalcata fatta
sopra Forlì, alla quale il capitano uscì incontro per riscuotere la
preda, e’ cadde in un aguato ove perdè da cento uomini di suo i più a
cavallo. E come il nuovo legato fu posato, il legato fece venire a Fano
tutti i maggiori caporali del Patrimonio, e del Ducato, e della Marca
e di Romagna, e ambasciadori delle comunanze, e in quel parlamento il
cardinale fece suo sermone, commendando coloro ch’avea trovati fedeli e
leali a santa Chiesa, e ammonì e pregò tutti generalmente che dovessono
stare in ubbidienza e in fede di santa Chiesa, e a servire il nuovo
legato lealmente come aveano fatto lui, commendando largamente in tutte
le virtù il suo successore, e dicendo come sua intenzione era di voler
tornare a corte di Roma di presente; e questo fu a dì 27 d’aprile del
detto anno. I savi uomini ch’erano in quel parlamento, che conoscevano
il pericolo che correa il paese ancora in guerra partendosi il legato
cardinale, ch’avea l’amore di tutti e le cose aperte nelle mani, il
pregarono di comune consiglio che non si dovesse partire del paese
insino al settembre prossimo: l’abate medesimo con ogn’istanza per
sua parte e per beneficio di santa Chiesa il ne richiese: ond’egli
conoscendo la necessità, affinchè l’acquisto fatto per lui prendesse
più fermezza, acconsentì di stare alle loro preghiere questo tempo. E
quello che principalmente più l’indusse, fu l’impresa ch’avea ordinata
contro all’aspra rubellione del capitano di Forlì, che per vantaggio
che ’l cardinale gli avesse voluto fare, non volea a santa Chiesa
restituire in pace le città di Forlì e di Cesena.


CAP. LVII.

_Come il re di Francia fu menato in Inghilterra._

Tornando nostra materia a’ fatti del re di Francia, ch’era in prigione
a Bordello in Guascogna, i Guasconi, a cui e’ s’era accomandato, non
volendo acconsentire al re d’Inghilterra di mandarglielo nell’isola
com’e’ volea, si pensò il re di fare per ingegno quello che per sua
autorità, senza indegnazione de’ Guasconi co’ quali avea vinta la
sua guerra, nol potea fare. E però fece venire i legati al figliuolo
in Guascogna, e mandovvi i maggiori de’ suoi baroni a trattare la
pace colla persona del re e co’ legati. E recata la cosa per lungo
dibattimento a concordia, per dare più fede al fatto, fu ordinata e
bandita nell’uno reame e nell’altro triegua per due anni; e’ patti
della pace recati in iscritture private, con patto, che per fare onore
al re d’Inghilterra, e per maggior bene della pace, il re dovesse
andare nell’isola, e con lui i legati di santa Chiesa e tutti i baroni
ch’erano presi, acciocchè la pace nella presenza de’ due re e de’
legati avesse la sua intera e piena fermezza. E per questo ingegno,
acconsentendo i Guasconi alla volontà del re e de’ legati, fu il re
di Francia e gli altri baroni liberati al duca di Guales, i quali
con gran compagnia di baroni e di cavalieri inghilesi gli condussono
in Inghilterra, dove furono ricevuti con quella festa e onore ch’al
suo tempo innanzi diviseremo: e questa partita da Bordello fu fatta
d’aprile del detto anno.


CAP. LVIII.

_Come la gente della Chiesa entrò in Cesena._

Dappoichè il cardinale legato ebbe preso partito di rimanere a fornire
la guerra di Romagna, come detto è, ordinò la sua gente d’arme a
cavallo e a piè, e tutti i sudditi richiese d’aiuto; e fece pubblicare
la sentenza contro al capitano di Forlì e contro a chi gli desse
aiuto o favore, e a dì 24 d’aprile anno detto fece scorrere la sua
gente intorno a Forlì, e presono Castelvecchio, e predarono il paese
facendo assai danno, e il capitano a questa volta si stette dentro
alle mura. Avea, come detto è, Francesco Ordelaffi, detto capitano,
mandato alla guardia di Cesena la valente sua donna madonna Cia,
figliuola di Vanni da Susinana degli Ubaldini, con dugento cavalieri
e con assai masnadieri, e comandato a tutti che l’ubbidissono come
la sua persona; e per suo consiglio l’avea dato Sgariglino di....
suo intimo amico. Questa mantenea la guardia della città con grande
sollecitudine: ma i cittadini sentendo la molta gente d’arme ch’avea
il legato, e che contro a loro s’apparecchiavano le percosse, e non si
vedeano potenti alla difesa, quasi in subito movimento ordinarono di
ricevere nella terra di sotto la gente del legato; il quale subitamente
vi mandò millecinquecento cavalieri, e senza contasto furono messi pe’
terrazzani nelle prime cinte delle mura. La donna colla sua forza per
l’improvviso caso non potè riparare a’ nemici, ma ridussesi in quella
parte più alta della terra che si chiama la murata e nella rocca,
all’uscita d’aprile predetto, con tutte le sue masnade da piè e da
cavallo. E presi tre cittadini ch’erano stati al trattato, in sulla
murata li fece decapitare e gittarli di sotto a’ nemici; e con animo
ardito e franco più che virile prese la difesa del minore cerchio e
della rocca con sollecita guardia di dì e di notte, mostrando di poco
temere cosa ch’avvenuta le fosse.


CAP. LIX.

_Come il legato con sua forza andò a Cesena._

Come il legato ebbe la sua gente in Cesena, di presente mandò tutta
l’altra sua cavalleria e fanti a piè a Cesena per assediare la donna e
la sua gente nella murata e nella rocca, innanzi ch’ella potesse avere
altro soccorso, e fece pigliare un monistero ch’era in un colle al pari
della rocca, e fecevi stare gente a cavallo e a piè sì forte, che da
quella parte la rocca non potesse essere soccorsa, e nella terra di
sotto provvide d’afforzarsi per modo che maggior forza che la sua non
gli potesse nuocere: e’ soldati del cardinale avendo contro a’ patti
rubati i terrazzani, avea fatto cambiare loro gli animi, per la qual
cosa la guardia della terra convenia essere grande e forte, e in questo
per tenerli forniti ebbe il legato somma sollecitudine. La valente
madonna Cia dalla sua parte facea francamente dì e notte buona guardia,
tenendosi in grande ordine alla difesa.


CAP. LX.

_Abboccamento e triegua fatta dal re di Spagna al re d’Araona._

Del mese d’aprile anno detto, il re di Castella avendo oltraggiato
in mare e in terra quello d’Araona, come abbiamo contato, temendo
che il re d’Araona non venisse sopra le sue terre colla sua oste,
s’avacciò, e accolse tra Spagnuoli, e infedeli Giannetti, e Mori,
cinquemila cavalieri e grandissimo popolo, e vennesene in sulle terre
d’Araona; e pose campo intorno a Samona, la quale poco innanzi avea
tolta a’ Catalani, e ivi attese il re d’Araona affine di combattersi
con lui. Il re d’Araona avea fatto suo sforzo, e venne contro a lui con
tremilacinquecento cavalieri catalani, e con moltitudine di mugaveri
a piè con loro dardi, e pose il suo campo assai presso a quello degli
Spagnuoli; e catuno s’ordinava per venire alla battaglia. E perchè
il re d’Araona non avesse tanta gente a cavallo quanta il re di
Spagna, non avea minore speranza nella vittoria, perocchè avea buoni
cavalieri, e tutti d’una lingua, e animosi contro gli Spagnuoli, e
dove abboccati si fossono, non era senza effusione di sangue grande,
ma, come a Dio piacque, baroni di catuna parte si misono in mezzo, e
mostrarono a’ signori come di lieve cagione non si convenia a’ due re
essere operatori di tanto male, e presono ordine di trattare la pace,
e in quello stante feciono fare loro due anni di triegua; e del mese di
maggio del detto anno catuno si tornò addietro con tutta sua gente nel
suo reame.


CAP. LXI.

_Come Rezzuolo si diede a’ Fiorentini._

I terrazzani del castello di Rezzuolo, dappoichè furono liberati
dall’assedio del conte Ruberto da Battifolle per comandamento del
comune di Firenze, s’intesono insieme, e recaronsi in guardia e
ubbidiano male Marco di messer Piero Sacconi, perchè si pensava non
poterlo tenere. Nondimeno vi mandò, gente d’arme per guardare la rocca,
dando boce che ’l volea dare al comune di Firenze, perchè sentiva della
volontà de’ terrazzani; ma quelli del castello non li vollono ricevere,
ma feciono loro sindaco con pieno mandato, a darsi liberamente e
farsi contadini di Firenze, e Marco mandò ancora suo procuratore a
Firenze colle ragioni ch’avea nel castello per darle al comune. I
Fiorentini presono prima le ragioni di Marco, e appresso quelle degli
uomini del castello, e questo fu fatto a dì 29 d’aprile anno detto. E
recato Rezzuolo col suo contado a contado di Firenze, e aggiunto colla
montagna fiorentina con cui confinava, e già per questo Marco non si
fece amico de’ Fiorentini, nè i Fiorentini, di lui.


CAP. LXII.

_Come i Pisani vollono torre Uzzano a’ Fiorentini._

I Pisani veggendosi privati del porto, e della mercatanzia, e de’
mercatanti forestieri, della qual cosa seguitava alla loro città
mancamento delle rendite del comune, e incomportabile danno agli
artefici e a’ mercatanti, e scandalo e riprensione tra’ cittadini,
coloro che reggeano lo stato con grande astuzia pensavano di trovare
modo con loro vantaggio, ch’e’ Fiorentini si movessono contro a loro
in guerra, stimando, se guerra si movesse, i cittadini di Pisa, che
sono animosi contro a’ Fiorentini, dimenticherebbono ogni altra cosa
di mercatanzia e di loro mestieri; e però cominciarono certo trattato
in Uzzano di Valdinievole per torlo al comune di Firenze, non avendo
il detto comune per tutta l’ingiuria della franchigia tolta a’ loro
cittadini voluta rompere la pace. Il trattato si scoperse, e Uzzano e
tutte l’altre terre si rifornirono pe’ Fiorentini di migliore guardia,
e presesi per consiglio di dissimulare l’ingiuria. È oltre a questo
usarono un altro scalterimento. Il doge di Genova era singulare loro
amico, e sotto la sua baldanza mandarono ambasciadori a Genova, i
quali fermarono compagnia e lega col doge per un anno, e co’ Genovesi,
a tenere certe galee in mare per non lasciare andare mercatanzia a
Talamone, ma farla scaricare in Porto pisano; e dierono a intendere
a’ Genovesi, che quest’era di volontà de’ Fiorentini ch’aveano voglia
di tornarsi a Pisa, ma non voleano mancare a’ Sanesi per loro fatto
la promessa del porto di Talamone. E fornita la lega, con moltitudine
di stromenti la feciono bandire, e nel bando dire, che i Fiorentini
potessono colle persone e colle loro mercatanzie andare, stare, e
navicare, e mettere e trarre del loro porto, e della città e distretto,
sani e salvi, e franchi e liberi d’ogni dazio, e gabella e dirittura.
E con questa loro provvisione credettono levare i Fiorentini dalla loro
impresa di Talamone, ma trovaronsi ingannati, come appresso diviseremo.


CAP. LXIII.

_Come i Pisani armarono galee per impedire il porto._

I Fiorentini sentendo i maliziosi agnati de’ Pisani, infinsono, come
detto è il fatto d’Uzzano, e mandarono ambasciadori a Genova per
avvisare il consiglio e il popolo di quella città l’inganno col quale i
Pisani gli aveano indotti a fare lega contro al comune di Firenze. Il
doge per la singolare amistà ch’avea co’ Pisani non lasciò avere loro
il consiglio, sicchè non poterono fare quello perchè andati v’erano,
e tornaronsi addietro non senza mormorio de’ cittadini che ’l seppono
contro al doge. I Fiorentini conoscendo quanto danno tornava a’ Pisani
il perdimento del porto e della mercatanzia più l’un dì che l’altro,
aggravarono l’ordine del divieto, e aggiungono, che chi consigliasse,
o procurasse o trattasse, o in segreto o in palese, che a Pisa si
tornasse, fosse condannato nell’avere e nella persona; e mandarono in
Proenza a fare armare galee per conducere la mercatanzia, e’ mercatanti
si procacciarono cammino di Fiandra a. Vinegia ed a Avignone per terra,
non curandosi, di maggior costo, e ogni cosa comportavano lietamente,
acciocchè ’l comune mantenesse l’impresa. I Pisani si sforzarono tanto
ch’ebbono sei galee armate, e più volte cercarono di prendere e ardere
Talamone; la cosa si rimase in questi termini lungamente, tanto, ch’e’
Fiorentini, procurarono di ributtarli in mare.


CAP. LXIV.

_L’aiuto mandò messer Bernabò al capitano di Forlì._

Il capitano di Forlì, sentendo le masnade del legato in Cesena, e
posta la bastita alla rocca, e racchiusa la moglie e i figliuoli
nella murata, mandò per soccorso a messer Bernabò signore di Milano
in cui riposava tutta sua speranza, il quale incontanente intese ad
apparecchiarli il soccorso. Ma perchè scoprire non si volea allora
nemico di santa Chiesa, trattò col conte di Lando caporale della
compagnia, e segretamente si convenne con lui per li suoi danari;
e fece servigio a se del levargli a’ nemici, e mandogli in Romagna
contro al legato, perchè atassono il capitano di Forlì suo amico. E
innanzi che la compagnia si partisse, per dare speranza agli amici,
e raffrenare le imprese del legato, mandò in sul Modenese duemila
barbute della sua propria cavalleria, e ivi si stavano senza fare
guerra, tenendo in sospetto i Lombardi e ’l legato. In questo tempo il
legato si studiava di strignere e forte quelli della murata di Cesena,
dando loro il dì e la notte gravi assalti, e rittivi più trabocchi,
gli fracassava d’ogni parte; e oltre a ciò, tentava con trattati e con
spendio d’avere la murata innanzi che la compagnia venisse. Di questo
nacque, che madonna Già avendo alcuno sentore, che senza sua saputa
l’antico amico del capitano, il quale era in sua compagnia, Sgariglino,
trattava alcuno accordo col legato per salvezza di tutti gli assediati,
di presente il fece prendere e tagliargli la testa, del mese di maggio
anno detto. Ella sola rimase guidatore della guerra e capitana de’
soldati, e il dì e la notte coll’arme indosso difendea la murata dagli
assalti della gente del legato sì virtuosamente, e con così ardito e
fiero animo, che gli amici e’ nemici fortemente la ridottavano, non
meno che se la persona del capitano fosse presente.


CAP. LXV.

_Come il conte d’Armignacca da Tolasana per gravezze fu cacciato._

Di questo mese di maggio, essendo venuto il conte d’Armignacca capitano
di quelli dei reame di Francia di Linguadoca, ed essendo venuto alla
città di Tolosa, e trattando di fare gravezze per accogliere danari
per la comune bisogna della guerra, il popolo si levò a romore e furore
contro al conte, dicendo, ch’egli era sturbatore della pace, e voleali
mettere in disusate gravezze; e corsono al palagio ov’egli abitava,
e non potendovi entrare per forza, l’assediarono, e cominciarono
ad affocare le porte. E soprastando la difesa, i gentili uomini di
Tolosana si misono in mezzo, e feciono promettere e giurare al conte,
che non renderebbe mal merito al popolo di Tolosa di ciò ch’aveva fatto
contro a lui, e che non farebbe alcuna gravezza alla villa. E fatti i
patti, il conte s’assicurò nelle mani de’ gentili uomini: e quetato il
popolo, sano e salvo il condussono in suo paese colla sua gente.


CAP. LXVI.

_Conta dell’onore fatto al re di Francia in Inghilterra._

Avendo il duca di Guales e gli altri baroni d’Inghilterra condotto
il re di Francia, e ’l figliuolo, e gli altri baroni presi nella
battaglia, nell’isola d’Inghilterra, feciono assapere al re Adoardo
la loro venuta. Il re di presente fece assembrare in Londra di tutta
l’isola baroni, e cavalieri d’arme, e gran borgesi per volere fare
singulare festa in onore del re di Francia per la sua venuta; e fece
ch’e’ cavalieri si vestissono d’assisa, e li scudieri e’ borgesi,
e per piacere al loro re catuno si sforzò di comparire orrevole e
bello; e ordinato fu che tutti andassono incontro al re di Francia,
e facessongli reverenza, e onore, e compagnia, e ’l re Adoardo in
persona vestito d’assisa, con alquanti de’ suoi più alti baroni, avendo
ordinata sua caccia a una foresta in sul cammino fuori di Londra,
si mise là co’ detti suoi baroni; e mandato innanzi incontro al re
di Francia tutta la sopraddetta cavalleria, com’egli s’approssimò
alla foresta, il re d’Inghilterra uscito dalla foresta per traverso
s’aggiunse col re di Francia in sul cammino, e avvallato il cappuccio,
inchinatolo con reverenza, gli disse salutandolo: Bel caro cugino,
voi siate il ben venuto nell’isola d’Inghilterra. E ’l re avvallato il
suo cappuccio gli rispose, che ben foss’egli trovato. E appresso il re
d’Inghilterra l’invitò alla caccia, ed egli lo merciò dicendo che non
era tempo: e ’l re disse a lui: Voi potete e a caccia e riviera ogni
vostro diporto prendere nell’isola. Il re di Francia glie ne rendè
grazie. E detto, addio bel cugino, si ritornò nella foresta alla sua
caccia, e ’l re di Francia con tutta la compagnia degl’Inghilesi con
gran festa fu condotto nella città di Londra, essendo montato in sul
maggiore destriere dell’isola spagnuolo adorno realmente, e guidato
da’ baroni al freno e alla sella, con dimostramento di grande onore fu
guidato per tutte le buone vie della città, ordinate e parate a quello
reale servigio, acciocchè tutti gl’Inghilesi piccoli e grandi, donne
e fanciulli il potessono vedere. E con questa solennità fu condotto
fuori della terra all’abitazione reale; e ivi apparecchiata la desinea
con magnifico paramento d’oro, e d’arnesi, e di argento, e di nobili
vivande, fu ricevuto e servito alla mensa realmente, e tutti gli
altri baroni, e il figliuolo del re, ch’erano prigioni, furono onorati
conseguentemente in questa giornata, che fu a dì 24 di maggio del detto
anno. Per questa singolare allegrezza e festa si diede più piena fede
che la pace fosse ferma e fatta; ma chi vuole riguardare la verità del
fatto, conoscerà in questo processo accresciuta la miseria dell’uno re
e esaltata la pompa dell’altro, e quello che si nascose nella simulata
festa si manifestò appresso ne’ fatti che ne seguirono, come seguendo,
ne’ tempi racconteremo.


CAP. LXVII.

_Trattato tenuto per li Fiorentini in accordare il capitano di Forlì
con il legato._

In questi medesimi dì, vedendo i Fiorentini la durezza del capitano
di Forlì, e temendo che l’avvenimento della compagnia e d’altra nuova
gente d’arme in Romagna non rimbalzasse in loro dannaggio, mandarono
ambasciadori allegato, i quali voleano essere mezzani a trovare accordo
e pace intra lui e ’l capitano di Forlì; e intesisi col legato, il
trovarono grazioso per amore de’ Fiorentini alla concordia, e con
buona speranza andarono al capitano di Forlì, il quale li ricevette
onorevolmente; e udita l’ambasciata, ringraziò gli ambasciadori, e
disse ch’era contento d’avere pace col legato e con santa Chiesa,
rimanendo egli signore di Forlì, e di Cesena, e di tutte le terre che
tenea, volendole riconoscere da santa Chiesa, e per omaggio pagare ogni
anno quel censo alla Chiesa che fosse convenevole; per altro modo non
voleva che se ne parlasse, e a questo era fermo; e per questo modo si
tornarono a Firenze senza frutto alcuno.


CAP. LXVIII.

_Come il legato ebbe la murata di Cesena._

Trapassate le parole del trattato, il legato, ch’avea l’animo sollecito
a vincere sua punga, innanzi che ’l soccorso giugnesse a’ nemici,
a dì 28 di maggio anno detto, ordinata sua gente e molti dificii da
combattere la murata, fece d’ogni parte cominciare la battaglia aspra
e forte, e avendo provveduto alcuna parte del muro si poteva per cave
abbattere, il fece rovinare, e que’ dentro subitamente ripararono
con steccati; e aggravando la battaglia d’ogni parte, rinfrescandosi
spesso per quelli di fuori nuovi combattitori, e dove il muro era
caduto, quivi senza arresto si continova va sì aspra battaglia, che
quelli ch’erano alla difesa, per lo soperchio affanno di loro corpi,
senza potere avere rinfrescamento, conobbono di non potere sostenere, e
l’altre parti erano ancora sì strette da’ combattitori che non poteano
soccorrere alle più deboli parti; e vedendosi non potere più resistere,
benchè assai avessono morti e fediti e magagnati de’ loro avversari,
diedono segno tra loro, e abbandonarono la murata, e ridussonsi nella
rocca, e la gente del legato di presente vittoriosamente la si prese.
Madonna Cia avendo fatto maravigliosamente d’arme e di capitaneria alla
difesa, si ridusse con quattrocento tra cavalieri e masnadieri nella
rocca, acconci a’ comandamenti della donna per singulare amore infino
alla morte.


CAP. LXIX.

_De’ fatti di madonna Cia donna del capitano di Forlì._

Racchiusa madonna Cia nella rocca con Sinibaldo suo giovane figliuolo,
e con due suoi nipoti piccoli fanciulli, e con una fanciulla grande da
marito, e con due figliuole di Gentile da Mogliano e cinque damigelle,
ed essendo cinta stretta d’assedio, e combattuta da otto dificii che
continovo gittavano dentro maravigliose pietre, non avendo sentimento
d’alcuno soccorso, e sapendo che le mura della rocca e delle torri
di quella per li nemici si cavavano, maravigliosamente si teneva,
atando e confortando i suoi alla difesa. E stando in questa durezza,
Vanni da Susinana degli Ubaldini suo padre, conoscendo il pericolo a
che la donna si conducea, andò al legato, e impetrò grazia d’andare a
parlare colla figliuola, per farla arrendere al legato con salvezza
di lei e della sua gente. E venuto a lei, essendo padre, e uomo di
grande autorità, e maestro di guerra, le disse: Cara figliuola, tu dei
credere ch’io non sono venuto qui per ingannarti, nè per tradirti del
tuo onore. Io conosco e veggo, che tu e la tua compagnia siete agli
stremi d’irremediabile pericolo, e non ci conosco alcuno rimedio, altro
che di trarre vantaggio di te e della tua compagnia, e di rendere la
rocca al legato. E sopra ciò l’assegnò molte ragioni perch’ella il
dovea fare, mostrando, ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe
vergogna trovandosi in così fatto caso. La donna rispose al padre,
dicendo: Padre mio, quando voi mi deste al mio signore, mi comandaste,
che sopra tutte le cose io gli fossi ubbidiente, e così ho fatto
infino a qui, e intendo di fare infino alla morte. Egli m’accomandò,
questa terra, e disse, che per niuna cagione io l’abbandonassi, o ne
facessi alcuna cosa senza la sua presenza, o d’alcuno segreto seguo
che m’ha dato. La morte, e ogni altra cosa curo poco, ov’io ubbidisca
a’ suoi comandamenti. L’autorità del padre, le minacce degl’imminenti
pericoli, nè altri manifesti esempli di cotanto uomo poterono smuovere
la fermezza della donna: e preso comiato dal padre, intese con
sollicitudine a provvedere la difesa e la guardia di quella rocca che
rimasa l’era a guardare, non senza ammirazione del padre, e di chi udì
la fortezza virile dell’animo di quella donna. Io penso, che se questo
fosse avvenuto al tempo de’ Romani, i grandi autori non l’avrebbono
lasciata senza onore di chiara fama, tra l’altre che raccontano degne
di singulari lode per la loro costanza.


CAP. LXX.

_Novità fatte in Ravenna._

Essendo venuta in Ravenna la novella, come la gente del legato aveano
per forza vinta la murata di Cesena, il signore di Ravenna, ch’allora
era all’ubbidienza del legato, comandò che i cittadini ne facessono
festa di fuoco e di luminaria. E però domenica, a dì 28 di maggio,
i cittadini si radunarono insieme per le contrade e per le piazze,
e festeggiavano: e nelle loro radunanze cominciarono a mormorare
contro a messer Bernardino da Polenta loro signore per le gravezze che
faceva, perocchè in breve tempo avea fatto pagare dell’estimo loro
in tre paghe libbre sette soldi dieci per libbra, onde generalmente
i cittadini erano mal contenti. E cominciato il bollore negli animi,
riscaldato col fuoco della festa, e facendosi alcuno caporale,
cominciò a gridare: Viva il popolo, e muoia l’estimo, e le gabelle. E
crescendo la boce, e multiplicando la gente al romore, il popolo corse
all’arme, e cominciossi a riducere in sulla piazza, e multiplicare le
grida. Il signore sentendo le grida mandò là due suoi famigli, l’uno
appresso l’altro, i quali giunti alla piazza furono morti dal popolo.
Il tiranno sentendo procedere la cosa da mala parte s’armò con sua
famiglia, e montato a cavallo corse alla piazza. Il popolo si rivolse
coll’arme contro a lui per modo, che per campare la persona si ritornò
nel castello; e accolto maggiore aiuto, da capo tornò alla piazza per
modo di volere acquetare il popolo: ma crescendo più il furore, fu
costretto per altra via ritornare a una postierla del castello; ma i
vili servi di quello popolazzo, avendo la libertà nelle proprie mani,
non la seppono per propria pigrizia seguitare, che al tutto erano
signori. E però, come si venne facendo notte, senza ordine e senza
capo cominciarono ad abbandonare la piazza, e tornarsi a casa, come
si tornassono da uno giuoco, e pochi furono quelli che vi rimasono,
e male provveduti. Per la qual cosa nella mezza notte uno fratello
bastardo del signore con venticinque masnadieri sì fedì di subito in
quel popolo stordito, e il signore con pochi a cavallo stava alla porta
del castello per riscuotere i suoi; ma i vili popolari, essendo ancora
in grande numero, senza fare resistenza si lasciarono percuotere, e
uccidere, e cacciare da que’ pochi assalitori, e abbandonata la piazza,
si tornarono a casa. La mattina vegnente il signore mandò per certi
cittadini, i quali come usciti d’ebrietà, e assicurati v’andarono; e
avendo i primi, mandò per anche, e raunonne in sua forza, centoventi e
più, i quali messi in prigione corse la terra; e appresso per diversi
modi gran parte ne fece morire, e degli altri fece danari. E da indi
innanzi fu più fortemente dal suo popolo ubbidito, temuto, e ridottato.


CAP. LXXI.

_Novità di Grecia, e presura di loro signori._

In questo medesimo tempo, Orcam grande signore de’ Turchi, avea
lasciato in Gallipoli un suo figliuolo primogenito per guardare le
terre dell’imperio di Costantinopoli, ch’egli avea acquistate quando
furono i grandi tremuoti nel paese. Il giovane prendendo vaghezza di
vedere pescare, follemente si mise in una barca, e valicando legni
armati di Greci, presono la barca; e conosciuto il figliuolo d’Orcam,
il condussono a Foglia vecchia, una terra che l’imperadore avea data a
un suo barone, e ’l figliuolo l’avea tolta al padre; capitando questi
Greci a lui, e sapendo cui eglino aveano preso, il ritenne a se, e a’
marinai diede cinquemila perperi. L’imperadore volle il prigione, e
non lo potè avere. E però prese accordo col Cerabì, uno de’ signori
de’ Turchi, che ’l verno appresso venisse per terra con sua forza ad
assediare la città di Foglia, ed egli vi verrebbe per mare, con patto,
che racquistata la terra l’imperadore farebbe rendere a Orcam il suo
figliuolo che ivi era preso. Il Cerabì vi venne con grande oste, e
l’imperadore con sei galee e con assai legni armati. E stati lungamente
all’assedio, e non potendo vincere la terra, l’imperadore per consiglio
di messer Francesco di.... di Genova suo cognato, a cui egli avea dato
in dota l’isola di Metelino, stando l’imperadore in un’isoletta che
fa porto a Foglia, invitò il Cerabì ed egli fidandosi dell’imperadore
andò a lui; e trovandosi tradito, innanzi che altra novità gli fosse
fatta, disse all’imperadore: Io so ch’io sono prigione, ma tu non fai
quello che fare ti credi se tu non seguiti il mio consiglio. Se questo
s’intende tra’ miei Turchi, uno mio fratello prenderà la signoria, e
sarà contento ch’io sia prigione, e troppo più ch’io fossi morto; ed
io so che tu hai bisogno di moneta, e per questo modo non avresti mai
una dobla. Ma fa’ com’io ti dirò, e arai la tua intenzione. Fa’ palese
ch’io abbi tolta la tua sirocchia per moglie, e facciamo di ciò festa;
e io manderò per lo mio fratello e per otto miei grandi baroni, i quali
si sforzeranno di venire alla festa per farmi onore, e come ci saranno,
terrai loro tanto ch’io ti mandi i danari di che saremo in accordo. E
fatta la convegna della moneta, l’imperadore conoscendo ch’e’ diceva
il vero, fece come il Cerabì il consigliò, ed ebbe di presente gli
stadichi venuti sotto il titolo della festa del parentado, e lasciato
il Cerabì, come fu nelle terre della sua signoria di presente mandò la
moneta promessa, e liberò il fratello e’ suoi baroni dall’imperadore,
e per savio provvedimento liberò se dal fortunevole caso di perdere la
sua signoria, e per lo poco senno della sua confidanza, aggravando però
nondimeno la vergogna dell’infedele imperadore.


CAP. LXXII.

_Come il re Luigi assediò Catania in Cicilia._

Essendo il re Luigi a Messina, per attrarre a sè gli animi de’
paesani, diede loro intendimento di dimorare nell’isola sei anni, e
di tenervi la corte di tutto il Regno; e per dimostrare, coll’opera
quello che promettea colla bocca, richiese i baroni del Regno per
volere assediare il figliuolo di don Petro, ch’era in Catania, per
riducere tutta l’isola in sua signoria, e prenderne la corona. I
baroni furono ubbidienti per modo, che del mese di maggio detto col
debito servigio de’ suoi baroni si trovò nell’isola millecinquecento
cavalieri, e commise la bisogna a messer Niccola Acciaiuoli di Firenze
suo grande siniscalco; il quale co’ cavalieri e col popolo cavalcò
a Catania e misesi ad assedio, strignendola fortemente per modo, che
senza gran forze non potevano gli assediati per terra avere entrata o
uscita d’alcuna gente, e per mare fece stare nel porto quattro galee
armate e due legni le quali assediavano la città per mare, e nondimeno
recavano ogni dì rinfrescamento all’oste, perocchè, per, terra non
v’era modo d’andarvi la vittuaglia per lo cammino ch’era lungo, e’
passi malagevoli e stretti. Nella terra avea centocinquanta cavalieri
catalani di buona gente d’arme, i quali bene apparecchiati si stavano
nella città senza fare alcuna vista o sentore a’ loro nemici di
fuori. La gente del re Luigi non trovando contasto, baldanzosamente
cavalcavano il paese, e mantenevano loro assedio.


CAP. LXXIII.

_Della materia medesima._

Stando l’assedio di Catania in questo modo, occorse per caso non
provveduto che due galee di Catalani ch’andavano in corso arrivarono
a Saragozza in Cicilia, e sentendo ivi come quattro galee e due legni
del re Luigi erano nel porto di Catania, come valenti uomini, e grandi
maestri de’ baratti del mare, innanzi che lingua venisse di loro
a quelli dell’oste, di subito feciono armare due legni ch’erano in
quel porto, e fornirli di trombe, e di trombette, e nacchere e altri
stromenti più che di gente da combattere, e fatta la notte si mossono,
e improvviso con gran baldanza le due galee de’ Catalani, lasciatosi
dietro i due legni che facessono gran rumore e grande stormeggiata,
entrarono nel porto, e con molto romore cominciarono ad assalire le
galee del re: le due ch’erano del Regno, temendo del romore di fuori
che non fossono assai galee, senza intendere alla difesa uscirono
del porto, e andaronsene a Messina, e l’altre due ch’erano genovesi
stettono alla difesa; ma perocch’e’ non erano provveduti nel subito
assalto furono vinte, e presi le galee e’ legni; e questo fu la notte
della Pentecoste, a dì 29 di maggio del detto anno.


CAP. LXXIV.

_Come l’oste del re Luigi si levò da Catania in isconfitta._

L’oste del re Luigi più baldanzosa che provveduta, sentendo prese le
due galee e’ legni, e l’altre fuggite, per le quali veniva loro il
fornimento della vittuaglia, ed essendo di lungi da Messina quaranta
miglia per terra, e i passi stretti in forza de’ nemici, sbigottirono
forte, e conobbono che se’ soprastessono quivi tanto che i nemici
mandassono gente a’ passi elli erano senza rimedio tutti perduti; e
vivanda non aveano da mantenere il campo, tanto che il re li potesse
soccorrere, e però diliberarono d’abbandonare il campo e gli arnesi,
e di campare le persone; e a dì 30 del detto mese si misono a cammino
senza ardere il campo, a fine di non essere da’ cavalieri incalciati.
I centocinquanta cavalieri catalani di presente uscirono fuori, e
avvrebbono avuto de’ nemici ogni derrata, ma la cupidigia della preda
del campo li ritenne alquanto. I nemici che fuggivano avanzavano
loro cammino per quella via ond’erano venuti, nondimeno i Catalani
li danneggiarono alquanto alla codazza. Ma quello che peggio fece
loro furono i villani ridotti a’ passi colle pietre, ch’altr’arme non
aveano. In questa caccia fu morto il figliuolo del conte di Sinopoli,
che per l’antichità del padre si dicea conte, e preso il conte
camarlingo, e morti da quaranta a cavallo e assai di quelli da piè.
Il gran siniscalco campò per lunga fuga sopra di un buono destriere,
perduto grande tesoro di suoi gioielli e arnesi, e così tutti gli
altri baroni e cavalieri, che molto v’erano pomposi. E nota, come
un’oste reale di più di millecinquecento cavalieri e gran popolo,
con quattro galee in mare e due legni armati, per troppa baldanza, e
mala provvedenza intorno alle cose che si richieggono a un’oste, dal
provveduto scalterimento di due corsali con due galee furono sconfitti
e rotti, abbandonando il campo a’ nemici vituperevolmente.


CAP. LXXV.

_Come la compagnia venne sul Bolognese._

La compagnia del conte di Lando mossa di Lombardia co’ danari di
messer Bernabò Visconti e con quelli del capitano di Forlì, per venire
al soccorso di Cesena, a dì 18 di giugno del detto anno venne in sul
Bolognese con licenza del signore di Bologna, senza far danno al paese
di ruberie o di prede, ma prendeano derrata per danaio, e accampati al
Borgo a Panicale, intendeano più a’ loro propri fatti che ad andare a
soccorrere la rocca di Cesena, perocchè vi sentivano il legato forte
da non potere vincere la punga; e stando quivi, accrescevano la loro
brigata, che secondo l’usanza d’ogni parte vi veniano uomini d’arme a
mettersi in quella per vaghezza della preda, e non di trovare nemici
in campo, che quasi tutti i soldati d’Italia v’aveano parte; e stando
coperti di loro movimenti, feceano paura a tutti i popoli di Toscana e
dell’altre provincie circustanti, e attraevano a loro ambasciadori da
quelli per prendere accordo; e così sospesi usavano la loro mercatanzia
molto sagacemente. E bench’e’ tiranni e’ popoli d’Italia avessono
la compagnia in odio, tant’era la divisione delle parti e la gelosia
de’ popoli contro a’ tiranni, che catuno volea piuttosto ubbidire al
servigio della compagnia co’ suoi danari che contastare con quella, e
però ora era condotta per l’uno ora per l’altro, rimanendo continovo
l’ordine della compagnia. E in questi dì era già durata più di quindici
anni questa tempesta in Italia.


CAP. LXXVI.

_Come il comune di Firenze afforzò lo Stale._

I Fiorentini vedendo che la compagnia era in parte che in un dì potea
valicare l’alpe ed entrare nel Mugello, per certa piaggia dell’alpe
assai aperta che si chiama la via dello Stale, richiesono gli
Ubaldini, i quali s’impromisono d’essere co’ Fiorentini alla guardia
del passo; il comune vi mandò di presente tremila balestrieri, e bene
altrettanti fanti e ottocento cavalieri, e gli Ubaldini vi vennono
con millecinquecento fanti di loro fedeli, e diedono il mercato
abbondantemente a tutta l’oste, e co’ capitani insieme de’ Fiorentini
feciono fare una tagliata che comprendea i passi di quello Stale per
spazio d’un miglio e mezzo tra’ due poggi, e sopra la tagliata feciono
barre di grandi e grossi faggi a modo di steccato, e vi feciono loro
abitazioni, e stettonvi alla guardia de’ passi mentre che la compagnia
dimorò sul Bolognese, desiderando ch’ella si mettesse nell’alpe per
volere passare, com’erano le loro minacce, ma sentendo la provvisione
de’ Fiorentini, conceputo maggiore sdegno tennono altro cammino.


CAP. LXXVII.

_Come s’arrendè la rocca di Cesena al legato._

Sentendo il legato la compagnia soggiornare in sul Bolognese,
abbandonato ogni altra cosa, con sommo studio si diè a volere vincere
la rocca di Cesena, facendola cavare per abbattere le mura e le
torri, e traboccarvi dentro grandi pietre con otto trabocchi, e
oltre a ciò spesso la faceva assaggiare di battaglia; ma tanto era
la severità di madonna Cia, e la sua sollecitudine di dì e di notte
alla difesa, che per cosa che si facesse quell’animo non si cambiava;
e già essendo per le cave caduto parte delle mura e l’una delle
torri, la donna in persona facea riparare con isteccati e con fossi,
oltre alla considerazione de’ più fieri e de’ più valenti uomini
del mondo, non dimostrando alcuna paura. Ma i valenti conestabili
ch’erano con lei, sapendo che la mastra torre della rocca si mettea in
puntelli, e vedendo la pertinace costanza della donna, ebbono madonna
Cia a consiglio, e dissono: Madonna, e’ si può sapere e conoscere
manifestamente che per voi è mantenuta la difesa della murata e della
rocca infino agli ultimi stremi, e di noi avete potuto conoscere intera
e pura fede, mentre che alcuna speranza s’è per voi e per noi potuta
conoscere, ma ora non ne resta via da potere campare la sepultura de’
nostri corpi sotto la ruina di questa rocca. E perocchè questo non
dobbiamo comportare per alcuna ragione, siamo disposti, o di vostra
volontà, o contro al vostro volere, rendere la rocca per salvare le
nostre persone. La valente donna per questo non cambiò faccia, nè
perdè di sua virtù, e conobbe ch’e’ soldati aveano ragione di così
fare, e però disse a’ conestabili: Io voglio che lasciate fare a me
questo accordo; e i conestabili conoscendo il grande animo della donna,
dissono che di ciò erano contenti; e mandato al legato, e avuti da lui
uditori con pieno mandato secondo la sua volontà, trattò che tutti
i conestabili colle loro masnade, e tutti gli altri soldati fossono
franchi e liberi, e potessonne portare ciò che volessono in su’ loro
colli: ed ella rimanesse prigione del legato col figliuolo, e con una
sua figliuola, e con due suoi nipoti madornali e uno bastardo, e con
due figliuole di Gentile da Mogliano, e cinque sue damigelle. Per sè
e per la sua famiglia non cercò grazia, potendo salvare i soldati che
lealmente l’aveano atata. E fatti e fermi i patti, a dì 21 di giugno
gli anni domini 1357 rendè la rocca al legato, e fu signore di tutto
con gran gloria della sua punga, ma non con mancamento di chiara fama
del forte animo di quella donna: la quale per alcuno caso avverso,
per alcuna intollerabile fatica, mentre ch’era in sua libertà, mai non
cambiò faccia, o mancò di consiglio o d’ardire. E menata in prigione
dov’era il legato nel castello d’Ancona, così contenne il suo animo non
vinto e non corrotto, e in aspetto continente come se la vittoria fosse
stata sua. E il legato maravigliandosi della costanza di questa donna,
benchè la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l’alterezza del
capitano, assai la fece stare onestamente, e bene servire.


CAP. LXXVIII.

_De’ fatti di Costantinopoli._

L’imperadore di Costantinopoli avendo perduta la speranza di vincere
la città di Foglia vecchia, mutò consiglio, e trattò con quello Greco
che la tenea, e confermogliele in feudo, e aggiunseli alla baronia,
e diegli sessantamila perperi; e la primavera vegnente ebbe da lui
il figliuolo d’Orcam signore de’ Turchi, il quale egli avea prigione,
come addietro abbiamo contato. E per costui l’imperadore riebbe tutte
le terre che Orcam gli avea tolte, e oltre a ciò molti danari, e
stadichi per mantenere la pace che feciono insieme quando gli rendè il
figliuolo.


CAP. LXXIX.

_Come il legato prese Castelnuovo e Brettinoro._

Vinta la punga di Cesena, i cavalieri del legato baldanzosi per la
vittoria di subito cavalcarono a Castelnuovo di Cesena, e trovandolo
male provveduto alla difesa, vi s’entrarono dentro. E appresso si
dirizzarono al nobile castello di Brettinoro, il quale era fornito
di suoi terrazzani, e d’assai soldati a cavallo e a piè, e di
molta vittuaglia, sicchè poco se ne potea sperare o per forza o per
assedio. Nondimeno la gente del legato vi s’accampò intorno: e poco
stante vi si cominciò un badalucco tra quelli della terra e la gente
della Chiesa, della quale messer Galeotto Malatesta era capitano; il
badalucco durò molto, e per questo s’ingrossò da ogni parte, e per
lo soperchio della gente della Chiesa, quella del castello fu rotta.
Messer Galeotto, ch’era in ordine co’ suoi cavalieri, perseguitò
quelli che fuggivano verso la terra, e mescolossi con loro per modo,
che giunti alle porte, entrarono con quelli del castello insieme,
combattendo continovamente; e avendo seguito presso de’ loro cavalieri
e masnadieri, presono la porta e le guardie di quella, per la qual
cosa la loro gente vi s’ingrossò di subito, e venne bene a bisogno,
perocchè tutti i terrazzani e’ soldati che v’erano francamente li
combatteano, e colle pietre delle case per difendere la terra. Ma il
soperchio che vince ogni cosa, dopo la lunga e aspra battaglia, essendo
multiplicata la gente della Chiesa, e molti morti dall’una parte e
dall’altra, i terrazzani e i loro soldati furono costretti a fuggire
nella rocca; e la gente del legato presa la terra e rubata, la tennero
vittoriosamente, essendo tenuta grande maraviglia per la fortezza del
castello. Alcuni dissono, che tra’ terrazzani ebbe divisione, che
se fossono stati interi alla difesa non si potea perdere. E questo
fu l’ultimo dì di giugno detto. Presa la terra, il legato mandò di
presente molti dificii a tormentare la rocca, e cavatori per cavare
e abbattere le mura, com’altra volta avea fatto il capitano; ma avea
molto rafforzati i fondamenti con gran pietre, e molte stanghe e
cinghie di ferro, ma poco valse, che in assai breve tempo quelli della
terra feciono i comandamenti del legato, come appresso racconteremo.


CAP. LXXX.

_Di processi fatti contro la compagnia per lo legato._

Avendo a questi dì la compagnia tentato di volere entrare in Toscana, e
trovati tutti i passi dell’alpe occupati e in guardia de’ Fiorentini, e
il più largo dello Stale afforzato da non mettersi a prova, con molto
sdegno contro al comune di Firenze valicarono in Romagna, e a dì 6
di luglio furono a Villafranca a tre miglia di Forlì con quattromila
cavalieri, i più bene armati e bene montati, e milleseicento masnadieri
e balestrieri, e grandissimo numero di ribaldi e di femmine al comune
servigio, seguitando la carogna della compagnia, e ivi a pochi dì
si misono al ponte a Ronto e posono il campo e afforzarlo. Il legato
vedendosi la compagnia presso, ristrinse tutta la sua gente in Cesena
e in Brettinoro, senza mettersi a campo o fare assalto contro a loro.
E per avere aiuto da’ fedeli di santa Chiesa, fece sopra la compagnia
il processo ch’avea fatto sopra il capitano di Forlì come suoi fautori,
e pronunziolli incorsi in quella medesima sentenza; e fece in Italia
bandire la croce sopra loro con maggiore istanza, e con maggior mercato
dell’indulgenza, e con minore termine del servigio che dato avea
contro al capitano, e mandò di nuovo i predicatori e gli accattatori a
sommuovere i popoli, e fece grande commozione, e raunò tesoro e gente
assai, come al debito tempo racconteremo,


CAP. LXXXI.

_Della gravezza facea il tiranno a’ Bolognesi._

Quando la compagnia fu valicata in Romagna, i duemila cavalieri che
messer Bernabò tenea sul Modenese, e appresso a Sassuolo in su quello
di Bologna, senza fare alcuna novità di guerra pur facea stare i
collegati in sospetto, e anche il legato, e però i Lombardi della
lega accolsono gente, e ’l tiranno bolognese fece a’ suoi Bolognesi,
per avere danari, sconvenevoli gravezze sopra l’usate. Perocchè ogni
mese volea da catuno de’ suoi sudditi soldi cinque di bolognini per
bocca di sale, e soldi quattro per macinatura la corba del grano,
oltre all’usata mulenda, e per ogni tornatura di terra soldi venti
di bolognini l’anno sopra l’altre gabelle delle porti, e del vino, e
dell’altre cose ch’entravano con some e con carra, che tutte erano
gabellate, e per questo modo traeva loro delle coste e de’ fianchi
libbre seicentomila di bolognini l’anno. E oltre a ciò, avendo tolto
loro l’arme, in questo tempo mandò bando, che chiunque l’amava andasse
nell’oste. Il popolo sottoposto al duro giogo, per ubbidire il tiranno,
si mosse con bastoni e con lanciotti in mano, ch’altr’arme non avea,
e andò dove fu il comandamento del tiranno, e nel campo stette due dì
senza mercato di vittuaglia a grande stretta di loro vita, e non osò
fiatare. La gente della lega era uscita fuori, e ingrossatasi, per
contastare la cavalleria di messer Bernabò, che si stava a Sassuolo,
avvenne, a dì 21 di luglio del detto anno, che trovandosi insieme parte
dell’una gente e dell’altra per scontrazzo, si combatterono tra loro,
e furono rotti quelli di messer Bernabò; gli altri suoi cavalieri,
sentendo quella rotta, si partirono, e tornarsi sani e salvi a Milano.
Dappoichè furono partiti si scoperse un trattato, che dovea essere data
loro la porta del castello di Bologna, e furono presi i traditori, e
giustiziati.


CAP. LXXXII.

_Come i Veneziani domandarono pace al re d’Ungheria._

I Veneziani vedendo che il re d’Ungheria gli guerreggiava in
Trevigiana, e in Ischiavonia e in Dalmazia con grave guerra, e ch’egli
avea preso ordine da poterla senza spesa e senza pericolo della
moltitudine degli Ungheri, usati di generare confusione, continuare,
conobbono che a loro era cosa incomportabile; e però elessono solenni
ambasciadori, e mandarli al re per addomandare pace, volendosi ritenere
Giadra, e renderli l’altre terre della Schiavonia, e darli per tempi
danari assai per l’ammenda; e fra l’altre terre che dare gli voleano,
nominarono Trau e Spalatro. I cittadini di quelle terre sentendo
ch’e’ Veneziani gli voleano dare al re d’Ungheria per loro vantaggio,
si accolsono insieme, e presono per consiglio di volere accattare la
benivolenza del re, e non attendere ch’e’ Veneziani ne volessono fare
loro mercatanzia; e però liberamente si diedono al re, e ricevettono la
sua gente e’ suoi vicari con grado in pace, e’ rettori e la gente che
v’era pe’ Veneziani rimandarono a Vinegia sani e salvi, e il re con gli
ambasciadori non volle accordo se non riavesse Giadra e l’altre terre
del suo reame.


CAP. LXXXIII.

_Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro._

Il legato, ch’avea presa la terra di Brettinoro, e stretti quelli della
rocca per modo che poco si poteano tenere per la molta gente che dentro
v’era racchiusa, non ostante che vedessono l’oste della compagnia da
cui attendeano soccorso presso a tre miglia, feciono accordo, e diedono
stadichi, che se la domenica vegnente, a dì 23 di luglio anno detto, e’
non fossono soccorsi, s’arrenderebbono, salvo le persone, e l’arme e
’l loro arnese. Il capitano che v’era per lo legato, messer Galeotto,
provvide sì sollicitamente il dì e la notte che ciò non si potesse
fare, che non valse ingegno del capitano di Forlì, nè forza ch’avesse
la compagnia, che fornire o soccorrere la potessono; e valicato
il giorno, la sera medesima, ch’era il termine, s’arrenderono, con
onorevole vittoria del legato, e abbassamento della fallace fama della
compagnia, e della pertinace superbia del capitano.


CAP. LXXXIV.

_Come si bandì la croce contro la compagnia._

Seguita, che per tema della compagnia, la quale ogni dì crescea, il
legato avea oltre al processo della croce bandita mandato a richiedere
aiuto contro alla compagnia a tutti i Toscani, e più confidentemente
dal comune di Firenze, e mandovvi suo legato un vescovo di Narni
Fiorentino chiamato frate Agostino Tinacci de’ frati romitani, buono
Altopascino; costui con grande solennità fece tre dì ogni mattina
in Firenze processione, e acconsentitagli da’ signori, per reverenza
della Chiesa sonate tutte le campane del comune a parlamento, in sulla
ringhiera de’ priori fatta sua predica, pubblicò il processo fatta
contro alla compagnia, e pronunziò l’indulgenza a chi prendesse la
croce, e allargò che dodici uomini potessono concorrere al soldo d’uno
cavaliere, e raccorciò il tempo del servigio in sei mesi ov’era in
dodici; e ancora più, che prenderebbe ciò che gli uomini e le femmine
gli volessono dare, e dispenserebbe con loro; e divolgato il fatto,
tanto fu il concorso degli uomini e delle donne della nostra città, che
senz’altra provvisione di suo mandato gli portavano i danari per modo,
ch’e’ non potea resistere di potere ricevere e di porre la mano in
capo: e trovossi di vero, ch’e’ ricevea per dì mille, e milledugento,
e millecinquecento fiorini d’oro, e in non molti dì raunò più di
trentamila fiorini d’oro, i più dalle donne e dalla gente minuta. Il
comune per sè avea diliberato di volere mandare aiuto al legato, ma
avvedendosi tardi per gli suoi cittadini ch’aveano già piene le mani
agli accattatori, vide co’ savi, che ’l comune per tutto il popolo
potea avere l’indulgenza, volendo servire di prendere l’aiuto della
Chiesa, per avere il beneficio dell’indulgenza; e però convertì la
sua gente a fare il servigio per tutto il comune, acciocchè ogni uomo
avesse il perdono; e così fatto, il detto vescovo, a dì 26 di luglio
anno detto, pronunziò il perdono a tutti i cittadini, e contadini e
distrettuali di Firenze, i quali fossono confessi e pentuti de’ loro
peccati, o che fra tre mesi avvenire si confessassono. E nota, che in
nove anni tre volte si concedette questo perdono; nel 1343, quando fu
la generale mortalità, e l’anno del cinquantesimo, e in questa guerra
romagnuola.


CAP. LXXXV.

_Aiuti mandarono i Fiorentini al legato._

Il comune di Firenze, a dì 20 di luglio anno detto, fatto capitano
messer Manno di messer Apardo de’ Donati, e datogli il pennone del
comune, il mandarono in Romagna con settecento barbute di buona gente,
e con ottocento balestrieri, affinchè la battaglia si prendesse colla
compagnia; e oltre a ciò v’andarono singulari masnade di cittadini e’
contadini crociati, che furono dugento a cavallo e duemila a piè. E
contando la raccolta de’ danari, e la spesa del comune e de’ singulari
uomini, più di centomila fiorini costò la beffa al comune di Firenze a
questa volta. È vero che ’l tutto s’intendea a combattere la compagnia,
e però vi mandò il comune un confidente cittadino popolare, il quale in
segreto si dovesse strignere col legato, e con autorità di promettere
ventimila fiorini d’oro per lo comune a’ soldati se vincessono la
compagnia; ed era tanta la buona gente ch’avea il legato, e quella
del comune di Firenze, e de’ crociati che v’erano di volontà, ch’assai
se ne potea sperare piena vittoria. Il legato n’avea dato di prima al
comune buona speranza, e ancora poi il suo ambasciadore, ma appresso,
o che il legato invilisse, impaurisse di mettersi a partito, o che non
si confidasse de’ soldati, dissimulò il fatto, e tennelo pendente, e
mantennesi in riguardo, dando ardimento agli avversari, e viltà alla
sua parte che gli tornò in poco onore.


CAP. LXXXVI.

_Come i Genovesi ebbono Ventimiglia._

Di questo mese di luglio, tenendosi la città di Ventimiglia per i
figliuoli e consorti di messer Carlo Grimaldi, e non ubbidivano il
comune nè ’l doge di Genova, per la qual cosa il doge diede boce di
volere fare guerra a’ Catalani, e per questo fece armare venti galee:
e avendo alcuno trattato in Ventimiglia, costeggiando la riviera, come
furono a una punta di mare presso alla terra di Ventimiglia feciono
scendere masnade e balestrieri con un capitano, il quale gli menò
copertamente sopra la città da quella parte dove era il trattato, e
dove non si prendea piena guardia, e le galee andarono per mare; e
giunte nel porto, volendo prendere una galea armata di quelli di Monaco
che v’era dentro, i terrazzani per difendere la galea tutti trassono
alla marina; e in questo, l’aguato de’ Genovesi ch’erano smontati sopra
la terra scesono alla porta, e senza contasto entrarono nella città, e
presono la guardia della porta, e feciono il cenno ordinato alle galee,
le quali si strinsono alla terra. I cittadini di presente conobbono
ch’alla difesa non avea riparo, e però ricevettono i Genovesi come
maggiori, ed eglino, senza alcuna novità fare nella città, presono la
signoria della terra per lo comune di Genova e per lo doge, e’ Grimaldi
che la teneano se n’andarono colle persone e coll’avere a Monaco, e le
galee si ritornarono a Genova.


CAP. LXXXVII.

_Come l’arciprete con compagnia entrò in Provenza._

Essendo in alcuno sollevamento delle guerre il reame di Francia per
la presura del re e de’ baroni, molti uomini d’arme non avendo soldi,
per alcuna industria, secondo che la fama corse, del cardinale di
Pelagorga zio del figliuolo del duca di Durazzo, i quali erano dal re
Luigi e da’ suoi fratelli male stati trattati, essendo messer Filippo
di Taranto fratello del re Luigi in Provenza, mosse l’arciprete di
Pelagorga, uomo bellicoso e di mala fama, il quale si fece capo d’una
parte de’ Guasconi acconci a fare ogni male, e di volgo il nome di
fare compagnia. E con lui s’accostò messer Amelio del Balzo e messer
Giovanni Rubescello di Nizza, e molti uomini d’arme ch’aveano voglia
di rubare s’accozzarono con loro, sicchè in pochi dì accolsono ed
ebbono nelle contrade di Ponte di Sorga di là dal Rodano più di duemila
cavalieri, e stesonsi inverso Oringa e Carpentrasso, standosi per le
villate e a campo senza rubare o far danno al paese, ma per paura i
paesani davano loro vittuaglia. Messer Filippo di Taranto, ch’era in
Provenza, volendo riparare che non entrassono nella Provenza del re
di qua dal Rodano, accolse suo sforzo di Provenzali, e fece, capo a
Orgona, e stese la guardia sua su per lo fiume della Durenza. Ma la
sua gente era poca, e mancava, e la compagnia cresceva, perchè il
papa e tutta la corte ne cominciò forte a temere. Ma i capitani della
compagnia ammaestrati della corte medesima, mandarono ambasciadori al
papa per assicurarlo, che contro della corte e alle terre della Chiesa
non intendeano fare alcuno male, e per sicurtà offeriano i saramenti
de’ caporali, e stadichi, se gli volesse, ma la loro intenzione era
d’andare contro a messer Filippo di Taranto, il quale aveano per loro
nemico, e di guerreggiare le sue terre e del re Luigi. E ivi a pochi
dì valicarono il Rodano ed entrarono in Provenza, che messer Filippo,
non avea forza da campeggiare con loro, e cominciarono a correre il
paese, e a guastarlo, e a uccidere e a predare in ogni parte; e presono
Lallona buona terra e piena d’ogni bene, e poi andarono infino a san
Massimino, e anche il presono, e più altre castella. Le buone terre
s’armarono alla difesa, e ’l papa fece afforzare Avignone, e guardare
la città, e d’altro non s’intramise: e così tutta la state consumarono
quel paese.


CAP. LXXXVIII.

_Come il conte di Fiandra rendè Brabante alla duchessa facendo pace._

Noi dicemmo poco addietro che la duchessa di Brabante era tornata, e
’l conte di Fiandra pazientemente l’avea comportata, perocchè era sua
cognata, e perchè sapea la natura de’ Brabanzoni, che non si potrebbono
tenere sotto la signoria de’ Fiamminghi, e già parecchi buone ville
aveano accomiatati gli uficiali del conte; e avvegnachè fortuna
l’avesse fatto signore di Brabante, la sua intenzione non era di volere
altro che Mellino, ch’egli s’avea comperata con giusto titolo. E però,
essendo trattato della pace nella festa che fece l’imperadore, il conte
si dichinò benignamente alla cognata, e rendelle la signoria di tutto
Brabante, con patto, ch’alcuno lieve omaggio ella ne facesse alla
compagna sua sirocchia, e che a lui rimanesse libera la signoria di
Mellino. E fermata la concordia, con gran piacere de’ Fiamminghi e de’
baroni si pubblicò la pace del mese di luglio del detto anno.


CAP. LXXXIX.

_Come il legato s’accordò colla compagnia per danari._

Tornando a’ fatti della compagnia, seguita a contare poco onore di
santa Chiesa e di due comuni di Toscana. Messer Egidio cardinale di
Spagna legato avendo, com’è detto, da sè molta buona gente d’arme, e
accoltane per l’indulgenza della croce maggior quantità, sicchè assai
si trovava più forte che non era la compagnia per poterla combattere,
e promesso l’avea alle comunanze di Toscana e nelle prediche della
croce, e se alla fortuna della battaglia non si volea abbandonare per
senno, almeno standosi a riguardo si conoscea manifesto, che dov’elli
erano poco poteano soggiornare che non aveano vivanda, e volendosi
partire, avendo tanti nimici a petto, male il poteano fare senza
loro gran danno. Tanto invilì la loro vista l’animo del legato, che
infino allora era da pregiare sopra gli altri baroni, ch’e’ si mise
in trattato col conte di Lando capitano della compagnia, e fecelo più
volte venire a sè: e in fine prese accordo, ch’e’ si dovesse partire
colla sua compagnia e tornarsene in Lombardia, e liberare tre anni le
terre della Chiesa, e la città di Firenze, di Pisa, di Perugia, e di
Siena, avendo la compagnia dal legato e da’ detti comuni cinquantamila
fiorini d’oro, e cominciasse il termine di calen di novembre 1357. Il
comune di Perugia e quello di Siena se ne feciono beffe, e non vollono
attenere quello che il legato n’avea ordinato. I Fiorentini furono
contenti, e pagarono per la loro rata sedicimila fiorini: e’ Pisani
anche s’acconciarono, e pagarono la loro rata e il legato la sua. E
avuto il tributo della Chiesa, e de’ maggiori comuni di Toscana, ove
si conoscevano essere a mal partito, baldanzosi e lieti si tornarono in
Lombardia, in grande abbassamento dell’onore del legato; e se senno fu,
troppa codardia vi si nascose dentro.


CAP. XC.

_Ricominciamento dello studio in Firenze._

Del mese d’agosto del detto anno, i rettori di Firenze s’avvidono,
come certi cittadini malevoli per invidia, trovandosi agli ufici,
aveano fatto gran vergogna al nostro comune, perocchè al tutto aveano
levato e spento lo studio generale in Firenze, mostrando che la
spesa di duemila cinquecento fiorini d’oro l’anno de’ dottori dovesse
essere incomportabile al comune di Firenze, che in un’ambasciata e
in una masnada di venticinque soldati si gittavano l’anno parecchie
volte senza frutto e senza onore, e in questo si levava cotanto onore
al comune; e però ordinarono la spesa, e chiamarono gli uficiali
ch’avessono a mantenere lo studio; e benchè fosse tardi, elessono i
dottori, e feciono al tempo ricominciare lo studio in tutte le facoltà
di catuna scienza. E di questo mese nacquono in Firenze due leoni.


CAP. XCI.

_Come si trovarono l’ossa di papa Stefano in Firenze._

In questo mese d’agosto, cavandosi a lato all’altare di san Zanobi
nella chiesa cattedrale di Firenze, per fare uno de’ gran pilastri per
la chiesa nuova, vi si trovò uno monumento verso tramontana, nel quale
erano l’ossa di papa Stefano nono nato di Lotteringia, e così diceano
le lettere soscritte nella sua sepoltura; e in sul petto gli si trovò
il fermaglio papale con pietre preziose e con lo stile dell’oro, e
la mitra in capo e l’anello in dito; e raccolto ogni sua reliquia, si
riserrarono appo i canonici per fargli al tempo onorevole sepoltura.
Questi sedette papa mesi dieci; e morì gli anni 1088.


CAP. XCII.

_Leggi fatte sopra i medici._

Cominciossi di questo mese d’agosto nel Valdarno di sotto, e in
Valdelsa, e in Valdipesa, e in molte parti del contado di Firenze e
nel suo distretto, un’epidemia d’aria corrotta intorno alle riviere
che generò molte malattie, le quali erano lunghe e mortali, e grande
quantità d’uomini e di femmine mise a terra, e assai cavalieri di
Firenze stati in contado morirono, che fu singolare cosa, e durò fino
a mezzo ottobre; e in Firenze morirono assai uomini e donne, ma de’
cinque i quattro tornati di contado malati. Fece allora il comune
per riformagione, che niuno medico dovesse andare a vicitare alcuno
malato da due volte in su, se il malato non fosse confessato, avendo
di ciò degna testimonianza, sotto pena di libbre cinquecento, e che
di ciò catuno medico dovesse fare ogni anno saramento alla corte
dell’esecutore. La legge fu buona, ma l’avarizia de’ medici e la
pigrizia de’ malati, mescolata colla cattiva consuetudine, fece perdere
l’esecuzione di quella, che se fosse messa in pratica, e tornata in
consuetudine, era gran beneficio dell’anime e santa de’ corpi.


CAP. XCIII.

_Come i Genovesi ebbono Monaco._

Avendo avuto il doge di Genova onore d’avere racquistata la città di
Ventimiglia, fece armata di quattordici galee, e sei ne mandarono
i Pisani ch’erano in lega col loro comune; e queste venti galee
misono nel porto ch’è sotto il castello, e sopra Monaco di verso la
montagna misono quattromila fanti armati, tra’ quali avea di molti
balestrieri, che di notte guardavano i passi della montagna; e tenutolo
così assediato un mese, e tentatolo con loro danno alcune volte di
battaglia, perocch’era troppo forte, vi si stavano. I Grimaldi che
’l teneano pensarono che a lungo andare e’ non potrebbono contastare
al comune, ed essendo preso in Genova un figliuolo di messer Carlo
Grimaldi, trattarono di volere dare il castello di Monaco al doge e
al comune per danari, e riavere il figliuolo di messer Carlo libero
di prigione, ed essere ribanditi; e venuti a concordia, ebbono contati
fiorini sedicimila d’oro, e quattromila ne scontarono per la prigione,
e renderono Monaco al comune di Genova; il quale aveano tenuto
trentadue anni in loro balía, che rade volte aveano ubbidito al loro
comune, e sempre corseggiato e tribolato i navicanti di quel mare, e
fatto del luogo spilonca di ladroni; e questo fu il dì di nostra Donna
a mezzo agosto del detto anno.


CAP. XCIV.

_Come il cardinale assediò Forlì._

Avendo, come detto è, il cardinale fatta partire la compagnia di
Romagna, e trovato il capitano di Forlì ostinato e indurato di non
volere venire all’ubbidienza di santa Chiesa, e volendo il cardinale
tornarsene a corte; innanzi la sua partita ordinò coll’altro legato,
ch’era l’abate di Giugni, d’assediare la città di Forlì, e all’uscita
d’agosto vi posono il campo con duemila cavalieri e con gran popolo,
e cominciarono a dare il guasto intorno alla città, e ’l capitano
con grande animo si ristrinse con pochi soldati a cavallo, e co’
suoi cittadini alla guardia della terra, e provvedutosi delle cose
bisognevoli alla vita, si mise francamente alla difesa: e spesso a
sua posta usciva fuori con sua gente, e assaliva i nemici al campo e
danneggiavali, e per savia condotta si ricoglieva a salvamento. E a
suo diletto inducea i giovani garzoni all’esercizio della guerra, e
tornando nella terra, tutti li facea venire innanzi, e giocandosi con
loro dicea delle loro valantrie, e raccontava com’eglino avien fatto,
e a quelli ch’erano più iti innanzi dava a catuno uno grosso, o due o
tre bolognini. E per queste lusinghe, e per queste lievi provvisioni,
movea i giovani a seguitarlo senza richiesta di grande volontà, e per
sperimentarli nell’arme. E con questo si faceva tanto amare da loro,
che non gli bisognava guardia per alcuno sospetto, e ’l tedio dell’ozio
degli assediati mitigava con alcuno diletto del continovo esercizio;
e guida vali sì saviamente, ed era sì ubbidito da loro, che niuno ne
perdea, e poca speranza dava a’ nemici di vincere la città.


CAP. XCV.

_Come il re d’Inghilterra ruppe i patti della pace._

Tornando alquanto nostra materia al fatto de’ due re, ed avendo
narrata la festa che fu fatta a Londra quando vi giunse il re di
Francia, credendosi per tutti che la pace fatta tra’ legati e ’l duca
di Guales a Bordello per lo re Adoardo si dovesse confermare, essendo
però valicati nell’isola i cardinali e molti baroni di Francia,
strignendo il re e ’l suo consiglio a dar fine e fermezza all’opera,
il re d’Inghilterra, mostrandosi a ciò volonteroso, mantenea la cosa
sospesa, oggi con una cagione e domani con altra, e però non rompea
il trattato; e spesso infingea cagione a’ Franceschi, e dimostrava che
’l fallo fosse loro, e poi l’acconciava, a facevane muovere un’altra.
E per questo modo maestrevolmente e per sua astuzia ritenea il re e
’l figliuolo, e’ baroni e’ cavalieri ch’avea prigioni in Inghilterra,
come egli desiderava; e tanto avvolse questa materia, che straccò i
legati e i baroni ch’erano di là valicati; i quali vedendosi menare al
re con queste simulazioni senza frutto, all’uscita del mese d’agosto
anno detto abbandonarono il trattato, e tornarsi nel reame di Francia,
e per tutto la boce corse che la pace era rotta, e che al primo tempo
il re d’Inghilterra dovea venire a Rems e farsi coronare del reame di
Francia, e non fu senza cagione revelata del segreto: ma indugiossi
più, e il trattato della pace senza il suo effetto poco appresso si
riprese, e tornarono nell’isola i legati.


CAP. XCVI.

_Della mostra fatta a Avignone di cortigiani per tema della compagnia._

Di questo mese d’agosto, nella compagnia dell’arciprete di Pelagorga,
ch’era in Provenza, s’aggiunse il conte d’Avellino e cinque nipoti di
papa Clemente sesto, e trovaronsi più di tremila barbute, e scorsono
predando e guastando la Provenza infino a Grassa, e non trovarono
contasto fuori delle terre murate. Vedendo il papa crescere questa
tempesta, volle vedere in arme tutti i cortigiani, e fece ordinare
di fare la mostra, che fu grande e bella, perchè catuno si sforzò
di comparire in arme, e trovaronsi in questa mostra quattromila
Italiani tutti bene armati, ch’erano due cotanti o più che tutti gli
altri cortigiani. E come furono armati e raunati insieme, gridavano e
volevano correre sopra i cardinali nipoti di papa Clemente, dicendo,
ch’erano autori di quella compagnia, che conturbava la corte e tutta la
mercatanzia, e a gran pena furono ritenuti da’ loro capitani. Il papa,
veduta la mostra, ordinò di fare rifare le mura e’ fossi d’Avignone, e
riparare le porti per tenere la città sicura; altro rimedio di fuori
contro alla compagnia non prese, ma stava continovo la corte in gran
paura, e in vergognosa vacazione di tutti i mestieri.


CAP. XCVII.

_Come il re Luigi da Messina tornò a Napoli._

Il re Luigi avendo con danno e con vergogna levata l’oste sua da
Catania, come narrato abbiamo, e non trovandosi in mare nè in terra
potente da rifare oste, e i suoi avversari aveano ripreso ardire
della loro vittoria; e sentendo il regno di qua dal Faro in molta
discordia per la ribellione di messer Luigi di Durazzo e del conte
di Minerbino, i quali teneano in guerra la Puglia, e molti caporali
di ladroni rompevano le strade e’ cammini; non ostante ch’egli avesse
promesso a’ Messinesi di stare alcun tempo risedente a Messina, cambiò
proposito, per non correre in peggio, e a dì 30 d’agosto del detto anno
si partì da Messina in su una galea d’Ischia, e pose a Reggio, ov’era
prima venuta la reina. E in Messina lasciò suo vicario un figliuolo
del gran siniscalco con trecento cavalieri alla guardia della terra,
confidandosi sopra tutto in messer Niccolò di Cesaro e nel suo seguito,
ch’aveano cura alla guardia per loro medesimi, ch’aveano di fuori
i loro avversari. E poi da Reggio per Calavria e per Puglia se ne
tornarono a Napoli, del mese di settembre del detto anno.


CAP. XCVIII.

_Come si perdè Governo a’ Mantovani._

I signori da Gonzaga, essendo uomini savi di guerra, avendo lungamente
tenuta la signoria di Mantova, vicini e in mezzo tra’ signori di Milano
e quelli di Verona, avean provveduto di tenere salvo gran parte del
loro contado in questo modo. La loro città è posta nel mezzo d’un lago
di fiumi correnti, e di questo lago di verso levante alla città esce un
fiume, che si stende correndo verso mezzo dì ed entra in Po; e dov’egli
entra in Po è un castello e un ponte: il castello si chiama Governo:
e dall’uscita del fiume al detto castello ha dieci miglia di terreno,
e per i Mantovani è alzato e fortificato un argine sopra il fiume
dal lato d’entro, e fattovi forti steccati e molte bertesche a potere
fare ogni gran difesa. E dall’altra parte del lago, di verso ponente
alla città e di lungi tre miglia, esce un altro fiume, e corre verso
mezzo dì anche al Po, e stendesi ancora per dieci miglia di terreno,
e l’argine di questo fiume è fatto maggiore e più forte che l’altro,
e steccato e imbertescato a ogni difesa, e in sul Po s’aggiugne a
un forte castello de’ Mantovani che si chiama Borgoforte, e anche a
questo castello è un ponte sul Po. Tra queste due fiumare si stende un
gran contado tutto piano, e di buono terreno da lavorare, e ubertuoso
di frutti e di vittuaglia. Questo contado per infino a qui per forza
ch’avessono i tiranni vicini non avien mai potuto noiare, e viveanne i
Mantovani in grande sicurtà, e chiamavano questo contado la Serraia.
In questi dì era guerra tra’ signori di Milano e quelli di Mantova,
e però i Mantovani avieno mandate masnade di fanti a piè alla guardia
del ponte e anche di Governo, e anche de’ loro soldati a cavallo, tra’
quali era un conestabile che avea ricevuta ingiuria da’ signori da
Gonzaga. Costui ordinò, che là venisse la gente de’ signori di Milano
per suo trattato, e diede loro il passo del ponte, mostrando a’ suoi,
che come ne fosse passati una parte darebbono loro addosso, e tutti
gli avrebbono a mansalva; ma innanzi che il traditore si mettesse al
contasto ve ne lasciò tanti venire, che a’ suoi per necessità convenne
abbandonare il campo e ’l castello; e per questo modo fu preso il forte
passo di Governo, da potere correre ed entrare nella Serraia; e questo
fu all’uscita del mese d’agosto anno detto.


CAP. XCIX.

_Come i signori di Milano presono Borgoforte, e assediarono Mantova._

Messer Bernabò e messer Galeazzo di Milano, avendo novelle come ’l
ponte e ’l castello di Governo era preso per la loro gente, ebbono
grande allegrezza, e lasciandosi addietro i fatti di Pavia e di Novara,
subitamente accolsono tremila cavalieri di loro soldati e gran popolo,
e l’una parte mandarono a Governo, e l’altra per la riva del Po a
Borgoforte. Quelli ch’andarono a Governo feciono di loro due parti;
l’una si dirizzò, verso Mantova, e misonsi a campo in capo del ponte
onde i Mantovani della terra veniano nel contado della Serraia, e
ivi di presente dirizzarono una bastita con torri e con bertesche, e
tolsono il passo e la speranza a’ Mantovani, che per forza ch’avessono
nella Serraia non poterono entrare per soccorrere Borgoforte, e l’altra
parte cavalcò per la Serraia dentro a Borgoforte, e così dentro e di
fuori subitamente fu assediato Borgoforte. E vedendo coloro ch’aveano
la guardia della terra che soccorso non poteano avere da niuna parte,
s’arrenderono salve le persone; e così in pochi dì ebbono i signori
da Milano l’uno castello e l’altro, e la signoria di tutto il contado
della Serraia, infino al lago che cigne la città di Mantova. Avuto
Borgoforte, feciono maggiore e più forte la bastita a capo del ponte
del lago, e mantennonvi l’oste grande, perocchè per niente avevano loro
vita; e dall’altra parte fuori della Serraia misono l’oste presso della
città, il lago in mezzo, e tutto l’altro paese mantovano corsono e
rubarono. E per questo assedio speravano tosto avere libero la signoria
di Mantova, e sarebbe venuto fatto, se non fosse il soccorso degli
allegati, come nel suo tempo diviseremo. I signori di Milano, ch’aveano
il castello e ’l passo di Borgoforte ch’era verso il loro terreno,
abbandonarono Governo ch’era molto lontano al loro soccorso e presso
a’ nemici, e’ Mantovani il ripresono, e fecionlo più forte, e misonvi
buona guardia.


CAP. C.

_Come il cardinale Egidio passò per Firenze._

Il cardinale di Spagna messer Egidio legato, avendo lasciato successore
l’abate di Clugnì, e assediata la città di Forlì, a dì 14 di settembre
anno detto fu ricevuto in Firenze a grande solennità, andandoli
incontro a processione tutto il chericato, e le religioni, e ’l popolo,
sonando le campane del comune e delle chiese a Dio laudiamo, e messo
sopra la sua persona fuori della città un ricco palio di baldacchini di
seta e d’oro adorno intorno riccamente, tutti i cavalieri di Firenze
gli furono intorno, ed addestrarlo al freno e alla sella, e’ grandi
cittadini portavano il palio; e guidatolo con questo onore per la
città, il condussono al luogo de’ frati minori, ove fece suo albergo; e
ivi fu visitato con grande reverenza da’ priori e da tutti i collegi,
e dagli altri buoni cittadini; e dopo la vicitazione i priori gli
mandarono doni di cera lavorata e di confetti d’ogni ragione in gran
quantità, e uno grande e ricco destriere fornito di nobili arredi e
coverto di scarlatto, e per vestire la sua persona due pezze di fini
panni scarlatti di grana, e una cappella doppia di baldacchini d’oro
e di seta fini. Il cardinale ricevette graziosamente ogni cosa, e
poi fatto suo sermone, magnificò molto il comune di Firenze e sopra
tutti gli altri di divozione e di fede alla santa Chiesa, offerendosi
sempre protettore del comune; e fatto un solenne convito a’ signori
e a’ collegi e a molti altri gran cittadini, a dì 19 di settembre si
partì di Firenze e mandato a’ Pisani per la licenza di potere passare
per la città di Lucca, i Pisani vi mandarono dugento barbute e molti
balestrieri alla guardia, e feciono serrare le porte, e per loro
ambasciadori gli feciono dire, che se la sua persona con alquanti
compagni senz’arme volesse entrare per la città, ch’egli il potea
fare; il cardinale non volle quella grazia, e cavalcando di fuori,
vide le porte serrate e le mura fornite di molti balestrieri colle
balestra tese, per la qual cosa si dilungò dalla città, sdegnato forte
della vergogna che da’ Pisani gli parve ricevere. Questo legato per
suo senno, e per grande e sollecita provvisione di guerra, racquistò
a santa Chiesa il Patrimonio e Terra di Roma, e ridusse il prefetto
occupatore alla sua misericordia. Vinse per forza e per ingegno tutte
le terre della Marca d’Ancona, abbattendo la signoria di messer
Malatesta da Rimini, e di Gentile da Mogliano, e ’l nuovo tiranno
d’Agobbio; e per forza vinse in Romagna Cesena e Brettinoro e racquistò
Faenza, e lasciò Forlì assediata, e’ Malatesti tutti riconciliati
all’ubbidienza di santa Chiesa; e contastò assai colla compagnia,
avvegnachè nell’ultimo, o per paura, o per fretta ch’avesse della sua
partenza, s’accordò a levarlisi d’addosso con danari, con poco suo
onore e di santa Chiesa; e tutte queste cose fece in termine di quattro
anni e un mese dal suo avvenimento in Italia.


CAP. CI.

_Come per i cardinali non si fè nulla della pace de’ due re._

Chi potrebbe senza fallare scrivere le movitive degl’Inghilesi? il
re d’Inghilterra da capo fece tornare i legati per dare termine al
trattato della pace, e dichiararono i patti e le terre che al re
d’Inghilterra si doveano dare, e la quantità de’ danari e’ termini
quando per diliberare il re, e ’l figliuolo, e’ baroni, e rimanere
in buona pace; e questo accordo si divolgò per tutto, per conferma
fatta del mese di settembre. Questa concordia tornò addietro, perocchè
per sicurtà delle cose il re all’ultimo domandò di volere tenere per
stadichi il Delfino di Vienna, e l’altro figliuolo del re di Francia
e ’l conte di Fiandra, tanto che ’l re di Francia tornato nel suo
reame fornisse le cose promesse; la qual cosa non potea aver luogo,
che ’l Delfino per lo fallo commesso non si fidava, e ’l conte di
Fiandra non era debito al re di Francia di cotanto servigio; e però
rotto il trattato, il re di Francia e ’l figliuolo con altri baroni
furono mandati in prigione a Guindifora, per addietro detta la Gioiosa
guardia. In questo medesimo tempo il re d’Inghilterra avea anche in
prigione nell’isola il re David di Scozia; sicchè di tenerli prigioni
non abbassava l’ambizione della vanagloria alla quale i mortali
volentieri attraggono, e ’l tenere i trattati della concordia rompea
gli animi de’ Franceschi dell’apparecchio della guerra, e riteneali in
divisione e fuori del loro antico reggimento, e di ciò pensava non meno
che dell’arme il re d’Inghilterra potere avere suo intendimento. E però
traendo sperienza dal fatto, piuttosto si può ritrarre ch’e’ trattati
sono stati fatti finti, che di vero intendimento.


CAP. CII.

_Come fu impiccato il conte di Minerbino._

Il conte di Minerbino, detto Paladino, di cui tanto avemo addietro
parlato, essendo da natura incostante e senza fede, tratto egli e ’l
fratello di prigione dopo la morte del re Ruberto, appresso come fu
morto il duca Andreasso se n’andò in Ungheria, e col re d’Ungheria
tornò nel Regno, e col re stette mentre che gli mise bene, e non gli
tenne fede. E venuto alla misericordia, e ricevuto perdonanza da lui,
dopo la partita del re si riconciliò più volte col re Luigi, e da
lui ebbe provvisione e doni per tenerlo in pace: ma la sua incostanza
non glie le consentia, ma stava in rubellione, e accogliea rubatori e
soldataglia, e correa in Puglia per pazzia non meno che per ruberia;
e vedendo messer Luigi di Durazzo in discordia col re, s’accostava
con lui; altra volta il lasciava, e prendea a suo vantaggio, e stava
sì forte e avvisato, che in palese non potea ricevere impedimento.
Il prenze di Taranto, chiamato l’imperadore, vedendo quanto costui
tribolava la Puglia, commise a messer Betto de’ Rossi suo cavaliere,
che segretamente avesse cura a’ suoi andamenti. Costui sentendolo
in Matera, trattò con certi masnadieri che ’l seguitavano alla sua
provvisione, e corruppeli per moneta per modo, che cavalcatovi colla
gente dell’imperadore, di subito fu lasciato entrare nella terra. Il
conte vedendosi tradito da’ suoi, ricoverò nel castello. Il prenze vi
fu di presente intorno con molta gente, e cinselo dentro e di fuori
per modo che non poteva uscire della fortezza, e da vivere non v’avea,
sicchè fu costretto da necessità d’uscirne in camicia con uno capestro
in collo, e gittossi a’ piè del prenze, come altra volta avea fatto
a Trani al re d’Ungheria; ma la cosa non succedette a quel modo. Il
prenze il fece prendere, e menollo ad Altemura; e fattosi dare il
castello, a uno de’ merli il fece impendere per la gola nel detto
castello.


CAP. CIII.

_Come fu preso Minerbino._

Sentendo messer Luigi fratello del conte come il prenze avea morto
il fratello, essendo uomo di grande ardire e di seguito, di presente
accolse soldati e caporali di ladroni, e misesi in Minerbino loro
castello, il quale era forte a maraviglia, e credette poterlo tenere in
rubellione. I terrazzani sapendo che il conte loro principale signore
era morto, non assentirono di volere prendere arme contro a’ reali;
e però messer Luigi elesse i compagni che volle, e fornita la rocca,
ch’era inespugnabile, vi si racchiuse dentro, senza paura di forza
che noiare lo potesse di fuori. Ma la fede corruttibile de’ soldati
tosto l’ingannò. Che avendo seco dentro un conestabile lombardo, per
danari e per larghe impromesse ricevette dentro, nella rocca colle sue
mani uccise messer Luigi, e il corpo suo e la rocca diede al prenze,
del mese di dicembre del detto anno. L’altro fratello, ch’era conte
di Vico, con poca virtù e semplice uomo, vedendo lo sterminio de’
fratelli si partì del Regno, abbandonando le sue castella e la sua
giurisdizione. E così prese fine ne’ successori il dominio di messer
Gianni Pipino, il quale di piccolo notaio per la sua industria fatto
de’ maggiori signori del reame al tempo del re Carlo vecchio, e colui
ch’avea maggiore mobole fatto dell’avere de’ saracini di Nocera,
quand’egli con sagacità e con inganno trasse i saracini del Regno, e
acquistò al re Carlo la forte città di Nocera in Puglia. Costui comperò
a’ figliuoli, e poi i figliuoli a’ nipoti, grandi e larghi baronaggi,
miserabili per la loro fine.


CAP. CIV.

_Come i Genovesi mandarono in Sardigna venti galee per racquistare la
Loiera, e non poterono._

Avendo il doge di Genova con l’armata di venti galee racquistato
al comune Ventimiglia e Monaco, come poco innanzi abbiamo contato,
coll’empito di quella vittoria le mandò di subito in Sardigna,
acciocchè per forza vincessono la Loiera. E giunti là improvviso,
scesono con molti balestrieri e con altri dificii a combattere la
terra, sforzandosi di vincerla con ogni forza e ingegno che seppono.
Ma i Catalani che dentro v’erano alla guardia valentemente si misono
alla difesa, e ripararono sì francamente, che i loro nemici perderono
ogni speranza d’acquistarla per forza. E lasciatovi di loro morti, e
molti fediti e magagnati, raccolti a galea si tornarono a Genova, e
disarmarono di novembre anno detto.



TAVOLA

DEI CAPITOLI


  _Qui comincia il quinto libro della Cronica di Matteo
    Villani; e prima il Prologo_                             Pag. 5
  _CAP. II. Come messer Carlo di Luzimborgo fu coronato
    imperadore de’ Romani_                                        7
  _CAP. III. Come messer Ruberto di Durazzo prese per
    furto il Balzo in Provenza_                                   9
  _CAP. IV. Come i Provenzali s’accolsono per porre
    l’assedio al Balzo_                                          10
  _CAP. V. Come si cominciò l’izza da messer Galeazzo
    Visconti a messer Giovanni da Oleggio_                       11
  _CAP. VI. Come il capitano di Forlì sconfisse gente
    della Chiesa_                                                12
  _CAP. VII. Come messer Filippo di Taranto prese per
    moglie la figliuola del duca di Calavria_                    13
  _CAP. VIII. Come Massa e Montepulciano non ricevettono
    i vicari del patriarca_                                      14
  _CAP. IX. Come i Visconti tolsono a messer Giovanni
    da Oleggio il suo castello_                                  15
  _CAP. X. Andamenti della gran compagnia_                       16
  _CAP. XI. Come il re di Tunisi fu morto_                       16
  _CAP. XII. Come messer Giovanni da Oleggio rubellò
    Bologna_                                                     17
  _CAP. XIII. Come il doge di Vinegia fu decapitato_             23
  _CAP. XIV. Come l’imperadore tornò coronato a Siena_           26
  _CAP. XV. Come il legato parlamentò a Siena con
    l’imperadore_                                                27
  _CAP. XVI. Come l’imperadore ebbe la seconda paga
    da’ Fiorentini_                                              28
  _CAP. XVII. Come il nuovo tiranno di Bologna mandò
    a Firenze ambasciatori a richiedere i Fiorentini_            19
  _CAP. XVIII. Come fu sconfitto e preso messer Galeotto
    da Rimini da’ cavalieri del legato_                          30
  _CAP. XIX. Come la fama della liberazione di Lucca
    si sparse_                                                   32
  _CAP. XX. Come l’imperadore diede Siena al patriarca_          33
  _CAP. XXI. Come i capi de’ ghibellini d’Italia si
    dolsono all’imperadore_                                      34
  _CAP. XXII. Come l’imperadore si partì da Siena
    e andò a Samminiato_                                         36
  _CAP. XXIII. Come il cardinale d’Ostia fu ricevuto
    a Firenze_                                                   37
  _CAP. XXIV. Come la gente del legato presono quattro
    castella de’ Malatesta_                                      38
  _CAP. XXV. Come morì il duca di Pollonia_                      39
  _CAP. XXVI. Come fu coronato poeta maestro Zanobi
    da Strada_                                                   41
  _CAP. XXVII. Come fu morto messer Francesco Castracani
    da’ figliuoli di Castruccio_                                 42
  _CAP. XXVIII. Come i Fiorentini mandarono tre
    cittadini all’imperadore a sua richiesta_                    44
  _CAP. XXIX. Come i Sanesi ebbono novità_                       44
  _CAP. XXX. Come i Pisani per gelosia furono in
    arme_                                                        46
  _CAP. XXXI. Ancora gran novità di Pisa_                        47
  _CAP. XXXII. Come furono in Pisa presi i Gambacorti_           49
  _CAP.XXXIII. Come fur arse le case de’ Gambacorti_             51
  _CAP. XXXIV. Di novità seguite a Lucca_                        53
  _CAP. XXXV. Come nuovo romore si levò in Siena_                55
  _CAP. XXXVI. Come i Sanesi feciono rinunziare la
    signoria al patriarca_                                       56
  _CAP. XXXVII. Come furono decapitati i Gambacorti_             57
  _CAP. XXXVIII. Dello stato de’ Gambacorti passato_             60
  _CAP. XXXIX Come l’imperadore prese in guardia
    Pietrasanta e Serezzana_                                     61
  _CAP. XL. Come l’imperadore si partì di Pisa_                  62
  _CAP. XLI. Come i Sanesi domandarono vicario all’imperadore,
    e non l’accettarono_                                         63
  _CAP. XLII. Come i Sanesi presono e rubarono la Massa_         64
  _CAP. XLIII. Come l’imperadore domandò menda
    a’ Pisani_                                                   65
  _CAP. XLIV. Come i Sanesi vollono fornire la rocca di
    Montepulciano, e non poterono_                               66
  _CAP. XLV. Come i Veneziani feciono pace co’ Genovesi
    senza i Catalani_                                            67
  _CAP. XLVI. Come si fè l’accordo dal legato a messer
    Malatesta da Rimini_                                         68
  _CAP. XLVII. Come i Genovesi appostarono Tripoli_              69
  _CAP. XLVIII. Come i Genovesi presono Tripoli a inganno_       71
  _CAP. XLIX. Di quello medesimo_                                73
  _CAP. L. Come la gente del marchese di Ferrara fu
    sconfitta a Spaziano_                                        74
  _CAP. LI. Come l’imperadore ebbe l’ultima paga
    da’ Fiorentini, e fè la fine_                                75
  _CAP. LII. Come il figliuolo di Castruccio fu decapitato_      76
  _CAP. LIII. D’una fanciulla pilosa presentata
    all’imperadore_                                              77
  _CAP. LIV. Come l’imperadore e l’imperadrice si partirono
    per tornare in Alamagna_                                     78
  _CAP. LV. Come il minuto popolo di Siena prese al
    tutto la signoria di quella_                                 79
  _CAP. LVI. Come la compagnia del conte di Lando
    cavalcò a Napoli_                                            80
  _CAP. LVII. Come Fermo tornò alla Chiesa e si rubellò
    da Gentile da Mogliano_                                      81
  _CAP. LVIII. Come il re di Francia mandò gente in
    Scozia per guerreggiare gl’Inghilesi_                        82
  _CAP. LIX. Come i prigioni d’Ostiglia presono il castello_     83
  _CAP. LX. Come i Genovesi venderono Tripoli_                   84
  _CAP. LXI. Come gli usciti di Lucca tentarono di far
    guerra_                                                      85
  _CAP. LXII. Conta della gran compagnia di Puglia_              86
  _CAP. LXIII. Come il gran siniscalco condusse mille barbute
    contro alla compagnia, ond’ella s’accrebbe_                  87
  _CAP. LXIV. Come gli usciti di Lucca s’accolsono
    senza far nulla_                                             88
  _CAP. LXV. Come il re di Cicilia racquistò più terre_          89
  _CAP. LXVI. Novità di Padova_                                  90
  _CAP. LXVII. Come i Visconti tentarono di racquistare
    Bologna_                                                     91
  _CAP. LXVIII. Come in Firenze nacquono quattro lioni_          91
  _CAP. LXIX. Novità fatte per gli usciti di Lucca_              92
  _CAP. LXX. Come i Catalani non vollono la pace
    co’ Genovesi fatta per i Veneziani_                          93
  _CAP. LXXI. Come messer Ruberto di Durazzo lasciò
    il Balzo_                                                    94
  _CAP. LXXII. Come arse la bastita da Modena_                   95
  _CAP. LXXIII. Come fu fatto il castello di Sancasciano_        95
  _CAP. LXXIV. Come in Firenze s’ordinò la tavola
    delle possessioni_                                           97
  _CAP. LXXV. Come il re d’Inghilterra con grande apparecchio
    valicò a Calese_                                             98
  _CAP. LXXVL Come il re Luigi s’accordò colla compagnia
    del conte di Lando_                                          99
  _CAP. LXXVII. Come il conte da Doadola fu sconfitto
    e morto dal capitano di Forlì_                              100
  _CAP. LXXVIII. Come la gente del Biscione prese le
    mura di Bologna e furono cacciati_                          101
  _CAP. LXXIX. Novità state in Udine_                           102
  _CAP. LXXX. Come abbondarono grilli in Cipri e in
    Barberia_                                                   103
  _CAP. LXXXI. Come messer Maffiolo Visconti fu
    morto da’ fratelli_                                         103
  _CAP. LXXXII. Come messer Bernabò ebbe la Mirandola_          105
  _CAP. LXXXIII. Come i Perugini presono a difendere
    Montepulciano_                                              106
  _CAP. LXXXIV. Come il re d’Inghilterra tornò in
    Francia_                                                    107
  _CAP. LXXXV. Come il re d’Inghilterra cavalcò il
    reame fino ad Amiens_                                       108
  _CAP. LXXXVI. Della materia degl’Inghilesi medesima_          109
  _CAP. LXXXVII. Come morì il re Lodovico di Cicilia,
    e l’isola rimase in male stato_                             111
  _CAP. LXXXVIII. Come in Napoli fu romore_                     111

  LIBRO SESTO

  _CAP. I. Il prologo_                                          113
  _CAP. II. Come nacque briga da’ Visconti a que’ di
    Pavia e di Monferrato_                                      114
  _CAP. III. Come si rubellarono terre di Piemonte_             117
  _CAP. IV. Come i Fiorentini feciono lega contro la
    compagnia_                                                  118
  _CAP. V. Come gli Scotti presono Vervic_                      119
  _CAP. VI. D’un trattato fatto per racquistare Bologna_        121
  _CAP. VII. Come si scoperse il trattato di Bologna, e
    fevvisi giustizia_                                          122
  _CAP. VIII. Come il signore di Bologna fece lega_             125
  _CAP. IX. Come l’oste del Biscione ch’era a Reggio
    si levò in isconfitta_                                      125
  _CAP. X. Come i Chiaravallesi di Todi tenevano trattato
    col prefetto_                                               127
  _CAP. XI. Come morì messer Piero Sacconi de’ Tarlati_         127
  _CAP. XII. Come scurò tutto il corpo della luna_              128
  _CAP. XIII. Come la gran compagnia presono Venosa_            130
  _CAP. XIV. Come il legato bandì la croce contro al capitano
    di Forlì_                                                   130
  _CAP. XV. Come il conte Paffetta fu da’ Pisani messo
    in prigione_                                                132
  _CAP. XVI. Come gli Aretini riposono certe fortezze_          133
  _CAP. XVII. Di nuove rivolture della gran compagnia_          134
  _CAP. XVIII. Di grandi gravezze fatte dal re di
    Francia nel suo reame_                                      135
  _CAP.XIX. Come i Pisani facevano simulata guerra_             136
  _CAP. XX. Come il capitano della Chiesa assediò Cesena_       138
  _CAP. XXI. Come ’l conte da Battifolle assediò Reggiuolo_     138
  _CAP. XXII. Come il conticino da Ghiaggiuolo racquietò
    Ghiaggiuolo_                                                139
  _CAP. XXIII. Come i Visconti assediarono Pavia_               140
  _CAP. XXIV. Come il re di Francia prese il re di Navarra_     141
  _CAP. XXV. Come il re di Francia fece decapitare il
    sire di Ricorti e altri quattro cavalieri normandi_         143
  _CAP. XXVI. Di un grosso badalucco fu a Pavia-_               144
  _CAP. XXVII. Come i Visconti assediarono Borgoforte_          145
  _CAP. XXVIII. Come i Visconti feciono contro a’ prelati
    di santa Chiesa_                                            145
  _CAP. XXIX. Come i Visconti feciono tre bastite a
    Pavia_                                                      147
  _CAP. XXX. Come i Turchi con loro legni feciono
    gran danno in Romania_                                      147
  _CAP. XXXI. Come gl’Inghilesi guerreggiarono il
    reame di Francia_                                           148
  _CAP. XXXII. Come gl’Inghilesi furarono un forte
    castello_                                                   150
  _CAP. XXXIII. Come il zio del conte di Ricorti si rubellò
    al re di Francia_                                           151
  _CAP. XXXIV. Come messer Filippo di Navarra si
    rubellò al re di Francia_                                   151
  _CAP. XXXV. Come il popolo di Pavia prese le bastite,
    e liberossi dall’assedio_                                   152
  _CAP. XXXVI. Il movimento del re d’Ungheria per
    assediare Trevigi_                                          155
  _CAP. XXXVII. Come per l’avvenimento del re d’Ungheria
    si temette in Italia_                                       156
  _CAP. XXXVIII. Come la cavalleria del re Luigi sconfissono
    i nemici, e furono vinti_                                   157
  _CAP. XXXIX D’appelli fatti per lo conte di Lando
    di tradigione_                                              159
  _CAP. XL. Come i Sanesi per paura ricorsono a’ Fiorentini_    160
  _CAP. XLI. Come l’oste si levò da Borgoforte_                 161
  _CAP. XLII. Principio della guerra da’ Fiamminghi
    a’ Brabanzoni_                                              162
  _CAP. XLIII. Come il conte di Fiandra andò su quello
    di Brabante_                                                164
  _CAP. XLIV. Come si fece accordo sul campo da’
    Fiamminghi a’ Brabanzoni_                                   165
  _CAP. XLV. Come la città d’Ascoli s’arrendè al legato_        166
  _CAP. XLVI. Come il legato procacciò tenere il Tronto
    alla compagnia_                                             167
  _CAP. XLVII. Come i Pisani ruppono la franchigia
    a’ Fiorentini_                                              168
  _CAP. XLVIII. Come i Fiorentini deliberarono partirsi
    da Pisa e ire a Talamone_                                   170
  _CAP. XLIX. Come fu disfatta la città di Venafri in
    Terra di Lavoro_                                            171
  _CAP. L. Come l’oste del re d’Ungheria cominciò a
    venire a Trevigi_                                           172
  _CAP. LI. De’ parlamenti che di questo si feciono in
    Lombardia_                                                  173
  _CAP. LII. Come il re d’Ungheria ebbe Colligrano_             174
  _CAP. LIII. Come il re d’Ungheria venne a oste a
    Trevigi_                                                    175
  _CAP. LIV. Come si reggeano gli Ungheri in oste_              176
  _CAP. LV. Come l’oste si mantenea a Trevigi_                  180
  _CAP. LVI. Come la gran compagnia passò nella
    Marca_                                                      182
  _CAP. LVII. De’ fatti dell’isola di Cicilia_                  183
  _CAP. LVIII. Come il conte di Lancastro cavalcò fino
    a Parigi_                                                   184
  _CAP. LIX. Come il re di Francia andò in Normandia_           185
  _CAP. LX. Come il papa e l’imperadore diedono titolo
    al re d’Ungheria_                                           186
  _CAP. LXI. Come i Fiorentini s’acordarono di fare
    porto a Talamone_                                           187
  _CAP. LXII. Come messer Bruzzi cercò di tradire il
    signore di Bologna_                                         189
  _CAP. LXIII. Come i Veneziani cercarono accordo col
    re d’Ungheria_                                              190
  _CAP. LXIV. Come il signore di Bologna scoperse un
    altro trattato contro a sè_                                 192
  _CAP. LXV. Di certa novità che gli Ungheri feciono
    nel campo a Trevigi_                                        193
  _CAP. LXVI. Come il re d’Ungheria si levò da oste
    da Trevigi_                                                 194
  _CAP. LXVII. Raccoglimento di condizioni
    e movimento del re_                                         195
  _CAP. LXVIII. Come la gente della lega di Lombardia
    sconfisse il Biscione a Castel Lione_                       190
  _CAP. LXIX. Trattati de’ Ciciliani_                           197
  _CAP. LXX Come la compagnia stette sopra Ravenna_             198
  _CAP. LXXI. Come i Fiorentini ordinarono di fare
    balestrieri_                                                199
  _CAP. LXXII. L’ordine ch’e’ Fiorentini presono per
    mantenere i balestrieri_                                    200
  _CAP. LXXIII. Come i Trevigiani furono soppresi
    dagli Ungheri con loro grave danno_                         201
  _CAP. LXXIV. Come il Regno era d’ogni parte in guerra_        202
  _CAP. LXXV. Come i collegati condussono la compagnia
    al loro soldo_                                              203
  _CAP. LXXVI. De’ fatti de’ collegati di Lombardia_            204
  _CAP. LXXVII. Come i Brabanzoni ruppono i patti
    a’ Fiamminghi_                                              205
  _CAP. LXXVIII. Come il conte di Fiandra andò sopra
    Brabante_                                                   206
  _CAP. LXXIX. Come il duca di Brabante si fè incontro
    a’ Fiamminghi_                                              207
  _CAP. LXXX. Come i Fiamminghi sconfissono i Brabanzoni_       208
  _CAP. LXXXI Come il conte di Fiandra ebbe Borsella_           209
  _CAP. LXXXII. Come il conte di Fiandra ebbe tutto
    Brabante a suo comandamento_                                211
  _CAP. LXXXIII. Perchè si mosse guerra dagli Spagnuoli
    a’ Catalani_                                                212
  _CAP. LXXXIV. Di gran tremuoti furono in Ispagna_             214

  LIBRO SETTIMO

  _CAP. I. Il Prologo_                                          215
  _CAP. II. Come il re di Francia prese la croce per fare
    il passaggio_                                               216
  _CAP. III. Le parole disse frate Andrea d’Antiochia
    al re di Francia_                                           218
  _CAP. IV. Molte laide cose fece il re di Francia_             220
  _CAP. V. Come il re di Francia uscì di Parigi con suo
    sforzo, e andò in Normandia_                                222
  _CAP. VI. Quello faceva il prenze di Guales_                  223
  _CAP. VII. Come il re di Francia pose il campo pressò
    al prenze_                                                  224
  _CAP. VIII. Due conti del re di Francia rimasono presi
    da un aguato_                                               226
  _CAP. IX. Puose il re di Francia il campo suo presso
    agl’Inghilesi_                                              227
  _CAP. X. I legati cercarono accordo tra due signori_          228
  _CAP. XI. I patti che si trattarono e quasi conchiusono_      229
  _CAP. XII. Come il vescovo di Celona sturbò la pace_          231
  _CAP. XIII. Diceria che fece il prenze di Guales a’ suoi_     233
  _CAP. XIV. Come i Franceschi s’apparecchiarono alla
    battaglia_                                                  235
  _CAP. XV. Le schiere e gli ordini de’ Franceschi_             235
  _CAP. XVI. L’ordine degl’Inghilesi con le loro schiere_       236
  _CAP. XVII. La battaglia tra il re di Francia, e il
    prenze di Guales_                                           237
  _CAP. XVIII. La sconfitta del re di Francia e sua gente_      239
  _CAP. XIX. Racconta molti morti e presi nella battaglia_      241
  _CAP.XX. Come il re di Francia n’andò preso in Guascogna_     242
  _CAP. XXI. I modi tenne il re d’Inghilterra sentendo la
    novella di sì gran vittoria_                                243
  _CAP. XXII. Battaglia fra due cavalieri, e perchè_            244
  _CAP. XXIII. Processo fatto contro a’ signori di Milano
    per lo vicario dell’imperadore_                             245
  _CAP. XXIV. Risposta fatta per li signori di Milano
    al vicario_                                                 246
  _CAP. XXV. Risposta fatta per lo vicario alla detta
    lettera_                                                    247
  _CAP. XXVI. Come i soldati de’ tiranni non vollono
    venire contro all’insegna dell’imperadore_                  248
  _CAP. XXVII. Come il vicario puose campo_                     249
  _CAP. XXVIII. Ordine del re d’Ungheria alla guerra
    con i Veneziani_                                            250
  _CAP. XXIX. L’aguato misono gli Ungheri a gente
    de’ Veneziani_                                              251
  _CAP. XXX. Come il re Luigi trattò d’avere Messina
    in Cicilia_                                                 252
  _CAP. XXXI. Come si trattò pace fra il conte di Fiandra
    e i Brabanzoni_                                             253
  _CAP. XXXII. Come i Fiorentini si partirono da Pisa
    e andarono a Siena con le mercatanzie_                      254
  _CAP. XXXIII. Come il capitano di Forlì si provvide_          255
  _CAP. XXXIV. Come Faenza s’arrendè al legato, e’ patti_       256
  _CAP. XXXV. Che fece la gente della lega de’ Lombardi
    in questo tempo_                                            257
  _CAP. XXXVI. Della materia medesima_                          257
  _CAP. XXXVII. Come l’oste della lega fu rotta dalla
    gente di Milano_                                            258
  _CAP. XXXVIII. Il consiglio prese il capitano di Forlì_       261
  _CAP.XXXIX. Messer Niccola prese Messina per lo re
    Luigi_                                                      262
  _CAP. XL. Come si ribellò Genova a que’ di Milano_            264
  _CAP. XLI. Come fu disfatta la chiesa di santo Romolo_        265
  _CAP. XLII. Quello fece messer Filippo di Taranto e
    di Vercelli_                                                267
  _CAP. XLIII. Come si fuggì di Milano la donna che fu
    di messer Luchino col figliuolo_                            268
  _CAP. XLIV. Come il Re Luigi e la reina andarono a Messina_   269
  _CAP. XLV. Come fu murato il borgo di Fegghine_               270
  _CAP. XLVI. D’un parlamento fece l’imperadore in
    Alamagna_                                                   271
  _CAP. XLVII. Come il marchese di Monferrato ebbe il
    castello di Novara_                                         272
  _CAP. XLVIII. Come messer Bernabò volle uccidere
    messer Pandolfo Malatesti_                                  273
  _CAP. XLIX. Come i Genovesi racquistarono Savona_             277
  _CAP. L. Guerra dal re di Castella a quello d’Araona_         277
  _CAP. LI. Come messer Filippo di Novara cavalcò presso
    a Parigi_                                                   278
  _CAP. LII. Come si cominciò le mulina del comune di
    Firenze_                                                    279
  _CAP. LIII. Come il reame di Francia ebbe gran divisione_     280
  _CAP. LIV. Morte del conte Simone di Chiaramonte
    in Cicilia_                                                 281
  _CAP. LV. Come si liberò il Borgo a Sansepolcro da
    tirannia_                                                   282
  _CAP. LVI. Come l’abate di Clugnì succedette al cardinale
    di Spagna_                                                  283
  _CAP. LVII. Come il re di Francia fu menato in Inghilterra_   283
  _CAP. LVIII. Come la gente della Chiesa entrò in Cesena_      286
  _CAP. LIX. Come il legato con sua forza andò a Cesena_        287
  _CAP. LX. Abboccamento e triegua fatta dal re di
    Spagna al re d’Araona_                                      288
  _CAP. LXI. Come Rezzuolo si diede a’ Fiorentini_              289
  _CAP. LXII. Come i Pisani vollono torre Uzzano
    a Fiorentini_                                               290
  _CAP. LXIII. Come i Pisani armarono galee per impedire
    il porto_                                                   291
  _CAP. LXIV. L’aiuto mandò messer Bernabò al capitano
    di Forlì_                                                   292
  _CAP. LXV. Come il conte d’Armignacca da Tolasana per
    gravezze fu cacciato_                                       293
  _CAP. LXVI. Conta dell’onore fatto al re di Francia
    in Inghilterra_                                             294
  _CAP. LXVII. Trattato tenuto per li Fiorentini in
    accordare il capitano di Forlì con il legato_               298
  _CAP. LXVIII. Come il legato ebbe la murata di Cesena_        297
  _CAP. LXIX. De’ fatti di madonna Cia donna del
    capitano di Forlì_                                          298
  _CAP. LXX. Novità fatte in Ravenna_                           300
  _CAP. LXXI. Novità di Grecia, e presura di loro signori_      302
  _CAP. LXXII. Come il re Luigi assediò Catania in
    Cicilia_                                                    304
  _CAP. LXXIII. Della materia medesima_                         305
  _CAP. LXXIV. Come l’oste del re Luigi si levò da Catania
    in isconfitta_                                              306
  _CAP. LXXV. Come la compagnia venne sul Bolognese_            307
  _CAP. LXXVI. Come il comune di Firenze afforzò lo
    Stale_                                                      308
  _CAP. LXXVII. Come s’arrendè la rocca di Cesena
    al legato_                                                  309
  _CAP. LXXVIII. De’ fatti di Costantinopoli_                   311
  _CAP. LXXIX. Come il legato prese Castelnuovo e
    Brettinoro_                                                 312
  _CAP. LXXX. Di processi fatti contro la compagnia
    per lo legato_                                              313
  _CAP. LXXXI. Della gravezza facea il tiranno a’ Bolognesi_    314
  _CAP. LXXXII. Come i Veneziani domandarono pace
    al re d’Ungheria_                                           316
  _CAP. LXXXIII. Come il legato ebbe la rocca di Brettinoro_    317
  _CAP. LXXXIV. Come si bandì la croce contro la
    compagnia_                                                  317
  _CAP. LXXXV. Aiuti mandarono i Fiorentini al legato_          319
  _CAP. LXXXVI. Come i Genovesi ebbono Ventimiglia_             320
  _CAP. LXXXVII. Come l’arciprete con compagnia
    entrò in Provenza_                                          321
  _CAP. LXXXVIII. Come il conte di Fiandra rendè
    Brabante alla duchessa facendo pace_                        323
  _CAP. LXXXIX. Come il legato s’accordò alla compagnia
    per danari_                                                 323
  _CAP. XC. Ricominciamento dello studio in Firenze_            325
  _CAP. XCI. Come si trovarono l’ossa di papa Stefano
    in Firenze_                                                 325
  _CAP. XCII. Leggi fatte sopra i medici_                       326
  _CAP. XCIII. Come i Genovesi ebbono Monaco_                   327
  _CAP. XCIV. Come il cardinale assediò Forlì_                  328
  _CAP. XCV. Come il re d’Inghilterra ruppe i patti
    della pace_                                                 329
  _CAP. XCVI. Della mostra fatta a Avignone di cortigiani
    per tema della compagnia_                                   330
  _CAP. XCVII. Come il re Luigi da Messina tornò a
    Napoli_                                                     331
  _CAP. XCVIII. Come si perdè Governo a’ Mantovani_             332
  _CAP. XCIX. Come i signori di Milano presono Borgoforte,
    e assediarono Mantova_                                      333
  _CAP. C. Come il cardinale Egidio passò per Firenze_          335
  _CAP. CI. Come per i cardinali non si fe’ nulla della
    pace de’ due re_                                            337
  _CAP. CII. Come fu impiccato il conte di Minerbino_           338
  _CAP. CIII. Come fu preso Minerbino_                          339
  _CAP. CIV. Come i Genovesi mandarono in Sardigna
    venti galee per racquistare la Loiera, e non poterono_      340



                  ERRORI                    CORREZIONI

  TOMO III.

  p.  57  v.  21  dimostare                 dimostrare
  —  124  —    6  e a avuti                 e avuti
  —  257  —   27  si sfo (In alcune copie)  si sfor-
  —  275  —   24  stamapanare, e            stampare, e
  —  277  —   24  avversaro                 avversario



Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo
senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate in
fine libro sono state riportate nel testo.



*** End of this LibraryBlog Digital Book "Cronica di Matteo Villani, vol. III: A miglior lezione ridotta coll'aiuto de' testi a penna" ***


Copyright 2023 LibraryBlog. All rights reserved.



Home